Nicola Casagli è professore di Geologia Applicata dell'Università di Firenze. È coinvolto a pieno titolo nello studio delle catastrofi naturali e nella Protezione Civile. Quindi è sicuramente una delle persone più qualificate in Italia a parlare di alluvioni, frane e dintorni. In questi giorni ci siamo trovati per altri motivi, però vista la situazione ci siamo messi a ragionare di alluvioni ed assetto del territorio e abbiamo pensato di pubblicare questo dialogo, sperando che sia utile per il dibattito in materia.
1. DEL CLIMA CHE CAMBIA E DELLA SUA INFLUENZA SULLA CIVILTÀ
Allora, Nicola, come al solito le prime piogge autunnali hanno fatto parecchi danni.. In sintesi qual’è la spiegazione di quello che sta succedendo nel nostro Paese, perché ogni anno dobbiamo fare i conti con disastri idrogeologici?
Aldo, come sai benissimo la risposta a questa domanda da un punto di vista scientifico è relativamente semplice: il clima sta cambiando e il riscaldamento globale determina una maggior frequenza degli eventi piovosi brevi, intensi e localizzati. Gli eventi definiti sulla base della statistica come eccezionali si stanno di fatto verificando praticamente tutti gli anni. Il problema è che le statistiche vengono fatte su un numero di anni troppo breve per essere rappresentative di dinamiche climatiche complesse con cicli di diversa frequenza e cambiamenti più o meno regolari.
Cosa sta succedendo al clima?
Come ben sai oggi siamo di fronte ad un riscaldamento globale del pianeta, che è iniziato nei primi decenni del XIX secolo, mettendo fine alla cosiddetta “Piccola Era Glaciale” tra il XV e il XIX secolo. Quest’ultima non è stata una vera e propria glaciazione, bensì una lunga fase di deterioramento climatico, connessa presumibilmente alla riduzione dell'attività solare.
In quei secoli il clima era più freddo e piovoso: la Maremma e la Lunigiana erano zone paludose e malariche. L'Arno inondava la città di Firenze cinque o sei volte ogni secolo, mentre negli ultimi due secoli ha fatto solo due alluvioni (nel 1844 e nel 1966).
Il riscaldamento globale, iniziato intorno al 1820 per motivi naturali, ha poi avuto una brusca accelerazione nell’ultimo cinquantennio a causa dell’attività antropica: il ben noto “effetto serra” dovuto al massiccio impiego di combustibili fossili per la produzione energetica.
L’aumento di temperatura è associato ad una riduzione della pioggia totale annua ma purtroppo anche ad una intensificazione degli eventi piovosi brevi, violenti e concentrati su aree ristrette: le cosiddette bombe d’acqua.
Non si tratta comunque di una novità. Eventi di questo tipo si verificavano anche in passato ed erano frequenti soprattutto nelle fasi calde che hanno caratterizzato l’evoluzione climatica del pianeta.
Ad esempio Dante Alighieri descrive le violente tempeste di pioggia della Val di Magra nella Divina Commedia, nel Canto XXIV dell'Inferno:
“Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch'è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra”
Guarda caso, lui scriveva in una fase climatica più calda e paragonabile a quella odierna!
Beh, sì... durante il Periodo Caldo Medievale, quando, dopo il grande freddo della seconda parte del Primo millennio si erano ricostituite le condizioni calde che avevano agevolato la formazione dell'Impero Romano.
La visione della Storia umana in funzione del clima è un aspetto che ancora molti storici non considerano o considerano poco ...
Se si guardano bene le fluttuazioni climatiche nella storia, emerge chiaramente che i periodi più caldi sono associati ad alla fioritura di attività economiche, artistiche ed intellettuali, con maggior ricchezza e benessere sociale. In questi periodi aumenta la produzione agricola, si riduce l’estensione delle zone umide e paludose, diminuisce la malaria. Si verificano inoltre rapidi incrementi demografici, aumenta la durata della vita e si riduce il tasso di mortalità infantile.
Così è andata nel Periodo Caldo Romano e così anche nel Periodo Caldo Medievale che, per l’appunto, coincide con la cosiddetta Rinascita dell’Anno Mille.
E invece i periodi freddi sono senz’altro molto peggiori per l’esistenza umana!
In queste fasi la popolazione si riduce, aumenta la mortalità, l’economia ristagna o si deprime, crolla la produzione agricola, abbondano le carestie, scoppiano le rivoluzioni, le aree pianeggianti si impaludano e diventano malariche, intere popolazioni sono costrette a migrare verso regioni con clima più sopportabile. E’ successo esattamente così con le invasioni barbariche e il declino dell’Impero Romano, nel periodo freddo Alto Medievale.
La Piccola Età Glaciale, molto recente, è ricca di testimonianze dei grandissimi problemi e disagi provocati dal clima rigido e piovoso.
Il fatto di essere adesso in un Periodo Caldo non è quindi affatto un male in linea di principio, però non dobbiamo tirare troppo la corda, accelerando le variazioni climatiche con le nostre attività, e nemmeno abbassare la guardia rispetto ai rischi idrogeologici....
…. le cui caratteristiche mutano al mutare delle condizioni climatiche..
Vero! il passaggio verso una fase climatica calda, come quello attualmente in corso, infatti ha determinato pure un cambio nella tipologia dei dissesti: oggi per esempio non sono più le grandi alluvioni nei grandi bacini, come il Po, l’Arno e il Tevere, che fanno paura, bensì gli eventi rapidi nei piccoli bacini, che seguono immediatamente le piogge brevi, intense e concentrate: si tratta di eventi che noi geologi chiamiamo piene-lampo (flash floods), valanghe di detrito (debris avalanches), colate di fango (mud flows). Essendo rapidi ed improvvisi il loro preannuncio è quasi impossibile e purtroppo sono molto pericolosi per la vita umana.
2. L'ITALIA, UN PAESE AD ALTO RISCHIO IDROGEOLOGICO
Già, il primo "flash flood" che ricordo bene è l'evento Versilia del 1996. Poi ricorderei Giampilieri 2009 e le grandi alluvioni dell'autunno scorso con Genova, le Cinque Terre, la Lunigiana e l'Elba. Per arrivare a questo tragico novembre 2012. Questo nuovo "tipo" di disastri è accompagnato da una serie di danni notevoli, di cui l'Uomo è responsabile per la sua... irresponsabilità... Proviamo a elencare le cause antropiche di questi danni?
L'elenco è piuttosto lungo...
Le concause antropiche dei disastri si possono dividere in due categorie geografiche:
a monte l'abbandono delle montagne e delle fasce collinari, la meccanizzazione dell’attività agricola, il degrado del reticolo idrografico minore, l'insufficiente manutenzione delle opere idrauliche di regimazione causano la riduzione dei tempi di concentrazione delle piene, il che ovviamente favorisce il dissesto.
A valle, invece c'è stata l’edificazione incontrollata nelle aree a rischio sulle frane, negli impluvi, nelle aree golenali dei fiumi: si è costruito tantissimo nelle zone di pertinenza fluviale e sui versanti instabili e adesso ne paghiamo le logiche conseguenze.
La causa principale del problema è proprio questo drammatico aumento dell’esposizione al rischio.
Fra le circostanze antropiche aggravanti è stato citato, a sproposito, il disboscamento...
Sicuro, quella è la classica “leggenda metropolitana”! Il disboscamento non c’entra o c’entra solo in qualche situazione locale: in realtà la nostra copertura boschiva non era mai stata così estesa dall’alto medioevo.
Le zone colpite dagli eventi degli ultimi anni erano conosciute come aree a rischio?
In un Paese come l’Italia le zone a rischio sono note dalla Storia, dalla Geografia e persino dalla toponomastica dei luoghi. La Lunigiana porta il nome dell’antica città di Luni, scomparsa a seguito anche delle devastazioni causate dalle ricorrenti alluvioni in epoca medievale. La Maremma poi, tutti sanno che era una grande palude continuamente allagata fino alle bonifiche del periodo lorenese e del ventennio fascista. Di frane ed alluvioni è costellata la nostra storia recente: Agrigento, Ancona, Stava, Val di Pola, Sarno, Versilia, Soverato, Giampilieri, Cinque Terre, Lunigiana, Genova, tanto per fare solo alcuni esempi.
In queste e in altre aree geologicamente a rischio abbiamo purtroppo costruito le nostre città, le nostre infrastrutture, le sedi delle nostre attività produttive.
Poi ci sono delle specificità italiane rispetto alla situazione classica europea...
Questo è un fattore importante da sottolineare: l'Italia dal punto di vista della difesa del suolo in caso di piogge è uno dei Paesi più difficili che si possano immaginare. Frane e alluvioni, per la natura stessa del nostro territorio, rappresentano i processi dominanti nell’evoluzione naturale del paesaggio: siamo circondati da mari piuttosto caldi e abbiamo un rilievo giovane. Quest'ultimo aspetto è importante perchè determina due fattori di rischio molto gravi: le nostre colline sono belle (anzi, inimitabili!) ma spesso composte da materiali che più che rocce litificate sono sedimenti ancora non consolidati e l'idrografia si sviluppa in tanti bacini piccoli piuttostochè in pochi bacini grandi; e bacini idrografici piccoli sono molto più soggetti a piene improvvise, zone nelle quali un “Flash Flood” diventa devastante.
E a questo si somma una minore condizione di rispetto per l'ambiente, termine che non vuole essere inteso in senso “ambientalista” ma piuttosto in senso “tecnico”. E i due condoni edilizi che abbiamo avuto sono un altro segno della scarsa propensione a tutti i livelli ad un uso corretto del territorio.
Il principale problema è esattamente questo: in passato sono stati pianificati e realizzati insediamenti abitativi ed industriali in zone a rischio. E non è più possibile a questo punto delocalizzarli tutti.
Al punto in cui siamo le cose da fare sono tre: prima di tutto non costruire più nulla nelle zone a rischio (sembra ovvio ma si sta continuando a farlo in moltissime Regioni!), poi predisporre piani di protezione civile nelle aree a rischio in cui purtroppo si è già costruito, e infine educare al rischio i cittadini e le amministrazioni.
Convivere con ragionevole sicurezza con il rischio si può...
Ce lo hanno insegnato il Giappone e la California che hanno livelli di rischio geologico ben superiori al nostro.
Si tratta di costruire comunità resilienti, cioè capaci di resistere agli eventi naturali subendo danni minimi; per questo è necessario intervenire sulle ristrutturazioni edilizie, ma anche nella pianificazione del territorio, nella pianificazione di protezione civile ma soprattutto, bisogna insistere nell’educazione al rischio di cittadini e amministratori.
Nessun intervento potrà mai funzionare se il rischio non è conosciuto e percepito. Devono essere i cittadini a richiedere sicurezza del territorio alle amministrazioni e a vigilare sul territorio stesso per segnalare abusi e violazioni che possano aggravare le condizioni di rischio.
Se tutti sono indifferenti perché non conoscono i problemi, neanche i rischi della propria abitazione, non andremo molto lontano.
Per altri rischi il nostro Paese si è dato un’organizzazione ed è stata creata consapevolezza, pensiamo per esempio a cosa è stato fatto in Italia per i rischi da incidente sul lavoro e per gli incidenti stradali.
3. LA CONTRADDIZIONE ITALIANA: ECCELLENZE ACCADEMICHE E TECNOLOGICHE E OPINIONE PUBBLICA NON COSCIENTE DEI RISCHI IDROGEOLOGICI
Come ci si può organizzare per difendere i cittadini e il territorio da un clima apparentemente più aggressivo e da un ambiente geologico sempre più fragile?
Basterebbe guardare al recente passato. In passato in Italia sono state fatte buone cose, anche se sempre a seguito di disastri maggiori.
L’Italia è il primo ed unico Paese al mondo che ha mappato le aree a rischio idrogeologico a scala nazionale e che ha posto vincoli stretti all’edificazione in tali aree.
Le aree a rischio si conoscono, la legge vieta di costruire o ricostruire in tali aree, eppure come hai o detto poco fa vi si costruisce lo stesso.
E, fatto praticamente sconosciuto all'Opinione Pubblica, in Italia abbiamo delle vere eccellenze nel campo del dissesto idrogeologico!
Vero, e sono cose poco note
In Italia: da un punto di vista della ricerca, abbiamo il miglior sistema di previsione degli effetti al suolo indotti dagli eventi meteorici e un sistema distribuito Stato-Regioni, costantemente operativo, coordinato dal Dipartimento della Protezione Civile che ha regolarmente previsto tutti i recenti eventi
Inoltre abbiamo i migliori strumenti per il monitoraggio geologico del territorio: possiamo contare su quattro satelliti italiani che misurano le deformazioni del terreno ad altissima precisione e il nostro Piano Straordinario di Telerilevamento è un esempio che altri paesi stanno cercando di imitare. Il tutto non è casuale: la nostra è una fra le migliori comunità scientifiche nel campo della previsione delle frane e delle alluvioni, con una grande tradizione accademica nel campo dell’idraulica e della geologia applicata .
Tutto questo si è tradotto in una normativa molto sviluppata nel settore della difesa del suolo e della protezione civile, maturata e consolidata negli anni con la stessa cadenza degli eventi disastrosi. Possiamo contare su un’ottima Legge di Difesa del Suolo, un eccellente Servizio Nazionale e Regionale di Protezione Civile, delle buone norme di pianificazione urbanistica e una solida normativa tecnica sulle costruzioni.
Eppure continuiamo a costruire edifici insicuri nelle zone a rischio. Quindi non è che qualcosa di tutto questo non funziona a dovere? Un paio di anni fa scrissi un post sulla questione dei Piani di Bacino e sulla lentezza da parte delle amministrazioni sulla elaborazione dei Piani di Assetto Idrogeologico.
E’ vero. Negli ultimi anni la situazione a livello istituzionale sta purtroppo peggiorando e stiamo perdendo molte delle cose buone fatte.
Per anni, come abbiamo visto, ci siamo organizzati abbastanza bene, anche se è mancato il cosiddetto “ultimo miglio”, ovvero l’educazione al rischio del Cittadino, a partire dalla Scuola primaria fino all’Università.
Poi però, in tempi recenti, sono state fatte scelte, o “non scelte”, poco adeguate.
La Geologia e le Scienze della Terra stanno sparendo dalle Università italiane, altro che Scuola!!! I Dipartimenti di tali discipline stanno chiudendo progressivamente tutti. Colpa della legge di riforma dell’Università (n. 240/2010 cosiddetta Gelmini) che ha colpito le comunità scientifiche di piccole dimensioni. I piccoli Dipartimenti costano troppo e allora via, cancelliamo un’intera disciplina.
Fra qualche anno se vorremo dei Geologi dovremo importarli dall’estero.
La ricerca scientifica e il trasferimento tecnologico nel settore della previsione e della prevenzione del rischio idrogeologico erano finanziati negli anni ottanta e novanta dal CNR con grandi progetti nazionali, negli anni duemila con i Programmi Quadro della Commissione Europea e in particolare con il programma di Monitoraggio Globale per l’Ambiente e la Sicurezza (GMES).
Di quest’ultimo non c’è purtroppo più traccia nello schema del nuovo Ottavo Programma Quadro della Commissione Europea: la sicurezza dell’ambiente non è più evidentemente una priorità dell’Europa, non solo dell’Italia, nonostante che le comunità scientifiche nazionale ed europea si collochino ai vertici della produzione scientifica mondiale nel settore. Chissà perché?
Se poi penso al glorioso Servizio Geologico d’Italia....
Tasto dolentissimo.. mi sembra interessante notare che il suo creatore, Quintino Sella, all'epoca non solo era ministro delle finanze, ma era pure lui alle prese con problemi di
spending review. Oggi il Servizio Geologico d'Italia non esiste più. Già da alcuni anni è stato accorpato con altri enti, ha perso la sua identità, è diventato APAT e poi ISPRA. Sigle incomprensibili.
La storia di Quintino Sella è quella di una eminenza nel campo delle Scienze della Terra, anche se proveniva dall'Ingegneria e non dalle Scienze Naturali. Quindi non è un caso che, spending review o no, aveva capito l'importanza di un Servizio Geologico degno di tale nome. Oggi di scienziati in genere, non solo di geologi, in alto nella classe politica non ce ne sono, e i risultati si vedono..
Aldo, come dici te, i risultati sarebbero sotto gli occhi di tutti, ma ce ne accorgiamo in pochi. Per esempio, la Carta Geologica d’Italia non si fa più. E’ un po’ come togliere le mappe stradali agli automobilisti, l’ecografia ai medici, la carta nautica ai naviganti.
Costavano troppo, la Carta e il Servizio. Meglio tagliare.
Anche le Autorità di Bacino, istituite con la Legge di Difesa del Suolo n.183/1989, costavano troppo e allora le abbiamo accorpate, in enormi ed improbabili “distretti” estesi dal Tirreno all’Adriatico, facendo venire meno il principio di base della legge, ovvero la pianificazione degli interventi di difesa del suolo alla scala del bacino idrografico.
Restava la Protezione Civile, frutto di un’altra legge illuminata, la n. 225 del 1992. Venti anni fa. Ci siamo abituati negli anni a vedere gli uomini della Protezione Civile immediatamente a seguito di ogni grande emergenza per coordinare forze operative, amministrazioni locali, comunità tecnica e scientifica, organizzazioni di volontariato.
Abbiamo toccato con mano l’enorme progresso, anche tecnologico, compiuto dal sistema di Protezione civile, valido esempio di struttura distribuita sul territorio, coordinata fra lo Stato, le Regioni e le Province autonome.
Però anche questo evidentemente costava troppo. E allora ecco la legge n. 100 del 2012 per ridimensionare gli ambiti di intervento dei poteri straordinari della Protezione Civile. Di regola dopo tre di mesi dall’evento calamitoso tutto deve tornare ad essere gestito con i mezzi e con gli strumenti ordinari - basta con i commissari! - questo è il principio ispiratore. Peccato che di mezzi e strumenti ordinari sia rimasto ben poco per quanto detto sopra.
Il risultato è che adesso non abbiamo più nemmeno quelli straordinari che, almeno, un grande senso di protezione lo davano.
Tutto sbagliato tutto da rifare, si potrebbe dire come soleva ripetere un nostro grande concittadino.... Ma qual’è il costo del dissesto idrogeologico e quanto spende lo Stato per la sua mitigazione e per la protezione dei cittadini. A me pare che le risorse stanziate per la sicurezza del territorio siano del tutto insufficienti: costruire un ponte o organizzare una sagra paesana conta più che impiegare risorse per sistemare un versante, anche perché la “gente” si accorgerebbe del problema solo quando – eventualmente – sarebbe franato. Dopo un evento meteorologico importante nessuno va a ringraziare l'Ente locale perchè non pensa che se quel versante non fosse stato messo in sicurezza sarebbe franato …
E’ proprio vero. Il problema sta proprio nell’assenza di percezione della dimensione del problema e lo scarso impiego di risorse per risolverlo ne è solo la logica conseguenza.
Provo a dare alcuni numeri. Si tratta di dati ufficiali presentati da ISPRA, il contenitore in cui è confluito l’ex-Servizio Geologico d’Italia.
In Italia si verificano in media 7 eventi eventi disastrosi per anno connessi a frane ed alluvioni.
Essi producono, in media, danni per circa 3 miliardi di Euro ogni anno (poco meno del 2 per mille del PIL). Considerando i danni indiretti la stima sale a 4-5 miliardi di Euro per anno (poco meno del 3 per mille del PIL).
Circa il 10% del territorio è a rischio e più dell’80% dei comuni è interessato da almeno un’area a rischio estremamente alto, dove non dovrebbe essere consentito costruire né ricostruire.
In media lo Stato spende circa un miliardo all’anno per riparare i danni causati dal dissesto idrogeologico, circa un terzo dei danni effettivamente prodotti.
Per gli interventi di prevenzione e di difesa del suolo, lo Stato spende in media, secondo i dati del Ministero dell’Ambiente, 400 milioni di Euro all’anno (lo 0,25 per mille del PIL), ovvero un terzo di quanto lo stesso Stato spende in riparazione dei danni, un ottavo dei danni effettivamente provocati, un dodicesimo dei danni totali diretti ed indiretti.
Tali dati fanno pensare, soprattutto se comparati con altre categorie di spesa pubblica, per esempio il 3,3% (per cento non per mille!) del PIL destinato alla Difesa Nazionale e il 3,2% destinato all’Ordine Pubblico e alla sua Sicurezza.
E’ chiaro: nel settore della sicurezza del cittadino c’è una diversa percezione della dimensione dei problemi anche in termini di risorse. Il rischio idrogeologico pur essendo una minaccia per la sicurezza dei cittadini non viene percepito come tale, se non nei pochi giorni dopo i disastri, per cui i finanziamenti dedicati alla prevenzione sono due ordini di grandezza inferiori rispetto ad altri settori della sicurezza.
Se lo Stato investisse per la previsione e la prevenzione del rischio idrogeologico anche un solo punto percentuale del PIL, vivremmo sicuramente in un Paese più sicuro e con maggiore benessere sociale.