martedì 21 ottobre 2025

L’importanza della sorveglianza satellitare dei vulcani privi di sistemi di monitoraggio terrestre: l'esempio pratico del Taftan (Iran)


Molti vulcani sono sorvegliati per studiarne il comportamento al fine di fornire indicazioni sulla possibilità di eruzioni, utilizzando misurazioni di stazioni terrestri. Purtroppo circa il 45% dei vulcani storicamente attivi non ha questo tipo di monitoraggio, con 30 milioni di persone che vivono entro 10 km da essi (Brown et al, 2015). È quindi ovvio che in qualche modo questi sistemi vulcanici vadano monitorati, con l'obiettivo, appunto, di rilevare indizi sul possibile inizio dell'attività eruttiva. I dati satellitari possono essere uno strumento formidabile nelle fasi di previsione, rilevamento e tracciamento delle fasi di unrest vulcanico: l’unrest, letteralmente disordine, è quella serie di manifestazioni come deformazione del suolo, variazioni di temperatura e composizione delle fumarole e sismicità che possono portare a eruzioni. I satelliti con telecamere termiche a infrarossi possono effettuare osservazioni sulle fasi di unrest vulcanico allarmando con le osservazioni sull'aumento della temperatura innescato dall'aumento di attività fumarolica, mentre i satelliti radar InSAR offrono la possibilità di indagare le deformazioni del suolo (soprattutto il sollevamento correlato all'unrest). Questo è utile su vulcani con monitoraggio a terra, ma diventa l'unica possibilità di sorveglianza continua per i vulcani che non ne dispongono.

l'arco di Makran e i suoi vulcani - da Ghalamghash et al (2019)

IL TAFTAN, UN GRANDE VULCANO QUIESCENTE IN IRAN. Un esempio di cui si parla in questi giorni sul web, con le solite considerazioni catastrofiche acchiappaclick, è quello del vulcano Taftan, nell’Iran orientale.
Il Taftan, insieme ad altri grandi vulcani come il Bazman, il Kuh‐e‐Sultan e dei campi di lave basaltiche morfologicamente giovani (ad esempio: Kuh-e-Nader), appartiene all'arco vulcanico del Makran. Lungo circa 450 km all'interno delle coste del Golfo di Oman tra Iran e Pakistan, l'arco del Makran è una conseguenza dalla subduzione della placca arabica sotto la placca euroasiatica (Namdarsehat et al., 2024). Non è troppo noto al grande pubblico perché la sismicità non è altissima rispetto alle aree limitrofe in quanto sembra che la subduzione sia bloccata, anche se potenzialmente potrebbe ospitare terremoti con M superiore a 8. È però noto ai geologi che si occupano di zone di convergenza fra placche per aver formato uno dei più grandi prismi di accrezione della Terra.
Il Taftan è l'unico vulcano dell’arco del Makran che presenta attività fumarolica persistente. È un edificio imponente: la cima più alta arriva a 4.050 m e dall'inizio della sua attività ha coperto una superficie di circa 1.300 chilometri quadrati. È un vulcano antico, visto che le prime lave andesitiche e dacitiche deposte su una paleosuperficie vulcanica e sedimentaria del Cretaceo-Eocene, a circa 20 km a nord-ovest dell'attuale edificio vulcanico, sono del tardo Miocene (circa 8 milioni di anni fa). Nel Plio-Pleistocene sono stati emessi consistenti volumi di lave (sempre andesitiche e dacitiche) e flussi piroclastici (da circa 3,1 a 0,4 milioni di anni fa).
Le elevate concentrazioni di oligoelementi nelle sorgenti indicano come il sistema idrotermale di Taftan sia in gran parte guidato da processi magmatici (Shakeri et al., 2015). Analisi geobarometriche di anfibolo e clinopirosseno suggeriscono la presenza di serbatoi crustali di stoccaggio del magma, a profondità comprese tra 3,5 e 9 km (Delavari et al., 2022).
Sulla sua attività più recente le fonti discordano: per Mohammadnia et al. (2025) il Taftan non avrebbe mai sperimentato eruzioni storicamente documentate, mentre Akhoondzadeh (2025) cita una eruzione tra il 1349 e il 1350.

le serie temporali di InSAR (Sentinel-1) ascendente e discendente 
e la componente verticale derivata evidenziano
 la fase di unrest e la mancanza di una successiva subsidenza
e una non correlazione con le piogge
LE OSSERVAZIONI InSAR ATTESTANO DIVERSE FASI DI UNREST DEL TAFTAN NEGLI ULTIMI ANNI. Le osservazioni satellitari InSAR (radar satellitari interferometrici ad apertura sintetica) sono già state utilizzate in passato per indagini sporadiche sul Taftan.
Dal 2003 al 2010, alcuni di questi dati hanno riportato episodiche deformazioni superficiali, che sono state ritenute legate all'attività di fluidi derivanti da camere magmatiche pressurizzate. Inoltre, anche delle osservazioni effettuate tra il 2015 e il 2020 hanno mostrato tassi modesti di sollevamento circa 1 mm/anno (Shirmohammadi et al., 2024).
Mohammadnia et al. (2025) riportano dei segnali di unrest vulcanico sul Taftan: utilizzando i dati satellitari InSAR della costellazione Sentinel-1 dell’Agenzia spaziale Europea, i ricercatori hanno rilevato un sollevamento del suolo localizzato sulla sommità del vulcano di circa 9 cm tra luglio 2023 e maggio 2024. Hanno inoltre limitato con precisione la sua tempistica dall'inizio alla fine del processo: il sollevamento è iniziato a luglio 2023 ed è terminato gradualmente dopo 10 mesi (maggio 2024), raggiungendo una velocità di picco di 11 cm/anno. Interessante è la coincidenza fra il rallentamento del sollevamento con diversi eventi di emissione di gas.
Poiché il fenomeno non è correlabile a precipitazioni né a terremoti, gli Autori propendono per una sua origine direttamente collegata a processi di spinta interna con due possibili scenari:
  1. alterazione idrotermale dinamica che porta a variazioni di permeabilità, stoccaggio di gas superficiale e pressurizzazione, seguita dall'apertura di vie di degassamento;
  2. una intrusione magmatica profonda di non grandi dimensioni appena messasi in posto e non rilevata da cui si liberano volatili che aumentano la pressione all'interno del sistema idrotermale.
ELEVARE IL RISCHIO VULCANICO DEL TAFTAN. Il fatto che alla fase di sollevamento non sia seguita una fase di subsidenza dell’edifico suggerisce la persistenza di condizioni di alta pressione idrotermale sulla sommità (e quindi dei rischi associati).
Indipendentemente dal fatto che abbia eruttato nel XIV secolo o che l’ultima eruzione sia di 400.000 anni fa, l’attività fumarolica classificava già il Taftan come vulcano quiescente, e le recenti evidenze di unrest lo confermano. Anzi, al di là del fatto che questi unrest non abbiano prodotto eruzioni, i risultati delle indagini InSAR rivelano che il Taftan sia più attivo di quanto precedentemente ritenuto. La logica conclusione, quindi, è che si rendono necessarie alcune azioni “elementari” urgenti: 
  • la necessità di una revisione dell'attuale rischio vulcanico
  • l’istituzione di una rete di monitoraggio 
  • e altre misure volte a ridurre il rischio.
Questo al di là degli scenari iperbolicamente drammatici riportato dai soliti siti acchiapaclick: non è assolutamente detto che questa attività di unrest porti per forza ad una eruzione del Taftan, tantomeno che questa futura eruzione abbia esiti distruttivi. 
In conclusione si può affermare in base all'esempio del Taftan come l'impiego dei dati satellitari possa rappresentare un sistema speditivo per controllare i vulcani non monitorati e che eventualmente, grazie a questi dati, possano essere messe in campo azioni rapide e mirate per monitorare - anche provvisoriamente - da terra dei complessi vulcanici appena insorgono delle fasi di unrest

BIBLIOGRAFIA

Akhoondzadeh (2025). Monitoring of volcanic precursors using satellite data: the case of Taftan volcano in Iran. Journal of Appl. Geodesy 19(2), 227–245

Brown et al (2015). Populations around Holocene volcanoes and development of a population exposure index. In: Loughlin SC, Sparks RSJ, Brown SK, Jenkins SF, Vye Brown C, editors. Global volcanic hazards and risk. Cambridge University Press; 2015:223 − 32 pp.

Delavari et al. (2022). The Bazman and Taftan volcanoes of southern Iran: Implications for along‐arc geochemical variation and magma storage conditions above the Makran low‐angle subduction zone. Journal of Asian Earth Sciences, 233, 105259.

Ghalamghash et al (2019). Magma origins and geodynamic implications for the Makran-Chagai arc from geochronology and geochemistry of Bazman volcano, southeastern Iran.  Journal of Asian Earth Sciences171, 289-304

Mohammadnia et al. (2025). Spontaneous transient summit uplift at Taftan volcano (Makran subduction arc) imaged using an InSAR common‐mode filtering method. Geophysical Research Letters, 52, e2025GL114853.

Shakeri et al. (
2015). Rare Earth elements geochemistry in springs from Taftan geothermal area SE Iran. Journal of Volcanology and Geothermal Research 304, 49–61.

Shirmohammadi et al. (2024). Calculating of Taftan Volcano displacement using PSI technique and sentinel 1 images. ISPRS Annals of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, X‐1, 213–218


martedì 14 ottobre 2025

anno 17 EV: la vittoria di Firenze e Rieti contro una proposta del Senato romano (probabilmente aiutate anche da una serie di circostanze)


Le commissioni parlamentari d’inchiesta erano evidentemente di moda anche nel senato romano e nel 17 EV una di queste si occupò di trovare il modo di diminuire le alluvioni del Tevere a Roma. Fu proposto un sistema per diminuire la portata degli affluenti, e questo fece preoccupare diverse città fra le quali Reate e Florentia, che espressero la loro contrarietà. Il progetto fu abortito, probabilmente non solo per l'opposizione delle popolazione, ma anche per motivi più pratici.

nell'immagine si vede come la parte romana di Firenze si trovi
ad una quota decisamente superiore al resto della piana circostante
FLORENTIA NASCE PER IL GUADO DELL’ARNO. Firenze è una città di fondazione, nel senso che la sua nascita è dovuta a un preciso intento, in questo caso militare e politico: la colonia fu fondata dall’esercito romano come presidio militare per difendere l’unico guado sull’Arno fra Arezzo e il mare (a cui forse su aggiunto un ponte). Il guado è dovuto ad un restringimento dell’alveo a causa dei sedimenti portati dal Mugnone in riva destra, che costringono il fiume a rasentare i colli in riva sinistra
La zona all’epoca era disabitata, preferendo gli etruschi risiedere sulle alture, in questo caso a Fiesole. In età più antica ci sono delle tracce di un insediamento villanoviano.
La scelta di difendere il guado è interessante, perché all’epoca l’Etruria non si trovava come adesso la Toscana interna lungo la direttrice principale nord – sud: l’itinerario “normale” tra Roma e la pianura padana era la Flaminia, che attraversava l’Appennino umbro-marchigiano fino a Fano e Rimini (non per nulla Cesare trasse il dado attraversando il Rubicone, fiume romagnolo). Ma l’Etruria settentrionale era lo stesso un’area strategicamente importante, basta considerare che i monti sopra Pistoia erano appena stati teatro della battaglia con cui si concluse la congiura di Catilina mentre due secoli prima Annibale aveva valicato l’Appennino nella stessa zona. Insomma, anche se il guado non era posto lungo una direttrice fondamentale, la presenza di una guarnigione avrebbe permesso un buon controllo dell’area, e soprattutto, di eventuali movimenti sgraditi sia via terra, che via acqua.

Naturalmente tutta la piana era impaludata, come ricorda anche Boccaccio all'incirca nel 1344 nel Ninfale Fiesolano, ottava V, 

Prima che Fiesol fosse edificata
di mura o di steccati o di fortezza,
da molta poca gente era abitata:
e quella poca avea presa l’altezza
de’ circustanti monti, e abandonata
istava la pianura per l’asprezza
della molt’acqua e ampioso lagume
ch’ai pie de’ monti faceva un gran fiume
Insieme alla presenza del guado, l’area presentava altre tre condizioni piuttosto interessanti:
  1. il castrum romano è sorto a breve distanza dall’Arno su un provvidenziale rialzo rispetto alla piana paludosa formato proprio dalla conoide del Mugnone (e in effetti è stato interessato dalle alluvioni solo nel 1333, 1557 e 1966)
  2. il castrum poteva inoltre essere difeso da due corsi d’acqua che fungevano da fossato lungo le mura, il Mugnone stesso (lungo l’attuale via Tornabuoni) e lo Scherraggio (lungo l’attuale via del Proconsolo).
  3. nell’area immediatamente a monte del restringimento dell’Arno e quindi a monte del castrum, la depressione corrispondente all’area attualmente occupata dagli Uffizi e dal quartiere di Santa Croce era caratterizzata da una insenatura dove da tempo esisteva già un piccolo porto al servizio della etrusca Fiesole.
la celebre carta di Philipp Cluver (1580-1623)
in cui si vede come i bacini di Arno e Tevere non erano distinti
IL CLANIS TRA ARNO E TEVERE. Il Clanis era il fiume che scorreva nella Val di Chiana e si gettava nel Tevere attraverso il Paglia, di cui era affluente. Si trattava all’epoca etrusca di un fiume importante e reso navigabile con un sistema di chiuse, che aveva fatto la fortuna di città come Chiusi, Cortona ed Arezzo, preziosissimo come era per i loro commerci (mi ricordo di aver visto qualche toponimo “porto” nella vallata). In questo modo i bacini di Arno e Tevere non erano separati e la posizione dello spartiacque nella Val di Chiana era incerto e soprattutto variava di continuo.  La situazione più o meno è rimasta la stessa fino alle regimazioni effettuate, non sempre in armonia, da Granducato di Toscana e Stato della Chiesa. La famosa carta del geografo tedesco Filippo Cluverio (1580 – 1622) mostra come si presentava l’Italia centrale tirrenica all’inizio del XVII secolo, quando lo spartiacque fra Tevere e Arno era mobile e dettato dall’altezza dell’acqua nel lago della Valdichiana.

RIETI E IL VELINO: l’antica Reate, oggi Rieti (per questo gli abitanti si chiamano reatini) si trova in una delle varie conche esistenti nell’Appennno centrale, come Colfiorito e il Fucino, per esempio. I rapporti fra Velino e Nera sono da vedersi nel quadro di una storia geologica delle ultime centinaia di migliaia di anni molto complessa: la conca di Rieti si è formata in diverse fasi grazie all’attività non contemporanea di più faglie:
  1. fino ad un certo punto era la Nera ad entrarvi dentro ed essere un affluente del Velino. Non sono in grado di dire con sicurezza verso dove questo Paleo-Nera si dirigesse: forse verso SE lungo il percorso dell'attuale Turano (che avrebbe quindi invertito il corso) oppure lungo il percorso del Canera, ma non ne sono sicuro 
  2. poi un altro sistema di faglie ha ribassato l’area ternana, formando quindi un dislivello importante fra quest’area e la conca di Rieti. A causa di questo il deflusso delle acque provenenti dalla Valnerina si è diretto verso il percorso attuale.
La deviazione della Nera verso Narni ed Orte ha provocato l'inversione della direzione delle acque nel tratto fra le Marmore e la conca di Rieti e quindi quel tratto della Paleo-Nera è diventato la parte bassa del Velino. Però poco dopo in quella stretta vallata è iniziata la sedimentazione di travertini. La quantità di sedimenti è stata talmente tale da provocare il blocco del deflusso del Velino. E così la conca di Rieti, alimentata dalle acque di Velino, Salto, Canetra e Turano e senza un emissario stabile fu occupata da un lago con le rive paludose. Si trattava quindi di una zona malsana per la malaria e totalmente inutile o quasi per la popolazione. Per migliorare la situazione igienica e sfruttare una piana così estesa per l’agricoltura, nel 271 a.C. il console romano Manio Curio Dentato fece realizzare il Cavo Curiano, che prende appunto il nome dal suo ideatore. Il Cavo Curiano permise il deflusso delle acque stagnanti in direzione del salto delle Marmore, trasformando la palude in un granaio e generando la famosa cascata.

FLORENTIA E REATE ALLEATE CONTRO UN PROGETTO DEL SENATO ROMANO. Il panorama di Florentia non era però poi troppo sicuro dal punto di vista della pericolosità idraulica: è vero che il castrum, sorgendo in un relativo rialzo, aveva una minore pericolosità rispetto alle paludi che lo circondavano (tanto è vero che fra le decine di alluvioni che hanno coinvolto la città dal 1200 l'area romana è stata allagata solo da quelle del 1333, 1557 e 1966), ma che gli abitanti non si sentissero al sicuro è evidenziato da un episodio in cui i fiorentini si coalizzarono ad altre genti dell’Italia centrale per contrastare una operazione idraulica di vasta portata ideata a Roma, come racconta Tacito negli Annales, nel libro I: correva l’anno 17 d.C. e a Roma le alluvioni del Tevere suscitavano una preoccupazione talmente grande da far istituire una commissione del Senato avente l’obbiettivo di risolvere il problema (insomma, una “commissione De Marchi” ante litteram: la Commissione Interministeriale De Marchi ha predisposto dopo l’alluvione del 1966 dettagliati progetti per fronteggiare il rischio idraulico in Italia, a protezione degli abitati lungo le aste fluvali).
La commissione esaminò una proposta di due senatori, Arrunzio e Ateio, che consisteva nella deviazione di alcuni fiumi e laghi che alimentano il Tevere, con la convinzione che così si evitassero le piene del fiume a Roma. La proposta scatenò il panico non solo a Florentia, ma anche fra gli abitanti di Reate e di diverse città lungo la Nera, come Narni.
In particolare 
  • i fiorentini erano preoccupati perché secondo il progetto di Arrunzio e Ateio le acque del Clanis, anziché scorrere verso il Tevere attraverso il Paglia, sarebbero state riversate verso l'Arno. Annoto che anche Pietro Leopoldo quando lanciò il progetto della bonifica della Valdichiana ebbe delle difficoltà perché a Firenze si è sempre continuata ad esistere la corrente di pensiero secondo la quale le acque della Valdichiana fossero un pericolo gravissimo (ma per esempio nel 1966 non fu così). Gli abitanti della Valnerina, ad esempio quelli di Narni, condividevano la stessa situazione dei fiorentini.
  • quanto ai reatini, evidentemente c’era la prospettiva di tornare alla situazione precedente alle opere volute da Manio Curo Dentato e quindi ad un nuovo impaludamento della conca.
Inoltre non dobbiamo dimenticare i motivi religiosi: le popolazioni avevano consacrato culti, boschi e altari ai loro fiumi e secondo alcune correnti di pensiero anche lo stesso Tevere (anche esso a maggior ragione oggetto di venerazione), non poteva accettare di scorrere privato degli affluenti. E toccare i sentimenti religiosi può non essere opportuno oggi, figuriamoci allora.
Fiorentini e reatini allora inviarono delle delegazioni a Roma per protestare vivacemente contro questa operazione, che minacciava la sopravvivenza dei primi e l’economia dei secondi.

Il progetto in effetti venne bocciato, anche se Tacito ammette di non sapere (o, almeno, così dice) se nella bocciatura abbiano prevalso le preghiere delle colonie, la difficoltà dei lavori, le motivazioni religiose o altre opinioni come quella di Gneo Calpurnio Pisone, fermamente contrario all’opera. La mia impressione personale è che sia stato un mix di tutti questi ostacoli a bloccare l’opera. Ho anche il sospetto di forti timori sul fatto che questa operazione avrebbe avuto gravi implicazioni economiche e sociali a Roma, per la cessazione della produzione di derrate alimentari in quelle fertili pianure particolarmente vicine alla capitale come conca di Rieti, bassa Valnerina e Valdichiana.

il lago della Valdichiana e il Trasimeno 
nella veduta a volo di uccello della Toscana di Leonardo
 
IL SUCCESSIVO MURO GROSSO SUL PAGLIA, UN RIMEDIO CHE NON HA AVUTO SUCCESSO. Per completezza delle informazioni riguardo al Clanis - Paglia, è comunque importante ricordare che continuava a riscuotere consensi l’ipotesi del Clanis come origine delle alluvioni a Roma e quindi nel 65 ev fu realizzato vicino a Fabro un muro sul Paglia, il “muro grosso”, una operazione che ha avuto un esito che eufemisticamente si potrebbe definire “sub-ottimale”: non ha impedito minimamente le alluvioni a Roma, ma in compenso ha pesantemente allagato tutta l’area a monte di esso.
Ovviamente il muro grosso cadde in rovina nel periodo post-imperiale, determinando un ritiro delle paludi. Ma nel 1055 gli orvietani, che si erano stufati dei continui passaggi di eserciti da quelle parti, risistemarono e rialzarono lo sbarramento costruito dai romani, proprio per impaludare nuovamente la vallata allo scopo di diminuire le possibilità di movimento delle armate perugine e senesi; la cosa riuscì loro benissimo, e non solo nel settore meridionale, perché in pochi anni le paludi ricoprirono di nuovo quasi tutta la Valdichiana, come si vede nel particolare della celebre "veduta a volo di uccello" di Leonardo da Vinci

lunedì 6 ottobre 2025

Breaking News: nell’atmosfera di Venere c’è molta più acqua del previsto


È semplicemente incredibile come dati vecchi di decenni possano essere recuperati e rivisitati con nuove tecnologie consentendo nuove interpretazioni, che oltretutto alle volte, come in questo caso, oscillano fra il sorprendente e il rivoluzionario. In questo caso sono stati rivisitati i dati ottenuti durante la discesa nell’atmosfera di Venere del satellite Pioneer Venus Large Probe, nei quali c’è la traccia di una cattura non prevista di aerosol che conterrebbero una quantità di acqua molto maggiore di quella che era accettata fino ad oggi. Questi dati potranno essere integrati ritrovando quelli delle altre sonde americane e di quelle sovietiche che hanno penetrato l’atmosfera venusiana, e sarebbero molto utili per le missioni pianificate verso Venere della NASA, ISRO Venus Orbiter e DAVINCI (ammesso che la NASA le effettui … con questi chiari di luna non è certo).

la classica immagine del sito di atterraggio 
della sonda sovietica Venera 14 nel 1981
VENERE, UN MONDO CALDO E SECCO. Le osservazioni dirette della superficie di Venere (ad esempio quelle della sonda sovietica Venera nel 1975) hanno dipinto un ambiente estremamente caldo e secco e fra acidità dell’atmosfera, pressione elevatissima ma soprattutto una temperatura di oltre 460 °C, queste poche missioni, tutte dell'era sovietica, sono sopravvissute solo pochi minuti dopo lo sbarco sulla superficie del pianeta. Sono comunque riuscite a a scattare ed inviare a Terra alcune foto di una superficie rocciosa arida e - ovviamente - senza tracce di vita.
Siccome dimensioni e materiale di origine di Venere sono simili a quelli della Terra, l’aridità indica una perdita d'acqua quasi totale partendo da condizioni iniziali umide che esistevano prima di 3 miliardi di anni fa, quando l’abbondanza di acqua avrebbe mediamente coperto il pianet con un oceano profondo circa 3 km (Chaffin et al 2024). Poi, a causa dell’aumento dell’irraggiamento solare, la temperatura e il vento solare hanno avuto effetti devastanti, non solo per la minor distanza dal Sole rispetto a noi, ma anche a causa dell’enorme effetto serra di una atmosfera in cui non si sono verificati quei processi tipicamente terrestri in grado di asportarne buona parte del CO2 (a partire da fotosintesi, formazione di rocce carbonatiche, seppellimento di materia organica e alterazione dei minerali). Quando è stato raggiunto il punto di non ritorno, tutti gli oceani sono evaporati e Venere è diventato il pianeta caldo e secco che vediamo oggi. Inoltre su Venere è diminuita l’attività tettonica e di conseguenza è crollato il campo magnetico, fattore che ha ulteriormente facilitato la dispersione dell’idrogeno lontano dal pianeta.
Senza entrare nell’argomento del come l’acqua sia fuoriuscita dal pianeta, il particolare che evidenzia maggiormente la fuga dell’idrogeno è l'arricchimento atmosferico del suo isotopo pesante: partendo da un rapporto iniziale deuterio / idrogeno simile a quello terrestre, oggi nella mesosfera di Venere questo rapporto è pari a circa 120 volte quello terrestre (Mahieux et al 2024). Questo perchè gli atomi di idrogeno sono più leggeri di quelli di deuterio e quindi fuoriescono nello spazio più facilmente, causando un aumento indiretto del secondo nell’acqua rimasta.
Però secondo Chaffin et al (2024), i modelli e i processi normalmente ipotizzati per questa fuga non sono in grado di spiegare del tutto i valori osservati, secondo i quali l’acqua contenuta dall’atmosfera potrebbe ricoprire la superficie del pianeta mediamente di 3 cm: questi processi si interromperebbero con un tenore di acqua tale da provocare una copertura teorica del pianeta di almeno 10 metri. Quindi o c’è più acqua del previsto o ci sono degli ulteriori processi ancora sconosciuti.


PROVE DI ACQUA E FERRO NELL'ATMOSFERA DI VENERE. I ricercatori sapevano che durante la discesa verso il pianeta delle varie sonde russe e americane gli spettrometri ultravioletti hanno temporaneamente e più volte perso il segnale; l’ipotesi è che queste perdite siano state dovute all'ostruzione dei loro ingressi a causa della cattura non pianificata degli aerosol. Questa cattura si è riflessa in una misurazione di gas come SO2, H2O e O2, inaspettatamente abbondanti
Per questo (e immagino anche in vista delle nuove missioni verso Venere delle sonde ISRO Venus Orbiter e DAVINCI) alcuni scienziati qualche anno fa si sono messi alla ricerca dei dati di una sonda americana, Pioneer Venus Large Probe, che è scesa attraverso l'atmosfera di Venere nel 1978, elaborando un piano per rivisitarli. La loro ricerca non è stata semplice, ma alla fine il set di dati archiviato è stato scoperto presso l'ufficio della NASA Space Science Data Coordinated Archive e successivamente pubblicato online.
Ed eccoci alla grande novità: Mogul et al (2025) presentano una nuova e rivoluzionaria composizione degli aerosol nelle nubi di Venere, ottenuta analizzando quei dati. I nuovi risultati supportano la valutazione secondo la quale il satellite durante la discesa attraverso l'atmosfera sempre più calda abbia recuperato gli aerosol delle nubi. Gli aerosol, una volta entrati negli strumenti di bordo, hanno subito una decomposizione termica grazie alla quale hanno rilasciato gas e composti, che sono ovviamente stati rilevati. Questi gas e composti includevano acqua H₂O, SO₂, O₂ e probabilmente Fe₂O₂. Sulla sonda era installato uno spettrometro di massa e queste molecole sono state identificate nel set di dati come H₂O+, SO₂+, O₂+ e Fe₂O+. Il tutto indica che gli aerosol delle nubi contengono una notevole quantità di acqua e masse comparabili di solfato ferrico e acido solforico.
Per gli Autori è probabile che l'acqua degli aerosol derivi da idrati, tra cui solfati idrati di ferro e magnesio e che ferro e magnesio potrebbero avere origine cosmica.
Questo lavoro, rivelando riserve di acqua e possibili materiali cosmici negli aerosol offre nuove e rivoluzionarie considerazioni per i modelli di chimica delle nubi venusiane e per le discussioni sulla loro abitabilità.

LE PROSPETTIVE FUTURE. È chiaro come questi dati rivoluzionano le conoscenze sugli aerosol di Venere, finora ritenuti composti quasi esclusivamente da acido solforico concentrato. E siccome a questo punto è altamente probabile che la raccolta e l'analisi non pianificate degli aerosol si siano verificate in tutte le misurazioni dirette condotte finora nelle nubi di Venere, sarebbe quindi interessante ritrovare anche i dati delle sonde americane e sovietiche, a bordo delle quali c’erano dei sensori chimici che hanno tutte misurato una notevole quantità di acqua nelle nubi dopo la cattura non pianificata di aerosol.
Queste valutazioni della raccolta imprevista di aerosol atmosferici oltre a precisare meglio il quadro, sono rilevanti per le prossime missioni pianificate verso Venere:
  1. DAVINCI che intende proprio campionare l'interno delle nubi. Ci si aspetta che queste misurazioni potrebbero anche correggere le incertezze relative all'abbondanza di vapore acqueo nelle nubi medie e basse.
  2. il Venus Orbit Dust Experiment della missione ISRO Venus Orbiter invece prevede di misurare l'abbondanza e il flusso di particelle di polvere interplanetaria per identificare potenziali materiali cosmici negli aerosol (ad esempio, Fe, Mg e Si)

BIBLIOGRAFIA


Chaffin et al (2024). Venus water loss is dominated by HCO+dissociative recombination. Nature 629, 307–310

Mahieux et al (2024). Unexpected increase of the deuterium to hydrogen ratio in the Venus mesosphere. PNAS 121 No. 34 -e2401638121

Mogul et al (2025). Re‐analysis of Pioneer Venus data: Water, iron sulfate, and sulfuric acid are major components in Venus' aerosols. Journal of Geophysical Research: Planets, 130, e2024JE008582.


mercoledì 1 ottobre 2025

Animalia: dalla radiazione del Cambriano alla prima estinzione di massa accertata (ovviamente associata ad una Large Igneous Province)


Nel Neoproterozoico non esistevano animali con parti dure, solo con parti molli; dall’inizio del Cambriano Animalia ha iniziato una radiazione evolutiva importante con la comparsa di forme dotate di parti dure. Questa radiazione, precedentemente nota come esplosione perché i pochi dati facevano pensare ad un evento quasi istantaneo collocabile a circa 538 milioni di anni fa, ha subìto una importante battuta d’arresto dopo circa 25 miloni di anni, quando un evento di estinzione di massa (l’evento di Sinsk) spazzò via il 60% delle specie conosciute. Anche questo evento è contemporaneo alla messa in posto di una Large Igneous Provinces, quella di Kalkarindji nell’Australia Centro-settentrionale; anzi,  è la più antica associazione del genere conosciuta.

a sinistra un tipico esonente delle faune di Ediacara:
Dickinsonia (Bobrovskiy et al. 2018, Science 361, 1246–1249 
a destra una trilobite del Cambirano (credit:  John R. Paterson)
DAL CONCETTO DI ESPLOSIONE DEL CAMBRIANO AL CONCETTO DI RADIAZIONE DEL CAMBRIANO. Nella documentazione fossile il passaggio Ediacarano – Cambriano era precedentemente noto come passaggio Precambriano – Cambriano. Da qualche decennio però Precambriano è diventato ormai soltanto una definizione “informale”, essendo ormai quella lunga fase della storia della Terra divisa in eoni, ere e periodi. Il passaggio Ediacarano – Cambriano, datato a 538 milioni di anni fa, evidenzia la discontinuità fra le faune di tipo ediacarano ad animali complessi, spesso dotati di parti dure come conchiglie o scheletri esterni, che nei successivi 20 milioni di anni sono stati protagonisti di una incredibile differenziazione e acquisizione di nuove nicchie ecologiche in un turbinio di estinzioni e sostituzioni di specie, la cosiddetta Radiazione Cambriana (Raup e Sepkoski,1982). Non mi piace linkare wikipedia, ma questa pagina al proposito è fatta abbastanza bene.
All’inizio della storia della Paleontologia, nel XIX secolo, la mancanza di organismi dotati di parti dure (e quindi di fossili) nelle formazioni “precambriane” delle Isole Britanniche fu confusa con la mancanza di fossili tout court (è difficile trovare adesso, figuriamoci all’epoca, trovare resti di organismi con solo parti molli) e quindi ha avuto molto sostenitori l’idea secondo la quale “prima” del Cambriano non ci fosse vita, distinguendo una era “azoica” che precede l’era Paleozoica.
Insomma, sembrava che all’inizio del Cambriano ci fosse stata una improvvisa comparsa di una serie di organismi, definita come “esplosione del Cambriano”. L’essere (anzi, il sembrare) un evento improvviso, ha provocato parecchie speculazioni, in particolare è stato un cavallo di battaglia degli antievoluzionisti e ha posto dei problemi al darwinismo nella sua accezione più lenta e graduale.
In realtà, oltre al definitivo riconoscimento di fossili risalenti a prima del Cambriano, appena è stato possibile utilizzare tecniche genetiche, anche l’orologio molecolare ha dimostrato come una prima differenziazione di Animalia avvenne già nel Neoproterozoico, soprattutto nell’Ediacarano (ne ho parlato spesso, per esempio qui) e inoltre è ormai assodato che l’affermazione di Animalia sia stata un processo graduale, e quindi la definizione più giusta è diventata Radiazione Cambriana. 

variazioni della ricchezza di specie e di nicchie ecologiche
nel Cambriano inferiore prima dell'evento di Sinsk (Murphy et al, 2025)
LA VELOCITÀ NON COSTANTE DELLA RADIAZIONE CAMBRIANA. Murphy et al (2025) in un interessante lavoro appena uscito, hanno esaminato in dettaglio la diversità funzionale nei metazoi scheletrici del Cambriano inferiore della Piattaforma Siberiana, all’epoca un vasto continente tropicale isolato dominato da ambienti carbonatici marini poco profondi, un hotspot di biodiversità che ospitava un terzo di tutti i metazoi scheletrici del Cambriano inferiore documentati [4]. 
In un intervallo all’interno del Cambriano inferiore, tra 529 e circa 520 milioni di anni, che quindi inizia una decina di milioni di anni dopo l’inizio del periodo, la ricchezza di specie mostra variazioni su piccola scala, per poi aumentare drasticamente fino a circa 514 milioni di anni, dopodichè è diminuita significativamente in coincidenza dell'evento di Sinsk. L’evento prende il nome dalla Formazione di Sinsk, dove è espresso più chiaramente: la Formazione di Sinsk e strati coevi simili coprono in totale oltre 750.000 km2 sulla Piattaforma Siberiana e contengono – aspetto importante che esaminerò più avanti – estesi scisti neri ricchi di pirite, uranio e materiale organico. 
L’ipotesi più accreditata per spiegare tassi di diversificaizone differenti nel Cambriano inferiore è la presenza di oscillazioni nel livello di ossigenazione oceanica (OOE) (He et al, 2019)
L’aumento della diversificazione è stato interrotto bruscamente, circa 513,5 milioni di anni fa, all’altezza dell’Evento di Sinsk, dalla prima estinzione di massa globale del Fanerozoico, come si vede dalla figura, tratta da Murphy et al (2025).

gli scisti scuri dell'evento di Sinsk in Australia e Antartide
L’EVENTO DI SINSK: UNA VERA ESTINZIONE DI MASSA. L’evento di Sinsk non era stato incluso tra le principali estinzioni di massa del Fanerozoico, nonostante gli alti tassi di estinzione, paragonabili a quelli degli eventi successivi, a causa del basso numero assoluto di generi durante il Cambriano rispetto al resto del Fanerozoico, e per questo motivo è poco noto, anche se in realtà il suo impatto sulla biosera è stato drammatico: ha annientato oltre il 60% delle specie animali e per ritornare a una biodiversità come quella che lo ha preceduto bisognerà aspettare l’inizio dell’Ordoviciano, quindi quasi 30 milioni di anni (Bambach, 2006)
L’evento di Sinsk è stato una vera estinzione di massa perché soddisfa le condizioni principali per essere così classificata:
  1. tassi estremamente elevati di estinzione e ricambio in una vasta gamma di phyla
  2. la drastica riduzione della diversità dei metazoi è documentata in tutte le serie stratigrafiche mondiali, cioè non è un fatto limitato alla piattaforma siberiana
  3. i sopravvissuti all'evento Sinsk si sono diversificati in comunità con composizioni tassonomiche radicalmente diverse da quelle che avevano dominato prima
L'evento di Sinsk segna quindi la fine della radiazione cambriana, reimpostando la traiettoria per la successiva evoluzione dei metazoi.

FENOMENI GEOLOGICI IN CORRISPONDENZA DELL’EVENTO DI SINSK. Dal punto di vista geochimico l’evento di Sinsk corrisponde anche al ROECE (Redlichiid - Olenellid Extinction Carbon isotope Excursion): un momento in cui il rapporto fra gli isotopi 12 e 13 del Carbonio, noto come δ13C, presenta valori particolarmente bassi, coevo con l’estinzione dei trilobiti della famiglia degli onellidi, a sua volta compresa nell’ordine dei Redlichidi (Faggetter et al, 2017). Il ROECE corrisponde anche ad un drammatico aumento della deposizione di sedimenti scuri perché ricchi di materia organica non decomposta, e conseguenza della presenza di condizioni anossiche e con la perdita di molte altre specie di metazoi e persino con l’assenza di tracce fossili, nonché con abbondanti prove di biomarcatori della presenza di comunità batteriche anaerobiche (Zhuravlev e Wood, 1996). I sedimenti anossici oltre che in Siberia sono presenti negli altri sedimenti dell'epoca, per esempio in Antartide, nell'orogene di Ross, e nella sua continuazione in Australia, l'orogene delameriano (Myrow et al, 2024). Tutti questi fattori suggeriscono un declino improvviso nei livelli globali di ossigeno oceanico che ha innescato un evento anossico globale.

La Grande Provincia Magmatica di Kalkarjindi
nel quadro della separazione dal Gondwana (Pannotia)
di vari terranes che ora fanno parte dell'Asia
CORRELAZIONI FRA L’ESTINZIONE DI MASSA E UNA LARGE IGNEOUS PROVINCE. Durante tutto il Fanerozoico la relazione tra perturbazioni ambientali ed estinzioni di massa è un focus comune degli studi, compresi quelli nel Cambriano. In particolare anche in corrispondenza dell’evento di Sinsk si nota una coincidenza fra una estinzione di massa e una serie di fenomeni geologici quali cambiamenti bruschi e temporanei del livello del mare, anossie marine, escursioni degli isotopi del carbonio. Questi fenomeni avvengono anche in corrispondenza della messa in posto di Large Igneous Provinces. 
Le Large Igneous Provinces sono delle enormi serie magmatiche, dell’ordine delle centinaia di migliaia se non di milioni di km cubi di magmi, che si mettono in posto in tempi geologicamente brevi. C’è una ampia letteratura che dimostra il legame fra queste enormi eruzioni e gli eventi di estinzione di massa, ad esempio i Trappi della Jacuzia per l’estinzione del Devoniano superiore, i trappi siberiani per la fine del Permiano, i basalti dell’Atlantico centrale per la fine del Triassico e i trappi del Deccan per la fine del Cretaceo (anche se sul K/T moltio non sono d’accordo, preferendo l’impatto dello Yucatan). Se poi si considerano anche brevi fasi di caratterizzate da tassi di estinzione anomalmente alti ma senza le percentuali elevatissime delle grandi estinizoni di massa, per esempio gli Eventi Anossici Oceanici del Cretaceo, la corrispondenza temporale diventa praticamente completa.
Una accoppiata LIP – estinzioni può essere un caso (e nel caso del K/T dal mio punto di vista lo è), due pure, ma una sincronia così regolare dovrebbe fornire una certa evidenza. Non discuto le cause in questo post: la letteratura su diversi meccanismi per spiegare l’associazione fra LIP ed estinzioni di massa è sterminata, se volete una sintesi leggete Ernst et al (2021). Inoltre ho parlato spesso di questo rapporto causa - effetto sia su Scienzeedintorni che sul mio libro "il meteorite e il vulcano, come si estinsero i dinosauri". 
La domanda è quindi: c'è una Large Igneous Province attiva in corrispondenza con la ROECE e con l’evento di Sinsk? Certamente: i due eventi coincidono approssimativamente con la messa in posto della grande provincia magmatica di Kalkarindji nell’Australia Centro-settentrionale, datata approssimativamente tra 514 e 513 milioni di anni fa (Jourdan et al, 2014) e di cui avevo parlato qui

Dal punto di vista della Storia della Terra, si tratta quindi della più antica correlazione temporale nota fra messa in posto di una Large Igneous Province, fenomeni di anossia oceanica e una estinzione di massa
Anche questa LIP, come diverse altre, si inquadra nel contesto di una futura apertura di un oceano, come - per fare un esempio "attuale" - quelle in corrispondenza dei punti caldi intorno all'Africa. È interessante inoltre notare come la LIP di Kalkarijndi si collochi immediatamente prima del primo grande distacco dal Grande Gondwana (che io continuo ad insistere a chiamare Pannotia per distinguerlo dal Gondwana di fine Paleozoico e Mesozoico) di vari terranes che ora fanno parte dell'Asia (Cina meridionale, Cina Settentrionale, Indocina, Qangtang), a cui poi è seguito più tardi il distacco dal Gondwana dei terranes galatiani e cimmerici. 

BIBLIOGRAFIA

Bambach (2006). Phanerozoic biodiversity mass extinctions. Annu. Rev. Earth Planet. Sci. 34, 127–155.

Ernst et al (2021). Large Igneous Province Record Through Time and Implications for Secular Environmental Changes and Geological Time-Scale Boundaries. Chapter 1 In: Ernst, et al (eds.) Large Igneous Provinces: A Driver of Global Environmental and Biotic Changes. AGU Geophysical Monograph 255, pp. 3-26.

Faggetter et al (2017). Trilobite extinctions, facies changes and the ROECE carbon isotope excursion at the Cambrian Series 2–3 boundary, Great Basin, western USA. Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology 478 (2017) 53–66

He et al. (2019). Possible links between extreme oxygen perturbations and the Cambrian radiation of animals. Nat. Geosci. 12, 468–474

Jourdan et al (2014). High-precision dating of the Kalkarindji large igneous province, Australia, and synchrony with the Early −Middle Cambrian (Stage 4−5) extinction. Geology 42/6, 543–546

Murphy et al (2025). Changes in metazoan functional diversity across the Cambrian Radiation and the first Phanerozoic mass extinction: the Cambrian Sinsk Event. Proc. R. Soc. B 292: 20250968.

Myrow et al (2024). Tectonic trigger to the first major extinction of the Phanerozoic: the early Cambrian Sinsk event. Sci. Adv. 10, eadl3452.

Raup e Sepkoski (1982). Mass extinctions in the marine fossil record. Science 215, 1501–1503

Zhuravlev e Wood (1996). Anoxia as the cause of the mid-early Cambrian (Botomian) extinction event. Geology 24, 311–314.

venerdì 19 settembre 2025

il punto sulla sequenza sismica innescata dal terremoto M 8.8. del 29 luglio 2025 a largo delle coste della penisola della Kamchatka


Un aggiornamento rapido sulla sismicità della Kamchatka, dopo il forte aftershock M 7.9 di ieri. Che nella fascia di circa 600 km interessata dal movimento del terribile terremoto M 8.8 del 27 luglio la sismicità continuerà anche intensa per mesi è assolutamente normale, ma negli ultimi giorni il livelli "di fondo" si è alzato parecchio, con due eventi che se non fossero stati nella coda del M 8.8 avrebbero avuto una attenzione maggiore, data la loro Magnitudo.
L'epicentro delle due ultime repliche con M superiore a 7 del 13 e del 18 settembre 2025 si trova nella stessa zona in cui sono iniziate le altre scosse principali, non solo di questa sequenza, ma anche del M 9.0 del 1952 e del terremoto M 7.0 del 27 agosto 2024. E l'evento del 1952 ha interessato lo stesso settore attivo oggi nel 2025. Ne avevo parlato qui.

nei 45 minuti che hanno preceduto il M 7.4 del 20 luglio
sono state registrate diverse scosse in successione


ANNOTAZIONE SUL CONCETTO DI "EPICENTRO" PER TERREMOTI  DI MAGNITUDO ELEVATA. Parlare di un epicentro prospetta una origine puntiforme di un terremoto. Può essere approssimativamente così quando la Magnitudo è bassa, ma diventa difficile considerarlo così quando il movimento avviene lungo un piano di faglia lungo decine di km (se non centinaia come nel caso del M 8.8, in cui il segmento interessato è lungo circa 600 km). Quindi i punti indicano più propriamente il punto di prima rottura, rottura che si espande velocemente da lì, molto di più in una direzione che nell'altra: è normale che il cosiddetto epicentro sia vicino ad uno dei vertici di un rettangolo che grossolanamente raccoglie le repliche. Continuare a parlare di epicentro è dunque una semplificazione,  e quindi con questo termine si intende un'altra cosa.

ASPETTI PARTICOLARI DEL TERREMOTO M 8.8 - 1. IL TERREMOTO DEL 20 LUGLIO. Come è noto, il terremoto M 8.8 del 29 luglio 2025 è stato preceduto pochi giorni prima, il giorno 20, da un evento M 7.4 con un "epicentro" appena una cinquantina di km a NE. Per questo, essendo passati solo 9 giorni, l'attività sismica delle repliche di quel terremoto era ancora presente e si è mescolata a quelle del forte evento successivo.. 
Un'altra curiosità è la sismicità che ha interessato l'area nei 50 minuti precedenti al M 7.4, visibile nella tabella qui accanto: giusto parlare di 45 minuti, perchè il primo evento è delle 6.02 UTC, ma è ancora più importante notare la raffica che ha preceduto il terremoto principale: un evento con M 6.6 alle 6.28 e nei venti minuti successivi ben 4 eventi prima del M 7.4.
Si dibatterà a lungo se quello del 20 luglio sia stato un foreshock del grande terremoto o no e, a cascata, se, a loro volta, il M 6.6 del 20 luglio sia stato un foreshock del M 7.4 e, addirittura, se il M 5.0 delle 6.02 lo sia a sua volta del M 6.6.



SECONDO ASPETTO PARTICOLARE  DEL TERREMOTO  M 8.8: L'AREA MOLTO RIDOTTA IN CUI SI SI ADDENSANO GLI EPICENTRI DEI TERREMOTI PIÙ IMPORTANTI. Anche nel caso delle forti repliche M 7.4 del 13 settembre e M. 7.8 del 18 settembre 2025 l'area epicentrale è concentrata nel mare davanti alla città di Petropavlovsk, anche se per fortuna ad una certa distanza dalla costa. 
Avevo già fatto notare come, oltre a quello del M 7.4 del 20 luglio, anche l'epicentro del M 9.0 del 1952è vicino a quello del M 8.8 del 2025, distando solo circa 25 km  in direzione WNW.  
Ad essi dobbiamo aggiungere il M 7.0 del 17 agosto 2024 e il  M 7.3 del 24 novembre 1971. Poco più a SW, troviamo nel 1993 100 km a SW l'evento M 7.0 del 13 novembre, che è seguito al M 7.5 dell'8 giugno. Li vediamo qui sopra a destra. 
Aggiungiamo poi che l'area è stata teatro di almeno 7 repliche del 1952 e una quindicina della crisi attuale. Insomma, le capacità sismogenetiche dell'area davanti a Petropavlovsk sono davvero parecchio elevate. 
Qui sopra a sinistra invece la sismicità a M uguale o superiore a 7 dal 1971, che comprende, a W della Kamchatka, terremoti a profondità uguale o superiore a 500 km. Vediamo che la distribuzione degli eventi è piuttosto irregolare, sia nel tempo che nello spazio.


ANDAMENTO DELLA SEQUENZA. Come c'era da aspettarsi, la sismicità "di fondo" continua  ad essere alta in tutta l'area interessata dal movimento il 29 luglio. Vediamo qui sopra a sinistra le repliche con M tra 5 e 6 di luglio (pochi giorni ma essendo a ridosso sono tante), agosto e settembre: sono oltre 2000. Gli eventi con M uguale o superiore a 6. sono invece 25. Chiaramente i due M 7 + degli ultimi giorni sono un pò fuori dalle righe, ma non certo inaspettati. 

PROSPETTIVE. Qui sopra a destra il confronto fra gli eventi a M 6.5 di questa sequenza e quelli analoghi del dopo-1952: fino alla fine del 1953 il database dei "terremoti significativi" di USGS segnala in quel periodo 36 repliche. La differenza è che la massima è stata di M 8.9. Non sono però in grado di capire quanto questo database possa essere competo, ma la questione è che se la diurata della sequenza attuale fosse analoga a quella che ha seguito il terremoto del 1952, allora siamo davanti almeno ad un anno di repliche piuttosto forti


giovedì 18 settembre 2025

un nuovo modello spiega la dinamica e la forte sismicità nell’Oceano Atlantico davanti alla penisola iberica


La forte, sia pure saltuaria, sismicità nell’Oceano Atlantico davanti alla penisola iberica è stata sempre un mistero fino a pochi decenni fa, quando finalmente fu chiaro che il contesto fosse quello di una debole convergenza fra la placca euroasiatica e quella africana. Stabilito il contesto generale, la descrizione più particolareggiata è stata un problema perché fra blocchi anomali profondi, mancanza di deformazioni superficiali che tenessero conto della sismicità ed altro era difficile venre a capo della situaizone. Oggi, finalmente, un team diretto da Joao Duarte è ruscito ad ottenere un modello credibile della situazione: la chiave è la presenza di una seconda zona di frattura, la Tyderman, parallela al limite di placca. Tra le due fratture si individua un blocco di mantello che si muove e determinerà entro qualche decina di milioni di anni la formazione di una vera nuova zona di subduzione lungo la quale la placca euroasiatica scorrerà sotto quella africana

Duarte 2025: il margine iberico con lae zone di frattura Gloria e Tydeman 
e gli epicentri dei terremoti più forti
Il 1° novembre 1755 è la data del più forte terremoto avvenuto in Europa in tempi storici, la cui Magnitudo è stata recentemente stimata in 8.7. Oltre ai danni del violento scuotimento del terreno, A Lisbona tra scuotimento del terreno, incendi coseguenti e soprattutto lo tsunami che flagellò le coste di mezzo Oceano Atlantico fu distrutto l'85% degli edifici della città. Al terremoto del 1755 bisogna poi aggiungere quelli del 1356 e 1761 e gli eventi che hanno causato i diversi tsunami ricordati nell’area a partire dal periodo intorno a quello delle guerre puniche (prima metà del III secolo a.C.).
Terremoti del genere sono tipici delle fasce dove si scontrano fra loro due placche tettoniche e una delle due scende sotto l’altra nelle profondità del mantello (la subduzione). Il terremoto del 1755 e i suoi gemelli sono stati un enigma all’inizio degli studi sulla tettonica a placche: il limite fra la placca euroasiatica e quella africana (detto in termini semplificati, in realtà il limite Eurasia – Africa è contrassegnato da entrambe le parti da una serie di microplacche) non presenta le caratteristiche tipiche di uno scontro fra placche, come ad esempio lungo l’anello di fuoco che circonda il Pacifico o lungo le coste meridionali dell’Indonesia.

I TERREMOTI REGISTRATI INIZIANO A DIPINGERE IL QUADRO. MA CI SONO DEI PROBLEMI. Grazie alla sismologia strumentale sono stati registrati 3 terremoti nella parte più occidentale del limite fra le placche, più verso le Azzorre: i terremoti M 7.1 del 1931 e M 8.4 posti lungo il limite di placca e M 8.1 nel 1975; quest’ultimo è avvenuto lungo la zona di frattura Tyderman, parallela al limite di placca. Questi eventi sono trascorrenti, come è facilmente ipotizzabile dal contesto, ma ancora non c’era nessuna idea su come potessero originarsi terremoti come quello del 1755 e i suoi gemelli.
Poi due terremoti molto forti, il M 6.4 del 1964 e soprattutto nel 1969 il violento terremoto M 7.9 di Capo San Vincente, sono stati interpretati il primo da McKenzie (1972) e il secondo da Fukao (1972) come eventi causati da una tettonica compressiva ed è stata finalmente concepita l’idea secondo la quale la sismicità davanti alle coste europee e africane fosse l’espressione di un limite compressivo fra la placca euroasiatica e quella africana.
In un fiorire di questi studi pionieristici ci sono altri due lavori fondamentali: Purdy (1975) avanzò l’idea che il terremoto del 1969 fosse stato generato da una compressione sotto la pianura abissale di Horseshoe, lungo un piano immergente verso nord e che quella situazione fosse la spia di un “consumo” di litosfera oceanica come nelle zone di subduzione. In seguito Sartori et al (1994) grazie ad una campagna di immagini sismiche a riflessione hanno rivelato un complesso schema di deformazione compressiva che coinvolge la litosfera oceanica mesozoica, dovuta ad una lenta convergenza delle placche su un'area che si estende per 200 km dalla dorsale di Gorringe alla pianura abissale Seine, davanti alle coste marocchine. Il Gorringa ridge in effetti è un blocco di crosta oceanica e mantello superiore che è stato sollevato e forma una dorsale lunga 120 km e alta 5. È stato quindi facile pensare al Gorringa Ridge come effetto della compressione in atto, causata dalla ormai accettata convergenza di oltre 1 cm/anno fra le due placche.
Restavano però due problemi di non trascurabile importanza:
  1. tutte le faglie mappate a livelli crostali più superficiali si presentano inclinate verso sud, proprio come quella del Gorringe settentrionale e cioè, alla rovescia rispetto a questo ipotetico piano di faglia
  2. inoltre, come è possibile l’esistenza di una faglia talmente importante e attiva da essere capace di generare eventi sismici di magnitudo molto elevata, tipici delle zone di subduzione, al di sotto di una piana abissale ricoperta da sedimenti pressoché indisturbati?

UN BLOCCO DI MANTELLO SOTTO LA PIANA ABISSALE HORSESHOE. La tomografia sismica conferma l'esistenza della "anomalia sismica a SW della penisola iberica": si tratta di una estesa sezione della litosfera caratterizzata da alta velocità delle onde sismiche che si estende fino a una profondità di 250 km, ed era già stata precedentemente rilevata al di sotto della pianura abissale di Horseshoem (Gutscher, 2002). Quando questa anomalia fu scoperta, fu facile spiegarla come la traccia di un blocco di crosta e litosfera in subduzione. Ma questo non è possibile, perché implicherebbe più di 200 km di raccorciamento crostale a largo della penisola iberica sud-occidentale, contraddicendo i dati, per i quali il raccorciamento massimo è di di 20–50 km.
E a questo punto, come negli anni ‘70, i terremoti sono venuti incontro ai ricercatori. In questo caso è stato localizzato sotto la Piana Abissale di Horseshoe un gruppo di terremoti a profondità di 20-60 km (Silva et al, 2017); tutto molto interessante e nel contempo molto strano: nella crosta e nel mantello oceanico i terremoti si producono in genere a bassa profondità, mentre qui a profondità inferiore ai 20 km di terremoti ce ne sono pochi. Il tutto suggerisce un disaccoppiamento meccanico tra due parti del mantello, quella superiore, spessa una ventina di km di profondità molto alterata (serpentinizzata), al di sotto della quale troviamo mantello non serpentinizzato. Inoltre nella piana abissale Horseshoe il mantello serpentinizzato affiorebbe direttamente sul fondo oceanico se non ci fossero tra i 5 e i 10 km di sedimenti; in altre parole, lungo il margine iberico dell’Oceano Atlantico manca la crosta basaltica; invece a sud del limite di placca, nel dominio africano, è presente una sottile crosta oceanica basaltica. La mancanza di crosta basaltica è una caratteristica “normale” del margine iberico della placca euroasoatica, perché quando è iniziata l’estensione che ha aperto l’Oceano Atlantico qui di magmi ce ne sono stati davvero pochissimi e il processo è stato guidato solo dalla attività tettonica.
L’esito della alterazione del mantello (la serpentinizzazione) è stato quello di avere una parte superiore più debole (appunto quella serpentinizzata) e la convergenza, anche se a bassa velocità, fra Eurasia e Africa sta provocando la delaminazione, ovvero il disaccoppiamento fra la parte superiore del mantello, serpentinizzata e qualla inferiore che non lo è.

il modello di Duarte et al (2025) 
IL NUOVO MODELLO SPIEGA LA SITUAZIONE. Duarte et al (2025) hanno modellizzato la situazione, verificando come sia proprio la presenza delle due zone di frattura parallele ad influenzi pesantemente il contesto tettonico, perché in un primo modello, con soltanto il limite fra le due placche coinvolto la zona debole verticale si trasforma in una zona di subduzione incipiente, con la placca più sottile (Eurasia) che subduce verso sud sotto quella più spessa (Africa), con i circa 200 km di spostamento, che appunto non si osservano.
Invece nel modello con due zone deboli verticali che si vede qui accanto (FIGURA A, riferita a quando è iniziata la convergenza fra le placche), si verifica qualcosa di diverso e inaspettato, come da FIGURA B, che presenta una situazione simile a quella attuale: il blocco limitato dalle due zone deboli sprofonda spostandosi verso nord, sotto la placca eurasiatica: lo strato serpentinizzato debole suborizzontale si ispessisce e accoglie la maggior parte del raccorciamento, separando notevolmente la deformazione profonda dalla crosta. Ci sono tre aspetti importanti che rendono molto realistico il modello:
  1. il raccorciamento avviene lungo una nuova faglia principale, che immerge verso nord, che è quella dove dovrebbero avvenire i terremoti più forti (sicuramente quello del 1969, ma a cascata anche quelli storici come quello del 1755 e i suoi gemelli).
  2. sopra la faglia immergente a nord la crosta sedimentaria rimane relativamente piatta ma la sua deformazione forma un sovrascorrimento a basso angolo che immerge verso sud, in una posizione simile a quella della faglia di Gorringe
  3. il modello funziona utilizzando i parametri caratteristici dell'area (fratture, spessore del mantello serpentinizzato e non, velocità di convergenza etc etc). Se qualcuno di essi viene cambiato partendo dal periodo indicato dalla figura A, la situazione attuale e la sua evoluzione sono completamente differenti dlla situazione attuale della figura B e, ovviamente, dal futuro

LA POSSIBILE EVOLUZIONE FUTURA DEL SISTEMA. Il modello esplora anche quello che potrebbe succedere in futuro:
  • nella FIGURA C il blocco delaminato continua ad affondare anche solo perché è più pesante di quello che lo circonda
  • nella FIGURA D vediamo cosa può succedere se continua la convergenza fra le placche: fra 30 milioni di anni si attiva una nuova subduzione, con la placca europea che scende sotto quella africana.

L’INIZIO DI UNA SUBDUZIONE. Fra gli enigmi ancora aperti nella tettonica a placche c’è non solo in generale il momento in cui sulla Terra iniziò questo processo; fra essi c’è anche – banalmente – come faccia ad iniziare una subduzione. Le zone di subduzione attuali, come l’anello di fuoco che circonda il Pacifico, sono mature, quindi è fondamentale trovarne di nuove in formazione anche se bene o male in molte fasce orogeniche è relativamente facile sapere quando il processo è iniziato e perché. Il come è un po' più difficile.
Il caso dell’India è quello – diciamo così – più clamoroso per dimostrare come sia difficile l’inzio di una subduzione: sono ormai 50 milioni di anni che il subcontinente indiano si sta incuneando nell’Eurasia, provocando una sismicità diffusa lungo delle vecchie suture fra i blocchi che scontrandosi fra loro hanno costruito l’Asia centrale e orientale; invece sul bordo orientale dell’India, lungo il golfo del Bengala, dove c’è il limite fra crosta continentale e crosta oceanica, ci sono pochissimi sforzi. Insomma, è più difficile che si formi una nuova subduzione nonostante l’enorme resistenza che l’India incontra incuneandosi in Asia. 
Qui, a largo di Gibilterra, i forti terremoti e le ricostruzioni tettoniche indicano una collisone fra le placche, ma non esistono tratti distintivi di un quadro del genere, come una fossa oceanica o un arco magmatico. Tutto questo indica proprio che da quelle parti si sta formando una nuova subduzione, che potrebbe collegarsi con quella di Gibilterra, prolungando dentro l'Oceano Atlantico l'orogene Appenninico - Maghrebide.

L’UNICITÀ DI QUESTA SITUAZIONE. La mancanza di altri esempi evidenti a livello mondiale suggerisce che un processo come questo possa verificarsi solo in condizioni molto specifiche: una litosfera oceanica antica, spessa e serpentinizzata, dove all’epoca della formazione del margine non ci sono stati importanti apporti magmatici. Quindi è caratteristico soltanto di vecchi margini oceanici che si sono formati ed inoltre il processo non è facilmente rilevabile in superficie.
Quindi si potrebbe applicare solo a poche situazioni. Mi vengono in mente l’inizio della chiusura della Tetide nel mesozoico oppure l'invasione nell'oceano di una zona di subduzione lungo un margine continentale; questo secondo caso potrebbe essere successo magari con l'orogenesi caledoniana e la chiusura dell'oceano di Tornquist,

BIBLIOGRAFIA

Duarte et al (2025). Seismic evidence for oceanic plate delamination offshore Southwest Iberia. Nature Geoscience, https://doi.org/10.1038/s41561-025-01781-6

Gutscher et al (2002). Evidence for active subduction beneath Gibraltar. Geology 30, 1071–1074

Fukao (1973). Thrust faulting at a lithospheric plate boundary: the Portugal earthquake of 1969. Earth and Planetary Science Letters 18, 205-216.

Lo Iacono et al (2012). Large, deepwater slope failures: Implications for landslide-generated tsunamis. Geology 40, 931–934

McKenzie (1972). Active tectonics of the Mediterranean region. Geophysical Journal International 30, 109-185

Sartori et al (1994). Eastern segment of the Azores-Gibraltar line (central-eastern Atlantic): An oceanic plate boundary with diffuse compressional deformation. Geology, 22,555-558

Silva et al (2017). Micro-seismicity in the Gulf of Cadiz: is there a link between micro-seismicity, high magnitude earthquakes and active faults. Tectonophysics 717, 226–241



giovedì 11 settembre 2025

Le piogge in Toscana di martedì 9 settembre 2025 e il problema dell’estensione delle aree di allerta


L'allerta meteo in Toscana per martedì 9 settembre 2025 è una dimostrazione di come normalmente le aree interessate da questi provvedimenti si rivelino ben più estese di quelle dove in effetti succede qualcosa. Vale soprattutto per le allerte "gialle" o "arancioni". Nel caso toscano ci sono state precipitazioni molto intense in zone estremamente ristrette (addirittura interessate da allerta gialla) ed è chiaro che l'attuale stato dell'arte della ricerca non permetta di risolvere estensioni così limitate. La questione importante è che nella stragrande maggioranza dell'area interessata è successo veramente poco (come, appunto, succede di solito), e che a livello di opinione pubblica questo sia considerato un falso positivo. Il rischio è che la popolazione si assuefaccia e prenda sottogamba la questione oppure ancora protesti per i provvedimenti adottati. Inoltre molti siti meteo forniscono previsioni specifiche comune per comune questi siano "più bravi" della Protezione Civile e di qualsiasi altra organizzazione pubblica che si occupi di meteorologia. Purtroppo chi non conosce le dinamiche delle allerte non è in grado di capire perché vengano adottati certi provvedimenti. a partire dalla chiusura delle scuole e dalla sospensione di varie manifestazioni. Onde evitare che monti la sfiducia nei confronti del sistema di Protezione Civile (anche grazie ai soliti tribuni che guardano alla pancia anziché alle conseguenze delle loro azioni) penso sia necessaria una ampia opera di comunicazione da parte della Protezione Civile (o di chi per essa).

IL PROBLEMA FONDAMENTALE: IL CONCETTO DI ALLERTA, A PRESCINDERE DAL COLORE. Spesso si trova chi pensa (anzi ritiene un dato di fatto) che a fronte di quantitativi industriali di allerte arancioni, in genere è già tanto se piova e che spesso gli unici eventi che hanno causato danni di un certo rilievo si sono verificati in stato di allerta gialla.
Queste convinzioni nascono da una non conoscenza della questione, cioè di come funzionano il sistema di previsioni meteorologiche e quello delle allerte. Perché non è che con l’allerta gialla non succeda niente, semplicemente c’è la possibilità che in un’area molto localizzata succeda un guaio, con appunto i sunnominati “danni di un certo rilievo”. Idem con l’allerta arancione: non è detto che piova dappertutto e forte nell’area indicata in arancione; anzi, in generale non è così, come appunto faccio notare in questo post. Ma quando l’allerta è arancione è molto difficile, almeno in Toscana, che non succeda niente; in genere fa davvero guai almeno in un’area ristretta.

PRECISIONE SPAZIALE DELLE PREVISIONI. Inoltre ricorderei anche due problemi importanti:
1. PROBLEMA SCIENTIFICO: le previsioni del tempo sono "probabilistiche" e non "deterministiche" e allo stato dell'arte attuale non è possibile che siano più precise di quanto lo sono, specialmente nello spazio (diciamo che è più evidente ua previsione sbagliata nello spazio, mentre se la precipitazione comincia alle 14 anzichè alle 15 la cosa viene sentita meno). Certo, alle volte si verificano degli errori e sia i “falsi positivi” (noti come flop) che i “falsi negativi” danneggiano agli occhi dell’opinione pubblica la credibilità del sistema. 
2. LE COSIDDETTE PREVISIONI LOCALI DEI SITI METEO: purtroppo un po' di colpa è anche dei siti meteo, una buona parte dei quali notoriamente considero personalmente solo delle macchine acchiappaclick per allodole tramite pagine che sparano titoloni. Ma il problema, presente ahimè anche in alcuni fra i (pochi) siti autorevoli che esistono (e che consulto), è il vizio di fornire in dettaglio per ogni ora e località i mm di pioggia. Pertanto una grossa fetta dei loro utenti ritiene credibili queste previsioni, e si stupisce che le previsioni su cui sono basate le allerte non abbiano tale precisione e, soprattutto sono portati a pensare che che chi lavora in questi siti sia "più bravo" di coloro che lavorano alla Protezione Civile e in qualsiasi altra organizzazione pubblica che si occupi di meteorologia. 


GLI EVENTI IN TOSCANA DEL 9 SETTEMBRE. Quello che è successo in Toscana martedì 9 settembre è particolarmente esplicativo al riguardo e dimostra come, almeno in quel caso, una previsione per singola località sia quantomeno estremamente difficile. Vediamo 4 casi:
1. CARRARA. Nella carta 1 vediamo le piogge della notte fra lunedì e martedì tra le 1.00 e le 5.00 nella zona di Carrara: a fronte di un valore intorno agli 80 mm fra Sarzana e Massa sulle pendici delle Apuane si sono registrate precipitazioni maggiori, addirittura doppie. Per fortuna il reticolo fluviale della provincia di Massa è – come quello ligure – capace di assorbire piogge del genere e quindi i fiumi non sono neanche arrivati al livello di guardia (altrove, anche in Toscana, piogge del genere avrebbero causato ben altri danni). Inoltre, se a Massa sono caduti 80 mm di pioggia, a Seravezza - distante appena una decina di km verso sud - sono caduti appena 20 mm. Da notare che la zona di allerta dove è avvenuto questo evento, contrassegnata con "V" è la Versilia (zona che non comprende i comuni - tipicamente versiliesi - di Viareggio, Massarosa e Seravezza, ma include in provincia di Massa quelli di Massa, Carrara e Montignoso). Da notare che la zona di allerta Versilia era interessata da una allerta "gialla" e non "arancione"
2. PORTOFERRAIO. Nella carta 2 vediamo quello che è successo nel pomeriggio all’Elba: l’isola si estende in direzione EW per circa una trentina di km e nella sua parte orientale sono caduti da 90 a 120 mm di pioggia in due ore e mezzo, mentre nella punta occidentale la precipitazione è stata di appena 5 mm
3. VALDARNO INFERIORE. Nella carta 3 una pioggia estremamente forte (quasi 80 mm) si è abbattuta su Montopoli, mentre intorno nello stesso periodo i valori sono stati contenuti in 20 mm (addirittura zero a Pontedera, una dozzina di km più a W)
4. ISOLA DEL GIGLIO. Nella carta 4 la sera di martedì è caduta una pioggia fortissima all’isola del Giglio, mentre all’Argentario e alla Gorgona non è praticamente piovuto. Se ci fossero stati dei pluviometri nel mare tra Elba e Giglio, questi avrebbero presentato sicuramente valori importanti, ma lungo la costa le precipitazioni sono state molto limitate

ZONE DI ALLERTA E ZONE DI PRECIPITAZIONI INTENSE. Martedì 9 settembre c’era l’allerta gialla a Carrara, l'allerta arancione negli altri tre casi ma chiaramente come si vede dalla carta delle precipitazioni delle 24 ore la popolazione della maggior parte dell’area interessata potrebbe aver pensato “ma che l’hanno fatta a fare l’allerta arancione?” Insomma, ci può essere stata la sensazione di una allerta che in realtà è stata considerata un falso positivo (un flop).
All’Elba avrebbero pensato così a Pomonte, mentre al contrario a Portoferraio qualcuno avrà pensato che “avrebbero dovuto mettere l’allerta rossa” e a Carrara avranno pensato che il colore giusto fosse almeno l'arancione.

I PROBLEMI PRATICI DELLE ALLERTE. La domanda è: sarebbe stato possibile fare delle previsioni così accurate, separando l’Elba orientale da quella occidentale o la zona di Massa da quella di Seravezza e ipotizzare che una pioggia così forte avrebbe colpito Montopoli, lasciando indenne Pontedera, precisando quei pochi millimetri nelle aree circostanti? Oppure che piovesse così tanto al Giglio ma niente all’Argentario?
La risposta è NO.
Proclamare un'allerta ha i suoi problemi anche per i cittadini, non solo per il sistema di Protezione Civile: provvedimenti come chiusura delle scuole (con i relativi disagi per molti genitori), la non effettuazione del mercato settimanale, la chiusura di parchi pubblici e sottopassi, il divieto generale di manifestazioni dei più diversi generi e altri provvedimenti che non sto ad elencare hanno un impatto nella vita quotidiana.
Quindi si rende necessaria un’opera di sensibilizzazione della popolazione: ieri in Toscana la percentuale di popolazione per la quale l’allerta pare stata esagerata (quindi un falso positivo) è stata sicuramente superiore a quella che ha avuto dei problemi (e anche grossi, a Portoferraio). E siccome ovviamente si tratta di una caratteristica intrinseca dell’allerta arancione nell’attuale “stato dell’arte” della meteorologia, ne consegue che la “gggente” continuerà a pensare che le allerte siano paragonabili alla classica situazione di “al lupo a lupo” e questo comporta il rischio che molti cittadini se ne freghino altamente di quando vengono proclamate (e ignorarle può essere molto, ma molto pericoloso, a cominciare dal transitare nei sottopassi) e protestino perché viene rinviata la sagra paesana. Ho addirittura letto commenti nei quali le allerte sarebbero un modo “creativo” di chi ha qualche responsabilità per togliersela e pararsi da critiche, sia pubbliche che mosse in tribunale.
Da ultimo si deve riflettere su un aspetto non marginale: oltre alle vittime inutili (tipo quelli che sono andati a “salvare la macchina” o a prendere i soldi nascosti in cantina) succede che ci siano vittime lungo i fiumi in aree dove, pur esistendo l’allerta non è piovuto, però situate a valle di aree dove è piovuto. Questo succede specialmente in bacini di media dimensione, dove le piene arrivano veloci e la mancanza di piogge locali toglie completamente la percezione di un problema in arrivo.

LA NECESSITÀ DELLA FORMAZIONE DELLA POPOLAZIONE. Insomma, il sistema di Protezione Civile funziona, anche se come ogni cosa è perfettibile. Funziona molto meno la percezione delle allerte nella popolazione, anche per gli evidenti disturbi e disservizi che provocano e su questo ci sarà parecchio da fare nell’immediato futuro. Questo ovviamente per far capire come si arriva a provvedimenti del genere e responsabilizzare la cittadinanza, Ma anche per evitare il moltiplicarsi di personaggi e di siti che per i più vari motivi cerchino di sobillare e cavalcare l'eventuale malcontento prima che il problema inizi a sfuggire di mano. 
Nella formazione ci sarebbe comunque da parlare anche di un'altra questione e cioè che ià adesso il primo problema, da quando ci sono gli smartphone che trasmettono immagini e filmati di un evento in corso, è che la Protezione Civile arriva sempre "dopo".