Il
disastro del Vajont è stato un classico esempio di una classe
economica e dirigente incapace di capire che con la Natura non si
scherza, nonostante gli allarmi lanciati da qualche mente illuminata.
Di tragedie antropogeniche ne succedono tante ancora oggi, spesso
considerate a torto “calamità naturali” (o, meglio, “totalmente
naturali”). Ma le 2000 vittime di quella tragedia sono da
addebitarsi esclusivamente alla sola mano dell'uomo ed è incredibile
con gli occhi di oggi, 50 anni dopo, vedere quella terribile serie di
errori e avventatezze, compiuti ignorando gli allarmi della Natura,
della popolazione locale e di un geologo, Edoardo Semenza, che ho
avuto la fortuna di conoscere personalmente proprio lungo il pendio
in riva destra del Vajont che sovrasta la massa franata e da cui si
vede il Monte Toc. Ma il Vajont è anche altre cose: è stato il
primo disastro divenuto evento mediatico, grazie alla recentissima
introduzione della televisione; ed è anche in testa alla classifica
stilata dall'ONU a proposito dei peggiori esempi di gestione del
territorio. In questo post voglio raccontare la genesi della
tragedia, anche sfruttando un convegno che si è tenuto a Firenze su
questo argomento e principalmente la presentazione di Riccardo Fanti
e Giovanni Gigli. Ringrazio anche Riccardo per la rilettura di questo
testo.
La diga del Vajont è
stata ideata e costruita dalla SADE, l'azienda elettrica fondata da
Giuseppe Volpi, conte di Misurata (1877 – 1947). Volpi, un gerarca
fascista, godeva di evidenti simpatie anche nel governo Badoglio,
dato che già prima della fine del 1943 questo governo, con quasi
tutta l'Italia ancora da riconquistare (e specificamente Veneto e
Friuli), concesse alla SADE la facoltà di costruire questo impianto.
L'idea di una diga in
quella valle risaliva agli anni '20; nel progetto originale doveva
essere innalzata più a monte e solo durante lo sviluppo del progetto
fu deciso di posizionarla più a valle.
All'epoca si trattava
della diga a doppio arco più alta del mondo (ancora oggi è in
quarta posizione in questa classifica) e faceva parte di un sistema
con obbiettivo primario la produzione di energia elettrica, ma che
doveva servire pure ad alimentare un acquedotto a scopi irrigui per
la pianura veneta, collegato con il fiume Livenza, come si vede dal
disegno qui accanto.
COSTRUZIONE DELLA DIGA:
TRA LE PAURE DELLE POPOLAZIONI LOCALI
E I PRIMI TIMORI DI CARLO
SEMENZA
La costruzione della diga
era stata avversata dalle popolazioni locali ma – fatto
estremamente importante – non dagli abitanti dei paesi a valle
della costruenda diga, che saranno colpiti dalla tragedia, bensì da quelli lungo la sponda destra della
valle in corrispondenza del futuro lago: temevano frane in quel
settore. A questo proposito c'è un po' di confusione sulla
toponomastica della zona: secondo Marco Paolini, autore di un celebre
monologo sulla tragedia il nome del fiume, Vajont, vuol dire “va
giù”; e il nome del monte
Toc sarebbe una contrazione di “patoc” che
significherebbe “andato a male”. In verità la cosa è abbastanza
complessa e non è affatto certo che l'etimologia sia quella che
riporta Paolini. I nomi sono di origine probabilmente cimbra e
comunque 'vajont' vuol dire 'vallone' e non 'va giù' (Paolini dice
che in ladino vuol dire 'va giù, ma questa è una zona a lingua
friulana, non ladina).
Per altri Toc deriva dal
continuo scivolare di massi per cui si sente continuamente “toc toc”.
L'unico giornalista che
parlò dei timori della popolazione, con un primo esempio italiano di
quel giornalismo d'inchiesta oggi così popolare fu Tina Merlin (1926
– 1991) sulle colonne de “L'Unità”; il giornale locale, il
Gazzettino, ospitava soltanto comunicati della SADE e quindi le
opposizioni della popolazione erano davvero poco conosciute. È
evidente come la SADE fosse riuscita a silenziare le proteste e
quindi quanto fosse grande il suo potere, grazie al quale la Merlin
fu persino accusata di turbare l'ordine pubblico, venendo poi assolta
nel conseguente processo.
I lavori ebbero inizio
alla metà degli anni '50.
Nel 1957 la SADE chiese
di aumentare l'altezza del manufatto, cosa che fu concessa molto
rapidamente (da notare che erano talmente sicuri della risposta
positiva che il manufatto era già stato adeguato in basso per
ottenere questo risultato in sicurezza). Fu fissata la quota del
massimo invaso a 721,60 metri sul livello del mare
La costruzione della diga
era ormai avviata quando, il 22 marzo del 1959, si presentò un
problema non previsto: una frana in un altro invaso del sistema del
Piave, quello del Pontesei, situato nella Val di Zoldo sul torrente
Maò, un affluente di destra del Piave che vi confluisce un po' più
a valle di Longarone.
Nella foto si vede come
la frana abbia pesantemente inciso sulla superficie dell'invaso, che
è tuttora funzionante anche se in maniera ridotta rispetto al
previsto.
Questo evento fu un
campanello di allarme per l'ing. Carlo Semenza (1893 – 1961),
progettista e costruttore della diga, il quale ebbe il timore che
anche nel Vajont qualcosa sarebbe potuto andare storto.
Era una sensazione nuova:
fra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo le dighe avevano
già provocato dei disastri – e tanti – ma il problema era sempre
dovuto a rotture dei manufatti, per esempio nel caso di Gleno in
Valle di Scalve nel 1923 o quello di Saint Francis in California nel
1928. In Francia meridionale sempre nel 1959 ma il 2 dicembre ci fu
l'ennesimo cedimento strutturale: crollò la diga di Malpasset.
Questo solo per citare gli eventi più noti. Solo in un caso il
problema avvenne per delle forti piogge, in Liguria nel 1935 alla
diga di Molare. Purtroppo un altro caso di questo tipo è successo in
Italia parecchi anni dopo, nella valle di Stava. Correva l'anno 1985.
A causa di questi
incidenti erano state sviluppate norme tecniche molto severe sui
manufatti delle dighe, sulle zone di contatto fra manufatti e rocce
incassanti (le “spalle”) e sulla tenuta idraulica del bacino.
Però non c'erano normative sul controllo di quanto circondasse il
lago che si veniva a formare. Ad ogni modo l'incidente del Pontesel
convinse l'Ing. Semenza a fare una indagine sulla situazione della
franosità lungo le pendici del costruendo bacino.
LE DISCUSSIONI SULLA
GEOLOGIA DELL'AREA E SULLA POSSIBILE FRANOSITÀ
Fu chiamato il geologo
austriaco Leopold Muller (1908 – 1988). Insieme a lui operava un
giovane geologo italiano, Edoardo Semenza (1927 – 2002) figlio di
Carlo: per un geologo questa era una ottima occasione per studiare e
accumulare esperienza sul campo. Ovviamente godeva della fiducia del
padre, il quale immagino conoscesse la potenza della SADE e magari
non era sicuro di potersi fidare di altri geologi inviati dalla
società stessa.
Comunque, Muller e
Semenza Jr e capìrono esattamente che dal Monte Toc si era già
staccata in epoca passata una frana di grosse dimensioni e che il
versante che incombeva sul futuro lago ospitava una gigantesca massa
instabile pronta a franare. La paleo frana aveva riempito il solco
scavato dal torrente Vajont, il quale successivamente ha ricominciato
ad incidersi uno stretto solco, stavolta nei depositi della frana,
più erodibili dei calcari su cui era impostato il vecchio percorso.
Questi celebri schizzi che spiegano la situazione sono presi
direttamente dal taccuino di campagna di Edoardo Semenza, il quale in quanto nonostante i pochi
dati e i pochi mezzi a disposizione, capì esattamente la situazione. mostrando quelle straordinarie capacità che verranno poi confermate in una bellissima carriera accademica.
La situazione era
complessa perchè da un lato Muller e Semenza sostenevano la presenza
di questa paleofrana e di un corpo in frana particolarmente esteso
sul monte Toc e avevano il timore che il riempimento dell'invaso
poteva rimetterlo in movimento; altri due geologi invece, Giorgio Dal
Piaz e Pietro Caloi, sostenevano che i rischi maggiori erano nel
versante destro della vallata e che sul Monte Toc c'erano sì delle
piccole franette superficiali ma non c'era una paleofrana sul
fondovalle né che il Monte Toc era instabile.
La già citata frana
francese del 3 dicembre 1959 aumentò ulteriormente le paure della
gente (anche se, appunto, anch'essa fu un cedimento della diga e non
una frana nel lago).
Nel giugno del 1960
Edoardo Semenza presentò insieme ad un altro geologo, Franco
Giudici, una relazione in cui individuava sul Monte Toc una immensa
massa, oltre 200 milioni di metri cubi di roccia, pronta a franare in
basso. Fra gli indizi citati per arrivare a questa conclusione
c'erano la morfologia molto irregolare del pendio e l'assenza di
sorgenti, che in qualche modo denunciava la presenza di una
circolazione di acque sotterranee. A questo si deve aggiungere la
presenza di un livello di argille proprio alla base del presunto
corpo di frana, livello che poteva funzionare da lubrificante per il
movimento (cosa che puntualmente purtroppo è successa). Inoltre
confermava la presenza nel versante opposto di materiale proveniente
dal Monte Toc, finito lì durante il precedente evento franoso.
La cosa che preoccupò maggiormente Muller e Semenza era che la superficie che separava il corpo di frana dalla roccia solida del Monte Toc si sarebbe trovata sotto la superficie dell'invaso.
La cosa che preoccupò maggiormente Muller e Semenza era che la superficie che separava il corpo di frana dalla roccia solida del Monte Toc si sarebbe trovata sotto la superficie dell'invaso.
1960: LA PRIMA PROVA DI
INVASO E I PRIMI FENOMENI FRANOSI.
DISCUSSIONI E POSSIBILI RIMEDI
Nel novembre del 1960
viene effettuata la prima prova di invaso, con l'obbiettivo di
raggiungere la quota di 660 metri slm, corrispondenti a circa 200
metri di profondità dell'acqua. E il 4 novembre, (praticamente
subito, quindi) dal monte Toc viene giù una prima franetta, di
ridotte dimensioni (6/700 metri cubi) ma tale da provocare nel lago
un'onda di circa 10 metri.
L'allarme si fa
fortissimo. Però si parla sempre e soltanto delle zone alte, non di
Longarone e della valle del Piave.
In concomitanza succede
una cosa ancora più allarmante: si forma una frattura nella zona più
alta del corpo di frana, al contatto con la roccia solida, proprio
lungo la superficie individuato precedentemente da Semenza e Muller. La vediamo in una foto scattata da Edoardo Semenza.
Che cosa è successo? Ad un certo punto, con l'innalzamento della superficie del lago l'acqua è penetrata nella zona di contatto fra la roccia solida e il corpo della frana, mettendo in movimento quest'ultimo.
Che cosa è successo? Ad un certo punto, con l'innalzamento della superficie del lago l'acqua è penetrata nella zona di contatto fra la roccia solida e il corpo della frana, mettendo in movimento quest'ultimo.
Il livello del lago venne
prontamente abbassato.
Muller, assolutamente
convinto che era impossibile fermare i movimenti, propose di
controllare la frana attraverso variazioni del livello del lago,
ipotizzando che la prima bagnatura della sponda avrebbe innescato i
movimenti franosi che poi sarebbero cessati e quindi la seconda
bagnatura avrebbe potuto avvenire tranquillamente. Questa era un'idea
del geologo austriaco che però non era assolutamente suffragata dai
fatti. A vederla con gli occhi di oggi questa era una pazzia.
Certamente oggi un impianto del genere in una situazione del genere
non si potrebbe costruire.
Il problema è stato che
Muller, pur avendo correttamente visto ed interpretato la situazione,
non si era reso conto che la base del corpo di frana era
contrassegnata da un livello argilloso (la zona è in generale
formata dai calcari della piattaforma che nel Mesozoico e in parte
del Cenozoico bordava la costa orientale di una massa continentale
della placca adriatica), che comunque aveva annotato Edoardo Semenza,
riconoscendone la pericolosità per un possibile riuolo fondamentale
nel movimento franoso. Muller inoltre era convinto che il monte si
sarebbe mosso molto lentamente, come un ghiacciaio.
Il piano era dunque di
alzare velocemente il livello dell'invaso e provocare delle frane
abbassandolo violentemente, nella speranza di realizzare una
situazione simile a quella dei ghiacciai, dove nella parte inferiore
grossi blocchi tengono fermo tutto quello che sta sopra. In questa
maniera si pensava quindi di bloccare per sempre le frane e di poter
procedere a innalzare di nuovo il livello dell'invaso senza che
succedesse niente di altro grazie alla resistenza impressa da grandi
blocchi che dovevano franare e costituire una base solida che doveva
bloccare ulteriori movimenti.
LA GALLERIA DI BYPASS
Operare in questo modo
significava però che una parte dell'invaso previsto sarebbe stata
occupata dal materiale franato anzichè dall'acqua e ciò
rappresentava innanzitutto un problema economico; l'impianto avrebbe
ospitato meno acqua e quindi avrebbe potuto produrre meno energia
elettrica del previsto.
Carlo Semenza allora progettò di scavare nella roccia viva una galleria di circa 2,5 Km con un diametro di 4 metri e mezzo: il bypass avrebbe consentito il passaggio delle acque tra le due porzioni del lago e per il principio dei vasi comunicanti sarebbero state mantenute le stesse potenzialità dell'impianto.
Carlo Semenza allora progettò di scavare nella roccia viva una galleria di circa 2,5 Km con un diametro di 4 metri e mezzo: il bypass avrebbe consentito il passaggio delle acque tra le due porzioni del lago e per il principio dei vasi comunicanti sarebbero state mantenute le stesse potenzialità dell'impianto.
Ma il bypass era stato
progettato anche ai fini della sicurezza: nel caso le frane avessero
completamente ostruito il passaggio alle acque non ci sarebbero stati
rischi di violente tracimazioni dal bacino a monte dello sbarramento.
1961: LA SECONDA PROVA DI
INVASO
Intanto la SADE mostrava
una certa fretta perchè era nell'aria la nazionalizzazione della
produzione di energia elettrica, che diventerà effettiva alla fine
del 1962. Il criterio adottato per i risarcimenti alle aziende
nazionalizzate fu quello del valore delle azioni ed era evidente che
le azioni della SADE avrebbero avuto un valore maggiore con il Vajont
funzionante e sarebbe stato un disastro economico se invece questo
invaso non fosse stato in grado di produrre quanto sperato.
Non so se anche per
questo Muller e Semenza Jr furono messi in disparte.
La seconda prova di
invaso fu condotta dal febbraio al settembre del 1961. Fu raggiunta
la quota di 700 metri e durante questo periodo furono compiuti
diversi innalzamenti graduali del livello a cui seguivano veloci
diminuzioni nella speranza di provocare delle frane.
Nell'ottobre del 1961
muore Carlo Semenza. Sono in molti a pensare che con lui vivo la
tragedia non sarebbe successa perchè si sarebbe opposto al
proseguimento delle operazioni.
Fu anche costruito un
modello idraulico a Padova che però sottostimò l'onda. Era uno dei
primi modelli al mondo e quindi non si può certo imputare alcunchè
al Prof. Ghetti. La cosa importante di questo lavoro è che per la
prima volta qualcuno si rende conto che l'eventuale onda avrebbe
provocato grossi guai più che a Erto o a Casso, ai centri abitati
sotto la diga, come appunto Longarone.
Ghetti aveva comunque fissato un limite di sicurezza non valicabile pena l'aumento degli effetti di un'onda innescata da una frana per le zone sottostanti: secondo lui il livello dell'invaso non avrebbe dovuto passare la quota di 700 metri. Poi il livello fu abbassato mentre si provvedeva a costruire la galleria di by-pass. In particolare venne tenuto al di sotto della quota alla quale affiorava lungo il pendio il livello di scorrimento della frana.
Ghetti aveva comunque fissato un limite di sicurezza non valicabile pena l'aumento degli effetti di un'onda innescata da una frana per le zone sottostanti: secondo lui il livello dell'invaso non avrebbe dovuto passare la quota di 700 metri. Poi il livello fu abbassato mentre si provvedeva a costruire la galleria di by-pass. In particolare venne tenuto al di sotto della quota alla quale affiorava lungo il pendio il livello di scorrimento della frana.
1063: LA TERZA PROVA DI
INVASO E LA TRAGEDIA
E arriviamo al 1963. Finiti i lavori, inizia
la terza prova, nella quale innanzitutto vengono superati i 700 metri
di altezza fissati dal prof. Ghetti.
Come da previsioni di
Muller e di Semenza jr si innescano subito dei movimenti franosi e
per sicurezza dal 7 ottobre vengono chiuse alcune strade, ma sempre
nella parte in alto, continuando a non considerare a rischio le zone
sotto la diga, mentre si cerca di abbassare il livello dell'invaso a
quota 700.
Ma poi arriva la
tragedia: 260 milioni di metri cubi di roccia precipitano a valle e
si forma un'onda che scavalca la diga (che si comporta egregiamente,
resistendo ad una pressione venti volte superiore a quella per cui
era stata costruita). L'onda è talmente alta da passare ben al di
sopra dei tetti di alcuni abitati sottostanti, i quali si salvano; quando l'onda si abbatte su Longarone e le aree limitrofe, oltre a scendere verso valle, risalì di
parecchi km il fondo della valle del Piave.
Cosa è successo? Come
mai la frana è caduta ad una velocità pazzesca, oltre 100 km/h, mentre si pensava ad un movimento molto più lento? Quali errori sono
stati commessi?
Il primo errore è stato
quello di considerare per lo sviluppo della frana solo l'acqua
dell'invaso che per capillarità si sarebbe infilata nelle fessure
delle rocce, diminuendo le forze di attrito: doveva essere
considerata anche l'acqua piovana. E in quei giorni piovve parecchio.
Il secondo errore sta nel
non aver previsto un comportamento particolare del corpo di frana, il
quale si è diviso a causa di una intensa fratturazione in più corpi
più piccoli: i blocchi così formati si sono mossi tutti insieme,
causando una forte accelerazione dei movimenti perchè in questo modo le spinte fra un blocco e l'altro hanno fortemente combattuto l'attrito con il terreno sottostante.
UNA STORIA DIMENTICATA PER TANTO TEMPO
Il velo che copriva i
problemi prima della sciagura (articoli della Merlin a parte) è
rimasto anche per parecchi anni dopo.
Per molti intellettuali
non geologi (Montanelli o Buzzati, per esempio) era un esempio di
“natura crudele”, un concetto come abbiamo visto totalmente
errato. Poi c'è stata una “ragion di Stato” molto particolare,
probabilmente per gli enormi interessi che erano in gioco, che si è
riflessa in alcuni aspetti molto precisi: in primo luogo un processo
di lunghezza abnorme e grandi difficoltà nel pagamento degli
indennizzi agli abitanti e ai loro eredi; ma quello che da da pensare
è soprattutto la circostanza che nessun finanziamento fu erogato a
Edoardo Semenza per studiare la frana ed il suo contesto;
Anche il libro che
scrisse la Merlin – “Sulla pelle viva: come si costruisce una
catastrofe” – ha trovato un editore solo nel 1983, a 20 anni
dalla strage.
E bisogna aspettare il
1985 per vedere il primo lavoro geologico sulla frana del Vajont e
per giunta non da studiosi italiani ma da due geologi del Corpo degli
ingegneri dell'Esercito Americano, Hendron e Patton.
Questa storia è poi
finalmente arrivata al grande pubblico con lo spettacolo di Marco
Paolini “Il racconto del Vajont” del 1997.
Oggi una cosa di tipo
diverso ma simile per l'intrico di interessi economici e politici sta
succedendo a Taranto con il caso ILVA: l'azienda è stata lasciata
libera per anni (anzi decenni) di fare quello che voleva, conservando
uno status quo inaccettabile con il risultato di incancrenire la
situazione ambientale e sanitaria e porre per l'ennesima volta in
contrasto da una parte il lavoro, dall'altra la salute pubblica e
l'ambiente.
Con una gestione diversa del problema forse le cose sarebbero andate diversamente.
Con una gestione diversa del problema forse le cose sarebbero andate diversamente.
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