martedì 19 dicembre 2023

la nuova eruzione iniziata nella penisola di Reykjanes la sera del 18 dicembre 2023

Niels Bohr diceva che "è difficile fare delle previsioni, specialmente per il futuro". Quanto sta succedendo nei dintorni di Grindavik, nella penisola di Reykjanes è una applicazione pratica in senso vulcanologico di questo detto: dopo che nella seconda metà di novembre l’eruzione sembrava sempre più prossima, nella prima metà di dicembre le possibilità di un evento erano fortemente diminuite. Poi, all’improvviso, il 18 dicembre alle 22.17 il magma ha iniziato a fuoriuscire da una frattura lunga circa 4 km. L'eruzione si trova vicino a Sundhnúkagígar, circa quattro chilometri a nord-est di Grindavík. L'eruzione è stata preceduta da uno sciame sismico iniziato alle ore 21:00.

Secondo il comunicato delle ore 2.00 italiane di stanotte 19 dicembre del servizio meteorologico islandese (che svolge anche la funzione di sorveglianza sismica e vulcanica, dato che il servizio geologico nazionale si occupa soprattutto di geotermia e impatti ambientali) questa notte la sismicità e le misure GPS indicano che l'intensità dell'eruzione vulcanica, iniziata circa alle 22.00 in Italia della sera del 18 dicembre, sta diminuendo. Ma questo non indica una conclusione dell'eruzione, ma piuttosto che la fuoriuscita di magma sta raggiungendo uno stato di equilibrio. Questo sviluppo è stato osservato all'inizio di tutte le eruzioni nella penisola di Reykjanes negli ultimi anni. La fessura eruttiva è lunga circa 4 km, con l'estremità settentrionale appena ad est di Stóra-Skógfell e l'estremità meridionale appena ad est di Sundhnúk. La distanza dall'estremità meridionale fino all’estremità NE di Grindavík è di quasi 3 km. 

Avevo già descritto la situazione un mese fa (il 15 novembre) quando la deformazione era estremamente intensa ed il magma era a poche centinaia di metri dalla superficie: il servizio meteo islandese forniva tutti i giorni nuovi aggiornamenti indicando nella homepage che l’eruzione fosse estremamente probabile. Poi le cose si sono relativamente calmate e l’avvertimento è scomparso dalla sua homepage.


Il 6 dicembre venne comunicato che in base alla modellazione geodetica l’afflusso di magma era probabilmente cessato. Quindi la possibilità di un'eruzione era notevolmente diminuita ma tuttavia il futuro avrebbe potuto riservare evoluzioni improvvise. E difatti nella immagine a sinistra si vede la carta pubblicata contestualmente al comunicato, valida fino al 20 dicembre della probabilità di una eruzione, dove ho indicato in rosso l’area interessata da ieri sera dall’eruzione. In ogni caso l’avvertenza era che “le condizioni all'interno e all'esterno delle zone di pericolo delimitate possono cambiare con poco preavviso” (come dovevasi dimostrare...). Da quel momento comunque era scomparsa dallla homepage del servizio meteorologico l’avviso sulla probabilità di una eruzione. Nell’immagine a destra invece si vede la zona interessata effettivamente dall’eruzione.

E arriviamo dopo una settimana di silenzio al comunicato del 13 dicembre, in cui si riportava che che il sollevamento nell'area intorno a Svartsengi stava continuando, ritenendo che il luogo più probabile per una potenziale eruzione in queste condizioni fosse più o meno quello dove poi effettivamente è avvenuta. 

Il 15 dicembre nella zona interessata dall’intrusione magmatica continuava una sismicità generalmente debole, concentrata soprattutto nei pressi di Hagafell (contraddistinta da una stella rossa). Tra il 12 e il 15 sono stati registrati 460 terremoti, di cui 30 superiori a M 1.0. Il terremoto più forte in questo periodo è stato di magnitudo 2.8 vicino a Hagafell martedì mattina. Invece i dati provenienti dalle stazioni GPS e dalle immagini radar satellitari mostravano che il sollevamento intorno a Svartsengi stava comunque continuando (stella verde). Si segnalava inoltre che il magma continuava ad accumularsi e che continuava la possibilità di una eruzione o della formazione di nuove fratture che il magma avrebbe riempito.
Il 16 dicembre viene comunicato che negli ultimi giorni il tasso di deformazione era leggermente diminuito, ma anche che era troppo presto per dire che l’accumulo di magma si fosse fermato e che Il 20 (domani…) sarebbe stata emessa una nuova carta in sostituzione di quella del 6. 

Ovviamente gli eventi hanno superato questa notizia.



martedì 12 dicembre 2023

i probabili rapporti fra gli episodi di "Terra a Palla di neve" del Criogeniano e l'evoluzione della vita sulla Terra


La Terra nel Criogeniano: le glaciazioni 
erano presenti anche a latitudini tropicali (Li et al, 2008)
Il Criogeniano è un periodo fondamentale della storia della Terra, in quanto vi si trovano due episodi di Snowball-Earth (la Terra a palla di neve) che sono stati probabilmente innescati da un ulteriore calo del tenore di CO2 atmosferico. Se durante queste glaciazioni globali si è verificata una drammatica erosione dei continenti, che avrebbe provocato la "grande discordanza" (ne ho parlato qui), il post-glaciazione è stato teatro di una accelerazione dei processi biologici che ha portato alla ribalta Animalia. Tutto questo non si vede da tracce fossili convenzionali, ma da fossili molecolari, in particolare steroli e sterani e suggerisce pure un cambiamento fondamentale nel modo di nutrirsi alla base - appunto - della emersione di Animalia.

Gli episodi di Snowball Earth (Terra – Palla di neve) del criogeniano, il secondo periodo dell’era neoproterozoica, tra 720 e 635 milioni di anni fa sono più o meno contemporanei alla espansione delle prime forme di vita riferibili ad Animalia. Purtroppo non è che quel periodo abbondi di testimonianze fossili, ma per fortuna con le nuove tecnologie è possibile recuperare dai pochi sedimenti dell’epoca tracce chimiche di vita, i cosiddetti fossili molecolari.
Al giorno d'oggi, la maggior parte degli animali utilizza i colesterolo - steroli con 27 atomi di carbonio (C27) nelle loro membrane cellulari. Funghi e piante invece utilizzano fitosteroli (i funghi tipicamente steroli C28, mentre le piante e le alghe verdi steroli C29)
Il tutto ha portato ad ipotizzare che gli antichi sterani C27 abbiano avuto origine dal colesterolo, il principale sterolo prodotto dalle alghe rosse e dagli animali viventi, mentre gli sterani C28 e C29 deriverebbero dagli steroli di funghi preistorici, alghe verdi e altri eucarioti microbici.

I FOSSILI MOLECOLARI. I lipidi possono sopravvivere nelle rocce per centinaia di milioni di anni e quindi si possono definire fossili molecolari, ed è proprio grazie allo studi dei lipidi che i paleontologi riescono a ricavare degli indizi sulla vita di quei tempi lontanissimi, anche se – ovviamente – senza fossili reali è difficile dire molto sugli animali o sulle piante da cui provengono questi steroli. Le prime tracce di lipidi sterolici, che provengono dalle membrane cellulari, sono state trovate in rocce di 1,6 miliardi di anni fa, nella Barney Creek Formation, in Australia Settentrionale (Brooks et al, 2008). 
Sempre Brooks et al (2010) hanno evidenziato steroli C27, quindi quelli legati ad Animalia, in rocce di 850 milioni di anni (quindi nel Toniano, il primo periodo del Neoproterozoico), mentre tracce di C28 e C29 compaiono circa 200 milioni di anni dopo (il che per vari versi mi pare controintuitivo, in futuro cercherò di capire il perché). Si ritiene che ciò rifletta la crescente diversità della vita in tutto il Neoproterozoico. In seguito lo stesso gruppo (Brooks et al, 2017) attraverso lo studio di una documentazione fossile molecolare di steroidi eucariotici ha dimostrato che i batteri erano gli unici produttori primari degni di nota negli oceani prima del Criogeniano (720-635 milioni di anni fa). 
L’aumento della diversità e dell’abbondanza di steroidi segna il rapido aumento delle alghe planctoniche marine nello stretto intervallo di tempo tra le glaciazioni Sturtiana e Marinoana della “Terra palla di neve”, 659-645 milioni di anni fa. È interessante notare come questo evento sia contemporaneo ad un un picco nei rapporti fosforo-ferro nei sedimenti marini, indicante concentrazioni insolitamente elevate di fosfato (Planavsky et al 2010).
Quindi Brooks et al (2023) ipotizzano che una ondata di nutrienti forniti dalla deglaciazione dopo il primo degli episodi di snowball Earth (lo Sturtiano) abbia diminuito l'influenza dei cianobatteri e innescato un ’“aumento delle alghe”: in questo modo si sono formate delle reti alimentari con trasferimenti di nutrienti ed energia più efficienti, spingendo gli ecosistemi verso organismi più grandi e sempre più complessi. Di fatto è proprio dopo lo Sturtiano che compaiono biomarcatori per le spugne (Love et al 2007).

la storia dei fitosteroli nel Criogeniano (Brunoir et al 2023)
LA PRODUZIONE DI FITOSTEROLI. Brunoir et al (2023) combinando geologia e genetica, mostrando come i cambiamenti avvenuti nella Terra primordiale abbiano provocato un cambiamento nel modo in cui gli animali mangiano. La maggior parte degli animali non è in grado di produrre da sola i fitosteroli, ma può ottenerli mangiando piante o funghi. Pare logico visto quanto ho scritto qui sopra, ma recentemente è stato scoperto che negli anellidi come il comune lombrico, c'è un gene, il gene  smt, che produce steroli a catena più lunga. Osservando i geni smt di diversi animali Brunoir et l (2023) hanno creato un albero genealogico per il gene smt, prima all’interno degli anellidi, poi in Animalia: questo gene ha avuto origine molto indietro nel tempo, e poi ha subito rapidi cambiamenti nello stesso periodo in cui i fitosteroli sono apparsi nelle rocce. Successivamente, la maggior parte delle linee animali ha perso il gene smt. Da notare che questo albero della vita è riferibile a quello di Schultz et al (2023) di cui ho parlato proprio a proposito dell’origine di Animalia.

GLI ANIMALI HANNO PERSO LA CAPACITÀ DI PRODURRE FITOSTEROLI PERCHÈ È PIÙ FACILE MANGIARLI CHE PRODURLI? I fossili molecolari di fitosterolo registrano l'aumento delle alghe negli antichi oceani e a cascata la scomparsa del gene smt. L’ipotesi di Brunoir et al (2023) è che gli antenati di Animalia fossero in grado di produrre steroli C28+; però, in seguito, molte linee animali avrebbero abbandonato indipendentemente fra loro la produzione di fitosterolo intorno alla fine del Neoproterozoico, in coincidenza con l'aumento di abbondanti prede eucariotiche. 
Quindi la storia del gene smt potrebbe raccontare un cambiamento nelle strategie di alimentazione degli animali all'inizio della loro evoluzione. 

BIBLIOGRAFIA

Brocks et al (2008) A biomarker for purple sulfur bacteria (Chromatiaceae), and other new carotenoid derivatives from the 1640 Ma Barney Creek Formation. Geochim et. Cosmo- chim Acta 72, 1396–1414 (2008).

Brocks et al. (2017) The rise of algae in Cryogenian oceans and the emergence of animals. Nature 548, 578 (2017)

Brunoir et al (2023) Common origin of sterol biosynthesis points to a feeding strategy shift in Neoproterozoic animals. Nat Commun 14, 7941

Li et al (2008) Assembly, configuration, and break-up history of Rodinia: A synthesis Precambrian Res. 160, 179–210

Love et al. (2009)  Fossil steroids record the appearance of Demospongiae during the Cryogenian period. Nature 457, 718–721 

Planavsky et al. (2010) The evolution of the marine phosphate reservoir. Nature 467, 1088–1090 

Schultz et al (2023) Ancient gene linkages support ctenophores as sister to other animals Nature618, 110–117
 





mercoledì 6 dicembre 2023

L'erosione dell'alveo dell'Arno negli ultimi decenni nel Valdarno inferiore: l'esempio dell'isola presso il ponte tra San Donato e Santa Croce sull'Arno


Foto 1: l'Arno a valle del ponte. Si noti come l'isola si trovi
nella parte interna di un'ansa dove l'erosione è più difficile
Il ponte sull'Arno fra San Donato (frazione del comune di San Miniato) e Santa Croce sull'Arno, pur essendo attualmente monitorato e sicuro (lo preciso perché non voglio che qualcuno usi questo post come pretesto per lanciare allarmismi che non avrebbero il minimo senso: è attualmente un ponte sicuro!) rappresenta un caso classico di interferenza fra piloni ed alveo di un fiume e il corso dell'Arno è pieno di casi del genere, che sono molto comuni. È ovvio che la soluzione migliore oggi disponibile dal punto di vista idraulico sia il ponte a campata unica, ammesso che le sponde siano in grado di reggere la struttura ed infatti le ultime realizzazioni cercano di andare in quella direzione, ma questo di cui parliamo è un ponte concepito bene, senza piloni nell'area di massima corrente.

Dopo gli ultimi eventi alluvionali continuano ad imperversare quelli che “bisogna dragare i fiumi”, per non parlare di quelli che "basterebbe pulirre gli alvei che certe cose non succederebbero". Già anni fa avevo scritto un post per far notare come questa sia una fesseria solenne, al pari di quella di rialzare gli argini. No, per diminuire la pericolosità da alluvione l’unica strada è la realizzazione di invasi (utili sia per laminare le piene che laminare le magre) e di casse di espansione: non solo una escavazione artificiale degli alvei non ridurrebbe la pericolosità idraulica, ma oltre a non avere effetto in caso di piena, al contrario porterebbe una serie enorme di problemi alle pile dei ponti e agli argini.

In questo post mostro poi un classico esempio della serie “spesso non occorre scavare i fiumi per abbassarne il livello, perché ci pensano da soli”, osservando quello che sta succedendo in Arno in corrispondenza del ponte che collega San Miniato a Santa Croce sull’Arno, dove  Siamo in provincia di Pisa nel Valdarno inferiore, fra Empoli e Pisa, dove il fiume, ovviamente canalizzato anche se per fortuna non proprio rettilineo, scorre su una pianura bonificata in epoca medicea, grossolanamente diretta verso WSW e caratterizzata da una scarsissima inclinazione: a Empoli, a oltre 60 km dalla foce, lo zero idrometrico è posto a 20,32 metri sul livello del mare (dati del Centro funzionale Regionale della Regione Toscana), ma in periodi normali il livello delle acque è a una quota inferiore a 16 metri e quindi la pendenza sarebbe di meno di 30 cm al km.
Il ponte è stato inaugurato nel 1970 quindi suppongo che sia crollato o sia stato pesantemente danneggiato durante l'alluvione del 1966.

Foto 2: il pilone di sisistra evidenzia l'erosione in atto dell'alveo
A valle del ponte si nota un’isola, come dimostra la foto 1. Il commento che verrebbe spontaneo (e a parecchie persone è venuto) è: "quell’isola si è formata per colpa dei detriti e va tolta!".
Ma non è così! Lo dimostra una sommaria ispezione visiva del ponte stesso fatta semplicemente con la foto 2, che mostra il pilone in sinistra idrografica: si nota che dall’epoca della costruzione del ponte l’alveo si è approfondito, dato che si sta mettendo gradatamente a nudo la sua base. 
Nella foto 3 si vede nell'isola una densa stratificazione ed è evidente che non si tratti di sedimenti portati da piene recenti: anche solo dal semplice paragone con quanto si osserva sull'argine è evidente che i sedimenti che la compongono non si siano deposti per formarla, ma sono visibili a causa dell’erosione. Insomma, l’alveo si è abbassato di livello e la minore erosione ha consentito la formazione dell'isola perchè la corrente in quel punto della sezione del fiume è insufficiente per eroderla per due motivi:
  • il pilone di sinistra “fa ombra” e la rallenta a valle di esso
  • a valle del ponte il corso descrive una leggera ansa a sinistra e quindi la velocità è maggiore nel lato destro. 
Quindi la storia è molto diversa da quanto in molti pensano: l’isola non rappresenta un deposito recente che deve quindi essere eliminato perché ostacola la corrente, ma rappresenta più o meno la quota a cui era arrivato l’alveo del fiume pochi anni fa, decisamente superiore a quella attuale
Queste immagini non sono altro che la conferma di quanto evidenziato dalla letteratura scientifica già da parecchio tempo (Billi e Rinaldi, 1997). Fra l’altro ci sono altri ponti nei quali si evidenzia una erosione importante recente dell’alveo dell’Arno, per esempio a Signa.

Insomma: da quelle parti sarebbe inutile due volte pensare da quelle parti di dragare l’Arno per evitare il rischio alluvione, la prima perché se artificiale è sempre una operazione dannosa e la seconda perché il fiume si sta dragando da solo!

Foto 3: i sedimenti sotto l'isola dimostrano la loro "anzianità"
e l'isola non è una barra appena deposta
PROBLEMA "CULTURALE" SU ISOLE E BARRE FLUVIALI. Il problema è che molto spesso la gente comune confonde la presenza di barre o isole con sovralluvionamento, in quanto il loro modello di fiume “normale” è quello di un fiume dove scorre solo acqua, mentre il sedimento è visto come una sorta di "disfunzione". 
In realtà la presenza di barre o isole compare in determinate morfologie non solo in situazioni di accumulo, ma anche in condizioni di equilibrio dinamico o addirittura, come in questo caso, in fase di incisione. Se prendiamo ad esempio un caso dove nell’alveo ci sono tanti canali, un alveo ghiaioso a canali intrecciati, cambiando le condizioni durante la fase di incisione successiva a quella che aveva accumulato i materiali, la presenza di isole o barre è vista erroneamente come sovralluvionamento.

Un appunto finale: ribadisco di nuovo che questo post non rappresenta assolutamente un allarme sulla stabilità del ponte, che è continuamente osservato dai tecnici dell’ente competente (i quali conoscono benissimo la situazione), però se continua questo trend di erosione (e pare che continui, ma non ci sono dati certi o, almeno, non ne conosco), prima o poi dovranno essere prese delle misure per evitare conseguenze. 
Inoltre è stato ricostruito dopo il 1966 in modo intelligente: premettendo che il ponte più sicuro di tutti è quello realizzato senza pile in alveo, le due pile in alveo di questo ponte sono vicine alle sponde e dunque non ci sono piloni nell’area di massima corrente che potrebbero subire danni durante le piene.
A dimostrazione di tutto questo uno studio del 2017 ne ha verificato la struttura e quindi non esistono limiti di portata in relazione ai carichi previsti dal Codice Stradale per i ponti di prima categoria. 

Billi e Rinaldi 1997 Human impact on sediment yield and channel dynamics in the Arno River basin (central Italy) Human Impact on Erosion and Sedimentation (Proceedings of Rabat Symposium S6, April 1997). 1AHS Publ. no. 245, 1997


domenica 3 dicembre 2023

il terremoto M 7.6 del 2 dicembre 2023 e la complessa geodinamica delle Filippine


A causa del particolare contesto geodinamico, l'arcipelago delle Filippine è costantemente oggetto di terremoti e di eruzioni vulcaniche, con vulcani a carattere spiccatamente esplosivo. 
Il terremoto di magnitudo 7.6 del 2 dicembre 2023 al largo della costa sud-orientale dell'isola di Mindanao è una classica conseguenza di questa situazione e la sua energia non può certo sorprendere. Si è verificato lungo una faglia obliqua inversa a una profondità di circa 75 km. A causa dell'epicentro in mare e della profondità ipocentrale la mappa del risentimento evidenzia per fortuna una intensità massima non superiore alla parte centrale dell'VIII grado MCS. 
Ci sono notizie di uno tsunami di una quarantina di centimetri nel Mare delle Filippine, ma non sembrano esserci stati dei danni.
Siamo ad ovest della fossa delle Filippine, nella zona che più risente dello scontro fra la placca della Sonda e quella del mare delle Filippine che le scende sotto. E infatti il meccanismo focale indica che la rottura si è verificata come risultato di una faglia inversa coerente con la superficie dell'interfaccia di subduzione. 
Un terremoto come questo ha probabilmente coinvolto un’area all’incirca rettangolare lunga un centinaio di km e larga 35.

Nel luogo del terremoto, la placca del Mar delle Filippine si muove verso ovest-nord-ovest ad una velocità di circa 103 mm/anno rispetto alla placca della Sonda. 
Quella ad oriente delle Filippine è una delle subduzioni più “produttive” dal punto di vista dei terremoti, nel quadro di un’area in cui fra Indonesia, Nuova Guinea e Filippine l’attività sismica è incredibilmente frequente e importante: basta pensare che solo meno di 10 giorni fa, dalla parte opposta del Mar delle Filippine, un terremoto di M 6.9 ha colpito le isole Marianne settentrionali. Non solo, ma limitandosi all'area colpita da questo terremoto secondo l’USGS in un’area entro i 250 km dal terremoto del 2 dicembre 2023 negli ultimi 100 anni si sono verificati altri 127 terremoti di magnitudo 6 o superiore e 15 di questi erano M 7 o più. 
In più la sequenza delle repliche è impressionante. Il Geofon del Deutsches Geoforschungszentrum di Potsdam a 20 ore dall'evento (aggiornamento alle ore 10.00 italiane del 3 dicembre) segnala 6 repliche con M uguale o superiore a 6 e 38 (se ho contato bene) repliche con M compresa tra 5 e 6. 
Vediamo appunto qui sotto in questa carta elaborata con l’IRIS Earthquake Browser i terremoti intorno a Mare delle Filippine, Indonesia e Nuova Guinea con le varie subduzioni dell’area: 1300 eventi con M uguale o superiore a 6 in 20 anni!



La situazione nelle Filippine è molto complessa perché oltre a quella del Mar delle Filippine, l’arcipelago è interessato nel suo lato NW da una subduzione a polarità opposta, cioè verso est,  la cui traccia superficiale è data dalla fossa di Manila che prosegue a nord fino a Taiwan (ne ho parlato qui). In questo caso al contrario di quanto succede nel lato orientale, è la placca della Sonda a scendere sotto quella del Mare delle Filippine. Nonostante questa sia una collisione “matura”, cioè ormai una collisione continente – continente, anche qui le velocità non sono per niente basse, tra 65 e 85 mm/anno.

Per questo la sismicità della regione delle Filippine riflette movimenti tettonici molto complessi, e avviene sia all’interno delle isole, che come in questo caso ai suoi margini e a varie profondità. 
Nell'immagine sotto si vedono una carta e una sezione della parte settentrionale dell'arcipelago, che evidenzia le due subduzioni.

Una conseguenza importante di questa situazione tettonica è anche l'intenso vulcanismo di arco magmatico, che genera eruzioni significative. Considerando la posizione dell'arcipelago, poco sopra l'equatore, è facile che a causa della vicinanza della ITCZ, la Zona di Convergenza IntertTopicale, le maggiori esplosioni possano immettere i loro prodotti nell'alta atmosfera, e questo specialmente d'estate quando la ITCZ è alle basse latitudini settentrionali, provocando come per l'eruzione del Pinatubo, avvenuta nel 1991 e appunto in giugno, un leggero raffreddamento a livello globale.