martedì 22 agosto 2023

alcune considerazioni sulla situazione ai Campi Flegrei in riferimento ai diversi eventi sismici dell'agosto 2023


Ai Campi Flegrei stiamo assistendo ad una fase di forte sismicità che - giustamente - preoccupa non poco gli abitanti, i quali si trovano in una situazione particolarmente difficile, soprattutto dal punto di vista psicologico. Dopo aver ascoltato sui social, in particolare nel gruppo facebook "quelli della zona rossa dei Campi Flegrei"  i pensieri di alcuni residenti e scambiato due parole con loro e con colleghi esperti della zona,  in questo post vorrei semplicemente cercare di ricapitolare la situazione, inserendo anche delle idee su cosa si possa fare al di là di una "semplice" delocalizzazione generale dell'area.

in blu, celeste e verde la parte in terraferma dell'area in sollevamento
la sismicità è quella degli ultimi giorni da INGV
i dati InSAR sono  quelli di Sentinel tra il 2016 e il 2020 elaborati da ISPRA 
Come ho fatto notare in alcuni post precedenti, il bradisismo flegreo ha la sua motivazione nella presenza di un pacco di sedimenti impermeabili che non permette di arrivare in superficie ai fluidi provenienti dal basso (in parte mescolati a acque piovane che riescono a percolare lungo delle fratture). Senza questo “tappo” la situazione sarebbe molto diversa
L’ultima eruzione prima di quella del Monte Nuovo del 1583 è avvenuta circa nel 1650 BCE (l’evento del 1198 non può essere conteggiato perché è stato probabilmente una esplosione freatica), mentre nel XX secolo sicuramente nel 1983-85 e quasi sicuraente anche nei due cicli bradisismici precedenti, si è avuta la messa in posto di magmi a bassa profondità nella crosta; insomma, il rischio di eruzione è stato molto alto, più di quello attuale.
Aggiungo che i Campi Flegrei non sono il classico vulcano a forma di cono e quindi sono ben diversi da quello che è il normale concetto di vulcano, e se con le conoscenze attuali è stato possibile riconoscere subito Yellowstone come un vulcano dormiente, con quelle dei tempi etruschi e romani non lo era. Inoltre il territorio flegreo si trova oggi in una delle aree più popolate che ci sono in Europa, mentre ai tempi di Roma era una delle più ricche ed economicamente vive dell’impero, in cui il periodo di quiescenza successivo all’eruzione del 1650 AC non forniva la percezione della situazione; la città di Baia testimonia entrambi gli aspetti: da un lato la sua ricchezza, dall’altro la sua sommersione, dovuta proprio alla lunga quiescenza protrattasi dall’età protostorica al medioevo.
Poi, nelle fasi che hanno preceduto l’eruzione del Monte Nuovo, abbiamo avuto invece il fenomeno opposto e cioè un sollevamento che a tratti è stato molto veloce.
Qualche mese fa ho parlato di alcune ipotesi sulla origine dei fluidi e sull’irrigidimento del tappo impermeabile sopra la falda geotermica. Oggi abbiamo a che fare con un importante aumento della sismicità, con il ciclo della notte fra il 17 e il 18 agosto 2023 che sicuramente verrà ricordato a lungo.
Ma qual’è la situazione attuale?

la struttura dei Campi flegrei con la sottostante camera magmatica,
da Akande et al (2019)

1. NON C’È PER ADESSO UNA RISALITA DI MAGMA. E su questo siamo sicuri semplicemente perché mancano quei fenomeni accessori che la caratterizzano e cioè:
  • una sismicità a profondità di 7-12 km
  • variazioni nella temperatura e nella composizione delle fumarole
  • variazioni della microgravità 
  • variazioni nella deformazione
Questi fenomeni, a parte la deformazione che però è da addebitarsi ad altri motivi, non sono attualmente registrati e pertanto non ci sono attualmente segnali di una risalita di magma, che potrebbe comportare una messa in posto a bassa profondità di un corpo magmatico come negli anni '80 se non addirittua una eruzione: la sismicità di questo periodo é quindi dovuta sempre all'afflusso di fluidi dal basso e alla relativa deformazione.
Però questo è “ad oggi: come disse Niels Bohr “è difficile fare delle previsioni, specialmente per il futuro” e quindi visto che siamo a parlare di un vulcano attivo, é comunque chiaro ed evidente che i sintomi di un movimento verso l'alto del magma potrebbero comparire da un giorno all'altro, cambiando radicalmente la situazione.

2. UNA CAMERA MAGMATICA SUPERFICIALE? NO. Qualcuno sostiene che De Siena et al (2017) avrebbero dimostrato la presenza di una camera magmatica superficiale. No, non è così: quello evidenziato da questa ricerca non è una camera magmatica ma si tratta del sill (un corpo magmatico sotterraneo poco spesso e orizzontale) che si è messo in posto tra il 1983 e il 1985. 

3. LA POSSIBILE PROSSIMA ERUZIONE DEVE ESSERE PER FORZA DISTRUTTIVA? NO! I Campi Flegrei hanno fatto eruzioni molto importanti, d'accordo. Ma oltre a questi 4 / 5 eventi ci sono state tante eruzioni minori che non hanno provocato nessun problema se non nelle immediate vicinanze. 
Quindi un risveglio del vulcano con risalita di lave non è detto che provochi sfracelli, e tanto per dire nel 1983 (ma forse anche durante le crisi bradisismiche del 1950 - 1952 e 1969 - 1972) si è avuta una risalita di lava che si è fermata a qualche km nella crosta.

disegno schematico dell'esplosione vulcano - freatica
del settembre 2014 sul monte Ontake (Sato et al, 2015)
4. UNA ERUZIONE FREATICA? L’ipotesi di una eruzione freatica (ho parlato di questo tipo di fenomeni qui) è assolutamente realistica, a causa del cambiamento dello stato meccanico della copertura della falda geotermica (Kilburn et al, 2023; ne ho parlato qui). Lungi da me – ovviamente – lanciare allarmismi inutili, ma ci sono due problemi di non poco conto: 
  • mentre una eruzione vulcanica è in un certo lasso di tempo prevedibile, nutro seri dubbi sulla possibilità di prevedere un evento di questo tipo, anche se Sano et al (2015) ipotizzano la possibilità di qualche marker geochimico.
  • In un vulcano “normale” tolti i visitatori del momento di rischi per l’incolumità pubblica non ce ne sarebbero, ma qui appunto abbiamo un vulcano con all'interno una importante densità abitativa e oltre alla sua intensità, la pericolosità sarebbe data anche dalla posizione di questa esplosione. Spero quindi che escano prima possibile degli studi su metodi per poter prevedere un evento di questo tipo.

5. NO. NESSUNO NASCONDE NIENTE. TANTOMENO ABBASSA LA MAGNITUDO. Tutte le volte c’è sempre qualcuno che dice che INGV ha abbassato la Magnitudo o che “l’ho sentita io ed era più forte”. Ora, a parte che non si capisce per quali oscuri motivi la Magnitudo verrebbe abbassata (per nascondere cosa, visto che la situazione è chiara…) faccio notare che:
  • le scosse sono sempre registrate, i sismografi sono online, i bollettini settimanali informano in maniera esaustiva e i dati sono a disposizione della cittadinanza;
  • Vesuvio e Campi Flegrei costituiscono un esempio a livello mondiale di monitoraggio dei vulcani e di studio delle loro caratteristiche. Impossibile nascondere o alterare i dati, se ne accorgerebbe subito qualcuno: i monitoraggi sono visibili da troppa gente in giro per il mondo per poter nascondere alcunché e non esiste apparato vulcanico così monitorato e gli studi sono stati descritti in una voluminosa letteratura nei giornali scientifici più autorevoli al mondo;
  • i parametri iniziali delle scosse sono automatici: questo influenza soprattutto le stime di Magnitudo e profondità, che sono soggetti a successiva revisione da parte del personale tecnico. È una cosa normale che succede in tutto il mondo. I casi di Nuova Zelanda 2016, Ischia 2017 e Alaska 2017 sono esempi tangibili del problema, di cui ho parlato qui. Ieri ad esempio qualcuno aveva visto degli ipocentri a 9 km, che poi sono stati corretti. Meno male che erano sbagliati. E se li vedevo io mi sarebbe venuto un accidente perché potrebbero significare movimenti della massa magmatica;
  • non si deve confondere l'effetto con la magnitudo: purtroppo eventi così superficiali danno un risentimento che per eventi a 10 km sarebbe molto più basso e conta moltissimo la distanza dall'epicentro: per cui in condizioni superficiali come queste un M 2.5 vicino può essere risentito molto più forte di un 3.5 anche solo di un paio di km più lontano;
6. CHI VUOL ESSER LIETO SIA: DI DOMAN NON C'È CERTEZZA: MA SI PUÒ ESSERE LIETI IN CONDIZIONI DEL GENERE? I filmati postati da Anna Peluso (una delle persone che più si impegnano a cercare di informare seriamente) nel gruppo Facebook che amministra, appunto Quelli della zona rossa dei Campi Flegrei sono esemplificativi della intensità raggiunta dalle scosse più forti del 18 agosto. È evidente che il protrarsi di una situazione del genere metterà sempre più sotto stress la popolazione, con i rischi per individui singoli e per la società intera. Oltre ad una corretta informazione scientifica occorrerà secondo me anche un supporto psicologico, perché è necessario in condizioni del genere che tutti tengano la barra dritta, e questo si può fare se e solo se la popolazione viene informata chiaramente e da persone autorevoli incaricate a farlo. 
Oggi vediamo alcune iniziative estemporanee di scarso senso e il rischio della comparsa di personaggi che fanno della disinformazione un’arma è reale, specialmente a fini politici. Per non parlare dei tanti che dicono “qui ci nascondono qualcosa” (vedi punto precedente). Ecco, questa è la prima cosa da fare a livello psicologico, far capire che nessuno nasconde niente e informare con il più assoluto rigore scientifico

cenere sul tetto di una casa dopo una eruzione vulcanica
7. GLI EDIFICI QUANTO SONO ANTISISMICI? Il filmato che ho citato dimostra come queste scosse, anche se di bassa Magnitudo, a causa degli ipocentri molto superficiale espongano gli edifici ad accelerazioni cosismiche brevi ma intense. Il minimo sindacale sarebbe che i privati verificassero le prestazioni antisismiche dei loro edifici. 
A questo proposito la mia proposta è che gli Enti Locali potrebbero attivare delle convenzioni con un pool organizzato dagli Ordini professionali (Geologi, Ingegneri, Architetti) realizzando un capitolato in grado di garantire uniformità dei metodi (e quindi dei risultati!), serietà del lavoro, evitare indebite intromissioni di arruffoni come succede spesso in Italia e – non ultimo – tenere ad un giusto livello i costi che i proprietari degli edifici dovranno sostenere.
Da parte del Pubblico richiedo altrettanta attenzione per gli edifici di proprietà pubblica, a partire dalle case popolari e dagli edifici più sensibili: scuole, strutture sanitarie e centri della Protezione civile. 
Suggerisco anche di verificare il carico massimo sopportabile dai tetti in caso di produzione di ceneri. 

8. EVACUAZIONE / DELOCALIZZAZIONE: anche se muoio dalla voglia di farci una visita accurata, magari in compagnia di qualche amico dell’Osservatorio Vesuviano in veste di cicerone, io non mi trasferirei certo a Pozzuoli. Non so però come mi comporterei se fossi nato lì: me ne andrei a cuor leggero o farei delle resistenze? È umano. Detto questo, una delocalizzazione di funzioni primarie e degli abitanti, a partire da aree specificamente considerate come quelle messe peggio, potrebbe essere messa in agenda. Con una raccomandazione: gli edifici abbandonati devono essere immediatamente demoliti per evitare nuovi insediamenti abusivi.
Ricordo che, sia pure probabilmente perfettibili, esistono i piani di Protezione Civile: ritengo necessario quindi che i cittadini si informino in merito e che le autorità facciano quanto di meglio per presentarli e organizzino delle nuove esercitazioni.

9. COMMENTI VERGOGNOSI. Da ultimo devo notare sulla pagina Facebook INGV Terremoti dei commenti offensivi sulla Protezione Civile e delle ipotesi assurde dal punto di vista scientifico. Specialmente i primi sono intollerabili e si capisce che il livello di preparazione (non dico specificamente settoriale, ma scolastica tout court) di chi li ha fatti è semplicemente intollerabile in un Paese avanzato. Non vedo più quelli più feroci: o sono stati tolti o chi li ha scritti mi ha bannato.

BIBLIOGRAFIA

Akande et al (2019). Three-dimensional kernel-based coda attenuation imaging of caldera structures controlling the 1982-84 Campi Flegrei unrest. Journal of Volcanology and Geothermal Research 381, 273-283

De Siena et al (2017). Source and dynamics of a volcanic caldera unrest: Campi Flegrei, 1983–84. Scientific Reports 7: 8099

Kilburn et al (2023). Potential for rupture before eruption at Campi Flegrei caldera. Communications Earth & Environment 4:190

Sano et al (2015). Ten-year helium anomaly prior to the 2014 Mt Ontake eruption. Scientific Reports 5:13069


giovedì 17 agosto 2023

le interessantissime “Considerazioni scientifiche sull'evento di Bardonecchia del 13 agosto 2023” - di Fabio Luino (IRPI-CNR), con dei relativi commenti del sottoscritto


Fabio Luino, noto ricercatore del CNR-IRPI di Torino (Istituto di Ricerca sulla Protezione Idrogeologica) nonché mio carissimo amico, conosce a menadito le sue montagne. Sul recente evento di Bardonecchia ha scritto un breve ma lucido rapporto, che riporto integralmente con il suo permesso, aggiungendo in calce alcune mie considerazioni. Eventi di questo genere purtroppo ricorrono con una notevole frequenza in tutta Italia e non solo. Assolutamente imprevedibili nella loro collocazione precisa (si può solo dire che in una certa fascia oraria se ne possono verificare uno o più in zone ristrette all’interno di un’area più vasta), questi eventi (attenzione!  non si tratta di alluvioni, ma di flussi detritici!) sono alimentati dai depositi instabili di detriti sui versanti montani e i loro effetti sono acuiti da un disinvolto uso del territorio.

La serata del 13 agosto a Bardonecchia (TO), famosa località turistica della Val di Susa, è stata caratterizzata da una violenta colata fangoso-detritica (mud-debris flow) lungo l’alveo del Torrente Frejus. La miscela solido-liquida ha impattato con violenza contro i ponti nell’abitato fuoriuscendo improvvisamente ed espandendosi poi per le strade limitrofe. I danni nel paese sono stati ingenti: molte autovetture sono state trascinate via dalla forza della colata, tutti i ponti sono stati sormontati, colmati alcuni garage ubicati in sotterranea a pochi metri dall’alveo, colpite diverse case a pian terreno, invase la caserma della Polizia Stradale e dei Carabinieri Forestali.
La colata si è originata a causa di un temporale violento con tuoni e fulmini (ben visibili da Bardonecchia) che per circa due ore (tra le 20 e le 22 circa) ha scaricato un rilevante quantitativo di pioggia sull'alto bacino idrografico a quote superiori ai 2.500 m presso il confine con la Francia. 
Purtroppo non abbiamo valori di precipitazione a causa della mancanza di strumentazione in quota. 
Mentre lungo le creste si concentrava una pioggia continua, in paese non pioveva. Questa è una delle situazioni più pericolose per fenomeni di questo tipo in quanto non piovendo a valle, la popolazione ha continuato le proprie passeggiate per Bardonecchia ignara del fatto che in quota si stesse originando la colata detritica. 
Bardonecchia è un centro abitato che conta 3.000 abitanti che si decuplicano in estate: che la sera del 13 agosto non vi siano state vittime è stato un vero miracolo. Le persone, infatti, non hanno avuto alcuna percezione del pericolo imminente: i filmati ci mostrano molta gente nel paese che guarda e filma dagli argini con stupore il passaggio della colata senza minimamente preoccuparsi del fatto che una pulsazione possa improvvisamente esondare e quindi coinvolgerla. Voglio sottolineare che, nonostante temporali forti in serata sulle Alpi occidentali fossero previsti, era pressoché impossibile prevedere nelle ore precedenti che una colata detritica si sarebbe innescata proprio lungo l’alveo del T. Frejus, e non ad esempio nella valle adiacente.
Tanti si sono stupiti del fenomeno, ma bisogna ricordare che ciò che è avvenuto a Bardonecchia è un tipico fenomeno estivo che accade nelle zone montane: in Italia abbiamo migliaia di centri abitati ubicati sui conoidi e quindi attraversati da torrenti più o meno pericolosi. 

La conca di Bardonecchia è storicamente molto esposta a questa categoria di processi torrentizi, tipicamente in estate quando le precipitazioni avvengono in forma liquida anche ad alta quota. Si hanno notizie di colate detritiche addirittura del 20 giugno 1734 o dell’agosto 1865. A partire dall’inizio del XX secolo, vi sono documenti storici che descrivono un evento del luglio 1914, uno del settembre 1920, dell’agosto 1934, del settembre 1947, poi ancora del 1949, 1951, 1954, 1955, 1957, agosto 1997, agosto 2004, luglio 2006, mentre l’ultimo grave in ordine di tempo fu del 7 agosto 2009 (che fu però meno dannoso di quello di ieri). Insomma, il torrente con una certa frequenza (in media ogni 7-8 anni) si manifesta con una colata detritica.
Gli eventi antecedenti il boom economico colpivano però una Bardonecchia avente un’area abbastanza limitata, ancora molto legata al nucleo storico. Ma a partire dalla metà degli anni ’50, Bardonecchia si espanse in maniera incontrollata occupando anno dopo anno praticamente tutti i conoidi alluvionali formati dai 4 torrenti che si uniscono nell’abitato. Casette singole ed edifici di 5-6 piani sono stati edificati con continuità per decenni, lasciando sempre meno spazio ai corsi d’acqua. Capite benissimo che è stata una follia quella di costringere un torrente come il Frejus, avente un’area di ben 22 km2, ad attraversare il paese in un canale artificiale della larghezza massima di 13-14 m. La colata in un alveo modello “pista da bob” può raggiungere velocità notevoli dell’ordine dei 8-10 m/s (quasi 40 km/h): di conseguenza la sua forza d’impatto è enorme e si è potuto vedere chiaramente domenica sera.
Bisogna però sottolineare che la mappa della pericolosità del PAI di Bardonecchia, dal 2010 segnala chiaramente il pericolo nelle zone abitate colpite l’altra sera. Quindi le conoscenze ci sono, gli studi sono stati ben eseguiti. Sarebbe una buona cosa a questo punto se la popolazione, soprattutto i turisti, fosse adeguatamente informata del rischio esistente nel periodo estivo: forse essi avrebbero evitato di soffermarsi a guardare il treno in corsa…

a sinistra: aree con detriti instabili nel fianco orientale delle dolomiti del Brenta
a destra gli effetti della mobilitazione di aree detritihe di questo genere a Courmayeur nel 2022
Nel ringraziare Fabio per queste lucidissime considerazioni e per il permesso di pubblicarle qua, mi permetto di aggiungere alcune note.

1. come dice Fabio, non si è trattato di una alluvione, ma di un flusso detritico: l’intensa precipitazione ha mobilizzato ciottoli e fango depositati lungo i versanti. Essendo meno spiegabile con le immagini disponibili di Bardonecchia, inserisco due mie immagini, una sulle aree di innesco ripresa quest’anno vicino a Andalo e una sugli effetti che si riferisce alla frana di Courmayeur dell’anno scorso, molto nota perché fra i suoi effetti c’è stata l’interruzione dell’acquedotto). I pendii montani, specialmente dove affiorano rocce carbonatiche, magmatiche e metamorfiche sono particolarmente proni al fenomeno: l’erosione provoca valli profonde con versanti molto acclivi;  inoltre i versanti sono molto fratturati, per cui si generano di continuo crolli con  ciottoli, se non massi di grandi dimensioni, che cadono dalle pareti più ripide e molto fratturate, depositandosi in aree meno acclivi. Questi depositi particolarmente instabili in caso di forti precipitazioni. 

2. sarebbe bene implemetare nelle aree montane la rete pluviometrica perché come è successo a Bardonecchia è possibile che piova intensamente sui versanti a monte mentre nei centri urbani non cade una goccia d'acqua.  

3. l’espansione edilizia dovuta allo sviluppo turistico delle montagne ha provocato gli stessi problemi delle pianure, in spazi ancora più compressi: i corsi d’acqua sono stati rettificati e ristretti, diminuendone drasticamente il volume, il tutto in aree dove forzatamente le velocità delle correnti, date le pendenze in gioco, sono molto maggiori che in pianura e dove gli spazi sono minori. In zona ho visto anche delle cose demenziali, come una conoide occupata da costruzioni con deviazione a 90° dell’alveo del corso d’acqua che l’ha formata (e alveo drasticamente ristretto)

4. a questo si aggiunge, come da foto riportata sempre da Fabio Luino, che i ponti non sono in grado di supportare volumi di materiali del genere, comportandosi da diga o addirittura rompendosi. E questa situazione è purtroppo comune in tutto l’arco alpino. Accanto alla foto di Fabio metto quella che ho fatto io al ponte danneggiato a Courmayeur, che la forza della corrente ha spostato di più di 90 centimetri

5. qualche anno fa, a proposito del parcheggio sotterraneo di Piazza della Vittoria a Genova e quello a Savona lungo il Letimbro ironicamente dissi che potevano essere considerati come “casse di espansione”: a Bardonecchia, come in decine di altri centri, ne sono stati realizzati a decine, pubblici e privati. Occorre ripensare a queste costruzioni. Non dico di fare come a Wengen, in Svizzera, dove è impossibile accedere in auto (ma io sono anni che vado a fare le vacanze in montagna usando treno e altri mezzi pubblici), è però chiaro che in certe situazioni non sia “idraulicamente consigliato” realizzare parcheggi sotterranei anche se comodi essendo sotto gli edifici: per le auto andrebbero realizzate in qualche modo delle aree adatte.

6. sempre sui parcheggi, rispetto ai gravi danni subiti dai veicoli delle Forze dell’Ordine, noto per l’ennesima volta che durante un disastro vengono compromesse le capacità di intervento da parte degli organi dello Stato preposti alla sicurezza. E il tutto in un’area di cui il Piano di Assetto Idrogeologico aveva già sancito in precedenza la pericolosità. Insomma, scuole, ospedali e centri di protezione civile (caserme, sedi delle forze dell’ordine e dei vigili del fuoco, sedi e depositi associazioni di volontariato e centri decisionali) non possono essere collocati in aree a rischio! Punto e basta.

venerdì 4 agosto 2023

L'eccezionale scoperta del fossile di un cetaceo primitivo in Perù: non il più grande ma forse il più pesante animale mai visto


Il ritrovamento di alcune parti appartenute allo scheletro di un fossile che è stato chiamato Perucetus colossus, un cetaceo di enormi dimensioni vissuto poco meno di 40 milioni di anni fa e quindi nell’Eocene superiore, in cui i paleontologi dell’Università di Pisa hanno avuto un ruolo significativo, ha destato scalpore perché ricostruendo da queste parti il corpo siamo davanti ad un essere di dimensioni - e soprattutto di peso - rilevanti. Lo scheletro è incompleto, costituito da diverse vertebre, costole e ossa pelviche, caratterizzate dall’essere molto pesanti. Ma al di là della importanza della scoperta, non è come trionfalmente riportano parecchie fonti, l’animale più grande conosciuto, ma forse il più pesante. Vorrei quindi puntualizzare sia la questione terminologica (Perucetus non era quello che in italiano si definisce una balena) sia la questione del peso.

le parti ritrovate dello scheletro di Perucetus colossus

BALENE E CETACEI: NOMENCLATURA.
Mettiamo innanzitutto in chiaro tre questioni terminologiche. 
1. La prima è tipica del giornalismo italico, dove il termine whale viene tradotto come balena, ma invece vuol dire cetaceo: in inglese le whales sono divise in baleeen whales (le balene e quindi i misticeti, i cetacei con i fanoni) e le toothed whales (gli altri cetacei, gli odontoceti, cioè i cetacei con i denti). Ne segue ad esempio che il termine che definisce l’orca, killer whale, non si dovrebbe tradurre come balena-killer ma come cetaceo-killer. Idem dicasi per il globicefalo: pilot whale non vuol dire balena-pilota ma cetaceo-pilota. Quindi Perucetus è una whale ma non una baleen whale e allora non è una balena. E non è neanche una toothed whale, ma un archeoceto, un termine che comprende diversi cetacei primitivi. 

2. Il nome della famiglia a cui appartiene: i basilosauroidi. Il primo esemplare di Basilosauro è stato scoperto nella prima metà del XIX secolo. Ma “sauro” non è esattamente quel suffisso che daresti ai mammiferi: diciamo che nella linea dei sinapsidi (quella che ha portato ai mammiferi) dopo i pelicosauri (a lungo considerati rettili, anche se ora è preferibile chiamarli appunto sinapsidi) già per i terapsidi il suffisso “saurus” non viene più usato: solo i biarmosuchidi, terapsidi molto basali, hanno il suffisso “suchia”, che viene usato in genere per definire rettili con qualche somiglianza con i coccodrilli e che quindi dovrebbe essere riservato esclusivamente ad esponenti degli arcosauri, il clade a cui appartengono oltre appunto ai coccodrilli i dinosauri, gli uccelli e una multiforme genia di esseri vissuti soprattutto nel Triassico (pochi gruppi di arcosauri sopravvissero all’estinzione di fine triassico: oltre a coccodrilli e dinosauri solo i rettili volanti e i coristoderi. Estintisi nel cretaceo i primi e nel terziario i secondi).
Il termine Basilosaurus tradisce il fatto che questi primi resti furono attribuiti ad un rettile e non ad un cetaceo.

3. Un terzo appunto è la presenza fra i Basilosauroidi delle Pachycetinae, termine che però potrebbe ingenerare un pò di confusione pensando al Pakicetus, un cetaceo anfibio della valle dell'Indo ancora più primitivo che aveva ancora una forma da animale terrestre ed è vissuto nel bacino dell'Indo più o meno una decina di milioni di anni prima di Perucetus (Gingerich e Russell, 1981).

il gruppo di ricerca sui cetacei dell'Eocene peruviano
UN RITROVAMENTO DIFFICILE. Quando le prime tracce del fossile sono state scoperte oltre 10 anni fa nella formazione di Pisco, un deposito ricco di fossili nel deserto di Ica, gli scienziati non era nemmeno sicuro che fossero ossa (Marris, 2023): i reperti mancavano della struttura porosa e spugnosa tipica delle ossa e nonostante la forma potevano sembrare dei semplici sassi. Solo dopo l’analisi al microscopio il team si è sentito sicuro che fossero effettivamente ossa.

LA STORIA DEI CETACEI. I cetacei hanno avuto origine nell'Asia meridionale più di 50 milioni di anni fa, da un piccolo antenato artiodattilo quadrupede che viveva in ambiente fluviale, imparentato con gli antenati degli attuali ippopotami. Le “balene anfibie”, in genere animali che vivevano lungo le coste, si sono gradualmente disperse verso ovest lungo il Nord Africa e sono arrivate in Nord America nell’Eocene. Erano quasi tutti cacciatori marini.
In Perù, e sempre nella zona di Ica, Lambert et al (2019) hanno descritto Peregocetus pacificus, un cetaceo protocetide scoperto nei depositi marini dell'Eocene medio (42,6 milioni di anni fa), che costituisce il più antico fossile indiscutibile di cetaceo quadrupede dell'Oceano Pacifico e dell'emisfero australe. Tanto per sottolineare la ricchezza di fossili di cetacei di questa zona gli autori indicano che Peregocetus è stato trovato 200 metri a sud rispetto al ritrovamento del di poco più giovane Mystacodon selenensis, considerato il più antico vero odontoceto conosciuto attualmente (Muizon et al 2019). Da notare che fra gli Autori di questi due lavori c’è anche il pisano Giovanni Bianucci, primo firmatario dell’articolo su Perucetus. Un altro aspetto importante di quelle serie sedimentarie è la presenza del vulcanismo andino, che permette datazioni assolute abbastanza precise dei diffusi livelli tufacei, i quali possono anche servire da correlazione fra serie e località differenti.

I BASILOSAUOIDI: CETACEI PARTICOLARI. I basilosauri sono stati i primi cetacei a raggiungere dimensioni “importanti” con una lunghezza fino a 20 metri; animali dalla distribuzione cosmopolita, fra gli archeoceti sono quelli più simili agli odontoceti attuali. È interessante notare il mix fra caratteri "nuovi" come l'allungamento del corpo e caratteri ancestrali, dato che mantenevano ancora, sia pure con dimensioni minime, gli arti posteriori (alcuni cetacei nascono ancora oggi con moncherini di arti posteriori). Dal punto di vista ecologico erano probabilmente i predatori marini di punta dei loro tempi nelle acque costiere e si può ipotizzare che i cuccioli venissero già partoriti a partire dalla coda, adattamento importante per la vita marina. 

LO STILE DI VITA DEL PERUCETUSPerucetus potrebbe un po' distaccarsi dal modello. Poiché cranio e denti sono sconosciuti, qualsiasi ipotesi su quelle che erano la sua dieta e la sua strategia alimentare sono pure ipotesi. Purtroppo mancando la testa non è possibile ricavare il suo tipo di alimentazione e la speranza è che venga ritrovato qualche altro scheletro, magari più completo e con materiale craniale. Tuttavia, se è corretta l’interpretazione che danno gli Autori:
  1. la sua struttura ossea lo definisce un abitante di acque poco profonde e agitate lungo coste
  2. le sue dimensioni suggeriscono un ambiente ad alta produttività biologica
Si potrebbe ipotizzare che come i sirenidi, questo animale avrebbe potuto nutrirsi di alghe come il Kelp, ma sarebbe l'unico cetaceo erbivoro, uno scenario piuttosto improbabile secondo loro. 
In alternativa, potrebbe essersi nutrito di fauna bentonica (eventualmente con strategie di aspirazione e/o filtraggio, in analogia con le abitudini trofiche dell'attuale balena grigia Eschrichtius robustus), oppure ancora avrebbe potuto utilizzare fonti alimentari a basso costo e ad alto contenuto energetico, cioè carcasse di vertebrati affondati, come oggi fanno alcuni squali che in genere vivono nei pressi dei fondali (Bianucci et al 2023).

in questa immagine Perucetus colossus è visto nel suo normale stile di vita più realistico:
esplorare un fondo marino superficiale
NON L’ANIMALE PIÙ GRANDE, FORSE IL PIÙ PESANTE. Vediamo ora la questione del “più”. Non si tratta del più grande: rispetto all’animale più grande attualmente vivente, la balenottera azzurra, Perucetus era forse più pesante, ma non più lungo.
Ma perché questo peso?
I discendenti di quei piccoli artiodattili fluviali sono diventati sempre più specializzati per la vita acquatica e si sono rapidamente evoluti in forme a dimensioni corporee maggiori, con una prima notevole tendenza all'allungamento del corpo osservata appunto nei basilosaurini del tardo Eocene.
Il vero gigantismo e la massa corporea associata osservati nelle balene odierne è tuttavia un'acquisizione recente, probabilmente associata alla tendenza al raffreddamento climatico e all’aumento della stagionalità.
Acquisendo abitudini più acquatiche, la galleggiabilità diventa un aspetto critico della biologia e difatti le trasformazioni delle ossa sono comuni in tutti i tetrapodi che hanno sviluppato indipendentemente fra loro abitudini acquatiche. In particolare l’evoluzione dei tetrapodi che si immergono in acque poco profonde e nuotano lentamente ha spesso comportato un aumento della massa ossea: gli ossi sono diventati più compatti attraverso il riempimento delle loro cavità interne (osteosclerosi) e, nei casi più estremi da un'ulteriore deposizione di osso sulla loro superficie esterna (pachiostosi). Questi due processi sono documentato nei primi membri del clade, in particolare nei basilosauridi. L’altro gruppo attuale di mammiferi marini, i sirenidi (non imparentati con i cetacei), sono lenti nuotatori sottocosta e sono appunto caratterizzati da osteosclerosi e pachiostotisi. Anche gli ippopotami, che hanno bisogno di camminare completamente sommersi sui letti dei fiumi, presentano ossa molto compatte per rendere pesanti i loro scheletri.
I cetacei attualii hanno invece acquisito una microanatomia ossea completamente diversa, con una struttura simile all'osteoporosi tipica dei tetrapodi pelagici, caratterizzati da un nuoto più attivo e ossa più leggere.
Pertanto non esistono omologhi attuali di Perucetus colossus fra i cetacei, ma eventualmente lo possiamo trovare fra i sirenidi.

Per Bianucci et al (2023) Perucetus colossus sostanzialmente si spinge verso il limite superiore della massa scheletrica nei mammiferi, così come nei vertebrati acquatici in generale, combinando dimensioni gigantesche con una massa corporea specifica più grandi di qualsiasi animale conosciuto fino ad oggi. Rappresenta quindi potenzialmente non l'animale più lungo, ma quello più pesante mai descritto: le balenottere azzurre arrivano a pesare 200 tonnellate, mentre data la frammentarietà dello scheletro, le stime del peso di Perucetus vanno da 85 a 340 tonnellate. Quindi non è sicuro che sia l’animale più pesante conosciuto, ma potrebbe esserlo.

BIBLIOGRAFIA

BIANUCCI ET AL (2023). A heavyweight early whale pushes the boundaries of vertebrate morphology. Nature

GINGERICH E RUSSELL (1981). Pakicetus inachus, a new archaeocete (mammalia, cetacea) from the early-middle eocene Kuldana formation of Kohat (Pakistan) 
Contributions from the museum of paleontology of the University of Michigan 25/11,  235-246

LAMBERT ET AL (2019). An Amphibious Whale from the Middle Eocene of Peru Reveals Early South Pacific Dispersal of Quadrupedal Cetaceans Current Biology 29, 1–8

MARRIS (2023). Could this ancient whale be the heaviest animal ever? Nature. doi: https://doi.org/10.1038/d41586-023-02457-0

MUIZON ET AL (2019). Mystacodon selenensis, the earliest known toothed mysticete (Cetacea, Mammalia) from the late Eocene of Peru: anatomy, phylogeny, and feeding adaptations. Geodiversitas 41 (11): 401-499

 

martedì 1 agosto 2023

la glaciazione di Pongola di 2.900 milioni di anni fa: evento limitato alle alte latitudini o evento globale come gli episodi di "Terra a palla di neve"?


La presenza di probabili sedimenti di ambiente glaciale di poco meno di 3 miliardi di anni fa in Sudafrica è nota da decenni. Oggi una ricerca sulla geochimica di una serie sedimentaria di quel periodo nel cratone del Kaapvaal ha esaminato nel supergruppo di Pongola le diamictiti (sedimenti tipici del precambriano la cui origine glaciale è certa per quelle molto più giovani del Criogeniano), arrivando alla certezza del fatto che si sono sedimentate in un ambiente molto freddo. Resta però da capire l'estensione di questa glaciazione: solo nel cratone del Kaapvaal, che all'epoca era alle alte latitudini settentrionali (una situazione simile a quella odierna), oppure un evento più globale come le successive glaciazioni Huroniana (da 2400 a 2100 milioni di anni fa) o gli episodi di "Terra palla di neve" del Criogeniano (720 - 635 milioni di anni fa).

il cratone del Kaapvvaal, all'interno del più grande cratone del Kalahari,
i cui margini sono indicati dalla linea verde (da Sodouti et al, 2013)

I cratoni (una volta noti come scudi) sono le parti più rigide, antiche e stabili della crosta continentale, dove si conservano rocce vecchie oltre 2 miliardi di anni, in genere graniti e greenstone belts (interpretate, queste ultime come le moderne suture ofiolitiche, come resti di crosta oceanica e archi magmatici interposti fra due aree continentali che si sono scontrate). 
Dopo miliardi di anni di erosione nei cratoni affiorano ovviamente in genere solo le radici più profonde della crosta; solo in qualche caso sono stati preservati alcuni sedimenti, come nel cratone del Kaapvaal in Sudafrica, che fa parte del più grande cratone del Kalahari e dove sono esposte alcune delle rocce sedimentarie più antiche esistenti. 

IL CRATONE DEL KAAPVAAL. Il Kaapvaal ha iniziato ad amalgamarsi circa 3.2 miliardi di anni fa dall'unione di diversi blocchi più piccoli (Swaziland, Witwatersrand, Pietersburg e Kimberley, con alcune greenstone belt interposte) e a sua volta è compreso insieme a quello dello Zimbawe ed altre unità minori nel cratone del Kalahari. La fascia orogenica di Damara, la cui attività si è conclusa circa 550 milioni di anni fa, lo divide dal cratone del Congo, a sua volta un conglomerato di cratoni minori. Dopo i movimenti orogenici che lo hanno formato, saldando fra loro i blocchi nominati sopra, il Kaapvaal era diventato un’area continentale stabile; circa 100 milioni di anni dopo la sua stabilizzazione ha subito estensione e subsidenza ed è stato coperto a partire da circa 3 miliardi di anni fa da una successione vulcano-sedimentaria depositata in un mare poco profondo. Questi sedimenti testimoniano quello che dovrebbe essere il più antico rift continentale conosciuto (Paprika et al., 2021). 



una classica diamictite
UNA ANTICHISSIMA GLACIAZIONE? Ma quei sedimenti oltre all’ambiente di rift testimoniano anche le tracce di una glaciazione avvenuta poco meno di 3 miliardi di anni fa. Le prime osservazioni su questo le abbiamo in Wiebols (1955), che ha riconosciuto nei sedimenti del gruppo del West Rand Group, appartenente al supergruppo del Witwatersrand, la presenza di diamictiti. Una diamictite è una roccia sedimentaria tipica del precambriano, costituita da sedimenti terrigeni in cui si trovano particelle di dimensioni maggiori (dalle sabbie a massi) sospese in una matrice di fango o arenaria. Diciamo quindi che è facile ricondurre le diamictici a depositi glaciali, anche se sono state proposte modalità di formazione diverse dai processi glaciali, ad esempio colate detritiche.
Diversi livelli di diamictiti, di una età stimata intorno ai 2900 milioni di anni, si trovano in un’altra serie sedimentaria dello scudo di Kaapvaal, il Supergruppo di Pongola, che oltretutto rappresenta la sequenza vulcano-sedimentaria tettonicamente meno disturbata sulla Terra di tutto il Mesoarcheano (il periodo che copre l’intervallo fra 3.200 e 2.800 milioni di anni fa). Von Brunn e Gold (1993) riportarono nelle diamictiti del Pongola la presenza di diversi clasti di provenienza esterna al bacino, alcuni dei quali addirittura striati e sfaccettati proprio come i massi erratici moderni. Pertanto li hanno considerati rocce che per un po' di tempo sono state trasportate da ghiacciai di montagna e conseguentemente indizi di una glaciazione avvenuta circa 3 miliardi di anni fa.
Pochi anni dopo Young et al (1998) nelle diamictiti e negli scisti intercalati hanno rilevato valori moderati dell’indice chimico di alterazione (66,8 in media) e contenuti elevati di ossido di ferro. Questo è stato considerato a sostegno di un'origine glaciale delle diamictiti, per analogia con le diamictiti neoproterozoiche, sicuramente di origine glaciale essendo deposte durante le glaciazioni del Criogeniano (720 – 635 milioni di anni fa). Gli stessi Autori hanno inoltre riportato la rara presenza di dropstones (pietre singole di una certa dimensione in una roccia sedimentaria molto fine), che in quelle condizioni è pure essa indicativa di vicinanza a un ghiacciaio. 
Nel Supergruppo di Pongola un altro indizio della presenza di calotte glaciali continentali è una ciclicità sedimentaria ben sviluppata che potrebbe essere riferita ai classici cambiamenti glacio-eustatici del livello del mare che avvengono durnte le fasi glaciali (Beukes e Cairncross, 1991).

i dati geochimici del superguppo di Pongola. Si notano sia
il grande spessore di questa serie che la diminuzione dei
valori del δ18O che testimoniano il raffreddamento 
tra 2960 e 2840 milioni di anni fal 

CONFERME GEOCHIMICHE DELLA GLACIAZIONE REGISTRATA NEL KAAPVAAL. Si capisce l’importanza che le diamictiti dello scudo del Kaapvaal rivestono negli studi sulla evoluzione del clima terrestre nel tempo, ma una loro ambientazione glaciale è rimasta oggetto di dibattito.
Un importante passo avanti nella attribuzione a fasi glaciali dell’origine delle diamictiti di Pongola è stato appena presentato da Hoffman e Bindeman (2023): il δ18O è il rapporto fra gli isotopi 16 e 18 dell’ossigeno, un rapporto molto influenzato dalla temperatura: minore è il valore, minore è la temperatura all’epoca della sedimentazione. Questi Autori hanno dimostrato che le diamictiti e gli scisti della formazione di Delfkom presentano i valori del δ18O più bassi mai osservati in qualsiasi roccia sedimentaria correlata agli agenti atmosferici nella storia della Terra. All’interno del supergruppo di Pongola, il gruppo di Mozaan a cui appartiene la formazione di Delfkom, si è deposto fra 2960 e 2840 milioni di anni fa e la Delfkoon dovrebbe avere circa 2900 milioni di anni.
Invece in sedimenti un po' più vecchi di una cinquantina di milioni di anni i valori del δ18O sono un po' più alti. Quindi i dati sugli isotopi dell'ossigeno dei sedimenti del gruppo di Mozaan indicano un graduale raffreddamento climatico, culminato in condizioni glaciali circa 2.900 milioni di anni fa. Nello stesso lavoro altre analisi hanno evidenziato che le acque meteoriche avevano valori del δ18O intorno a −20 ‰ rispetto allo standard di Vienna per l’acqua oceanica (WSMOV), suggerendo che l'erosione del cratone del Kaapvaal abbia coinvolto acque meteoriche a basso δ18O, possibilmente in una posizione quasi polare.

GLACIAZIONE LOCALE O GLOBALE 2.900 MILIONI DI ANNI FA? I dati paleomagnetici vincolano lo scudo del Kaapvaal a latitudini medio-alte al momento della deposizione del Supergruppo Pongola (de Kock et al., 2021). Il raffreddamento climatico potrebbe quindi essere collegato ad una deriva del cratone di Kaapvaal verso il polo nord, oppure potrebbe invece rappresentare una testimonianza di un fenomeno globale, come oltre mezzo miliardo di anni dopo la glaciazione Huroniana, successiva e conseguente al crollo del contenuto atmosferico di CO2 e CH4 e come gli episodi di "Terra - palla di neve" del criogeniano. Purtroppo per risolvere questo dilemma non abbiamo altrove sedimenti continentali di quel periodo (2900 ÷ 2870 Milioni di anni fa). Ci sono però alcuni sedimenti marini all’interno delle “greenstone belt”, ma come detto si tratta di depositi in acque più profonde, su crosta oceanica o di arco magmatico, i quali però non sono ancora stati studiati su questo aspetto.
Ricordo che in quel periodo, con un Sole molto più debole, senza una atmosfera pesante e composta al 95% di CO2 la Terra sarebbe stata una palla ricoperta da uno strato di ghiaccio (Sagan e Mullen, 1972) (ne ho parlato qui).

POSSIBILI CAUSE DI UN RAFFREDDAMENTO CLIMATICO 2900 MILIONI DI ANNI FA PER LA TEMPORANEA DIMINUZIONE DEL TENORE DI CO2 ATMOSFERICO. Un raffreddamento climatico globale sarebbe coerente con un quadro di maggiore richiesta di CO2 da parte del sistema – Terra a causa di due fattori:
  • stabilizzazione e alterazione di alcune masse continentali: a circa 3100 milioni di anni fa emergono il Kaapvaak e il Singhbhum (India) (Hofmann et al., 2022) e poco dopo, 2900 milioni di anni fa, il Pilbara (Australia occidentale) (Hickman, 2023): la loro emersione ha richiesto per la loro alterazione un importante prelievo dalla atmosfera di CO2, diminuendo l’effetto-serra 
  • la prima comparsa di organismi fotosintetici e un primo evento in cui l’atmosfera si è leggermente ossidata: Ono et al (2006) studiando i rapporti fra gli isotopi dello zolfo hanno ipotizzato che l’assorbimento di CO2 per la fotosintesi e la conseguente emissione di O2 avrebbero non solo diminuito il tenore atmosferico di CO2, ma anche provocato una leggera ossidazione dell’atmosfera che avrebbe provocato una diminuzione del tenore atmosferico di metano un altro gas-serra importante, all’epoca presente in discreta quantità nell’atmosfera che essendo all’epoca riducente ne permetteva la stabilità. 
IN CONCLUSIONE: insomma, se è ormai certa la presenza di ghiacci intorno al Kaapvaal poco meno di 3 miliardi di anni fa, ci sono dei dubbi sul loro significato, in particolare sulla possibile estensione dei ghiacci: soltanto sul continente del Kaapvaal che era in zona polare oppure si è trattato di una glaciazione più estesa?


BIBLIOGRAFIA

BEUKES E CAIRNCROSS (1991). A lithostratigraphic-sedimentological reference profile for the Late Archaean Mozaan Group, Pongola Sequence: application to sequence stratigraphy and correlation with the Witwatersrand Supergroup. South African Journal of Geology 94, 44–69.
HICKMAN (2023). Archean Evolution of the Pilbara Craton and Fortescue Basin. Modern Approaches in Solid Earth Sciences, v. 24, Springer Nature, Cham
HOFMANN et al (2022). The Archaean geological history of the Singhbhum Craton, India – a proposal for a consistent framework of craton evolution. Earth-Science Reviews Volume 228, 103994
HOFFMAN E BINDEMAN (2023). Earth’s first glaciation at 2.9 Ga revealed by triple oxygen isotopes. Geochem. Persp. Let. 26, 20–24.
SAGAN E MULLEN (1972). Earth and Mars: Evolution of Atmospheres and Surface Temperatures. Science 177, 52-56
SODOUTI et al (2013). Seismic evidence for stratification in composition and anisotropic fabric within the thick lithosphere of Kalahari Craton. Geochem. Geophys. Geosyst. 14, 5393–5412
VON BRUNN E GOLD (1993). Diamictite in the Archean Pongola Sequence of southern Africa. Journal of African Earth Sciences 16, 367–374.
WIEBOLS, J.H. (1955). A suggested glacial origin for the Witwatersrand conglomerates. Transactions of the Geological Society of South Africa 58, 367–382
YOUNG ET AL. (1998). Earth’s Oldest Reported Glaciation: Physical and Chemical Evidence from the Archean Mozaan Group (∼2.9 Ga) of South Africa. The Journal of Geology 106, 523–538