mercoledì 22 marzo 2023

la duplice provenienza del CO2 emesso dai Campi Flegrei alla Solfatara e a Pisciarelli


Il CO2 rappresenta il gas volatile più abbondante nei magmi dopo l'acqua e per questo i vulcani emettono grandi quantità. Nelle caldere attive l’intensa interazione tra fluidi magmatici, ampi sistemi idrotermali e le loro rocce ospiti può emettere anche CO2 proveniente da altre fonti non magmatiche e la caldera dei Campi Flegrei al momento non fa eccezione. Siccome fra i segnali più importanti che segnalano la possibile ripresa della attività vulcanica c’è un aumento di CO2 magmatica, l’eventuale presenza di una componente di questo gas non dovuta direttamente al vulcanismo deve essere distinta qualitativamente e quantitativamente.

I Campi Flegrei sono il vulcano che negli ultimi 60.000 anni ha prodotto le più importanti eruzioni esplosive tra Europa e Mediterraneo: oltre ad un vasto numero di eventi minori, eruzioni particolarmente importanti sono avvenute 29.000 e 15.000 anni fa (quest’ultima è la fonte del celebre Tufo Giallo napoletano). Invece gli ultimi studi hanno evidenziato come la famosa eruzione di 39.000 anni fa, tradizionalmente legata ad essi, sarebbe avvenuta più a nord, nella piana campana e presumibilmente nella zona di Parete, 5 km a SW di Aversa (Rolandi et al, 2020), dove perforando dei pozzi geotermici sono state trovate lave calc-alcaline andesitiche e basaltiche (Aprile e Ortolani, 1978) e dove i dati aeromagnetici evidenziano una zona semicircolare con una magnetizzazione simile a quella di Vesuvio e Campi Flegrei, sulla quale ci sono state diverse interpretazioni (Florio et al, 1999)

i movimenti verticali del terreno ai Campi Flegrei dal 1980
(da Troise et al, 2019)
BRADISIMO ED EMISSIONI DI GAS. Dopo le ultime attività nel II millennio AC la caldera aveva subito un forte abbassamento, che è proseguito anche dopo l’età romana come dimostrano i resti sommersi della città di Baia. L’unica eruzione storica ai Campi Flegrei è quella che ha formato il Monte Nuovo nel 1538, precedutaa da un importante sollevamento del terreno (non tutti sono d’accordo su una eruzione nel 1198 alla Solfatara, che probabilmente è stata una esplosione vulcano - freatica). Nei secoli successivi la caldera è stata interessata da un periodo di subsidenza terminato nella seconda metà del XX secolo quando sono state registrate 3 distinte crisi bradisismiche caratterizzate da evidenti sollevamenti tra 1950–1952, 1970–1972 e 1982–1984 (quest’ultima particolarmente nota perché portò all'evacuazione della città di Pozzuoli). 
Dopo il 1985 è nuovamente intervenuta la subsidenza, interrottasi nel 2005, all’inizio della fase di sollevamento che continua ancora oggi dopo quasi 20 anni eattualmente è insieme all'Etna fra i massimi emettitori naturali di CO2 (Werner et al., 2019)
Sollevamenti e subsidenze sono legati ad intrusioni magmatiche a bassa profondità come nel 1985 (Troise et al, 2019) o a aumenti della temperatura nel sistema idrotermale dovuto all’afflusso dal profondo dei gas liberati dal magma che aumentano la temperatura e la pressione nel sistema idrotermale. A questo modo si genera la sismicità a profondità minore di 3 km (e quindi ben risentita dalla popolazione) attualmente presente nei dintorni di Pozzuoli. Al contrario, la conclusione della fase di intrusione e la fine degli afflussi di vapore profondi provoca un raffreddamento del sistema, la relativa subsidenza e una netta diminuzione dell’attività sismica. Da notare che la velocità del sollevamento per cause magmatiche come nel 1984-85 è decisamente più alta che in una fase semplicemente guidata dai gas come quella attuale.

i rapporti N2/CO2 e He2/CO2 evidenziano
a partire dal 2005 una deviazione dal modello teorico
(da buono et al 2023)
CO2 E CAMPI FLEGREI. Ai Campi Flegrei il CO2 viene emesso nel sito di Solfatara-Pisciarelli sia per degassamento diffuso del suolo che tramite le fumarole. I flussi, monitorati con regolarità dal 1980, si sono mantenuti costanti fino al 2014 su valori inferiori a 2000 t/giorno; da quel momento i quantitativi sono aumentati fino alle odierne 4000–5000 t/giorno (Chiodini et al., 2021), valore che colloca i Campi Flegrei tra i primi otto vulcanici emettitori di CO2 sulla Terra. 
In bibliografia sono stati definiti e proposti due scenari principali per spiegare le composizioni delle fumarole:
(1) decompressione semplice: un degassamento continuo del magma situato a 8 km di profondità indotto dalla sua decompressione
(2) miscelazione profonda: il degassamento avviene a diverse profondità durante la risalita del magma tra i 20 e gli 8 km di profondità
I modelli teorici sono stati confrontati con i dati delle fumarole di Pisciarelli e della Solfatara, e qui si è visto che dal 2005 in poi, in corrispondenza anche dell’aumento di volumi e temperature (Chiodini et al., 2015), le cose non quadrano: i rapporti fra Elio e Azoto da un lato e CO2 dall'altro evidenziano da quel momento fino ad oggi una deviazione sistematica e crescente nel tempo (Buono et al,2023). Quindi, il confronto tra le composizioni misurate e i modelli suggerisce che intorno al 2005 al flusso di CO2 si sia aggiunta alla componente vulcanica una fonte esterna in concomitanza con il riscaldamento del sistema.

DA DOVE PROVIENE QUESTO CO2 NON MAGMATICO? Ricordando che nei magmi campani potrebbe esserci anche un po' di CO2 proveniente da reazioni tra il magma e le rocce carbonatiche incassanti (in profondità sotto la piana campana si trovano le stesse rocce che affiorano in gran parte dell’Appennino centrale e meridionale) ma che questa componente dovrebbe essere poco significativa, per Buono et al (2023) la fonte esterna di CO2 dovrebbe provenire da reazioni chimiche e fisiche che interessano la calcite presente nelle rocce serbatoio del sistema idrotermale: i dati petrologici e isotopici dei carotaggi anche profondi effettuati in zona hanno evidenziato come nei primi 3 km di profondità le rocce del sottosuolo ospitano alti contenuti di calcite idrotermale (Chiodini et al., 2015).
Quando come oggi il sistema si riscalda queste reazioni liberano il CO2 della calcite idrotermale, e lo aggiungono al flusso proveniente dal magma. Gli Autori stimano che questa fonte non magmatica di CO2 contribuisca in caso sia valido il modello di decompressione semplice fino a circa il 40% del totale delle emissioni fumaroliche, mentre l’incremento sarebbe solo di circa il 20% nel caso della miscelazione profonda 

NOTA IN CALCE. A seguito di alcune polemiche venute fuori a Napoli, in particolare sul fatto che il lavoro non presenti “conclusioni sulla profondità o sul volume, o sul cambiamento di volume, del magma in degassamento che è la questione più importante per la sicurezza pubblica” mi sento di esprimere una mia posizione: mi trovo d’accordo sul fatto che non ci siano (dato oggettivo!), però a mio avviso la ricerca (e quindi l’articolo) non avevano questo come obbiettivo: l’obbiettivo consisteva invece nel dire: "guardate che siccome i monitoraggi per la segnalazione di una possibile eruzione prevedono essenzialmente il controllo di microsismicità, gravimetria, deformazioni del terreno e temperatura e analisi delle fumarole, nelle emissioni c’è un quantitativo non magmatico (e variabile) di CO2 non magmatica e ne dovete tenere conto quando studiate le analisi sulle fumarole".
Sono altresì pienamente d'accordo sul fatto che la presenza di magma a 8 km in caso di nuova iniezione di nuovi magmi (scenario tutt’altro che irrealistico) possa innescare una eruzione e che la popolazione su questo debba essere informata e cosciente.

Però se nel 2005 non vi è stata in profondità nuova intrusione di magma dopo quella da cui proviene l’intrusione del 1985, anche io non ho capito come mai si è verificato questo aumento di temperatura che a cascata sta provocando la liberazione del CO2 dalla zona della falda geotermica. Interrogativo a cui non ho trovato risposta (forse per colpa mia?)

Aprile e Ortolani, F., 1979. Sulla struttura profonda della Piana Campana. Boll. Soc. Nat. Napoli 88.

Buono et al 2023 Discriminating carbon dioxide sources during volcanic unrest: The case of Campi Flegrei caldera (Italy)

Chiodini et al 2015 The geological CO2 degassing history of a long-lived caldera: Geology, v. 43, p. 767– 770,

Chiodini, G., et al., 2021, Hydrothermal pressure-tem- perature control on CO2 emissions and seismicity at Campi Flegrei (Italy): Journal of Volcanology and Geothermal Research, v. 414,

Fischer, T.P., and Aiuppa, A., 2020, AGU Centennial Grand Challenge: Volcanoes and deep carbon global CO2 emissions from subaerial volcanism—Recent progress and future challenges: Geochemistry, Geophysics, Geosystems, v. 21, https://doi.org/10.1029/2019GC008690.

Rolandi et al 2020 The 39 ka Campanian Ignimbrite eruption: new data on source area in the Campanian Plain in:. -Vesuvius, Campi Flegrei, and Campanian Volcanism - Elsevier Inc.

Florio et al 1999 The Campanian Plain and Phlegrean Fields: structural setting from potential field data Journal of Volcanology and Geothermal Research 91 Ž1999. 361–379

Troise et al 2019 The Campi Flegrei caldera unrest: Discriminating magma intrusions from hydrothermal effects and implications for possible evolution. Earth-Science Reviews 188, Pages 108-122

Werner, C., et al., 2019, Carbon dioxide emissions from subaerial volcanic regions: Two decades in review, in Orcutt, B.N., et al., eds., Deep Carbon; Past to Present: Cambridge, UK, Cambridge Uni- versity Press, p. 188–236


mercoledì 8 marzo 2023

la relazione fra piogge, frane ed uso del suolo in un bacino degli USA nordoccidentali: un monito per tutti sul possibile impatto della attività antropica sulla vulnerabilità da frana



Le piogge intense rappresentano un meccanismo molto importante di innesco delle frane. Le probabilità dello scatenarsi di un dissesto gravitativo sono soggette a fattori di diverso tipo, in primis meteorologici, soprattutto la quantità di pioggia, mentre dal punto di vista geomorfologico contano soprattutto la litologia e la pendenza del versante. Ci sono poi le condizioni preesistenti di saturazione del suolo (direi un fattore intermedio fra meteo e geomorfologia). Ma una discriminante importante e spesso trascurata (specialmente nella programmazione di interventi!) è l’uso del suolo: su questo qualcuno fa finta di non sapere che la suscettibilità da frana può variare in modo decisivo in caso di interventi antropici che incidono nell’uso del suolo, le cui conseguenze possono arrivare ad essere drammatiche. Vediamo come in un bacino forestato dell’Oregon variazioni antropiche nell’uso del suolo abbiano influenzato in modo consistente le conseguenze di piogge intense.

Le frane interessano soprattutto la parte occidentale degli USA, tra le Montagne Rocciose e il Pacifico, ma anche altrove. e provocano in media 25 morti e circa un miliardo di dollari di danni all’anno (stime dell’USGS, il servizio geologico nazionale). Per verificare quanto l’uso del suolo influenzi la franosità, un gruppo di ricercatori della Oregon State University ha indagato un bacino forestale interessato nel passato da pesanti interventi antropici (deforestazione e annessa realizzazione di strade) di cui si conoscono i dati su decenni di piovosità e franosità. Lo scopo della ricerca è stato il capire come queste pratiche abbiano influenzato tasso e quantità di inondazioni e smottamenti e modificato la morfologia delle aste acquifere. I risultati hanno dimostrato come tali variazioni abbiano influenzato pesantemente quantità ed entità di frane e alluvioni.

IL BACINO DEL LOOKOUT CREEK. Lo studio (Goodman et al, 2023) ha riguardato il bacino del Lookout Creek, 64 km2 all’interno della H.J. Andrews Experimental Forest, un sito di ricerca ecologica a lungo termine nella Catena delle Cascate nell’Oregon occidentale, gestito dalla National Science Foundation (l’equivalente del CNR degli USA). Il bacino è stato scelto anche perché è piuttosto variegato: sono state distinte 3 aree differenti, una in alto, in cui la morfologia è scolpita dalle ultime fasi glaciali, meno vulnerabile alle frane, una zona a quota intermedia dominata da frane di scivolamento attive e non, anche di dimensioni kilometriche, e una zona più bassa dominata da frane di crollo e annesse colate detritiche.
La vegetazione consiste in vari tipi di conifere, la quota varia tra 410 e 1630 msl, vi affiorano le classiche rocce vulcaniche che caratterizzano tutta la Catena delle Cascate, la temperatura media è 9°C e vi piove abbastanza: tra 2200 e 2700 mm all’anno, di cui più dell’80% tra Ottobre e Aprile. L’accumulo nevoso è inferiore al metro.
si nota come anche una debole riforestazione
abbia diminuto il detrito
nel 1996 rispetto a 30 anni prima
Le pratiche forestali nel bacino del Lookout Creek, iniziate negli anni ‘30 del XX secolo ma decisamente incrementate con la costruzione di apposite strade negli anni ‘50, sono in gran parte cessate negli anni '80, il che ha consentito oggi agli scienziati di monitorare il loro impatto su frane e inondazioni durante e dopo il periodo di gestione attiva. In particolare la costruzione delle strade di servizio ha determinato la formazione di pendii localmente molto acclivi in corrispondenza dei tagli,
L’abbattimento di foreste secolari e la costruzione di strade di servizio hanno controllato per decenni la quantità di erosione e deposizione dei sedimenti e modificato la naturale vulnerabilità del bacino all'erosione, alle frane e agli eventi alluvionali. Insomma, la frequenza di frane e colate detritiche dipende dalle condizioni create dalle pratiche di gestione negli anni precedenti. 
Per quanto riguarda le alluvioni i risultati sono quasi sorprendenti: anche le piccole inondazioni a frequenza annuale hanno generato risposte geomorfologiche importanti nel periodo del disboscamento e della costruzione di strade.

ATTIVITÀ ANTROPICA E FRANE DA ALLUVIONI. La bibliografia in materia segnala fra le conseguenze del disboscamento un enorme afflusso di detriti rocciosi e legnosi nei corsi d'acqua, un aumento del ruscellamento (il 50% in più), dell’umidità della parte più profonda del suolo per la mancanza di evapotraspirazione e del tasso di scioglimento delle nevi (Jones e Grant, 1996). E il bacino studiato non fa eccezione. Ad esempio delle 32 frane registrate nel bacino come conseguenza degli eventi del dicembre 1964 (tre impulsi in meno di 24 ore), 29 di esse erano adiacenti ai canali di ruscellamento; ma soprattutto il 93% dei circa 30.000 m3 di sedimenti spostati proveniva da frane avvenute lungo le strade. Nell’immagine si nota la differenza fra il dicembre 1964 e il febbraio del 1996, quando in assenza di attività forestale, nel detrito la presenza di grossi tronchi è molto minore. Per quanto riguarda i maggiori eventi alluvionali (tra 1965 e 1966, nel 1995 e nel 2011), quelli del 1966, contemporanei al disboscamento, hanno prodotto risposte geomorfologiche molto più ampie rispetto a quello del 1996, avvenuto più di un decennio dopo la cessazione del disboscamento; la risposta è stata addirittura trascurabile nel 2011, quando le aree deforestate si erano trasformate in piantagioni forestali di 20-70 anni. 
Questo vale per tutte le tre zone geomorfologiche: la risposta alle alluvioni è stata più influenzata dalla costruzione delle strade e dei relativi tagli del bosco, dagli eventi passati e dalle dinamiche forestali, rispetto alla entità degli eventi stessi, determinando in quel periodo una maggiore movimentazione di sedimenti e legname a parità di precipitazione, rispetto alla fase di assenza delle lavorazioni. 

ITALICA POSTILLA. Pertanto che le variazioni nell’uso del suolo influenzino molto pesantemente la suscettibilità da frana e da alluvione, dovrebbe entrare nella testa degli italiani, a partire dai decisori.  La cosa era già nota nel XVI secolo, quando per decisione di Cosimo I, dopo l’alluvione di Firenze del 1557 fu vietato il disboscamento nelle zone alte di Mugello e Casentino, per diminuire la velocità del ruscellamento. Poi nel periodo post-unitario ci fu una seconda ondata di disboscamenti, che ha avuto pesantissime conseguenze sulla morfologia delle aste fluviali, invadendole di detrito e quindi diminuendone drasticamente la portata.  
Oggi almeno in Italia a causa dell’abbandono dei versanti montani e collinari il disboscamento non è un problema delle aree montuose e lontane dai centri urbani, dove abbiamo avuto al contrario una avanzata degli alberi. Però in aree urbane o suburbane non sono purtroppo pochi i casi di interventi scellerati che hanno provocato dissesti: purtroppo in questi ultimi anni è toccato anche a me leggere diverse (troppe..) volte relazioni nelle quali si dichiarava più o meno esplicitamente che in quel versante non sarebbe successo nulla senza quegli interventi antropici…. 
Meditate gente, meditate


Goodman et al 2023 Seventy years of watershed response to floods and changing forestry practices in western Oregon, USA Earth Surf. Process. Landforms. 2023, 1-16.

Jones e Grant (1996) Peak flow responses to clear-cutting and roads in small and large basins, Western Cascades, Oregon. Water Resources Research, 32(4), 959–974.



mercoledì 1 marzo 2023

I dinosauri italiani, pochi ma buoni. Anzi: spesso eccezionali!


Fino a 30 anni fa circa era opinione comune che in Italia non fossero vissuti dei dinosauri. In realtà questa asserzione era semplicemente il frutto della mancanza di reperti: dagli anni ‘90 invece è dimostrata la presenza di dinosauri anche nei territori che costituiscono l’Italia. Non solo, ma fra fossili e impronte fossili abbiamo alcuni dei ritrovamenti più clamorosi (parlo di Antonio, Ciro e delle impronte di Altamura). Faccio quindi una breve disamina della situazione, premettendo che i siti dove sono state trovate le impronte sono molto numerosi e non posso citarli tutti.

Innanzitutto una puntualizzazione: non è che i dinosauri siano vissuti solo nel Giurassico. La confusione l'ha creata il famoso film Jurassic Park e anche in Jurassic Park ci sono dinosauri del Cretaceo che ancora non esistevano nel Giurassico, per esempio i Tirannosauri. Penso che sia stato scelto il titolo più accattivante: probabilmente Cretaceous Park o Mesozoic Park avrebbero funzionato peggio. Anche i reperti italiani sono sia giurassici che cretacei.

Tiziana Brazzatti e una copia del "suo" Antonio
al villaggio del Pescatore
I DINOSAURI ITALIANI: POCHI MA “BUONI”. Nel XX secolo sono stati scoperti fra Italia e Svizzera due esemplari di Ticinosuchus ferox, un rettile del triassico medio e le impronte note come Cheirotherium sono probabilmente state lasciate da un Ticinosuchus o da un suo simile. Nel Triassico gli arcosauri, oggi rappresentati solo da uccelli e coccodrilli, erano particolarmente variegati; all’interno di questa complessità Ticinosuchus, che ha convissuto con i primi dinosauri, appartiene ai Rauisuchidi, un gruppo nella cui classificazione c’è un po' di confusione (Gower, 2000). L’unica cosa sicura è che i Rauisuchidi appartengono agli arcosauri più vicini ai coccodrilli che a uccelli e dinosauri.
Dagli anni ‘90 del XX secolo sono iniziate le scoperte, prima di impronte poi anche di fossili e fra questi due degli esemplari più spettacolari al mondo: Antonio a Trieste e Ciro nel Sannio.
I dinosauri italiani appartengono a diversi gruppi: il triestino Antonio (scientificamente noto come Tethyshadros insularis), scoperto dalla mia amica Tiziana Brazzatti (Brazzatti e Calligaris, 1995) e riportato completamente alla luce qualche anno dopo, è un adrosauro, quindi un classico esponente dei dinosauri ornitischi; la cosa incredibile è che durante la campagna per liberarlo dalla roccia è stato trovato Bruno, un altro adrosauro della stessa specie, anche esso in buono stato di conservazione, pur se deformato. 
Ci sono poi 4 fossili di saurischi. Vicino Roma, sulle pendici dei monti Prenestini, sono state scoperte parti dello scheletro di Tito, un grosso sauropode, esponente di un gruppo il cui nome è tutto un programma dal punto di vista delle dimensioni: i titanosauri. Sono invece dei teropodi il Saltriosauro (Saltriovenator zanellai) che era un Ceratosauro (un dinosauro carnivoro appartenente ad un clade diverso rispetto ai carnosauri come gli allosauri o al rigoglioso gruppo dei celurosauri), Ciro, scientificamente noto come Scipionyx samniticus, l’esemplare di poche settimane di vita trovato a Pietraroja, e il proprietario di un arto isolato di difficile collocazione più precisa, trovato nella parete di una grotta nei pressi di Palermo in depositi di ambiente lagunare del Cretaceo superiore.
Le piccole dimensioni di Ciro (in realtà scoperto nel 1981 ma rimasto a lungo sconosciuto al mondo scientifico) ma soprattutto la sua tenera età ne rendono incerta la classificazione: è tradizionalmente considerato un compsognatide, quindi un celurosauro parente molto prossimi degli antenati degli uccelli, ma Andrea Cau sostiene che si tratti invece di un pulcino di un allosauro (Cau, 2021). Il suo stato di conservazione è eccezionale perché le condizioni chimiche della sua fossilizzazione hanno consentito di preservare i calchi di tessuti molli ed organi interni. Solo tra i fossili delle faune di Jehol, in Cina, si può riscontrare uno stato di conservazione simile! (ne ho parlato qui).

alcune impronte di Altamura
Foto nel sito del comune
NON SOLO OSSA: ANCHE ORME. Dalle impronte fossili si possono ottenere informazioni utili, confrontandole con le caratteristiche del piede dei fossili conosciuti; in alcuni casi sono state persino evidenziati alcuni aspetti della pelle. I siti italiani con impronte sono molti di più di quelli fossiliferi e confermano la presenza di dinosauri carnivori medi e piccoli, di sauropodi e di vari ornitischi come iguanodonti e ankylosauri. Qui devo limitarmi a citarne alcuni. Per chi volesse dettagli maggiori i due lavori di Petti et al (2020) rappresentano un ottimo livello di approfondimento della questione.
Diversi siti contenenti orme fossili si trovano tra Trentino Alto Adige Veneto e Friuli, dove meritano una menzione speciale quelle leggendarie dei Lavini di Marco a Rovereto (Avanzini et al, 2003) e del monte Pelmo (Belvedere et al, 2017). In entrambi i casi sono presenti sia teropodi che dinosauri erbivori. Le impronte trovate in un blocco usato per il molo di Porto Corsini a Ravenna vengono dal Friuli (cava Sarone, vicino a Pordenone). Nel centro – sud d’Italia le impronte sono state trovate soprattutto dentro cave o in blocchi provenienti da cave. Fra la decina di siti in Puglia spicca la cava di Altamura che ne contiene almeno 26.000 secondo un rilievo eseguito con il drone. Purtroppo le tracce si incrociano (forse sono state lasciate da un singolo branco) e così spesso le successive vanno a danneggiare quelle preesistenti, rendendo difficile la ricostruzione. Sull’attribuzione definitiva degli animali che sono passati di lì circa 80 milioni di anni ci sono ancora molte incertezze. 
Nel Lazio una cava a Sezze contiene oltre 200 impronte in 3 differenti orizzonti lasciate da un titanosauro simile a quello ritrovato a Roma, da un oviraptoride e da un teropode generico; a Esperia le tracce non sono ben conservate ma una serie appartiene sicuramente ad un piccolo teropode alto meno di un metro; nel Circeo a Porto Canale – Riomartino un blocco di calcare cavato vicino a Terracina presenta le impronte di un teropode (probabilmente uno strutiomimus, chiamato così per il suo scheletro straordinariamente simile a quello di uno struzzo), che stava camminando, si è fermato per un pò e successivamente è ripartito. 

Carta modificata da Citton et al (2016) con evidenziati i siti con fossili.
Quelli con le impronte sono di più ma essendo spesso vicini fra loro
 non sono stati indicati tutti
DOVE VIVEVANO QUESTI DINOSAURI. Il nome scientifico di Antonio, Tethyshadros insularis si riferisce esplicitamente alle caratteristiche geografiche dell’area dove vivevano i dinosauri italiani: una serie di isole pianeggianti a quote molto basse, circondate da bracci di mare di scarsissima profondità, poste nella fascia tropicale lungo il margine settentrionale della Tetide, l’oceano allora interposto fra l’Eurasia da un alto, Africa, Arabia e India dall’altro, la cui chiusura ha formato il sistema montuoso che va da Gibilterra all’Himalaya, passando per Italia, Balcani, Turchia e Iran. Dal punto di vista ambientale l’area si trovava nella fascia tropicale: per trovare una analogia attuale un buon esempio dell’Italia che fu è il complesso Florida – isole Bahamas: un continente e un sistema di isole con intorno un mare non molto profondo. Queste isole erano esattamente il tipo di ambiente dove è possibile la conservazione delle impronte: basta che un nuovo sedimento si depositi sopra di esse dopo che si sono momentaneamente consolidate e prima che vengano naturalmente distrutte e il gioco è fatto.
La Tetide, che era di suo un oceano molto stretto, a quell’epoca si stava già chiudendo. I suoi margini, spezzettati in una serie di microzolle potevano essere piuttosto mobili e in movimento fra loro, per cui è possibile che alcuni di questi blocchi si avvicinassero e poi si allontanassero di nuovo. Questi movimenti orizzontali potevano anche innescare dei movimenti verticali che nel sistema di terre poco elevate e bracci di mare poco profondi erano in grado di aumentare o diminuire a dismisura l’estensione delle isole; questo poteva succedere anche a causa di oscillazioni globali del livello marino. In particolare nei momenti in cui il livello marino era estremamente basso (come per esempio ad un certo punto nel Cretaceo medio, circa 115 milioni di anni fa) ci possano essere stati dei “ponti”, che hanno sporadicamente collegato l’Africa all’Eurasia, provocando di conseguenza diversi scambi faunistici fra Africa ed Eurasia. I maggiori indiziati per questi corridoi sono la zona ora rappresentata dalla penisola iberica e proprio le piattaforme carbonatiche intorno all’attuale mar Adriatico. Le ossa di sauropode dei monti Prenestini dimostrano il ruolo rivestito dalla piattaforma appenninica in questi scambi faunistici (Dal Sasso et al, 2016).

NON SOLO RETTILI MESOZOICI TERRESTRI. Nel mesozoico anche nei mari vicini a dove vivevano i dinosauri italiani nuotavano i grandi rettili marini del mesozoico, come testimoniano il fossile di un ittiosauro, un rettile marino mesozoico morfologicamente simile ad un delfino, trovato a Genga, nell’Appennino centrale (Paparella et al 2016) e l’impronta di un rettile marino non identificabile in un sedimento deposto ad una certa profondità al Conero. In realtà questo non è il primo reperto di ittiosauro trovato in Italia: Serafini et al (2023) hanno descritto la parte anteriore del muso di un ittiosauro rinvenuta in Veneto nel XIX secolo e ora al museo di Verona e solo un anno fa è stato scoperto un reperto analogo sempre vicino a Verona, attualmente in studio a Modena dall’equipe del prof. Papazzoni
Inoltre in un sedimento deposto ad una certa profondità al Conero, sono state trovate delle impronte lasciate sul fondo da un non meglio identificato rettile marino.

Avanzini et al 2005 The dinosaur ichnosite at the Lavini di Marco studi Trent. Sci. Nat. Acta Geol. (2003) suppl.1, 31-36

Belvedere et al 2017 Dinosaur footprints from the top of Mt. Pelmo: new data for Early Jurassic palaeogeography of the Dolomites (NE Italy) Bollettino della Società Paleontologica Italiana, 56 (2)

Brazzatti e Calligaris 1995 studio preliminare dei reperti ossei dei dinosauri del Carso triestino  Atti Mus.civ. Stor. nat. Trieste 46, 221-226

Cau (2021) Comments on the Mesozoic theropod dinosaurs from Italy Atti Soc. Nat. Mat. Modena 152 (2021) 

Citton et al (2016) Updating and reinterpreting the dinosaur track record of Italy Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology 439, 117–125

Dal Sasso et al (2016) First sauropod bones from Italy offer new insights on the radiation of Titanosauria between Africa and Europe Cretaceous Research 64, 88-109

Gover (2000) Rauisuchian archosaurs (Reptilia, Diapsida): an overview. Njb. Palaont. Abb. 218, 447 – 488

Paparella et al (2016) The first ophthalmosaurid ichthyosaur from the Upper Jurassic of the Umbrian–Marchean Apennines (Marche, Central Italy) Geological Magazine (2017) 154 (4): 837–858.

Petti et al (2020) Cretaceous tetrapod tracks from Italy: a treasure trove of exceptional biodiversity Journal of Mediterranean Earth Sciences 12 (2020), 167-191

Petti et al 2020 Jurassic tetrapod tracks from Italy: a training ground for generations of researchers Journal of Mediterranean Earth Sciences 12 (2020), 137-165

Serafini et al 2023 Dead, discovered, copied and forgotten: history and description of the first discovered ichthyosaur from the Upper Jurassic of Italy Italian Journal og Geosciences 142/1, 131-148



mercoledì 8 febbraio 2023

evoluzione della sismicità nelle prime ore dopo i terremoti della Turchia del 6 febbraio 2023


Purtroppo le repliche dei terremoti del 6 febbraio dureranno mesi se non anni. Non solo, ma il rischio di un altro evento importante da quelle parti nei prossimi mesi / anni è purtroppo elevato.
Vediamo la distribuzione da sismicità aggiornata alle ore 17.17 UTC dell’8 febbraio, a 65 ore dal terremoto. Gli orari sono quelli del tempo internazionale (UTC corrisponde praticamente a GMT, l'ora di Greenwich); quindi l’Italia è avanti di un’ora e la Turchia di 3 rispetto al tempo indicato. Ho preso i dati dal database del Geofon del GFZ di Posdam: la precisione può essere minore rispetto ai dati dell’osservatorio Kandilli di Istambul, ma ho usato questo dataset perché con quello turco non sono riuscito a costruire un file CSV da inserire in un progetto QGis, e anche con questo ho tirato diversi accidenti per andare avanti. Sono rappresentati gli evento con M 4 o superiore e anche se manca tutta la sismicità meno intensa, si riescono a vedere diverse cose.


DISTRIBUZIONE GENERALE DELLA SISMICITÀ: Il diamante rosso corrisponde al primo terremoto, quello delle 1.17 del 6 febbraio. I pallini rossi indicano le scosse avvenute nel periodo intercorso tra il primo e il secondo terremoto principale. Quello che balza agli occhi è la distribuzione molto vasta delle repliche del primo terremoto.
Dopo l'evento delle 10.24 GMT (le 13.24 locali – diamante verde) le repliche sono indicate con i pallini verdi. Si nota un addensamento in una fascia dove di repliche dopo il primo evento ce ne erano state poche, mentre naturalmente è continuata, sia pure con una intensità minore, l’attività nella parte meridionale.
Nelle seconde 24 ore (pallini blu) l’attività è stata sempre intensa e ha continuato a coprire tutta l’area. Come anche dalle 1.17 GMT alle 18.17 di oggi, 8 febbraio (pallini rosa)
La distribuzione della sismicità evidenzia anche un limite piuttosto netto a NE, che corrisponde più o meno al limite SW della fascia interessata dal terremoto M 6.7 del 24 gennaio 2020 (stella e pallini marroni, dati ricavati non da Geofon ma dall’Iris Earthquake Browser). Questo limite, oltre il quale non è segnalato nessun evento con M 4 o superiore è visibile già dopo il terremoto della notte e corrisponde alla terminazione SW del segmento della faglia dell’Anatolia orientale interessato dalla sequenza attivatasi con il terremoto M 6.7 del 24 gennaio 2020 (indicato da una stella marrone, mentre le repliche sono indicate dai pallini dello stesso colore). Tale segmento è più corto, meno di 90 km rispetto agli oltre 350 complessivi del 2023, circostanza logica visto che quel terremoto ha liberato una energia – spannometricamente – di una trentina di volte inferiore a quella liberata da ciascuno dei terremoti principali del 2023. Le due fasce si sovrappongono per circa 20 km, ma è possibile che sia, almeno in parte, una circostanza dovuta ad un margine di errore delle coordinate epicentrali, calcolate a grande distanza e quindi forzatamente meno precise.

C'È FORSE IN GIOCO UNA TERZA FAGLIA? Sicuramente ci saranno diverse faglie di splay, cioè faglie connesse a quella principale che si muovono in conseguenza del movimento sulla faglia principale e che spesso, con una Magnitudo così elevata, possono anche esse evidenziare una fagliazione superficiale. Le ho viste bene a Castelluccio dopo il terremoto M 6.5 del 30 ottobre 2016, e ne ho parlato qui).
Però si può notare una stretta fascia interessata dagli eventi a NNW del lago artificiale di Menzelet. Questa serie di eventi, iniziata dopo il secondo terremoto, potrebbero indicare appunto l’attivazione di una terza faglia. Il sospetto che si tratti di una struttura distinta è avvalorato da due circostanze:
  1. l’evento più importante lungo questa fascia è stato anche quello più a nord (M. 5.7 delle 12.02) ed è stato anche il primo ad interessarla, a parte quello delle 11.39, peraltro annidato alla sua terminazione sud
  2. prolungandola verso sud questa fascia bene o male si innesta sulla faglia est anatolica all’incirca dove questa presenta l’angolo che ne cambia la direzione
Le carte qui sotto evidenziano le due soluzioni.



LA DISTRIBUZIONE TEMPORALE DELLA SISMICITÀ PRINCIPALE LUNGO LA FAGLIA EST ANATOLICA. Questa figura evidenzia una progressione verso sud dell’attività lungo la faglia dell’Anatolia orientale. In pratica andando da NE a SW lungo la faglia, notiamo in un rigido ordine spazio-temporale gli eventi M 6.4 del 2003, M 6.1 del 2010, M 6.7 del 2020 e quelli degli ultimi giorni. Non ho trovato i dati sulle repliche dei terremoti del 2003 e del 2010, ma data la magnitudo simile è ipotizzabile che i segmenti interessati siano di dimensioni simili a quello del 2020. Insomma dal 2003 si nota un chiaro spostamento verso SW della sismicità principale.

Terremoti con M 6.0 o superiore lungo la faglia est-anatolica dal 2000.
 In rosso quelli appartenenti alla sequenza attualmente in corso

A questo punto è curioso notare come anche la più nota faglia dell’Anatolia settentrionale ha mostrato un trend simile tra il 1939 e il 1967 quando sei grandi rotture della faglia, i terremoti di Erzincan (1939), Niksar-Erbaa (1942), Tosya (1943), Bolu-Gerede (1944), Abant (1957) e Mudurnu Valley (1967), hanno formato una sequenza di eventi con una migrazione degli stessi verso ovest lungo una porzione quasi continua lunga 900 km (Stein et al, 1997). Il trend è proseguito anche in seguito con i forti terremoti del 1999 a Izmit e Duzce e nel 2014 alla terminazione occidentale della faglia nel NE del Mar Egeo. Nel medioevo invece il trend in alcune occasioni  è stato esattamente rovescio, da W a E. 
Pertanto le due faglia che bordano l’Anatolia orientale sembrano condividere attualmente lo stesso trend e di fatto è come se la rottura delle 10.24 abbia in qualche modo colmato una lacuna sismica appena nata. 
So benissimo che non è possibile prevedere i terremoti, ma a questo punto è realistica l’ipotesi di nuovi sismi nei prossimi decenni lungo il proseguimento verso sud della faglia est anatolica, rappresentato dal sistema di faglie del Mar morto tra Siria, Libano e Israele che arriva fino al golfo di Aqaba. È una zona dove non sono avvenuti terremoti importanti di recente, ma per esempio è noto un forte evento nel IX secolo AD nei pressi di Tiberiade che ha provocato fagliazione superficiale (Ferrario et al 2020). Il grande terremoto libanese del 551 invece dovrebbe avere un’altra origine (Elias et al, 2007). La possibilità che venga coinvolta l’area cipriota mi pare minore perché il margine di placca da trascorrente lì ritorna ad essere compressivo.

CHIOSA FINALE: SISMICITÀ NELL'EGEO E LA GENTE CHE SCRIVE DI COSE CHE NON CONOSCE
. E no, non è che i terremoti della Turchia abbiano innescato ad esempio il terremoto M 4.9 del 07 febbraio lungo la costa della Grecia settentrionali: faccio rispettosamente notare che come si vede da questa carta tratta da Iris Earthquake Browser solo 2022 nel mar Egeo e lungo le sue coste sono stati registrati 94 eventi con M 4 o superiore. Quindi cortesemente evitiamo di dire fesserie sul fatto che vediamo gli effetti del terremoto in Turchia.



Stein et al (1997) Progressive failure on the North Anatolian fault since 1939 by earthquake stress triggering Geophys. J. Int. 128, 594-604
Elias et al (2007) Active thrusting offshore Mount Lebanon: Source of the tsunamigenic A.D. 551 Beirut-Tripoli earthquake Geology 8, 755–758

Fonte dei dati da cui sono stati sviluppati i files CSV visualizzati in Qgis:
  • Geofon: GFZ: Deutsches GeoFoerschungsZentrum: 
  • Iris Earthquake Browser: 
consultazioni dei siti effettuate tra 6 e 8 febbraio

 




lunedì 6 febbraio 2023

i terremoti della Turchia del 6 febbraio 2023 e il loro contesto geodinamico


Il terremoto di stanotte in Turchia sarà sicuramente annoverato fra gli eventi sismici più violenti e luttuosi e non solo del 2023. La sequenza è iniziata con una scossa principale alle 1.17 ora di Greenwich (le 2.17 in Italia, quando in Turchia erano le 3.17) ed è stata seguita da numerose repliche, che continueranno nei mesi a venire. Ovviamente data la Magnitudo particolarmente elevata, attualmente (a circa 15 ore dall’evento) stimata fra 7.7 e 7.9 a seconda delle agenzie, ci potranno essere repliche molto intense e già a 10 minuti dall’evento ne è stata registrata una di M superiore a 6. Dopodichè, nelle 10 ore successive si sono verificati almeno 10 eventi con M superiore a 5. All’evento della notte ne è seguito un secondo altrettanto devastante, con una M stimata di 7.5, che non è una replica, ma un nuovo terremoto su un altro segmento della faglia, non su quello che si è mosso la notte.
L’ora del disastro è una aggravante importante del bilancio: la maggior parte della popolazione era in casa a dormire. Inoltre l’epicentro della prima scossa è a circa 30 km da Gaziantep, città di circa due milioni di abitanti. Quindi ci vorranno giorni se non settimane per un bilancio completo.

Come ci si poteva aspettare il meccanismo è trascorrente e a memoria direi che è uno dei terremoti trascorrenti più forti mai registrati, secondo solo a quello dell’Oceano Indiano M 8.6 del 4 novembre 2012. È evidente dal dato che si è mosso un segmento molto esteso di una faglia, ed è realistico supporre che sia quella principale dell’area, la faglia dell’Anatolia orientale: come fa notare Filippo Bernardini, che oltre ad essere un valido scienziato di INGV è pure un mio carissimo amico, l'area che si è attivata oggi lungo la faglia est-anatolica è lunga oltre 350 km (più della distanza in linea retta fra Roma e Bologna!).
La Turchia è notoriamente terra di terremoti, dove spesso l’edilizia non è all’altezza della situazione. Figuriamoci poi come sia messa la vicina Siria, fortemente interessata anch’essa dal terremoto di questa mattina, dopo decenni di guerre civili. Per questo il bilancio finale sarà purtroppo terribile.
la faglia della Anatolia Settentrionale (NAFZ) e quella dell'Anatolia Orientale (EAFZ)
guidano la "fuga" della Turchia verso ovest

GEODINAMICA DELL’AREA. L’Arabia continua a muoversi verso nord e quindi la Turchia è schiacciata fra essa e l’Eurasia. 

La Turchia ha una storia geologica estremamente complessa. Per farla breve è composta da diversi blocchi amalgamati una volta separati da bacini oceanici. Però siccome l’Arabia continua a spingere e non c’è più crosta oceanica da consumare, le vecchie zone dove i blocchi si sono amalgamati continuano a funzionare come linee di debolezza e la Turchia viene spinta verso ovest, principalmente attraverso due faglie:
  1. la faglia dell’Anatolia settentrionale, che corre parallela al Mar Nero ed è una delle più famose faglie al mondo ed è ben visibile anche nella immagine più sotto. La faglia è impostata lungo il contatto fra l’Eurasia e un microcontinente, quello delle unità Pontidi, staccatosi circa 200 milioni di anni fa dalla placca adriatica (tardo Triassico - primo Giurassico): l’apertura dell’oceano è durata poco (circa 30 milioni di anni) e poi i due blocchi si sono di nuovo scontrati
  2. la faglia dell’Anatolia meridionale, la cui presenza è invece più intuitiva, perché bene o male si colloca lungo il margine fra la placca arabica e l’Eurasia (considerando la Turchia all’interno di quest'ultima) ed è stata fino a qualche decina di milioni di anni fa una zona sotto la quale si consumava la crosta della Tetide, l’oceano che divideva Eurasia e Arabia. 
Adesso una questione: se la faglia dell'Anatolia meridionale fa parte di un limite di placca e quindi è abbastanza logico che ospiti dei terremoti, perché si muove anche la faglia dell'Anatolia settentrionale e in generale perché tra Caucaso e Iran, tutta un'area lontana da questo limite attivo evidenzia della sismicità anche importante? 
È un comportamento tipico dell’Asia: gli effetti della collisione fra essa e altre placche come l’Arabia e l’India si risentono anche a grande distanza da dove il contatto avviene effettivamente.  Questa caratteristica deriva dal fatto che l’Asia sembra essere una cosa imponente, ma in realtà è geologicamente piuttosto fragile in quanto risultato di una amalgamazione recente, iniziata circa 400 milioni di anni fa e che prosegue ancora. I limiti fra i blocchi che costituiscono l'Asia corrispondono a vecchi limiti di placca, che le ultime collisioni (l’India ha iniziato la collisione continentale 50 milioni di anni fa, l’Arabia 40) hanno riattivato. Ne ho parlato qui per l’area fra Turchia, Caucaso e Iran e qui per nell’Asia a nord del Tibet. Invece all’interno di India, Sudamerica e Africa le collisioni che le hanno formate sono molto più vecchie (spesso sono avvenute miliardi di anni fa) e quindi sono ben più stabili. 
Quando anche a sud della Turchia l’oceano si è del tutto consumato, l'urto fra i blocchi ha riattivato movimenti lungo i vecchi margini di placca ripresi come zone di debolezza a nord di esso. È un comportamento frequente non solo in Asia (ne ho parlato qui). E siccome il movimento attuale dell’Arabia è obliquo al contatto, in questa zona il limite di placca lungo la faglia dell'Anatolia orientale è trasforme e in questo contesto si inquadra perfettamente il meccanismo di trascorrente sinistra dei terremoti di oggi.

Nelle immagini qui sotto vediamo la situazione tettonica e la vasta distribuzione delle repliche dei due terremoti di oggi

la faglia dell'Anatolia settentrionale è chiaramente visibile anche da satellite.
Sono inseriti i terremoti con M da 6.0 in su 

 

l'immagine delle 17.35 ore italiane del 6 febbraio evidenzia
l'estensione eccezionale dell'area interessata dalla attività sismica