Sulle alluvioni bisogna puntualizzare che (1) in autunno ci sono sempre state, che (2) a causa del riscaldamento globale i mari sono più caldi e quindi l’evaporazione è un pò di più del normale rispetto “a prima” e quindi è logico aspettarsi piogge di volume superiore e che (3) abbiamo devastato il territorio, riducendo gli alvei dei fiumi di oltre il 50% in volume dopo che le bonifiche hanno impedito le esondazioni e lo stoccaggio delle loro acque. Ergo, le alluvioni ci sono sempre state, ci saranno ancora e con quello che abbiamo combinato in atmosfera e sul territorio i loro danni saranno sempre più gravi. Fra i danni causati dalle piogge non ci sono solo gli allagamenti, ma anche un consistente numero di frane, di cui sarebbe semplicemente doveroso occuparsi. Ma purtroppo, rilevato che l’Italia è IL paese delle frane (almeno in Europa), poco o nulla si fa per mitigarne i rischi, nella continuazione di quella italica tradizione secondo la quale siamo bravissimi a rispondere all’emergenza, ma su prevenzione e ricostruzione lo standard delle nostre prestazioni è quasi ottimistico definire "parecchio scadente". Un forte aiuto ce lo possono dare le immagini RADAR satellitari: siamo stati i primi ad usarle sistematicamente e ad escogitare le tecniche migliori per la loro elaborazione; ma, purtroppo, abbiamo perso il primato ed altri sono adesso più avanti di noi (sfruttando quello che è stato inventato dalle nostre parti...).
Dopo il crollo del viadotto di Nostra Signora del Monte l’attenzione dell’opinione pubblica e della magistratura non si è rivolta come sarebbe dovuto succedere all’assetto del territorio, ma allo stato di conservazione dei viadotti. Non è che questo sia un particolare di scarsa importanza, tutt’altro: è noto come il cemento non sia eterno, ed è noto che – contrariamente a quello che si credeva – il tondino e il cemento hanno coefficienti di dilatazione diversi e pertanto prima o poi bisognerà porsi il problema della sostituzione di molti manufatti costruiti negli anni dell’immediato dopoguerra e del boom economico; diciamo inoltre che le prime avvisaglie di un degrado generale ci sono al di là delle voci più o meno allarmanti portate da servizi televisivi, articoli su stampa cartacea e web e post sui social network ispirati da visite “occhiometriche” ai viadotti.
Ma il caso di Savona con il degrado delle strutture non c’entra la più classica delle beneamate minchie: è stata la forte pressione che la massa in frana ha esercitato contro delle strutture orizzontali della base del pilone sciaguratamente costruiti all’interno di un impluvio. Quindi il problema della A6 è un problema di assetto del territorio: è inutile – anzi, improprio – intervistare ingegneri strutturali sul degrado dei viadotti dopo questo disastro. Avrebbero dovuto intervistare i geologi sul dissesto del territorio...
D’altro canto se un crollo di un viadotto fa parecchio effetto, ferrovie, strade e autostrade nel Bel Paese vengono interrotte molto spesso per frane e le frane hanno letteralmente tappezzato in questi giorni monti e colli tra Piemonte e Liguria. Ma fanno meno notizia di un solo viadotto con dei ferri a vista.
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La frana di Montaguto: dopo una serie di movimenti precedenti, nel 2010 ha bloccato per mesi la ferrovia Napoli - Foggia e la SS 90 |
FRANE E VIE DI COMUNICAZIONE. Le frane costituiscono nel mondo un pericolo estremamente diffuso, che coinvolge oltre alle infrastrutture (strade, ferrovie, acquedotti, oleodotti etc etc) anche i centri abitati e per questo sono uno dei più importanti filoni di studio del programma dell’UNESCO per la mitigazione delle catastrofi naturali; ma non hanno la stessa risonanza nei media di altre catastrofi naturali come alluvioni, terremoti o eruzioni vulcaniche; eppure tutti gli anni provocano nel mondo migliaia di morti. Una parte di morti e danni sono causati da frane che avvengono durante alluvioni o terremoti, che quindi in questi casi vengono calcolati direttamente fra quelli del fenomeno che le ha innescate.
Le vie di comunicazione rispetto ai centri abitati hanno anche il difetto di dover per forza attraversare il territorio; e ovviamente è più facile trovare un posto sicuro per costruire un abitato che tracciare una linea, anche se contorta, dove non si evidenzino problemi di frane.
A complicare la questione “frane e vie di comunicazione” in Italia si aggiunge la circostanza che dal dopoguerra molte strade sono state costruite dove si voleva e non dove si poteva: giusto in questi giorni ho esaminato il caso di una variante ad una vecchia strada al posto di un tracciato preesistente più lungo; il problema è che, appunto, il vecchio tracciato era al sicuro dalle frane, mentre passare a mezza costa lungo una parete verticale di tufi e travertini per abbreviarlo non è stata un’idea particolarmente brillante dal punto di vista geologico, e le frane di crollo che punteggiano questo tratto sono una ovvia conseguenza dell’improvvida decisione di passare di là.
LE FRANE PERCHÈ. Una frana è un effetto dovuto alla gravità: qualsiasi oggetto che perde l’equilibrio e sta in alto scende più o meno velocemente verso il basso. Quindi una frana avviene quando per uno squilibrio il peso di una certa parte di un pendio è superiore alle forze che l’hanno tenuta ferma fino a quel momento. Ci sono diversi tipi di frane, da massi che crollano da una parete scoscesa a pendii interi che scivolano lentamente verso valle. Per chi non ne sa un gran che e volesse informarsi, la Bibbia del genere è “il Varnes” (Cruden e Varnes, 1996).
Una frana si forma perché nel sottosuolo a poca profondità una superficie di debolezza in qualche modo interrompe la continuità interna di un pendio. Senza scendere in altri particolari, dal punto di vista geometrico un versante in maggiore pendenza è più esposto al pericolo, come dal punto di vista dei materiali il fattore che aumenta il pericolo è avere rocce meno tenaci e/o più fratturate (poi, appunto, contano diversi altri fattori). Questa superficie è particolarmente messa a dura prova dalla infiltrazione delle acque durante le piogge. Da questo deriva il rapporto fra piogge e frane, sancito definitivamente nel 1985 (Canuti et al, 1985) e per ogni bacino può essere calcolata una soglia di precipitazioni sopra la quale è praticamente certo che alcune frane si metteranno in movimento (Rosi et al, 2015)
Un altro fattore capace di mettere in movimento le frane (anche quelle normalmente stabilizzate, definite scientificamente come “frane quiescenti”) è lo scuotimento del terreno durante i terremoti: ecco come mai in occasione dell’evento del 30 ottobre 2016 ne sono state registrate davvero tante (EMERGEO WG, 2016).
UNA FRANA È PER SEMPRE. In genere una frana non è un evento isolato, ma un fenomeno che si ripete a intervalli più o meno regolari fino a quando non c’è più niente che può andare giù; inoltre è normale che ci siano dei movimenti impercettibili all’occhio umano per molto tempo prima o dopo un suo parossismo (un movimento ossservabile perché più veloce e, in casi gravi, riportato dalle cronache). Insomma, da quando si innesca, una frana non ce la leviamo più di torno e una fase parossistica si può ripresentare appena le condizioni lo permetteranno (una forte pioggia o un terremoto).
In molti casi però si può bloccarne il movimento. Alle volte è semplice: se l’evento è dovuto principalmente alla deforestazione basta riforestare un pendio. Altre volte è più difficile e vengono installati muri, gabbionate, reti, tiranti e quant’altro possa servire a stabilizzare il versante. Una cosa a cui geologi e ingegneri che studiano una frana devono stare attenti è la gestione delle acque: è importante che le acque piovane non si fermino nel pendio ma ne deve venire assicurato un deflusso senza danni anche (e soprattutto!) in condizioni meteo avverse.
È bene comunque non costruire mai in zone a pericolosità da frana. Soprattutto, quando è costretta a farlo, la popolazione deve sapere cosa voglia dire vivere intorno o sopra una frana e dovrebbe richiedere a gran voce tutti i provvedimenti necessari a diminuirne il rischio relativo.
L’ITALIA E LE FRANE. Una terra giovane, con due catene montuose tuttora in forte sollevamento che provocano un rilievo energico, colline dolci fatte di sedimenti “vagamente consolidati”, mari intorno molto caldi e quindi capaci di provocare piogge molto intense anche se di breve durata rappresentano un cocktail micidiale e quindi è per la natura stessa del territorio che i processi dominanti nell’evoluzione naturale del paesaggio italiano siano frane, alluvioni e terremoti, mentre nazioni anche a noi molto vicine come quelle dell’Europa centrale e settentrionale presentano un ritmo molto inferiore di modificazione naturale del territorio, perchè gli eventi geologici che le hanno plasmate sono molto più antichi,
Per questo non possiamo stupirci se l’Italia ospita circa il 70% delle frane censite in tutta l’Unione Europa e un occhio attento ne veda di continuo lungo i nostri pendii. Il motore di ricerca Multirisk® del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze (Battistini et al, 2015) ha tracciato oltre 2500 eventi franosi di cui hanno dato notizia le cronache nel solo 2018.
Come feci notare qualche anno fa la dimostrazione che in Italia eventi del genere hanno una particolare importanza ce lo dice anche la nostra lingua dove ci sono almeno 26 modi diversi per dire frana (senza considerare variazioni dialettali e termini strettamente locali!) e questo termine viene abbondantemente usato in senso figurato, quando in inglese per descriverle si usa il termine landslide e quindi, mentre in Italia tutto “frana” (dalla borsa a un calciatore sopra un altro), oltremanica si deve quindi specificare che è proprio il terreno la cosa che scende in giù.
Queste circostanze naturali si accoppiano ad una densità di popolazione molto elevata.
Insomma, per le caratteristiche geomorfologiche e antropiche, il territorio italiano dovrebbe essere in Europa quello trattato con più attenzione e invece è quello più bistrattato. Ho riassunto la tristissima storia dei Piani di Bacino e dei PAI diversi anni fa. E da noi i geologi vengono intervistati a caldo dopo ogni disastro, ma poi… passato lo disastro gabbato lo geologo..
INVENTARIARE LE FRANE. Dopo aver notato che gli scienziati italiani sono ai massimi vertici mondiali nello studio delle frane (insieme non casualmente a cinesi continentali e di Taiwan e giapponesi: tutte nazioni con ampie referenze sul fenomeno…), il problema è il loro inventario, perché gli studi sulle frane presentano una contraddizione: da un lato aumentano i casi studiati, dall’altro ci sono pochi aggiornamenti su quelli già esaminati. Eppure le frane, come abbiamo visto, sono un fenomeno dinamico: stanno ferme, poi si muovono improvvisamente oppure possono accelerare improvvisamente e per un tempo anche molto breve, oppure ancora presentano un movimento lento e costante; ne consegue che anche il loro quadro sia dinamico e che una mappatura affidabile di pericolo e rischio frane dovrebbe fondamentalmente essere considerato un qualcosa da aggiornare il più frequentemente possibile. E anche, possibilmente, costruito con un criterio omogeneo in tutto il territorio nazionale.
Purtroppo le cose stanno in modo un po' diverso e la situazione in Italia è tristissima, non solo per le tante frane che ci sono, ma anche per la situazione del loro monitoraggio.
In ambito nazionale il primo studio sistematico sulle frane fu effettuato da Almagià per conto della Società Geografica Italiana nel 1910 (Almagià, 1910). Tuttavia è dagli anni ottanta che è stata riconosciuta nel nostro paese la grande importanza di una ricerca in proposito, culminata nel 2017 dalla presentazione del catalogo IFFI (il rapporto sulle frane in Italia, pubblicato dalla allora APAT)
Il progetto IFFI fu illustrato nel 2007 in un convegno. All’epoca furono censite 470.000 frane contro le 70.000 precedentemente accertate, passate qualche anno dopo a oltre 500.000, che rappresentavano circa il 70% delle frane di tutta Europa. Oggi sono ancora di più: 620.000 sulle 900.000 accertate in tutta Europa: la percentuale rispetto al resto d’Europa è rimasta più o meno identica (Herrera et al 2018).
Nelle intenzioni il catalogo doveva essere aggiornato ogni 2 anni. Inutile dire che per mancanza di fondi l’ultimo aggiornamento non è esattamente recente.
Ci sono poi varie raccolte dei Piani di Assetto Idrogeologico da parte delle autorità di bacino distrettuali e delle Regioni, ma i PAI sono costruiti con criteri parecchio diversi fra loro e per questo difficilmente armonizzabili. In teoria i PAI dovrebbero essere – comunque – in continuo aggiornamento almeno sulle perimetrazioni, che vengono modificarle in base a nuove evidenze da appositi decreti segretariali.
Ma le perimetrazioni sono un evento puntuale che non ci dice se e come il fenomeno si stia evolvendo. E invece come abbiamo visto, un catalogo delle frane oltre a fornire un quadro il più preciso possibile, dovrebbe essere continuamente aggiornato.
Nella carta vediamo la mosaicatura del rischio – frana dell’ISPRA nel 2017. La carta è solamente indicativa, come lo è quella del rischio alluvioni, perché è ottenuta dai dati contenuti nei vari PAI, che purtroppo non sono omogenei né come qualità né come distribuzione.
Attualmente ci sono due grossi problemi:
1. la disomogeneità dei Piani di Assetto Idrogeologico
2. la scarsità del personale: nel 2007 lavoravano all’IFFI 300 persone, fra APAT e Regioni. Oggi sono soltanto in 30!
Nel 2012 la conferenza Stato – Regioni chiese 7 milioni di euro per il suo aggiornamento, ma questa richiesta non ha avuto risposte ed è stata reiterata anche adesso, sperando che nel 2019 sia la volta buona che il governo la accolga.
I DATI SATELLITARI PER LO STUDIO DELLE FRANE: UN PRIMATO ITALIANO, MA ORA CI STANNO SUPERANDO. Dato il loro numero, è praticamente impossibile monitorare a terra tutte le frane che esistono in Italia. Una parte di esse comunque non dà rischi essendo in zone lontane da insediamenti e vie di comunicazione, ma parecchie altre mettono a rischio beni e persone eccome. Come possiamo In particolare i dati ottenuti con il radar interferometrico che è un sensore attivo (cioè emette l’onda e poi riceve) e può lavorare su frequenze alle quali le nuvole sono trasparenti; con queste caratteristiche è quindi possibile acquisire dati con continuità giorno e notte e con qualsiasi situazione meteorologica, mentre le loro orbite sono disegnate in modo da ripassare sulla stessa area ad intervalli di tempo frequenti e regolari. Per esempio, i satelliti Sentinel-1 dell’Agenzia Spaziale Europea forniscono sempre la stessa immagine a 6 giorni di distanza.
I dati satellitari possono quindi essere di grande aiuto, anche se purtroppo non sempre: per esempio con movimenti veloci, in direzioni particolari o su determinati versanti non sono rilevabili. Inoltre – giova ricordarlo – sono un ausilio che può dare un allarme o integrare la sorveglianza, ma una visita sul campo e monitoraggi a terra continuano ad essere indispensabili dove i rischi sono elevati.
L’Italia ha diversi primati in materia: le tecniche di elaborazione dei dati RADAR più interessanri sono italiane, con il PST – Piano Straordinario di Telerilevamento abbiamo dei buoni dati sui movimenti del terreno per l’epoca in cui sono stati presi (1995 - 2011), siamo stati i primi a monitorare una frana con il radar satellitare (Tofani et al, 2013) e la Regione Toscana è stata la prima al mondo a fornirsi di un monitoraggio preventivo RADAR di tutto il suo territorio.
Purtroppo il nuovo piano nazionale stenta a partire, e il mondo ci sta sorpassando: Francia e Regno Unito infatti hanno già avviato il programma a livello nazionale, mentre noi siamo ancora a livello di “presentazione all’industria”, avvenuta il 4 novembre
Non possiamo che augurarci di poter usufruire prima possibile anche noi del telerilevamento “permanente” del territorio nazionale e – devo dirlo – un po' mi brucia che altre nazioni ci siano passate avanti
Almagià (1910) Studi Geografici sulle frane in Italia. L’Ap- pennino Centrale e meridionale. Memorie della Società Geografica Italiana, 2, 14, Roma
Battistini et al 2013 Web data mining for automatic inventory of geohazards at national scale Applied Geography 43, 147-158
Canuti, Focardi and Garzonio (1985): Correlation between rainfall and landslides, Bulletin
International Association Engineering Geology, 32, 49–54, 1985.
Cruden e Varnes 1996: landslide types and process. In Landslide: investigation and mitigation – Transportation Research Board of the National Academy of Sciences
EMERGEO working group (2016) Coseismic effects of the 2016 Amatrice seismic sequence: first geological results Annals of Geophysics, 59, FAST TRACK 5, 2016; DOI: 10.4401/ag-7195
Herrera et al 2018: Landslide databases in the Geological Surveys of Europe Landslides 15/2, 359–379
Rosi et al 2015 Updating EWS rainfall thresholds for the triggering of landslides Nat Hazards (2015) 78:297–308A
Tofani et al (2013) Persistent Scatterer Interferometry (PSI) technique for landslide characterization and monitoring. Remote Sens. 5, 1045–1065