sabato 19 febbraio 2022

Pozzuoli e la nascita della Geologia moderna

 
Il più prestigioso riconoscimento per contributi eccezionali nelle Scienze della Terra è la medaglia Lyell, assegnata ogni anno dalla Geological Society of London. Nella medaglia Lyell sono raffigurate le colonne del tempio di Serapide a Pozzuoli. Vediamo perché.

la Medaglia Lyell: davanti l'effige del grande geologo, dietro le colonne del tempio di Serapide

SCIENZE DELLA TERRA E SCIENZE DELLA VITA FRA '700 E '800. Tra il XVIII e il XIX secolo la Scienza ha combattuto due battaglie fondamentali per il sapere odierno della Storia Naturale, risolvendo il dibattito fra creazionismo ed evoluzionismo nelle Scienze della Vita e fra catastrofismo e gradualismo nelle Scienze della Terra. 
Nelle Scienze della vita gli “equilibri punteggiati” di Gould ed Eldredge e le estinzioni di massa (vista talvolta con scettiscismo nel XX secolo proprio perché “violavano” l'estremo gradualismo darwiniano) hanno un po' riportato in auge una sorta di catastrofismo in cui dopo una estinzione di massa i pochi sopravvissuti sono protagonisti di importanti differenziazioni con una serie di nuove radiazioni evolutive contemporanee; invece nelle Scienze della Terra il gradualismo “assoluto” continua a resistere bene nonostante la grande rivoluzione a cavallo degli anni ‘50 e ‘60 del XX secolo, quando si affermò all’improvviso la Tettonica delle placche dopo 40 anni di un dibattito iniziato nel 1916 da Wegener con la teorizzazione della deriva dei continenti. Ne ho parlato qui. Anzi, direi che se appunto il gradualismo darwiniano (ma – attenzione – non l’evoluzionismo in quanto tale!) è stato un po' attutito, la tettonica a placche ha ulteriormente rafforzato – se ce ne fosse stato bisogno – gradualismo e attualismo, spiegando con eleganza l’origine delle rocce contenute nelle catene montuose e rivelando la storia di vecchi oceani del passato simili a quelli attuali, aperti e chiusi dai lenti movimenti dei continenti trascinati dalle placche.

James Hutton (1726 - 1797)
CATASTROFISMO CONTRO UNITARIANESIMO. Al pari del dibattito in Scienze naturali su creazionismo ed evoluzionismo, nella Geologia del ‘700 e dei primi dell’800 si è assistito allo scontro fra il catastrofismo, secondo il quale la Terra era stata plasmata da poche catastrofi – l’ultima delle quali è stata naturalmente il diluvio universale – e l’unitarianesimo, che disegnava una gradualità nel modellamento della superficie terrestre. Il campione massimo indiscusso dell’unitarianesimo è stato lo scozzese James Hutton (1726 – 1797) che nel suo libro The System of the Earth, Its Duration and Stability del 1785, teorizzò il principio dell’attualismo secondo il quale le leggi e i processi che governano oggi la Natura sono gli stessi del passato. Corollario importante di questo principio è che il passato è la chiave per leggere il presente tanto quanto il presente è la chiave per leggere il passato. 
Come Wegener 150 anni dopo, non è che James Hutton convinse “tutti” (e rispetto a Wegener aveva contro buona parte del mondo religioso come in seguito fu per Darwin e anche adesso abbiamo problemi del genere): dal 1785 la vittoria di questo schieramento la dobbiamo a Charles Lyell (1797 – 1875) e ai suoi Principles of Geology, pubblicati tra il 1830 e il 1832, un libro che sta alla Geologia come “l’origine delle specie” sta alle Scienze Naturali (curiosità: Lyell nacque proprio l’anno in cui morì Hutton). A testimoniare l’importanza di Lyell, il più prestigioso riconoscimento assegnato ogni anno dalla Geological Society of London per contributi eccezionali nelle Scienze della Terra è appunto la medaglia Lyell. Nella medaglia da un lato è – ovviamente – rappresentato Lyell. Sul retro invece troviamo le colonne del tempio di Serapide a Pozzuoli.
E non è un caso, perché per i geologi queste colonne di marmo sono qualcosa di straordinariamente importante, che travalica gli aspetti storici e archeologici: se Stenone e Hutton hanno posto le basi della geologia moderna, è qui che si è giocata la battaglia decisiva che ha demolito i catastrofisti.
 
POZZUOLI E LA GEOLOGIA MODERNA. Fra i tanti sostenitori di Hutton un posto particolare lo merita John Playfair (1748 – 1819), scozzese pure lui. Playfair contribuì in maniera decisiva alla diffusione delle idee huttoniane nel libro Illustrations of the Huttonian Theory of Earth (1802): nel capitolo in cui parlava delle apparenti variazioni del livello del mare citò le osservazioni contenute nel libro del 1798 di Scipione Breislak (1750 – 1826) Topografia fisica della Campania, in cui lo scienziato e patriota romano – la cui memoria è stata onorata  degnamente quando il piccolo dinosauro Ciro è stato appunto chiamato Scipionyx samniticus in suo onore – faceva notare come il livello marino nel golfo di Napoli e nella baia di Pozzuoli fosse più basso dell’attuale all’epoca romana. Fra gli esempi portati da Breislak c’era proprio il tempio di Serapide, con l’osservazione che il suo pavimento era sicuramente sopra il livello del mare all’epoca del suo utilizzo. 

Frontespizio dei Principles of Geology
Fra le diverse personalità britanniche che visitavano a quei tempi l’italia non poteva mancare Charles Lyell  (figuriamoci se un geologo poteva farsi scappare Napoli – peraltro tappa significativa anche se distale del Grand Tour – e con la fondata speranza di vedere in eruzione il Vesuvio che all’epoca era abbastanza vivace: difficilmente passavano 5 anni fra un evento e un altro). Naturalmente Lyell aveva letto il libro di Playfair (anzi, non ho indagato in merito ma ritengo assolutamente improbabile che i due non si conoscessero di persona); quindi andò a vedere le colonne e constatò che dopo la loro messa in posto erano finite a lungo sotto il livello del mare in quanto vi sono chiaramente impressi i fori provocati dai litodomi: i litodomi sono molluschi che si attaccano alla roccia e la forano; vivono filtrando le particelle di cibo contenute nelle acque e quindi non possono certo vivere in ambiente subaereo. Le stesse considerazioni sui fori nelle colonne furono fatte anni prima – presumo nel 1788 – da Lazzaro Spallanzani (1729 – 1799). 
Inoltre Lyell dedusse che la parte basale delle colonne era stata ricoperta da sedimenti ed anche questo è vero perché tutto il tempio è rimasto sepolto fino al 1749 quando Carlo di Borbone (1716 – 1788), uomo dai multiformi ruoli reali e all’epoca Re di Napoli, volle vederci chiaro su quelle colonne di marmo che affioravano dal terreno e ordinò uno scavo archeologico.
Il tempio di Serapide rappresentava quindi un classico esempio di gradualismo huttoniano, di un’area che era sopra il livello del mare, è stata successivamente sommersa più o meno lentamente e non a seguito di cataclismi improvvisi, nel periodo dell'affondamento è stata ricoperta da sedimenti sottomarini per poi ritornare sopra il livello del mare. All’epoca ha rappresentato quindi il migliore esempio di una modellazione graduale della superficie terrestre operata da cambiamenti geologici, e per di più con un meccanismo chiaro e ben spiegabile con l’attualismo.
Per questo le colonne del tempio di Serapide hanno meritato di essere raffigurato nel frontespizio del capolavoro di Lyell: Principles of Geology: Being an Attempt to Explain the Former Changes of the Earth's Surface by Reference to Causes now in Operation, uno dei libri “più fondamentali” non solo nella storia della Geologia, ma di tutta la letteratura scientifica in generale ed è per questo che sono raffigurate nella “medaglia Lyell”

E così Napoli ha concorso alla nascita della Geologia moderna, come con Plinio il giovane assistette alla nascita della vulcanologia con la prima descrizione “scientifica” di una grande eruzione vulcanica 

venerdì 11 febbraio 2022

I terremoti di Reggio Emilia del 9 febbraio 2022


Anche prima di averne la certezza con l’emissione da parte di INGV del meccanismo focale era ovvio che gli eventi di ieri sera vicino a Reggio Emilia avessero un meccanismo di faglia inversa suborizzontale (insomma sono sovrascorrimenti, noti internazionalmente come thrust), esattamente come nel 2012. In quella zona sono eventi non molto frequenti ma alle volte hanno una intensità notevole, e purtroppo nella popolazione locale non c’è in genere una consapevolezza di questo, nonostante che già nel 1993 i geologi ferraresi lo avessero sottolineato.

GEOLOGIA DELLA PIANURA PADANA EMILIANA. Qui accanto si vedono i fronti delle pieghe sepolte sotto la pianura padana. Vediamo in dettaglio cosa succede. Grossolanamente la geologia della pianura padana nel settore emiliano – romagnolo, che si vede nella sezione qui sotto, è questa:
1. BASAMENTO ERCINICO PALEOZOICO (non raffigurato): rocce metamorfiche simili a quelle che sitrovano in alcuni settori del lato italiano delle Alpi, formatesi durante l’orogenesi varisica, quando il Gondwana si scontrò con Euroamerica (diciamo nel Carbonifero, tra 300 e 350 milioni di anni fa)
2. SERIE TRASGRESSIVA TRIASSICA (in viola): come ho scritto specificamente in questo post, l’unione fra Gondwana ed Euroamerica è stata molto breve e dopo alterne vicende ha iniziato dal Triassico ad aprirsi la Tetide. Nella futura piattaforma adriatica si sono deposti sedimenti costieri e di mare basso, tra ci degli scisti scuri perché ricchi di materia organica e che rappresentano le cosiddette “rocce – madri” del petrolio padano. Questa serie si ritrova oggi in affioramento solo nel Canton Ticino
3. SERIE CARBONATICA MESOZOICA E TERZIARIA INFERIORE (in azzurro e verde): l'approfondimento del bacino e la collocazione in area tropicale e subtropicale, unita alla mancanza di apporti sedimentari dai continenti, ha consentito la formazione di una spessa serie di calcari sul bordo della placca adriatica. È abbastanza simile alla Serie Toscana
4. SERIE APPENNINICA DETRITICA OROGENICA (in marrone): quando l'area è rimasta coinvolta nella formazione di Alpi e Appennini è cambiata la sedimentazione perchè sono arrivati sedimenti provenienti dai continenti. Si formano quindi argilliti e arenarie
5. SERIE RECENTE DELLA PIANURA PADANA (in giallo e la parte chiara in alto): per un certo periodo (che in appennino dura ancora) una buona parte della zona è emersa e dalla sedimentazione siamo passati all'erosione. Nella pianura Padana in seguito sopra i depositi marini di cui sopra si sono formati (e senza l'intervento umano si formerebbero ancora) depositi fluviali, lacustri e palustri
Fino al punto 4 si tratta di rocce rigide e ben litificate. I sedimenti della pianura padana sono invece caratterizzati da una certa plasticità
TETTONICA. Nell'immagine qui sotto, tratta da Casero (2004) e che rappresenta la parte romagnola (ma il concetto è più o meno lo stesso) vediamo come le rocce terziarie sono piegate e fagliate. Queste pieghe sono visibili tramite prospezioni geofisiche. La deformazione però è talmente intensa che le pieghe si sono rotte e il loro asse si è trasformato in una faglia e quindi queste faglie rimangono confinate in profondità (anche se molto bassa). Pieghe e faglie coinvolgono tutta la serie dal basamento paleozoico alle arenarie terziarie, mentre la copertura sedimentaria recente, poco o per niente solidificata, si comporta in maniera plastica assorbendo la deformazione e gli effetti maggiori sono rappresentati dal sollevamento (visibile però solo grazie a raffinate tecniche di sfruttamento dei dati satellitari). Ci sono anche delle possibili ripercussioni sul reticolo idrografico


I movimenti orizzontali e verticali a cavallo dell'Appennino
MOVIMENTI VERTICALI E ORIZZONTALI. Tutta la fascia posta grossolanamente tra il Po e il crinale appenninico è in forte innalzamento, ad eccezione della fascia lungo la Via Emilia tra la costa e Reggio Emilia, dove è particolarmente evidente la subsidenza antropica.
Vediamo perché.
Il regime tettonico della catena appenninica risulta dal gioco fra due blocchi uno occidentale (tirrenico) e uno dall’altro lato della catena che comprende quindi la pianura padana e la fascia tra la catena e l’Adriatico (blocco padano – adriatico). Questi blocchi hanno movimenti diversi fra loro, misurabili rispetto all’Europa a N delle Alpi, la cosiddetta “Europa stabile”. È stato dimostrato prima dalle misure GPS (Farolfi e Delventisette, 2015 e referenze in quella bibliografia) e poi anche dal nostro lavoro con i dati radar satellitari InSAR (Farolfi, Piombino e Catani, 2019).
Suddividiamo i movimenti nella componente E-W e N-S (questa ultima rilevabile solo con il GPS e non con InSAR). Nella componente EW i due blocchi divergono perché quello orientale si muove verso E e quello occidentale verso ovest. Per cui nel tratto centrale e meridionale dove la catena appenninica è diretta circa NNW-SSE i due blocchi divergono: il risultato sono i grandi sistemi di faglie normali dell’Italia centro-meridionale con la loro importante sismicità, tragicamente nota in tempi recenti per gli eventi di 2009 e 2016.
Da Rimini in su nell’Appennino il regime tettonico diventa compressivo perché quando cambia direzione (lungo la pianura padana diventa all’incirca WNW-ESE) cambiano le cose la componente nord della velocità del blocco tirrenico è maggiore di quella del blocco padano-adriatico, per cui i due blocchi si scontrano.
Lo scontro inizia al di sotto della pianura padana e l’effetto fondamentale sono i grandi sistemi di pieghe e faglie nel sottosuolo.

sismicità risentita a Reggio Emilia
SISMICITÀ STORICA. In tempi recenti oltre al 2012 bisogna ricordate il terremoto del 1996. Nel catalogo parametrico dei terremoti italiani nel 1501 il modenese è stato colpito da un evento di M 6. Specificamente a Reggio Emilia a ieri ci sono ben 128 testimonianze di terremoti, dei quali 4 con risentimento dal VII grado mercalli in su e altri 10 tra il VI e il VII grado. I geologi ferraresi, con il mio carissimo amico Antonio Mucchi lo evidenziarono in un convegno del 1993. 20 anni dopo i loro timori si sono rivelati fondati anche nei più scettici, a parte i fessi che i terremoti dell’Emilia sono di origine antropica

E NO, L’ATTIVITÀ DI ESTRAZIONE DEGLI IDRICARBURI NON C’ENTRA NIENTE. Spero che non vengano fuori le solite fesserie delle trivelle. Ho chiaramente spiegato qui il perché i pozzi di petrolio e di gas non c’entrano nulla. Ribadisco che chi dice che il rapporto ICHESE abbia sancito i rapporti fra estrazione di idrocarburi e terrmoti del 2012 quel rapporto non lo ha letto. Dopodichè si dimentica che ICHESE aveva chiesto comunque un approfondimenti della cosa, che c’è stato con CAVONELAB. Naturalmente questi signori si dimenticano del CAVONELAB.
E da ultimo veniamo a quelli che anche oggi hanno tirato fuori la balla del fracking, uno a caso il mio “amico” che chiamiamo “coso” per non dargli pubblicità, parecchio in difficoltà da quando le scie comiche (ah, no.. chimiche …) non se le fila più nessuno e ha provato a cavalcare la pandemia, ma ha trovato complottardi più giovani, vivaci e organizzati che gli hanno tolto qualsiasi spiraglio:
  • se fossi il geologo responsabile del pozzo di una casa petrolifera e chiedessi di fare il fracking anziché una coltivazione tradizionale di idrocarburi mi proporrebbero per un Trattamento Sanitario Obbligatorio perché proporrei un sistema che costa di più e che in quelle condizioni raccoglie meno
  • è impossibile fare il fracking “clandestinamente” perché sarebbe impossibile nascondere l’enorme prelievo di acqua necessario
  • come ho detto diverse volte, il fracking di suo non genera terremoti quasi mai, ma li genera la reiniezione dei liquidi che ritornano in superficie durante e dopo le operazioni (altra operazione che sotto silenzio non è possibile fare)

Burrato et al (2003) An inventory of river anomalies in the Po plain, Northern Italy: evidence for active blind thrust faulting. Annals of Geophysics 46, 865-882
Casero (2004) Structural setting of petroleum exploration plays in: Geology of Italy - Special Volume of the Italian Geological Society for the IGC 32 Florence-2004 189- 199
Farolfi e Del Ventisette (2015) Contemporary crustal velocity field in Alpine Mediterranean area of Italy from new geodetic data. GPS Solut. 2015, 20, 715–722 
Farolfi, Piombino and Catani (2019) Fusion of GNSS and Satellite Radar Interferometry: Determination of 3D Fine-Scale Map of Present-Day Surface Displacements in Italy as Expressions of Geodynamic Processes Remote Sens. 2019, 11, 394; doi:10.3390/rs11040394

sabato 5 febbraio 2022

dissesto idrogeologico: sull’equivoco nell’uso e nell’abuso del termine “rischio” e sul significato di “pericolosità” (questa sconosciuta)


Continuo sempre a notare in caso di disastri un uso improprio del termine “rischio”. La cosa non può stupire in articoli su carta stampata e sul web e in dichiarazioni estemporanee prese a caso, visto il livello di preparazione generale di chi scrive. Il problema diventa enorme quando sono gli addetti ai lavori a parlare impropriamente di “rischio” confondendolo con la “pericolosità” (spesso completamente ignorata). In buona sostanza ho osservato e continuo purtroppo ad osservare una certa confusione fra “pericolosità” e “rischio”: sono due termini ben distinti (e devono esserlo!) ma sono spesso utilizzati l’uno per l’altro come se avessero lo stesso significato. Invece no!!! non è così: pericolosità e rischio hanno significati ben distinti, chiari, differenti e particolari. Il loro rapporto passa attraverso un terzo termine, la “vulnerabilità”.

EDIT: ANNOTAZIONE SULLA QUESTIONE TERMINOLOGICA. A seguito di una serie di osservazioni da parte di geologi che hanno obbiettato sull'uso del termine "dissesto idrogeologico" ho scelto di fare una integrazione in cima al post. Sono ampiamente convinto che "idrogeologico" dovrebbe essere un termine riservato alle falde acquifere e che parlare di "dissesto geo-idrologico" sarebbe MOLTO più corretto. Però ormai in Italia la prassi è questa, piaccia o non piaccia. Ci ho provato anche io nel mio piccolo, ma non è ormai possibile tornare indietro e tocca adeguarsi.

LA PERICOLOSITÀ: UNA CARATTERISTICA INTRINSECA. La pericolosità esprime quanto un luogo sia più o meno predisposto a subire un evento naturale e di quale entità, in base alle caratteristiche geografiche e geologiche proprie e dei dintorni. La “pericolosità idraulica” risulta maggiore accanto ai fiumi e nelle zone più depresse di una pianura rispetto a quanto si trova a quota superiore e/o più lontano dal fiume. Ogni versante sarà caratterizzato da un livello di pericolosità da frana che ruota intorno a diverse caratteristiche come acclività del pendio, litologia e struttura delle rocce: un versante con una sabbia non consolidata sarà più esposto alla pericolosità da scivolamento rispetto ad uno di solido granito, come in una parete di roccia la pericolosità da crollo aumenterà a parità di altri fattori con la sua pendenza.

IL RISCHIO DIPENDE DA COSA C’È. Il rischio, invece, è un concetto che prende in considerazione gli effetti che un evento naturale può arrecare in un certo luogo a cose e persone. Ne segue che se la pericolosità non cambia a meno di cambiamenti morfologici all’interno e nell’intorno del perimetro, naturali o artificiali che siano, il rischio invece varia in base a quello che c’è. Ad esempio un perimetro incolto, senza edifici né strade vicino ad un fiume segnalato a pericolosità idraulica “media” perche ogni tanto si allaga, ha un rischio basso perché una esondazione non comporterebbe nessuna conseguenza su cose e persone. Se però poi qualcuno decide di costruirci qualcosa (si tratterebbe nel caso di una azione improvvida, ma purtroppo è successo molto spesso), la pericolosità rimane uguale, ma il rischio aumenterebbe drasticamente.

PERICOLOSITÀ, RISCHIO E VULNERABILITÀ. La differenza fra termini è quindi sostanziale:
  • la pericolosità si basa esclusivamente sulle condizioni dell’area e del suo intorno e cambia se e solo se avvengono importanti modifiche morfologiche (antropiche o no)
  • il rischio – invece – varia a seconda di quanti beni e persone siano esposti ad un pericolo in una determinata area e quindi varia in base a “quello che c’è”
  • Pericolosità e rischio sono correlati da una espressione che introduce un terzo termine, la vulnerabilità, e cioè la predisposizione di un qualcosa (edificio, strada etc etc) ad essere danneggiato da un certo rischio.
La formula che lega questi tre concetti è R= P x V x E, dove R sta per Rischio, P per Pericolosità, V per Vulnerabilità ed E per il numero degli elementi a rischio.
Il rischio quindi è la moltiplicazione di questi tre fattori. Ovviamente se uno di questi fattori è pari a zero il rischio sarà nullo: ad esempio non ci sarà rischio – frana in mezzo ad una pianura, come sarà zero in un versante interessato da una frana, ma dove non c’è nessuna costruzione o infrastruttura potenzialmente danneggiabile dal movimento franoso.
Da questo segue che in un PAI (Piano di Assetto Idrogeologico) ci possono essere perimetri indicati a pericolosità elevata ma a rischio basso e, specularmente, perimetri a pericolosità bassa e rischio alto.

Il ponte di Garessio che fa da diga 
durante una pienae del Tanaro
OPERE CHE AUMENTANO PERICOLOSITÀ E RISCHIO. Lasciare stare il can che dorme della pericolosità sarebbe una cosa buona e giusta. Purtroppo realizzando qualcosa in perimetri ad elevata pericolosità vi si aumenta fatalmente il rischio. In taluni casi certe opere possono addirittura aumentare anche la pericolosità. 
Un classico del genere è rappresentato a proposito di rischio idraulico dalla realizzazione di ponti troppo bassi e/o con diversi piloni che abbattono drasticamente la portata del fiume con prestazioni idrauliche peggiori di quelli del passato. In caso di piena il manufatto potrebbe fare da diga, provocando danni a monte di esso (cosa avvenuta realmente in diversi luoghi, per esempio a Olbia e a Garessio. Pertanto una realizzazione del genere aumenta la pericolosità idraulica a monte di esso e, a cascata, anche il rischio in caso di presenza di beni antropici. 
Quanto ai versanti, non sono pochi i casi in cui le attività antropiche hanno avuto la conseguenza di attivare o riattivare fenomeni franosi. Cito, non a caso, le conclusioni di una attenta analisi di un versante di cui mi sono occupato personalmente da poco: vi si legge esplicitamente la necessità di adottare norme di salvaguardia del territorio, che impediscano l’incremento del carico urbanistico e trasportistico. Tutto questo perché sono state rilevate deformazioni sul suolo cagionate dalle opere di urbanizzazione recente dell’area (relativa agli ultimi decenni). Ovviamente l’analisi propone per il sito in questione, dove senza attività antropica non si sarebbe rilevato nulla, sensibili aumenti di pericolosità e rischio: la pericolosità aumenta per le modifiche alla morfologia e ai carichi del versante, il rischio perché prima non c’era nulla e ora ci sono diversi edifici.
Un altro caso di azione che non doveva essere fatta è costituito dalla realizzazione a XXXX di un campo sportivo posto su un crinale e quindi è stato necessario livellare un tratto di versante tramite un riporto di terreno di diversi metri di spessore. A seguito di questo intervento parte del riporto e dei terreni di copertura presenti nel sottostante pendio si sono mobilizzati. Ciò ha reso necessario procedere al consolidamento del versante. Anche in questo caso se nessuno si fosse messo in testa di realizzare questa struttura non sarebbe successo niente intorno.

la realizzazione di questa strada, modificando il versante,
ha aumentato la pericolosità: il muro serve per abbatterla
PROGETTARE UNA INFRASTRUTTURA: PERICOLOSITÀ E RISCHIO. A questo punto viene la critica più importante alla frase “non dovevano costruire un gasdotto in una zona a rischio
Da quanto detto nei paragrafi precedenti chi ha detto o scritto questo ha commesso un grave errore. Perchè è proprio l’infrastruttura a portare il rischio!
In genere è possibile collocare un nuovo edificio in area a bassa pericolosità, mentre in Italia è altmente probabile che una infrastruttura lineare debba per foza attraversare perimetri contreaddistinti da certapericolosità. Alcuni di questi prima di questa realizzazione sono a rischio inesistente o quasi perché con il niente antropico intorno; però inserendovi la nuova infrastruttura il primo effetto sarà quello di aumentare il rischio solo per la sua presenza. Quindi la progettazione dovrà tenere conto ad esempio della pericolosità di un versante da cui possono venire dei crolli e abbattere il rischio che si creerebbe con delle reti paramassi o altra opera (fino a quando sarebbero caduti su un bosco o su un pascolo rischio non ce n’era… ). Inoltre le modifiche alla morfologia dei versanti potranno introdurre aumenti della pericolosità da frana (la realizzazione di muri di contenimento serve proprio a diminuirla quando introdotta) o la costruzione di un terrapieno può aumentare la pericolosità idraulica a monte di esso.
Quindi diciamo che sarebbe più corretto dire che nella realizzazione di una nuova infrastruttura lineare si deve cercare di passare per luoghi a minore pericolosità possibile.

MITIGARE PERICOLOSITÀ E RISCHIO. La formula R= P x V x E dimostra semplicemente una cosa: mitigare i rischi geologici vuol dire lavorare per ridurne almeno uno dei fattori che lo determinano. 
Se vogliamo ridurre i rischi abbiamo due strade: 
  • evitare di costruire nelle zone dove la pericolosità è alta (banalmente nelle pianure più esposte alle alluvioni o in pendii che possono franare). Sembra logico ma spesso questo principio continua a non essere rispettato
  • una volta che la frittata è fatta intervenire con opere di difesa che diminuiscano la pericolosità e – a cascata – il rischio, o semplicemente abbattere il rischio, delocalizzando
Il muro costruito ad Aulla per abbattere pericolosità
e rischio di un quartiere costruito troppo vicino al Magra
AULLA: DUE ESEMPI CONCRETI. Vediamo una applicazione delle due metodologie con le azioni effettuate ad Aulla (Lunigiana, provincia di Massa e Carrara). Qui non si può dire che sia stata negli ultimi decenni del XX secolo una azione particolarmente intelligente il continuo avvicinarsi della città al Magra con nuovi insediamenti in zone ad elevata pericolosità idraulica. Qualche anno fa dopo una serie di gravi catastrofi dovute a più episodi di piogge devastanti si è capito che non si poteva continuare così e sono state effettuate delle azioni che hanno provocato una forte mitigazione del rischio, attraverso le due diverse modalità:
  • è stata diminuita la pericolosità di un’aeea urbana costruendo un muro sufficientemente alto per essere invalicabile dalle acque del fiume in piena. Diminuendo la pericolosità è diminuito ovviamente anche il rischio
  • è stato diminuito solo il rischio senza incidere sulla pericolosità semplicemente delocalizzando un intero quartiere

IN CONCLUSIONE. Purtroppo Il “Bel Paese” (termine peraltro dovuto a un geologo, l’abate Stoppani) convive con il dissesto idrogeologico perché, come spesso dimostrano i toponimi, alluvioni e frane sono una costante nella nostra storia durante tutta la storia, e non – come potrebbe pensare qualcuno – soltanto dal dopoguerra quando l’aumento della popolazione, l’industrializzazione e la crescita del terziario hanno comportato la necessità di occupare aree precedentemente lasciate stare perché pericolose. Quindi il nostro sarebbe un territorio da sfruttare con una certa attenzione e invece per un corretto uso del territorio è stato fatto tanto di quello che non andava fatto ma poco di quello che andava fatto. Il risultato è lo sconfortante elenco dei disastri. La cosa più logica sarebbe la delocalizzazione di quanto più a rischio; ma in Italia è un problema perché lo spazio a pericolosità idrogeologica bassa è nettamente insufficiente.
E allora cosa si può fare? Si deve diminuire la pericolosità, e per farlo c’è un’unica strada, la corretta manutenzione del territorio. Tante volte i geologi sottolineano l’importanza di queste pratiche, grazie alle quali si può diminuire la probabilità e l’entità di frane e alluvioni in un certo luogo, abbassandone la relativa pericolosità e – di conseguenza – anche il rischio che vi è associato.