mercoledì 14 maggio 2025

un delta fluviale come in laboratorio, ma sul terreno



Il "delta" provocato dalla "mini-fiumara": si evidenziano i due delta,
 al centro il primo, che successivamente è stato poi abbandonato
 in favore di quello sulla sinistra 
Alle volte andare in giro per i monti fa vedere cose piuttosto curiose. In questo caso siamo sopra a La Panca, nel comune di Greve in Chianti, zona notoriamente a tasso alcolico di buona qualità, e dal punto di vista geologico morfologicamente piuttosto particolare,  dove il reticolo fluviale racconta di catture ispirate da movimenti tettonici, corsi d’acqua impostati su faglie e quant’altro.
L’area è nota dal punto di vista stratigrafico perché vi affiorano gli Scisti Policromi, soprattutto perchè siamo dove la cosiddetta “scaglia toscana” dei tempi che furono raggiunge i massimi spessori. È inoltre ben presente anche il sovrastante Macigno del Chianti, una tipica arenaria flyschoide.
Siamo a Montescalari, sopra la località detta "La Panca". Poco a NE di La Panca c’è Cintoia, località dove affiorano anche i calcari della Serie Toscana e dove noi, da studenti, abbiamo imparato a fare il rilevamento geologico.
Sulla riva di una pozzanghera lungo una strada parzialmente in trincea alimentata dalle piogge della notte precedente, si è formato un sistema fluviale in miniatura, che ricorda molto quelli prodotti in laboratorio. Il Macigno spesso si altera sgranandosi e in tale modo si forma un detrito sabbioso che si accumula sul terreno. E si, alle volte sembra di essere su una spiaggia e questo fa pensare alla ciclicità della natura: graniti che esumati in superficie sono stati erosi perdendo i loro grani, i quali trascinati dai fiumi sono diventati sabbie, a loro volta consolidate in arenarie le quali da ultimo alterandosi ritornano a formare sabbie. E in tutto questo, tenacissimi grani di zirconi di miliardi di anni continuano ad essere riciclati tra sedimenti, subduzioni e nuovi magmi che alterandosi li riportano in superficie.
In questo caso i grani derivati dal Macigno si sono accumulati sul fondo di questa strada.

Le forti piogge della notte precedente (oltre 50 mm, parecchio per queste parti ma non certo per la Liguria o l’Alta Toscana di Versilia, Riviera Apuana e bacini di Magra e Alto Serchio) hanno portato nella strada altro detrito e all’interno della strada stessa si sono formati dei piccoli rii che hanno trasportato i grani. In particolare la prima immagine evidenzia un delta che si è formato all’interno di una vasta buca riempita dall’acqua, delta che si staglia nettamente nella pozzanghera con una forma che ricorda proprio le conoidi lungo le rive dei laghi. 
Da notare che in realtà il delta è composto da due lobi, quello più avanti e uno più a sinistra: il secondo sembra essersi formato dopo il primo quando, diminuendo l’acqua che trascinava i grani il primo ha raggiunto una elevazione tale che la corrente non è più riuscita a scavalcarlo. Si notano anche i canali più recenti che vanno appunto verso il nuovo delta. Questo secondo delta ha ancora all'interno ben visibile il canale principale, che forse addirittura ha leggermente eroso un pò dei depositi, mentre la "linea di costa" del primo non evidenzia più a prima vista dei canali

Nella seconda immagine si vede invece come a monte del delta la sua alimentazione detritica provenga da quella che sembra proprio una fiumara in miniatura. Anzi, se non fosse per il martello che fornisce il riferimento per le dimensioni e per le piante sulla sinistra questa immagine potrebbe essere quasi spacciata per una ripresa di una fiumara dall’alto. Si vedono benissimo gli ultimi dei vari canali lungo i quali l'acqua si è mossa trascinando i sedimenti e come si è evoluto il loro reticolo. 
Insomma, un "modello naturale in scala" di quello che succede in Natura a scala "normale". 

la mini-fiumara vista "da valle": sono evidenti vatri canali
come realmene succede nelle fiumare 


venerdì 2 maggio 2025

Dopo oltre 60 anni dal Progetto Mohole, finalmente dovrebbe essere raggiunto con delle perforazioni il mantello terrestre


La discontinuità di Mohorovičić (universalmente nota semplicemente come “Moho”) divide la crosta terrestre dal mantello. Da quando il geofisico croato Andrija Mohorovičić la scoprì nel 1909, fra i vari sogni dei geologi c’è quello di arrivare direttamente al mantello. Negli anni ‘60 del XX secolo era stato lanciato il progetto Mohole (contrazione di Moho e Hole, insomma, un foro nella Moho). Ma ad oltre 60 anni da questa idea la Moho non è stata ancora raggiunta, nonostante l’ottimismo iniziale. Oggi dopo tutti questi decenni una nuova nave oceanografica cinese si appresta a coronare questi sogni e ha in programma di farlo entro il 2030. La domanda però è se questa Moho sarà rappresentativa non solo del mantello che si trova sotto gli oceani, perché quello continentale potrebbe avere una storia molto differente. Per risolvere la questione si dovrebbe appunto perforare la crosta continentale, ma la Moho attuale è troppo profonda; allora l’idea è quella di trovare una Moho fossile a bassa profondità. Questa seconda possibilità può essere realizzata proprio in Italia, in una zona alpina, la Ivrea – Verbano e c'è giusto un progetto in corso che sta carotando quell'area per arrivarci.

“Guarda! Quello non è basalto; è il mantello! Abbiamo attraversato il Moho! Ce l'abbiamo fatta!" Una dozzina di uomini sono ammassati attorno all'estremità di un pezzo di tubo sporco. Dalla sua estremità emerge lentamente un pezzo di roccia a forma di asta di circa due pollici di diametro. Le loro parole sono confuse e spazzate via dal vento, ma non c'è dubbio che questo sia un grande momento. Si danno colpi esuberanti sulla schiena come i vincitori di una scommessa azzardata.
La scena è il piano di perforazione di un'enorme torre di perforazione che è molto simile a quelle che punteggiano lo skyline delle zone petrolifere. I lavori di estrazione, gli ascensori, le pompe, tutto sembra uguale al solito, ma dov'è il supporto del tubo di perforazione? È steso per tutta la sua lunghezza sul terreno, no, sul ponte. Perché questa è una nave; l'intera enorme macchina ondeggia dolcemente mentre rotola con l'onda. L'orizzonte? Nuvole e acqua.

C'è un silenzioso pulsare di motori in profondità nella stiva, il fischio del vento nel sartiame e il ronzio di un cavo che scorre veloce, ma sopra di loro tutto è il suono emozionante della conquista: pochi istanti prima un pezzo di roccia lungo circa un piede è caduto con un tonfo dall'estremità del tubo in un vassoio semicircolare poco profondo. Quando è successo, un tizio bruciato dal sole in piedi accanto al vassoio si è improvvisamente inginocchiato sulla piattaforma fangosa della grande torre di perforazione, ha afferrato il frammento e lo ha immerso in un secchio d'acqua, strofinando via il fango della perforazione con le mani.
Quando la roccia è abbastanza pulita da renderne visibili i dettagli, il tizio la osserva attentamente. Intorno a lui si accalca parecchia gente e uno dei presenti offre una lente di ingrandimento da geologo.
"Cos'è? Cosa abbiamo?"
Dopo qualche istante un uomo che ha fatto un sacco di domande e preso appunti su un pezzo di carta piegato si allontana e si dirige alla macchina da scrivere nella cabina radio della nave per battere le notizie per il mondo: alle 10:45 di questa mattina, è stata raggiunta la Moho, il limite inferiore della crosta terrestre e l'Umanità ha visto per la prima volta dei campioni del materiale di base che compone la maggior parte della Terra, perché gli scienziati, che perforano nell'oceano profondo a mille miglia dalla costa messicana, sono riusciti a recuperare delle parti del mantello terrestre. Adesso finalmente sappiamo di cosa è fatta la terra".
Questo è quello che si è immaginato sarebbe successo da lì a pochi anni Willard Bascom nel 1961, in A hole in the bottom of the sea. In questo libro l’Autore spiega appunto il Progetto Mohole e cioè quello che è quasi un Santo Graal delle Scienze della Terra: perforare la crosta terrestre per arrivare al mantello e vedere come è realmente fatto (e qundi se le ipotesi che abbiamo siano più o meno reralistiche. Nel libro Bascomb approfondisce anche le tecniche scientifiche utilizzate per comprendere la struttura della Terra, tra cui sismologia e geodesia, e introduce i principi base della perforazione, come i tubi di risalita e i dispositivi anti-esplosione.
Per Bascom realizzare il progetto Mohole era solo una questione di soldi. Invece oltre 60 anni dopo la Moho non è stata ancora raggiunta e non tanto per i problemi finanziari del progetto Mohole i cui costi erano schizzati in alto in maniera impressionante, quanto per problemi tecnici.

Le onde sismiche che arrivano direttamente
 e quelle che arrivano dopo essere state riflesse dalla Moho
LA MOHO.
Il racconto con cui inizia il libro di Bascom è ambientato su una nave oceanografica, ed è una ambientazione logica in quanto la Moho sotto la crosta oceanica si trova a una profondità di 5-7 km, che diventano tra 25 e 70 sotto i continenti a seconda dell’area. Moho è il termine con cui comunemente nella letteratura scientifica e nello slang geologico si indica la discontinuità di Mohorovicich, dal nome del geofisico croato Andrija Mohorovičić che la scoprì nel 1909: analizzando i sismogrammi dei terremoti poco profondi Mohorovičić capì il motivo della presenza di due treni distinti di onde P e onde S: il primo treno arriva direttamente al sismografo dall’area di origine del sisma, il secondo invece vi arriva dopo essere stato riflesso da un mezzo in cui le onde sismiche vanno più veloci (appunto il mantello). La Moho quindi separa la crosta terrestre dal mantello, e il sogno di parecchi geologi è stato di sapere davvero la composizione del mantello. Questo livello ha implicazioni molto importanti per i processi della tettonica a placche perché si ritiene associato a importanti cambiamenti nella mineralogia e nella reologia. 

ONORE ALLA JOIDES RESOLUTION, AVANTI MENG XIAN. Il progetto Mohole fu abbandonato nel 1966, ma possiamo dire che in qualche modo ha dato il via al Deep Sea Drilling Project, il progetto che ha rivoluzionato la nostra comprensione dell’evoluzione dei fondali oceanici, grazie a navi in grado di effettuare carotaggi anche profondi dei loro fondali e non solo della parte sedimentaria. Il progetto ha cambiato nome diverse volte (adesso si chiama IODP3) e questo proposito ho parlato recentemente del massiccio di Atlantis, nell’oceano a largo del Portogallo, dove sono state campionate rocce che pur appartenendo alla crosta erano nel mantello e hanno fornito interessanti indicazioni sulla sua struttura.
La prima nave utilizzata per questo scopo è stata la Glomar Challenger, dal 1968 al 1983. 
Nel 1985 fu varata la Joides Resolution, che ha solcato i mari fino alla sua messa in disarmo nel 2024, dopo 40 anni di onorata carriera e non so quanti giri del mondo. Fra le ultime crociere dobbiamo registrare il log 402, che ha studiato il mar Tirreno (Zitellini et al, 2023) e di cui stanno per uscire i primi risultati.
Oggi di navi oceanografiche ce ne sono diverse (per l'IODP numerose campagne hanno avuto come protagonista la giapponese Chikyu) e fra queste ce n’è una cinese appena varata, la Meng Xian. Si tratta di una nave specificamente ideata per perforare (non dite "trivellare", per favore) la crosta oceanica e raggiungere il mantello, in grado di perforare fino a 11 km utilizzando una asta di perforazione in lega di titanio e una punta diamantata, che consentono una perforazione affidabile in ambienti ad alta temperatura e alta pressione.
Uno degli obbiettivi di questa nave è proprio quello di raggiungere e superare la Moho entro il 2030 (Sun et al, 2025).



la zona Ivrea - Verbano nel Permiano e oggi da Pistone et al, (2020)
QUESTO PER IL MANTELLO OCEANICO. E PER QUELLO CONTINENTALE?
Il mantello oceanico è molto giovane e deriva dall’attività di un margine divergente fra placche. Potrebbe quindi essere molto diverso da quello continentale ben più antico e che è stato interessato da molti altri processi. Ma come arrivare a profondità così elevate come quelle del mantello sotto i continenti? Attualmente il pozzo più profondo ha raggiunto circa 12.000 metri di profondità nella penisola di Kola, meno della metà del necessario. 
Ma esiste un’altra possibilità, trovare una Moho fossile, che per qualche motivo i fenomeni geologici hanno spinto verso l’alto. E questa Moho fossile si trova proprio in Italia: è la Zona Ivrea-Verbano, dove oltre alle parti più profonde della immensa caldera del vulcano della Valsesia, attivo nel permiano di 280 milioni di anni fa (Quick et al, 2009), all’interno di una serie di rocce originatesi nella crosta continentale inferiore si trova un corpo di composizione peridotitica (e quindi di composizione simile a quella del mantello). Quindi si tratta di una parte della crosta profonda che per una serie di vicissitudini tettoniche è ora esposta in superficie. Ma c’è di più: le analisi geofisiche hanno evidenziato la presenza a poca profondità di un corpo ad alta densità, conosciuto come corpo geofisico di Ivrea. Questo suggerisce che non solo la crosta profonda, ma anche una parte del mantello sia stata coinvolta nella risalita: insieme la Zona Ivrea - Verbano e il corpo geofisico di Ivrea sono stati interpretati come la crosta profonda e una parte di mantello della microplacca adriatica oggi incuneati nella crosta europea (Schmid e Kissling, 2000). È importante la  giacitura di questa sezione, che non è più verticale, ma è ruotata praticamente di 90 gradi, portando quindi in esposizione livelli che in origine si trovavano a profondità molto diverse fra loro. In particolare secondo Pistone et al (2020) il Corpo Geofisico di Ivrea conserva la struttura di un complesso igneo formatosi per la cristallizzazione nel mantello superiore di magmi mafici idrati. Quindi nella zona di Ivrea - Verbano esiste una vecchia Moho, rimasta tale anche se sradicata da dove era.
A questo proposito, sotto l’egida dell’ICDP (International Continental Scientific Drilling Program) è in svolgimento nella zona dell’Ivrea-Verbano il Progetto DIVE (Drilling the Ivrea-Verbano zonE), nato per esplorare la crosta inferiore continentale e la sua transizione nel mantello, con l’ausilio di perforazioni scientifiche. A questo link trovate tutto sul progetto DIVE
Gli scopi di questo progetto di perforazione, già in corso, è lo studio dei processi che si svolgono nella zona di transizione tra la crosta e il mantello, sfruttando la combinazione di indagini geologiche e perforazioni scientifiche. 
In conclusione, quindi si spera in pochi anni di avere dei campioni diretti del mantello terrestre, sia di quello oceanico che di quello continentale.

BIBLIOGRAFIA

Bascomb (1962) A Hole in the Bottom of the Sea – The Story of the Mohole Project. Doubleday & Company, Inc. 1961, Garden City, New York

Pistone et al (2020). Joint geophysical-petrological modeling on the Ivrea geophysical body beneath Valsesia, Italy: Constraints,on the continental lower crust. Geochemistry, Geophysics, Geosystems, 21, e2020GC009397.

Quick et al (2009). Magmatic plumbing of a large Permian caldera exposed to a depth of 25 km. Geology 37, 603-606

Schmid & Kissling (2000). The arc of the Western Alps in the light of geophysical data on deep crustal structure. Tectonics, 19, 62–85.

Sun et al (2025).The Moho is in reach of ocean drilling with the Meng Xiang. Nature Geoscience 18, 275–276

Zitellini et al (2023). Expedition 402 Scientific Prospectus: Tyrrhenian Continent–Ocean Transition. International Ocean Discovery Program. https://doi.org/10.14379/iodp.sp.402.2023


giovedì 24 aprile 2025

il terremoto del 23 aprile 2025 del Mar di Marmara e il gap sismico lungo la faglia nord anatolica


Il terremoto M 6.2 del 23 aprile 2025 del Mar di Marmara è avvenuto lungo una delle faglie più note al mondo, la faglia dell’Anatolia settentrionale. Il segmento del Mar di Marmara interessata dal terremoto è stato riconosciuto da diversi anni come sede di un gap sismico, come lo era il settore della faglia di Sagaing interessato dal terremoto del 28 marzo 2025, il che potrebbe far tirare un respiro di sollievo. Purtroppo se in Myanmar la Magnitudo è stata compatibile con quella ipotizzata dagli studi, nel mar di Marmara è stata molto minore di quanto ipotizzato e per questo probabilmente insufficiente a coprire il gap. In questo caso l’evento del 23 aprile non modifica le condizioni che prevedono la presenza di questo gap, con i relativi seri interrogativi sulla reazione degli edifici e delle altre strutture della città di Istambul.

L'Anatolia e le due faglie che la delimitano
GEODINAMICA DELLA TURCHIA. Al di là di una storia estremamente complessa nel passato, che determina all’interno dell’Anatolia la presenza di diversi blocchi che si sono scontrati fra loro, la tettonica odierna della Turchia è abbastanza semplice ed è dominata da due principali contesti deformativi: l’estensione del Mar Egeo a W e la spinta del blocco arabico da sud.
In particolare la spinta del blocco arabico che si incunea dentro l’Eurasia provoca uno “strizzamento” dell’Anatolia, che viene spinta verso ovest, principalmente attraverso due faglie trascorrenti:
  1. la faglia dell’Anatolia settentrionale: una delle più famose faglie al mondo, corre più o meno parallela al Mar Nero ed è ed è ben visibile anche nella immagine più sotto
  2. la faglia dell’Anatolia orientale, nella zona fra Turchia, Siria ed Iraq, balzata alle cronache per i terremoti del febbraio 2023
Le due faglie e il limite con la placca egea individuano quindi il blocco anatolico che ormai, dopo tutte le vicissitudini e le amalgamazioni passate, può essere considerato una microplacca a se stante.
Come succede spesso, queste faglie trascorrenti si impostano lungo una vecchia zona di convergenza fra placche e difatti:
  1. la faglia dell’Anatolia settentrionale è impostata lungo il margine convergente fra l’Eurasia e un microcontinente, quello delle unità Pontidi, staccatosi circa 200 milioni di anni fa dalla placca adriatica (tardo Triassico - primo Giurassico); l’apertura dell’oceano è durata poco (circa 30 milioni di anni) e poi i due blocchi si sono di nuovo scontrati
  2. la faglia dell’Anatolia orientale coincide con il margine fra la placca arabica e l’Eurasia (considerando la Turchia all’interno di quest'ultima) ed è stata fino a qualche decina di milioni di anni fa la zona di convergenza sotto la quale si consumava la crosta della Tetide, l’oceano mesozoico frapposto fra Eurasia e Africa / Arabia
Della faglia anatolica orientale ho parlato a proposito dei tragici terremoti del febbraio 2023.


il meccanismo focale del terremoto
del 23 Aprile 2025 
LA FAGLIA DELL’ANATOLIA E IL TERREMOTO DEL 23 APRILE. Il terremoto M 6.2 del Mar di Marmara del 23 aprile 2024 ha ovviamente registrato un movimento trascorrente lungo la faglia dell’Anatolia settentrionale. Come detto si tratta di una faglia trascorrente destra che separa la placca euroasiatica da quella anatolica. Questa struttura si estende per oltre 1500 km, tra la Fossa dell'Egeo Settentrionale nel Mar Egeo e la giunzione tripla Eurasia-Anatolia-Arabia nella Turchia orientale. I dati GPS indicano un movimento di poco superiore ai 20 mm l’anno (Parsons et al, 2000). La Faglia dell’Anatolia settentrionale non è una struttura continua, ma è suddivisa in vari segmenti, e quelli contigui si possono muovere simultaneamente durante i terremoti principali: ad esempio nel terremoto di Izmit del 17 agosto 1999 è stata interessata un’area lunga 145 km composta da ben cinque segmenti separati da zone di svincolo.

I TERREMOTI PIÙ RECENTI LUNGO LA FAGLIA DELL’ANATOLIA. Gli eventi sismici più recenti ad ovest di Istambul e del Mar di Marmara che hanno interessato la porzione occidentale della faglia dell’Anatolia sono avvenuti nel 1999: i terremoti M 7.2 di Düzce e M 7.4 di Izmit nel 1999, che hanno causato circa 18.000 vittime. 
A ovest di Istambul, nel mar di Marmara, l’ultimo terremoto importante è stato quello M 7.4 di Ganos nel 1912. 
Nel Mar di Marmara quindi si nota una lacuna sismica lungo un segmento lungo 150 km, la cui ultima rottura si presume sia avvenuta nel 1766, mentre tutti i segmenti terrestri della faglia marina dalla provincia di Erzincan nell'Anatolia orientale al Mar di Marmara si sono rotti negli ultimi 100 anni (Stein et al., 1997). Purtroppo essendo coperto dal mare, questo tratto non può essere studiato mediante dati satellitari InSAR e GPS e la presenza di vari segmenti rende difficile la modellazione dello stato di stress del fondo marino. L’immagine tratta da Lange et al (2019) evidenzia la situazione. Da notare nel riquadro oltre alla parte contraddistinta dal gap sismico, anche la progressione verso ovest dei terremoti principali tra il 1939 e il 1999. Questa progressione verso ovest sembra esistere anche nella faglia est-anatolica. 

L’EVENTO DEL 23 APRILE RISOLVE IL GAP SISMICO? PURTROPPO NON È DETTO. A questo punto la domanda che viene spontanea è se questo terremoto possa aver riempito il gap (scenario ottimistico) oppure no (scenario pessimistico). Quindi il caso negativo comporta che il "big one" dell'area debba ancora arrivare. Aochi e Ulrich (2015) hanno modellato le possibili rotture della sezione della faglia nord-anatolica all’interno del mar di Marmara. I risultati della simulazione, pur nell’incertezza della presenza di vari settori della faglia e di quanti possano essere interessati dal movimento, suggeriscono che la probabilità di un terremoto di magnitudo superiore a 7 sia elevata. La maggior parte di questi grandi eventi è caratterizzata da epicentri situati nella parte centrale o orientale del Mar di Marmara (insomma, vicini a Istambul).
il gap tra il terremoto del 1912 e quello del 1999: il terremoto del 23 Aprile
si colloca esattamente all'interno del gap. 
Notare nel riquadro sia il gap che la progressione degli eventi verso ovest

Tuttavia, non si può escludere la possibilità di una rottura con inizio molto a est (al limite con la zona interessata dal terremoto del 1999) che si propaghi verso ovest, che sarebbe lo scenario peggiore per la città e la sua regione. Questo perché molte simulazioni hanno portato a rotture molto estese, come è successo con gli oltre 140 km del terremoto di İzmit.
Tutti questi dati pongono enormi interrogativi visto che se la progressione degli epicentro verso ovest continua il settore del Mar di Marmara è geograficamente quello più prossimo ai due settori interessati dai terremoti del 1999, e si parla di un’area dove la sola Istambul conta 16 milioni di abitanti e dove in tempi recenti le prestazioni di diverse costruzioni in caso di terremoti si sono rivelate insoddisfacenti.
A questo si deve aggiungere le possibilità di uno tsunami, visto che sebbene di limitate dimensioni, uno tsunami ha colpito le coste anche oggi.


BIBLIOGRAFIA CITATA

Aochi e Ulrich (2015). A probable earthquake scenario near Istanbul determined from dynamic simulations. Bull. Seismol. Soc. Am. 105, 1468–1475

Lange et al (2019). Interseismic strain build-up on the submarine North Anatolian Fault offshore Istanbul. Nature Communications (2019)10:3006

Parsons et al (2000). Heightenined odds of large earthquake near Istanbul: an interaction-based probability calculation. Science 288, 661–666

Stein et al (1997). Progressive failure on the North Anatolian fault since 1939 by earthquake stress triggering. Geophys. J. Int. 128, 594–604

lunedì 14 aprile 2025

La cementazione della parte più profonda dei pozzi di reiniezione come provvedimento a successo per riduzione della sismicità indotta dalla reiniezione dei fluidi pompati insieme agli idrocarburi in Oklahoma


Torno dopo una decina di anni a parlare dell’Oklahoma e dei terremoti indotti dalla reiniezione in profondità dei fluidi derivati dall’estrazione di idrocarburi. Dopo che è stata evidenziata la correlazione fra terremoti e reiniezione i principali provvedimenti adottati dalle autorità dopo gli eventi sismici più importanti sono consistiti nella chiusura di alcuni pozzi di reiniezione e/o limitazioni nel tasso di smaltimento in altri. Con l’evidenza della correlazione fra la vicinanza della zona di reiniezione al basamento metamorfico, in Oklahoma è iniziata la cementazione della parte più profonda dei pozzi in modo da evitare che i fluidi reiniettati si fermassero nella loro discesa lontani dal basamento e dalle sue faglie. Un nuovo studio, modellando la sismicità, ha dimostrato la validità dei provvedimenti presi dal governo di questo Stato, in particolare la cementazione dei pozzi nei sedimenti cambriani del gruppo di Arbuckle, che sono quelli più vicini al basamento. 

in rosa l'area studiata da Skoumal et al (2024) e l'evolversi della sismicità

IL PROBLEMA DELL’ACQUA ESTRATTA INSIEME AGLI IDROCARBURI. I fluidi provenienti dalle attività di estrazione di idrocarburi si dividono grossolanamente in due categorie:
  1. nelle coltivazioni tradizionali di idrocarburi le cosiddette acque di strato: i fluidi che vengono vengono estratti insieme a petrolio e gas dai pozzi petroliferi 
  2. quando si usa invece la tecnica del fracking, una parte dei fluidi immessi in pressione nella roccia torna indietro e deve essere smaltita (i fluidi di “flow-back”)
Il volume delle acque di strato varia da giacimento a giacimento ed è particolarmente notevole in Oklahoma e nel Texas. Ad esempio nel texano Permian Shale a fronte di 6,5 milioni di barili al giorno di idrocarburi ne vengono prodotti 20 di acque reflue, dove 20 milioni di barili è pure la quantità di petrolio equivalente utilizzata in tutto gli USA. Il problema è che non solo le acque di strato sono fino a nove volte più salate dell'acqua di mare, ma sono spesso caratterizzate anche dalla presenza di livelli elevati di benzene e altri idrocarburi, tracce di petrolio, metalli pesanti, materiali radioattivi naturali e persino elementi oggi essenziali come il litio. Nel caso delle acque di flowback del fracking poi, si aggiungono pure composti chimici di sintesi quali acidi ed altri. È chiaro ed evidente come queste acque non possano essere rilasciate nell’ambiente e debbano quindi essere smaltite in qualche modo, una questione sempre più impattante per gli operatori e gli enti regolatori, sia pure in un clima non certo sfavorevole al settore da parte della classe politica statunitense. 
La depurazione sarebbe la soluzione più ovvia, ma ha un costo talmente elevato da essere ritenuta almeno nel sudovest degli USA economicamente insostenibile e desta pure parecchie perplessità dal punto di vista ambientale. Pertanto reiniettare queste acque nel sottosuolo in migliaia di pozzi di smaltimento per stoccarle in formazioni geologiche adatte allo scopo è attualmente la soluzione migliore. 
Purtroppo, come è noto, questa pratica sta aumentando in maniera preoccupante la sismicità in alcune delle zone dove viene effettuata. In attesa quindi di una nuova tecnologia in grado di trattare queste acque reflue super salate in modo economicamente e ambientalmente sostenibile, si rende necessario implementare delle soluzioni per diminuire la sismicità, come è successo in Oklahoma settentrionale e nel Kansas, dove la diminuzione del tasso di iniezione ha ridotto il numero di terremoti indotti. 

LA SISMICITÀ DA REINIEZIONE IN OKLAHOMA. L’Oklahoma ha una lunga tradizione di sismicità indotta dalle attività di coltivazione di idrocarburi (l’ho ripercorsa qui). Come ho spesso fatto notare, solo in pochissimi e noti casi la sismicità è direttamente collegata al fracking; fra questi ci sono proprio alcuni casi nell’Oklahoma meridionale, nei Woodford Shales, che come si vede dalla carta della prima figura sono situati a sud-ovest e a sud-est di quest'area (Skoumal et al., 2018), e non sono al centro dello studio di cui sto parlando. Nella stragrande maggioranza dei casi infatti, come in Oklahoma, i terremoti sono correlati alla reiniezione dei fluidi. Il fenomeno è in drammatico aumento in aree degli Usa che ne erano sostanzialmente prive ed è un problema piuttosto importante con cui le autorità devono confrontarsi.
Dopo una serie di studi è stato accertato che l’aumento della sismicità è stato causato dalla reiniezione di acque reflue derivante dalla produzione di petrolio e gas, a causa dell’aumento della pressione dei pori nelle zone di faglia, al quale corrisponde una diminuzione dell’attrito che le teneva ferme (Frohlich,2012) (ne ho parlato qui). È il più classico esempio di sismicità indotta dalle attività antropiche. 
In Oklahoma la situazione è stata estremamente difficile, con un drammatico aumento dell'attività sismica tra il 2009 e il 2015. Tuttavia, gli sforzi normativi per riempire alcuni pozzi di iniezione con cemento e ridurre i volumi di iniezione sono stati efficaci nell'abbassare il tasso di terremoti indotti nello Stato. 

in alto la produzione di petrolio dell'Olkahoma, in basso i terremoti. 
È evidente il crolo della simicità dopo le operazioni di cementazione
dei pozzi, soprattutto nella parte inferiore del gruppo di Arbuckle
L’AUMENTO DELLA SISMICITÀ TRA KANSAS E OKLAHOMA FINO AL 2015. Non è soltanto il Texas occidentale ad essere particolarmente flagellato dal problema: nel nord dell'Oklahoma e nel sud del Kansas tra il 1973 e il 2007, sono stati registrati soltanto sette terremoti di magnitudo ≥ 3 e come si vede dalla seconda figura, dopo il 2007 il loro numero è aumentato a dismisura fino ad un massimo di 940 nel 2015. Ci sono stati anche cinque terremoti con Mw ≥ 5, il primo a Prague nel 2011 - Mw 5.7, poi il massimo nel 2016 con quelli Mw 5.1 di Fairview, Mw 5.8 di Pawnee, Mw 5.8 di Cushing. La figura evidenzia anche come dal 2016 la sismicità sia diminuita notevolmente, nonostante l'aumento della produzione di petrolio, ma attualmente (2024) l’attività in corso è ancora ben al di sopra del tasso di fondo precedente: tra il 2019 e il 2023, mediamente si verificano oltre 20 terremoti di magnitudo ≥ 3 all'anno nell'area e addirittura dopo ben 8 anni dai precedenti così forti, nel 2024 è avvenuto un nuovo evento a Prague di M 5.1. 
È stato accertato che la stragrande maggioranza di questi recenti terremoti è stata indotta dallo smaltimento delle acque reflue nei sedimenti del gruppo di Arbuckle: sono carbonati con inframmezzate delle arenarie, deposti fra Cambriano e Ordoviciano in acque poco profonde sopra i primi e sottili sedimenti che ricoprono il basamento metamorfico di circa 1.400 milioni di anni fa. Siccome il gruppo di Arbuckle si è deposto prima della differenziazione nell’area fra Texas, Kansas, Oklahoma e Arkansas in vari bacini sedimentari paleozoici, questi sedimenti del gruppo di Arbuckle sono quindi alla base di varie successioni sedimentarie differenti note per il loro contenuto di idrocarburidi bacini come Anadarko, Ardmore e Arkoma. 
Ritornando in Oklahoma sopra il gruppo di Arbuckle si è deposta una spessa serie sedimentaria estesa su gran parte dello Stato e di quelli limitrofi che comprende alcune delle più importanti formazioni contenenti idrocarburi, come i Woodford shales del Devoniano e i calcari del Mississippi del Carbonifero. Questi ultimi in particolare sono caratterizzati da un non trascurabile rapporto volumetrico tra acqua e idrocarburi di circa 10:1 (Mitchell e Simpson, 2015): insomma insieme agli idrocarburi viene pompata molta più acqua della media.
È quindi necessario smaltire in profondità un volume enorme di fluidi che non possono certo essere scaricati in superficie. Trasporto e smaltimento di così grandi quantità di fluidi possono rappresentare un onere economico mica da poco, ma nell’Olkahoma i sedimenti del gruppo di Arbuckle, diverse centinaia di metri sottostanti a quelli che forniscono gli idrocarburi, sembravano fatti apposta per questo scopo, avendo una permeabilità elevata: in buona sostanza i fluidi immessi possono fluire rapidamente via dal pozzo, lasciando spazio a nuove iniezioni e sono usati in tutti i bacini delle cui serie fanno parte. A causa dell'aumento delle attività di produzione di idrocarburi dal 2010, i tassi di smaltimento nell'Arbuckle sono aumentati e il tasso di terremoti pure. Il picco del tasso di iniezione è stato raggiunto nel 2015. Negli anni successivi al calo del tasso di iniezione è stato osservato un corrispondente calo del tasso di sismicità (Langenbruch et al., 2018). 

PROVVEDIMENTI DELLE AUTORITÀ E MODELLIZZAZIONE DELLA SISMICITÀ. Skoumal et al (2024) hanno esaminato i fattori responsabili della diminuzione della sismicità indotta dallo smaltimento delle acque reflue, fornendo un ulteriore supporto all'idea che la riduzione della profondità dell'iniezione di acque reflue possa ridurre l'attività sismica in quanto si evita l’aumento della pressione idrostatica nelle faglie del basamento metamorfico e della parte bassa della serie sedimentaria. Queste faglie, in genere subverticali, interessano sia il basamento metamorfico che la parte più bassa della serie sedimentaria, contraddistinta appunto dal gruppo di Arbuckle (Kolawole et al,2020) sono state attive essenzialmente durante l’orogenesi di Ouachita, equivalente alla orogenesi varisica in Europa, oroginatasi dallo scontro fra Carbonifero e Permiano fra Euroamerica e il bordo settentrionale del Gondwana, nei settori che poi sono diventati il Sudamerica e l’Africa. Queste faglie non sarebbero dunque più attive da un bel pezzo, ma appunto la riduzione dell’attrito dovuta all’aumento della pressione dei pori ne ha provocato la nuova mobilitazione. 
la modellistica di Skoumal et al (2024) evidenzia come senza
la cEmentazione dei pozzi la diminuzione della reiniezione
da sola non sarebbe stata sufficiente per diminuire la sismicità
Riconosciuta l’origine della sismicità, a partire dal 2015, la Oklahoma Corporation Commission (OCC) ha emanato 33 direttive relative alla mitigazione della sismicità indotta dallo smaltimento delle acque reflue. Tali direttive spaziavano da ordini regionali per ridurre i volumi in tutto l'Oklahoma a ordini mirati in risposta a singole sequenze di terremoti. Ad esempio, in seguito al terremoto di magnitudo 4.5 di gennaio 2022 vicino a Clyde sono stati chiusi sette pozzi entro circa 10 km dall’epicentro e è stata ridotta la portata di reiniezione del 50% in altri 15, situati entro circa 16 km. In seguito al terremoto di magnitudo 5.8 di Pawnee del 2016, sono stati chiusi 32 pozzi e ridotte le portate in altri 35 che nelle contee di Pawnee e Osage iniettavano nell'Arbuckle. 
La stessa OCC e la corrispondente autorità del Kansas hanno inoltre imposto il riempimento con cemento dei pozzi che iniettano nella parte basale del gruppo di Arbuckle in modo che l’iniezione avvenga in formazioni più superficiali. 
La modellistica di Skoumai et al (2024) ha dimostrato che se la cementazione avesse interessato solo la metà dei pozzi il tasso di sismicità del 2024 in Oklahoma sarebbe stato circa 2,5 volte maggiore rispetto allo scenario attuale, valore che sarebbe stato addirittura di 4,4 volte maggiore senza prendere alcun provvedimento del genere.
A dimostrazione di tutto questo, dove questa operazione non è stata effettuata, ad esempio nel bacino del Permiano del Texas occidentale (salito alla ribalta petrolifera negli ultimi anni) e del Nuovo Messico sud-orientale la sismicità è in aumento, fino a raggiungere il livello di sei terremoti di magnitudo 5 e superiori dal 2020. 
Quanto realizzato in Oklahoma quindi potrebbe consentire anche in queste zone la mitigazione della sismicità indotta. 

BIBLIOGRAFIA 

Frohlich (2012). Two-year survey comparing earthquake activity and injection-well locations in the Barnett Shale, Texas. PNAS 109;13934–13938

Kolawole et al (2020). Basement‐controlled deformation of sedimentary sequences Anadarko Shelf Oklahoma. Basin Research 32,1365–1387.

Langenbruch et al (2018). Physics-based forecasting of man-made earthquake hazards in Oklahoma and Kansas. Nat. Comm. 9, no. 1, 3946,

Mitchell e Simpson (2015).  A regional re-evaluation of the Mississippi Lime Play, South-Central Kansas: The risks and rewards of understanding complex geology in a resource play. SPE/AAPG/ SEG Unconventional Resources Technology Conference, URTEC, URTEC-2154477

Skoumal et al (2018). Earthquakes induced by hydraulic fracturing are pervasive in Oklahoma. J. Geophys. Res. 123, no. 12, 10–918

Skoumal, et al (2024). Reduced Injection Rates and Shallower Depths Mitigated Induced Seismicity in Oklahoma. The Seismic Record. 4(4), 279–287





lunedì 7 aprile 2025

il caldo del 2024 è stato superiore alle attese: la probabile influenza della diminuzione delle nubi basse


È per me un onore moderare il 9 aprile a Firenze, alla biblioteca delle Oblate (ore 21) e anche  in diretta streaming (link in fondo al post), la presentazione del libro di Giulio Betti, meteorologo del LAMMA “ha sempre fatto caldo”. Non scrivo la recensone del libro, a cui ha già provveduto l’amico Giacomo Milazzo (la trovate qui). Però per presentare la conferenza introduco un problema su cui i climatologi stanno discutendo in questi mesi e cioè che la combinazione di aumento di CO2, El Niño e ciclo solare intenso non bastano a spiegare il deciso aumento delle temperature degli ultimi 2 anni e quindi sono in corso delle valutazioni in merito (e purtroppo come al solito il riscaldamento è superiore a quello dei modelli). Un editoriale su Nature Geosciences di marzo propone come causa del problema la diminuzione delle nubi basse, a causa della quale arriva sulla superficie una maggior percentuale di radiazione solare. Sono in corso le ricerche sul motivo di questa diminuzione, anche perché è neessario capirlo per adeguare le modellazioni climatiche. 

EL NIÑO E IL CALDO DEGLI ULTIMI 2 ANNI. Nonostante la drammatica ondata di freddo che ha colpito gli Stati Uniti, dove ovviamente i climascettici hanno gridato a forza che il riscaldamento globale è una bufala, a gennaio 2025 la temperatura media globale della superficie ha raggiunto 1,75 °C in più rispetto al clima preindustriale, stracciando il record precedente ed estendendo ulteriormente il periodo di calore eccezionale iniziato nel 2023, che ha visto battuti quasi dappertutto i record mensili della media delle temperature (Copernicus, 2025).
Sicuramente in questo record c’è lo zampino della ENSO, meglio nota come El Niño Southern Oscillation. La ENSO rappresenta sicuramente una delle principali fonti di variabilità climatica naturale quindi – tanto per rinfrescare le idee – descrivo le 3 fasi in cui consiste:

1. EL NIÑO: un riscaldamento della superficie oceanica dell'Oceano Pacifico tropicale centrale e orientale:
• le temperature superficiali del mare diventano superiori alla media
• i venti a bassa quota, che normalmente soffiano da est a ovest lungo l'equatore (i venti orientali) si indeboliscono o, addirittura iniziano a soffiare nella direzione opposta (da ovest a est o "venti occidentali")
• tendenza alla diminuzione delle precipitazioni in Indonesia

2. LA NIÑA: la superficie oceanica dell'Oceano Pacifico tropicale centrale e orientale si raffredda:
• nell'Oceano Pacifico tropicale centrale e orientale le temperature superficiali del mare diventano inferiori alla media,
• i classici venti orientali lungo l'equatore diventano ancora più forti.
• in Indonesia piove più del normale, mentre sull'Oceano Pacifico tropicale centrale piove meno del normale

3. FASE NEUTRALE (non siamo né in El Niño né nella Niña, è lo stadio – diciamo così – normale): nell'Oceano Pacifico tropicale centrale e orientale le temperature superficiali del mare sono generalmente vicine alla media, come le piogge. Questo anche se talvolta l'oceano può sembrare in stato di El Niño o La Niña, ma l'atmosfera non lo è (o viceversa).

Comunque gli effetti della ENSO si fanno sentire a livello globale esi registrano in genere temperature globali maggiori durante la fase di El Niño, che invece diventano minori durante la Niña. Variano anche un po' in giro anche i regimi delle precipitazioni.


2023-2024: NON SOLO EL NIÑO.
Bene: l'impennata di temperatura nel 2023 era in parte prevista a causa del sommarsi della componente del cambiamento climatico antropico con quella apportata da El Niño. Il problema è che l'entità del salto è stata sorprendente, perché molti climatologi si aspettavano un calo delle temperature nella seconda metà del 2024, alla conclusione della fase di El Niño della ENSO.
Questo non è successo e difatti anche a Gennaio 2025 abbiamo raggiunto un nuovo e non previsto record (come purtroppo succede di frequente, le previsioni sulle temperature si rivelano ottimistiche rispetto alla realtà). Insomma, la combinazione fra fase di El Niño della ENSO (sia pure particolarmente forte) e l'aumento continuo del tenore atmosferico dei gas serra può spiegare solo una parte del recente picco di temperature. Ovviamente come fa notare un editoriale su Nature Geoscience di marzo (redazione Nature Geosciences, 2025) la cosa ha sollevato pesanti interrogativi sul tasso di cambiamento climatico in corso. In particolare la domanda è se all’aumento dei gas serra si sia affiancata una variante naturale o si tratti soltanto di un'accelerazione del riscaldamento antropogenico.
Di sicuro l’atmosfera è un sistema molto complesso in cui non sono solo i gas-serra a controllare le temperature, anche se in questo momento il rilascio di CO2 antropico è sicuramente il maggiore driver del loro aumento.

Vediamo quindi alcuni fattori che potenzialmente hanno portato a questo anomalo perdurare di temperature record:
• innanzitutto le azioni antropiche che influenzano il clima in molti modi diversi dal rilascio di anidride carbonica, ad esempio attraverso l'emissione di forzanti climatici di breve durata come gli aerosol. 

Per quanto riguarda le cause naturali ne sono state individuate diverse:
  • una potrebbe essere la nota eruzione dell’Hunga Tonga-Hunga Ha'apai, la quale nel 2022 ha lanciato circa 150 milioni di tonnellate di vapore acqueo nella stratosfera. Dato che anche il vapore d’acqua è un gas – serra, tale quantitativo potrebbe aver contribuito al calore del 2023. Tuttavia, alcuni studi suggeriscono che l'eruzione abbia avuto un effetto di raffreddamento netto dovuto al rilascio di biossido di zolfo, che formando aerosol nella stratosfera bloccano parte della radiazione solare (Millán et al, 2022), come succede normalmente: è noto come le esplosioni vulcaniche in area equatoriale provochino un raffreddamento negli anni successivi (ne ho parlato qui) e quella del 2022 non ha quindi fatto eccezione.
  • il recente aumento dell'attività solare mentre ci avviciniamo al massimo solare quest'anno potrebbe anche aver contribuito in piccola parte al riscaldamento. 

Ovviamente dobbiamo registrare l’aria tronfia dei climascettici, prontissimi ad abbracciare la tesi “Hunga Tonka + attività solare” escludendo ovviamente il CO2. Ma come al solito la inconsistenza delle loro idee viene confermata dai dati.
In realtà il contributo di queste cause è stato negativo nel primo caso, mentre appunto una piccola componente dovuta al ciclo solare ci può stare. 
Quindi sembra ancora mancare una fonte di calore. E la risposta potrebbe trovarsi nelle nuvole. 


le nubi come tracce celle navi
IL PROBLEMA DELLE NUBI BASSE
. Qui entra in gioco l’albedo, una grandezza estremamente importante nel bilancio termico dell’atmosfera e cioè la frazione di radiazione solare che viene riflessa da una superficie e quindi la capacità di NON trasformare la radiazione in calore; ad esempio una automobile bianca al sole si riscalda meno di una nera perché respinge più radiazione (o ne assorbe meno) di una scura.
Nel 2023 le nubi basse nelle latitudini medie settentrionali e nei tropici si sono ridotte. Siccome le nubi riflettono la luce solare in arrivo, maggiore è la loro estensione, maggiore è l’energia solare che riflettono e che quindi non arriva in superficie. La loro diminuzione ha comportato quindi una minore riflessione della radiazione solare in arrivo e, di conseguenza, temperature superficiali più calde. Questo effetto di riscaldamento è potenzialmente sufficiente a colmare il divario e spiegare le alte temperature del 2023 (Goessling et al, 2025). 

Dopo aver trovato l’agente protagonista di questa componente che si è innestata accanto alle emissioni di gas-serra e alla fase di El Niño della ENSO, il perché di questo calo della copertura nuvolosa non è ancora chiaro. Ci sono 3 alternative:

1. VARIABILITÀ NATURALE: i cambiamenti nelle nubi basse sono semplicemente dovuti alla variabilità naturale, e quindi prima o poi (auspicabilmente prima) riaumenteranno e il loro contributo al riscaldamento globale tornerà ad essere negativo. Lo farà?

2. MENO EMISSIONI DALLE NAVI: . la riduzione delle nubi potrebbe essere collegata alle nuove normative internazionali sul carburante per le spedizioni implementate nel 2020, volte a ridurre le emissioni di zolfo. Queste emissioni possono aumentare la luminosità delle nubi basse marine agendo come nuclei di condensazione delle nubi, con conseguente formazione di lunghe nubi altamente riflettenti note come "tracce delle navi" (nella foto). Le nuove normative avrebbero quindi portato a una riduzione di queste tracce e quindi di nubi basse, anche se non proprio naturali (Gettelman et al, 2024). Se è così, allora paradossalmente l’uso di carburanti “ambientalmente migliori” potrebbero aver provocato degli effetti indesiderati

3. DIMINUZIONE A CAUSA DELL'INNALZAMENTO DELLA TEMPERATURA: se la seconda pare brutta, la terza è ancora peggiore: la copertura nuvolosa bassa diminuisce con l'aumento della temperatura. Quindi più la superficie terrestre si scalda, meno nubi basse si formano, contribuendo ulteriormente al riscaldamento.

Di fatto il modo in cui le nubi rispondono al riscaldamento rimane una delle maggiori incertezze nella comprensione della risposta climatica alle emissioni di anidride carbonica e un forte feedback da parte delle nubi basse potrebbe portare a un riscaldamento futuro maggiore di quanto attualmente previsto. Delle tre cause in questo momento sembrerebbe più realistica la seconda.
Quanto meglio comprendiamo come i fattori umani e naturali si combinano per produrre variabilità climatica a breve termine, tanto più solidamente possiamo limitare la risposta a lungo termine all'anidride carbonica. Da questo si capisce che fino a quando il “peso” della componente “nubi basse” non sarà chiarito (tantomeno le cause della loro variazione) le modellazioni potranno contenere importanti errori e quindi è assolutamente necessario comprendere la complessa interazione tra il riscaldamento causato dai gas serra e la variabilità climatica a breve termine.

La diretta streaming della presentazione del libro sarà visibile a questo indirizzohttps://www.caffescienza.it/programma-2024-2025/ha-sempre-fatto-caldo

BIBLIOGRAFIA

COPERNICUS (2025) January 2025 was the warmest on record globally, despite an emerging La Niña. Copernicus  https://climate.copernicus.eu/copernicus-january-2025-was-warmest-record-globally-despite-emerging-la-nina

Gettelman et al. (2024). Has reducing ship emissions brought forward global warming? Geophysical Research Letters, 51, e2024GL109077 

Goessling et al (2025). Recent global temperature surge intensified by record-low planetary albedo. Science387,68–73 

Millán et al (2022). The Hunga Tonga-Hunga Ha'apai Hydration of the Stratosphere. Geophysical Research Letters, 49, e2022GL099381. 

Redazione Nature Geoscience (2025) Rising temperatures. Nat.Geosc. 18/3, 199

Schmidt (2024). Why 2023’s heat anomaly is worrying scientists. Nature 627,467
 

venerdì 28 marzo 2025

il terremoto del 28 marzo 2025 in Myanmar, la storia della faglia di Sagaing e la geodinamica dell'area


la sismicità del Myanmar e delle aree limitrofe 
Il terremoto M 7.7 del 28 marzo 2025 nei pressi di Mandalay in Myanmar è stato seguito da numerose repliche. Particolarmente importante 12 minuti dopo la scossa principale un evento M 6.4, che avrebbe fatto anche esso parecchi danni di suo. Le notizie sono ancora molto frammentarie a 3 ore dall’evento, ma c’è il rischio che la forte replica abbia dato il colpo di grazia a delle strutture già pesantemente danneggiate e il numero dei morti sarà enorme. Come si vede dalle agenzie, il terremoto ci sono stati dei gravi danni persino a Bangkok, a circa 10000 km di distanza. La storia della faglia di Sagaing, lungo la quale si è generato il terremoto, è molto interessante: la classica trascorrente che prende il posto di un fronte di convergenza fra placche. inoltre una parte del segmento di faglia interessato dall'evento odierno era già stata individuata come un importnte gap sismico. 

In Myanmar i terremoti, molto frequenti, si verificano in due fasce sismiche principali, la prima lungo la pianura centrale e la seconda ad ovest di essa. Queste due fasce presentano due regimi tettonici differenti, sempre comunque inquadrabili nella geodonamica dell’area, la parte più orientale dell’orogene alpino – Himalayano a causa della collisione fra la placca indoaustraliana e quella euroasiatica, fra le quali sono interposte altre placche minori interposte (o ex placche, ormai integrate nell’Eurasia, i cui limiti comunque continuano ad essere attivi come succede in tutta l’Asia, dal Caucaso alla Siberia).

I BLOCCHI IN GIOCO NELLA REGIONE BIRMANA.
La regione del Myanmar non ha subito le deformazioni incredibilmente importanti del settore Himalayano e anche se in effetti c’è una subduzione attiva (come si vede dalla profondità dei terremoti) la placca continentale attualmente in subduzione penetra solo a una profondità di circa 100 km.

Grossolanamente la regione si può dividere in tre blocchi:
  1. l'altopiano di Shan a est,
  2. la pianura centrale al centro
  3. la catena indo-birmana a ovest
L'ALTOPIANO DI SHAN appartiene al blocco di Sibumasu, che segna il margine continentale meridionale dell'Asia. Nel Mesozoico il blocco di Sibumasu si è staccato dal Gondwana: i dati sugli zirconi contenuti nei suoi sedimenti paleozoici fanno ritenere che si trovasse tra l’Australia di SW e la Terra della Regina Maud in Antartide. In seguito il suo limite NE si è scontrato contro il blocco indocinese lungo la sutura di Cangning-Menglian (Liu et al, 2018). 
LA PIANA CENTRALE BIRMANA fa parte del blocco della Birmania Occidentale, che si è scontrato con Sibumasu: gli ultimi lavori come vedremo indicano per la fine della collisione un’età terziaria, mentre in quelli precedenti era posta nel Cretaceo. Da quando la convergenza, che di suo era già abbastanza obliqua, non è più attiva, il vecchio limite di placca ha continuato a svolgere un ruolo di superficie di debolezza e si è trasformato nella faglia di Sagaing, una delle faglie trascorrenti più lunghe (oltre 1.500 km) e attive al mondo: posta tra l’Himalaya e il mare delle Andamane, è in qualche modo il prolungamento della sutura dell’Indo, come si vede dalla carta di Taylor e Lin, 2009).
LA CATENA INDO-BIRMANA, a est della piana centrale birmana, è un classico prisma di accrezione in un ambiente di collisione fra placche, in questo caso con la placca indo-australiana che scorre sotto il blocco del Myanmar occidentale. La presenza di una subduzione ancora attiva è testimoniata dai terremoti profondi (quelli in verde) nella prima figura, una carta tratta dall’IRIS Earthquake Browser.

la faglia di Sagaing: confronto fra i gap sismici individuati
da Hurukawa e Maung Maung (2011)
e il segmento interessato dal movimento il 28 marzo
LA FAGLIA DI SAGAING
. E veniamo alla protagonista della tragedia che stiamo vivendo adesso: la faglia di Sagaing. È una faglia trascorrente drammaticamente importante visti i suoi 1500 km di lunghezza e visto cosa è capace di fare, eppure è meno famosa di altre strutture simili responsabili di devastanti terremoti come la faglia di San Andreas, le faglie Anatoliche settentrionale e orientale, la Linea Mediana Giapponese e quella di Enriquillo – Plantain Garden. A parte forse l'ultima condividono insieme alla faglia di Althin-tagh, al limite fra il Tibet e il bacino del Tarim e probabilmente nota più ai geo-NERD che al grande pubblico, l'essere state in precedenza un limite compressivo. Questo perché, passata la collisone, rimangono linee preferenziali di debolezza e quindi svincoli preferenziali di deformazione anche dopo la collisione finale fra i blocchi che si erano scontrati. E questo non solo se la geodinamica che ha generato quegli scontri continua, ma anche decine se non centinaia di milioni di anni dopo, dinanzi ad un nuovo quadro tettonico (Heron et al 2016). In Sicilia dovrebbe "funzionare" così la faglia Kumeta - Alcantara. 
Nello specifico la faglia di Sagaing compensa più della metà del movimento laterale destro tra l’Asia sudorientale e l’India all'interno del confine diffuso fra la placca Indoaustraliana e quella Euroasiatica (in particolare la Cina Meridionale).
Il tracciato di questa faglia è contrassegnato da scarpate topografiche, anomalie gravitazionali e una importante sismicità la cui pericolosità era notissima a causa della presenza lungo il suo tracciato di milioni di persone.
Ho detto che è meno conosciuta ma ha una storia sismica di tutto rispetto: dal 1930 al 2021 Hurukawa e Maung Maung (2011) contano lungo la faglia 15 eventi con Magnitudo da 6.0 in su, di cui 6 di M 7.0 e oltre. Scusate se è poco. Gli stessi come si vede dalla carta avevano inoltre identificato due gap sismici preoccupanti. Ebbene, confrontando la loro carta con quella del risentimento di USGS del terremoti del 28 novembre, il segmento interessato dal movimento comprende la parte indicata come gap sismico, ma si estende anche molto più a nord.   

la tomografia sismica evidenzia i due slab, a W quello ancora attivo,
ad E quello la cui attività si è conclusa nell'Eocene
e la cui sutura è diventata la faglia di Sagaing
LA TOMOGRAFIA SISMICA: DUE SUBDUZIONI PARALLELE, DI CUI UNA ANCORA ATTIVA E UNA NO
. Da ultimo un accenno alla tettonica regionale: la tomografia sismica evidenzia due subduzioni parallele (Yang et al, 2022):
  1. ad ovest sotto la catena Indo-Birmana la tomografia evidenzia la presenza di uno slab in subduzione che si immerge verso est. La presenza di terremoti che si annidano all’interno dello slab dimostra che questa subduzione è ancora attiva 
  2. Più ad est invece la tomografia evidenzia la subduzione della vecchia collisione fra il blocco di Burma (la pianura centrale) e il blocco di Sibumasu.
La novità recente è che se la tomografia l’ha individuata, difficile che la sua attività si sia conclusa 120 milioni di anni fa, perché non solo avrebbe fatto a tempo a scendenre nel mantello per la differenza di densità, ma sarebbe ormai indistinguibile dal mantello circostante. Questo ed alcune indagini sulle rocce magmatiche dell’area hanno portato Yang et al (2022) a proporre l’Eocene medio per la fine dell’attività compressiva fra i blocchi del Myanmar occidentale e di Sibumasu.
Di conseguenza, siccome la subduzione occidentale è anche essa attiva dal Cretaceo superiore, nell’area ci sono state due subduzioni parallele tra il Cretaceo superiore (80 milioni di anni) e l’Eocene (40 milioni di anni) corrispondente al periodo di rapida convergenza tra le placche indiana ed eurasiatica (e questo spiegherebbe meglio la velocità diconvergenza che poteva sembrare eccessiva). 

BIBLIOGRAFIA

Heron et al (2016). Lasting mantle scars lead to perennial plate tectonics. Nature communications DOI: 10.1038/ncomms11834

Hurukawa e Maung Maung (2011). Two seismic gaps on the Sagaing Fault, Myanmar,
derived from relocation of historical earthquakes since 1918. Geophysical Research Letters 38, L01310. 

Liu et al (2018). Geodynamics of the Indosinian orogeny between the South China and Indochina blocks: Insights from latest Permian– Triassic granitoids and numerical modeling. GSA Bulletin; 130-7/8, 1289–1306;

Taylor e Yin (2009). Active structures of the Himalayan-Tibetan orogen and their relationships to earthquake distribution, contemporary strain field, and Cenozoic volcanism. Geosphere 5, 199–214

Tun e Watkinson (2017). The Sagaing Fault, Myanmar in: Barber et al, Myanmar: Geology, Resources and Tectonics. Geological Society London, Memoirs 48, 413–441,

Yang et al (2009). Slab remnants beneath the Myanmar terrane evidencing double subduction of the Neo-Tethyan Ocean. Sci. Adv. 8, eabo1027


martedì 25 marzo 2025

l'origine del linguaggio e la possibile coincidenza con l'espansione "out of Africa" di Homo sapiens


Fra le cose che contraddistinguono l’umanità c’è sicuramente il linguaggio, anche se alcuni cetacei sembrano dotati di qualcosa di simile e alcuni animali emettono suoni differenti in base al pericolo rilevato. Proprio grazie al linguggio gli esseri umani hanno stabilito un sistema di comunicazione estremamente efficace, che ha consentito di interagire molto meglio fra di noi e con la realtà che ci circonda. La sinergia fra linguaggio e pensiero simbolico (caratteristica che da latente potrebbe essere diventata evidente proprio grazie al linguaggio) è la base della nostra evoluzione tecnologica e artistica. La possibilità di parlare come parliamo adesso è comparsa sicuramente prima della divergenza fra i Khoisan e gli altri esseri umani, un evento datato a circa 135.000 anni fa in un articolo appena apparso, che ha sfruttato per questo calcolo i dati genetici di una vasta serie di lavori svolti in precedenza. La domanda ulteriore è se il linguaggio sia stato una delle chiavi che hanno portato all’espansione massiccia fuori dall’Africa di Homo sapiens.

La comparsa del linguaggio ha rappresentato per l'Umanità un punto di non ritorno fondamentale. Nell'attuale dibattito sull'evoluzione del linguaggio umano, oltre al quando è apparso, i ricercatori sono divisi in due prospettive principali:
  • una visione gradualista → la moderna complessità del linguaggio umano è il risultato di un processo evolutivo incrementale
  • una visione saltazionale → la maggior parte dei componenti della capacità linguistica odierna si sono assemblati in un evento improvviso, grazie alla concorrenza di caratteri preesistenti (la cosiddetta “exaptation”: la presenza di caratteri che vengono utili in un momento successivo alla loro comparsa o riciclati per altri scopi)
le famiglie linguistiche dell'emisfero occidentale
Oltre a questa incertezza sul come il linguaggio sia comparso, non esiste un chiaro accordo su quando questa caratteristica cruciale sia emersa nella nostra evoluzione: se la complessità artistica fosse una indicazione della presenza di linguaggio, la sua emersione dovrebbe essere avvenuta circa 100.000 anni (esempio: Tattersall, 2017), ma secondo alcuni Autori una qualche forma di linguaggio avrebbe preceduto l'emergere degli esseri umani moderni e addirittura non sarebbe una proprietà esclusiva della linea che ha prodotto Homo sapiens.
L’articolo di cui parlo (Myiagawa et al, 2025) non entra nella questione del “come e perché” (anche se gli Autori sono inseribili nel filone dei gradualisti), ma solo indicando il limite più recente entro il quale il linguaggio sarebbe divenuto disponibile.
Ferma restando l’emersione di Homo sapiens come entità anatomicamente distintiva intorno a 230 mila anni fa (Vidal et al., 2022), le stime per l’emersione del linguaggio vanno da 300 (esempio: Scally e Durbin, 2012) a 100.000 anni (esempio: Schlebusch et al, 2012).

Appare ragionevole pensare il linguaggio come una caratteristica acquisita almeno nella popolazione ancestrale di tutta l’umanità attuale: se la capacità linguistica fosse emersa negli antenati degli esseri umani attuali solo dopo la loro divergenza iniziale, ci si aspetterebbe di trovare popolazioni moderne senza un linguaggio o con capacità di comunicazione significativamente differenti da quelle di tutte le altre popolazioni umane. Una cosa che non succede mai: le circa 7.000 lingue odierne condividono sorprendenti somiglianze nei modi in cui sono costruite fonologicamente, sintatticamente e semanticamente (Eberhard et al., 2023).

Per fornire una indicazione del limite inferiore di questo evento chiave, Miyagawa et al (2025) hanno affrontato il problema dal punto di vista genetico. Dagli albori della genetica (Vigilant et al 1989) tutti i lavori concordano: la prima divisione dalla radice originale dell’umanità attuale ha distinto dagli altri il ramo dei popoli Khoisan dell'Africa meridionale. Oltre che geneticamente, i Khoisan si distinguono pure dal punto di vista linguistico, in quanto presentano dei fonemi particolari, i click (questo filmato è particolarmente illuminante: a noi magari in prima approssimazione sembrano tutti uguali, in realtà sono molto diversi fra loro).



I ricercatori hanno utilizzato i dati di numerosi lavori precedenti che hanno esplorato parti del genoma umano, mettendoli insieme.I risultato della loro analisi portano una stima approssimativa dell’età della divisione fra gli antenati dei Khoisan e quelli del resto dell’umanità di 135.000 anni. La stima soffre di una incertezza di ± 20.000 anni a causa di alcune imprecisioni nei dati dell'orologio molecolare che non possono essere eliminate con le tecniche attuali. Si tratta comunque di una indicazione di un certo valore.

LINGUA, CULTURA ED ESPANSIONE DI HOMO SAPIENS

Comportamenti complessi come la sepoltura dei morti e l'occasionale decorazione corporea sembrano essersi verificati sporadicamente tra i Neanderthal e altri ominidi estinti e hanno fatto supporre a qualche ricercatore l’esistenza del pensiero simbolico pure nei Neandertaliani, ma DI FATTO la comparsa sistematica e diffusa di comportamenti mediati simbolicamente (uso di pigmenti, impiego di conchiglie marine forate per ornamenti e decorazioni corporee,incisione di motivi non figurativi, tecnologie complesse e infine i primi oggetti rappresentativi incisioni o dipinti con motivi geometrici) sembra essere avvenuta solo circa 100.000 anni fa all'interno di Homo sapiens. Insomma, è realistico pensare che da quando è nato il linguaggio l’umanità non è stata più la stessa, ma soprattutto appare chiaro che:
  • la capacità linguistica era pienamente in atto prima della comparsa diffusa e normalizzata del comportamento umano moderno
  • il ritardo temporale tra il limite inferiore di quando il linguaggio era presente dedotto da questo lavoro e l'emergere di comportamenti umani moderni in tutta la popolazione suggerisce che il linguaggio stesso sia stato l'innesco che ha trasformato i primi Homo sapiens non linguistici negli esseri che appunto usano il linguaggio per comunicare fra di loro

Questa tempistica mi ha particolarmente incuriosito. I dati dicono che già 315.000 anni fa i fossili di Jebel Irhoud in Marocco mostrano alcuni caratteri molto “moderni” insieme a caratteri più antichi (Hublin et al 2017), mentre i primi “veri” Homo sapiens sarebbero emersi circa 230.000 anni fa nel rift etiopico, dove è stato relativamente facile datare i fossili grazie alla presenza di un deposito vulcanico a Omo-Kibish (Vidal et al 2022).
Da questo quadro si ricava come i sapiens abbiano traccheggiato in Africa per decine di migliaia di anni, per poi iniziare ad espandersi circa 125.000 anni fa (prudentemente svicolando verso il sud-est asiatico, lasciando il Mediterraneo e l’Europa in generale ai neandertaliani).
La domanda è: perché succede questo? si tratta di una coincidenza casuale rispetto all’emersione del linguaggio oppure il linguaggio è la causale dell’espansione? È un argomento molto complesso e di cui ancora non si è capito molto e potrebbero esserci diverse concause.

le temperature degli ultimi 900.000 anni viste con il rapporto
isotopico dell'Ossigeno:il MIS53 di 125.000 anni fa
è il periodo più caldo che si è avuto
Dal punto di vista climatico 125.000 anni fa la Terra ha attraversato un momento particolare: è il MIS5e, il momento più caldo degli ultimi 900.000 anni, il culmine dell’interglaciale una volta noto come Riss-Wurm. All’epoca l’ ambiente era molto diverso rispetto ai periodi glaciali precedenti e successivi: grazie aI clima più umido vaste aree oggi aride, come il Sahara, erano ricche di vegetazione e acqua. Questa trasformazione ambientale avrebbe reso più agevole la migrazione degli esseri umani dall'Africa verso nuove regioni, aprendo rotte attraverso il Medio Oriente e oltre.
In questo contesto, il fatto che poco tempo prima si possa collocare l’origine del linguaggio non è un dettaglio da sottovalutare: siccome Homo sapiens era già presente da almeno 230.000 anni, perché l’espansione fuori dall’Arica sarebbe avvenuta proprio allora?

È quindi possibile che la chiave della travolgente avanzata dei sapiens abbia alle spalle un mix di cause ambientali e umane, che avrebbero fornito insieme un vantaggio determinante:
  • da un lato il linguaggio avrebbe permesso una comunicazione più efficace, facilitando la cooperazione all'interno dei gruppi e permettendo di organizzarsi meglio per affrontare sfide come la caccia, la raccolta di risorse e la difesa del territorio. Inoltre, la capacità di trasmettere conoscenze in modo più dettagliato avrebbe accelerato l'adattamento a nuovi ambienti, rendendo possibile la colonizzazione di terre fino a quel momento inesplorate.
  • dall’altro le condizioni climatiche favorevoli hanno senza dubbio giocato un ruolo essenziale

Da notare inoltre che anche la zona abitata dalla popolazione neandertaliana mostrava in quel momento una situazione favorevole alla crescita, ma i Neandertal non si sono espansi in maniera così decisa (Yaworsky et al, 2024).
Questo mix di cause potrebbe aver innescato un aumento vertiginoso della popolazione, a cui è quindi seguito un esodo dovuto alla sovrappopolazione.

Le popolazioni umane prima dell'espansione europea
Certo, di ondate “out of Africa” ce ne sono state diverse, ma non mi pare che nessuna delle altre abbia avuto come risultato la completa eradicazione degli altri gruppi umani (comunque con delle ibridazioni, testimoniate dal nostro genoma attuale). Invece i sapiens in meno di 80.000 anni hanno soppiantato rapidamente e in modo efficace tutti gli altri lignaggi umani: è possibile che siano state proprio le capacità linguistiche superiori la chiave per il successo della nostra linea rispetto alle altre come Denisovani e Neandertaliani?

BIBLIOGRAFIA CITATA

la base è: Miyagawa et al (2025). Linguistic capacity was present in the Homo sapiens population 135 thousand years ago. Front. Psychol. 16:1503900.

ALTRI ARTICOLI CITATI:

Eberhard et al (2023). Ethnologue: Languages of the world. 26th Edn. Dallas, TX: SIL International

Hublin et al 2017. New fossils from Jebel Irhoud, Morocco and the pan-African origin of Homo sapiens. Nature 546, 289.292

Scally, A., and Durbin, R. (2012). Revising the human mutation rate: implications for understanding human evolution. Nat. Rev. Genet. 13, 745–753.

Schlebusch et al (2017). Southern African ancient genomes estimate modern human divergence to 350,000 to 260,000 years ago. Science 358, 652–655

Tattersall (2018). An evolutionary framework for the Acquisition of Symbolic Cognition by Homo sapiens. Comp. Cogn. Behav. Rev. 3, 99–114.

Vidal et al (2022). Age of the oldest known Homo sapiens from eastern Africa. Nature 601, 579–583. doi: 10.1038/s41586-021-04275-8

Vigilant et al. (1989). Mitochondrial DNA sequences in single hairs from a southern African population. Proc. Natl. Acad. Sci. U. S. A. 86, 9350–9354. doi: 10.1073/pnas.86.23.9350

Yaworsky et al (2024). The Neanderthal niche space of Western Eurasia 145 ka to 30 ka ago. Scientific reports 14:7788