Quando Gregorio Farolfi con altri ricercatori stava pubblicando un articolo sui rapporti fisici fra magnitudo dei terremoti e strain rate, avendo accesso ai dati ho potuto notare che tra il 1991 e il 2011 ci sono evidenti massimi del tasso di deformazione nelle aree colpite dai terremoti fra Emilia e Toscana (2012 e 2013) e nell’Italia centrale (1997, 2009 e 2016), mentre aree colpite poche decine di anni fa da importanti eventi sismici come il Belice o il Friuli presentavano – non inaspettatamente – un tasso di deformazione basso; la sorpresa è che invece in Irpinia questo valore era ancora abbastanza alto. Allora ho parlato con Filippo Bernardini di INGV e ne è nato un lavoro che giustifica questo fatto e che dimostra come un nuovo evento sismico importante sia possibile in Irpinia.
Il lavoro (Piombino, Bernardini e Farolfi 2021 Assessing Current Seismic Hazard in Irpinia Forty Years After the 1980 Earthquake Merging Historical Seismicity and Satellite Data about Recent Ground Movements) è stato pubblicato su Geosciences ed è disponibile a questo indirizzo.
Ogni bersaglio persistenti (Permanent scatterer – PS) ottenuto con le immagini radar dei satelliti InSAR ha il proprio sistema di riferimento e quindi si possono confrontare solo le serie temporali dello spostamento di PS fra loro vicini; al contrario le stazioni GNSS (il più noto di questi sistemi è il GPS) operano tutte nello stesso sistema di riferimento. Per questo i movimenti tettonici a larga scala sono stati sempre studiati solo con i GNSS. Ma se le stazioni GNSS sono poche e forniscono dati solo durante la loro esistenza, i PS sono ricavabili in grande quantità in ogni serie di immagini InSAR. Qualche anno fa Gregorio Farolfi ha avuto l’intuizione di “correggere” i dati dei PS amalgamandoli con quelli GPS e quindi aumentando decisamente il numero di punti di riferimento, anche se così si leggono per adesso solo la componente verticale e quella E-W, non la componente N-S del movimento. Uscimmo quindi con una applicazione del metodo su tutta l’Italia, Sardegna esclusa relativa al periodo 1991 – 2011 ottenuta con i dati del Piano Straordinario di Telerilevamento, in cui abbiamo evidenziato movimenti piuttosto interessanti (Farolfi, Piombino e Catani 2019)(un riassunto è qui).
I terremoti dal 1990 con M 5+ si addensano dove lo strain rate è più alto |
STRAIN RATE E TERREMOTI. Lo strain rate è stato calcolato fino ad oggi in diversi modi: con il momento sismico (Barani et al 2010), con la geodesia attraverso i dati delle stazioni GPS (Riguzzi et al., 2012), con gli sforzi ricavati dallo studio di faglie e pozzi (Montone and Mariucci 2016). Anche Gregorio Farolfi aveva calcolato lo strain rate con i dati GPS (Farolfi e Delventisette, 2017) ma è andato avanti e lo ha calcolato di nuovo con gli stessi dati che abbiamo usato per il lavoro del 2019 (Farolfi et al, 2020). Usare i dati dei Ps dei satelliti InSAR (ovviamente normalizzati grazie ai dati GPS) ha portato un aumento della densità dei dati e una distribuzione più omogenea rispetto all’utilizzo delle sole stazioni GPS, con la possibilità quindi di determinare questa misura a scala molto più dettagliata. La cosa interessante è che analizzando gli eventi sismici verificatisi dal 1990 nella penisola italiana, si vede che la probabilità del verificarsi di un forte evento sismico raddoppia con il raddoppio dello SR: l’unica area ad alto strain rate tra 1991 e 2011 nella pianura padana era proprio quella dei terremoti emiliani del 2012, mentre anche la Toscana di NW, sede di una discreta sismicità fra 2012 e 2013 presentava uno strain rate più elevato che nei dintorni e valori estremamente alti caratterizzavano l’area dei terremoti dell’Appennino Centrale (1997, 2009 e 2016). In Emilia il valore è un po' basso rispetto al centro Italia: lo spiego con la spessa coltre sedimentaria sopra le rocce in deformazione che essendo plastica attutisce le deformazioni che avvengono nel più rigido basamento sottostante.
Dopo il 1908 gli unici 3 terremoti a M 6 o più in Italia meridionale sono avvenuti in Irpinia |
Un’altra cosa interessante è che aree colpite da terremoti recenti come il Friuli (1976) e la Sicilia occidentale (1968) hanno un tasso di deformazione piuttosto basso, il che appare abbastanza logico perché un forte terremoto ridistribuisce il campo di sforzi che poi è quello che guida la deformazione.
Invece lo strain rate è ancora molto alto in Irpinia, il che è in qualche modo controintuitivo, perché quest'area ha ospitato la maggior parte dei più forti terremoti dell'Italia meridionale dopo il 1908: Mw 6.7 23 luglio1930, le 3 scosse (alle 18:09, 18:19 e 18:44 UTC) del 21 agosto 1962, di cui la seconda, la più distruttiva con Mw 6.11) e – soprattutto – la terribile scossa complessa del 23 novembre 1980): solo i terremoti Mw 6.4 Belice del 1968 e Mw 6.0 a nord di Palermo nel 2002 hanno raggiunto valori così alti dopo il 1908.
La cosa mi ha incuriosito e allora ho coinvolto Filippo Bernardini di INGV, che è un esperto di sismologia storica, per capire se in qualche modo la storia sismica dell’Irpinia poteva giustificare quello che si ricava dai dati dello strain rate e cioè la presenza di quello che appare un requisito necessario per un nuovo evento sismico piuttosto forte.
Ne è venuto fuori un articolo che è stato pubblicato su Geoscience di MDPI in un volume speciale per il 40° anniversario del terremoto del 1980 (si trova qui).
lo strain rate in Irpinia e le faglie principali: il sistema al centro è quello del Monte Marzano |
LO STRAIN RATE IN IRPINIA. L'Irpinia è appunto una delle aree in Italia che mostravano tra 1991 e 2011 il tasso di deformazione più elevato: partendo dal settore immediatamente più a NW dell’Irpinia e muovendosi verso SE lungo l’asse della catena appenninica, vediamo che nel Sannio il tasso di deformazione era basso (meno di 20 nstrain/a 10 km a N di Benevento); da qui, entrando in Irpinia il valore sale a 35 in meno di 30 km (a Grottaminarda), toccando i livelli massimi (48 nstrain/a) 15 km a sud dell'epicentro del terremoto del 23 novembre 1980, pochi km ad est della faglia del Monte Marzano. Dunque in Irpinia abbiamo sempre più di 40 nstrain/a, valore fra i maggiori in Italia. Anche verso sud il tasso di deformazione scende ma in maniera più graduale, mantenendosi sopra 35 nel Vallo di Diano, e mentre a nord dell'Irpinia lungo l'asse della catena il valore scende rapidamente sotto i 30 nstrain / a, verso sud i valori rimangono al di sopra di questo valore ben più a lungo, fino al confine con la Calabria dove scende a circa 20 nstrain/anno proprio al limite fra Appennino meridionale e arco calabro – peloritano.
QUADRO TETTONICO DELL’IRPINIA. L’orogene appenninico meridionale è poco omogeneo, in parte a causa delle tante discontinuità ereditate, a partire dalle faglie estensionali che si sono formate 200 milioni di anni fa quando iniziò l’apertura della Tetide; ma soprattutto c’è un disaccoppiamento tra i livelli strutturali più superficiali (la piattaforma Carbonatica campana) e quelli più profondi (la parte più occidentale della piattaforma ionica sepolta, su cui quella campana è sovrascorsa) a causa di una fascia argillitica e arenacea interposta tra le due serie carbonatiche (Ascione et al, 2020).
Da ultimo, da qualche centinaia di migliaia di anni, tutto il vecchio orogene, dall'Appennino settentrionale in giù, è soggetto ad una estensione post-orogenica, con la formazione di vari sistemi di faglia a cui si deve la maggior parte dei terremoti distruttivi che hanno colpito la penisola italiana. Il terremoto del 1980 è avvenuto propio lungo uno di questi sistemi, quello del Monte Marzano (Galli et al 2013), che ha originato diversi terremoti storici (Galli 2020).
Una conseguenza di questo nuovo regime sono i forti afflussi di CO2 dal mantello (Chiodini et al 2020, ne ho parlato qui) ed è probabile che la sismicità del Matese del 2013 - 2014 sia dovuta ad una iniezione di magma ad una certa profondità (Di Luccio et al 2018, ne ho parlato qui)
A complicare ulteriormente il quadro c’è pure un sistema di faglie trascorrenti E-W che probabilmente hanno originato i terremoti del 1962 e la crisi del 1456, un evento complesso probabilmente composto da più scosse a pochi giorni di distanza (per questo non ha un epicentro definito) e che ha interessato un'area molto vasta dell'Italia meridionale, provocando danni dalla Puglia all'Abruzzo, Irpinia compresa; una faglia appartenente a questo sistema è stata invocate anche per il 1930, il cui meccanismo è ancora dibattuto (Pino et al 2008) ma dove comunque il danneggiamento osservati si adatta meglio ad una faglia normale orientata NW-SE (Serva et al, 2007). Quanto alla sequenza del 1962, solo nel 2016 è stato prodotto un meccanismo focale affidabile con due possibili soluzioni: una faglia E-O immergente verso N, oppure una faglia N-S immergente verso W (Vannoli et al 2016). Dal mio punto di vista trovo più logica la faglia E-W. Si tratta quindi almeno in questo caso di una situazione significativamente diverse dalla cinematica dei grandi terremoti tipici dell'Appennino meridionale, ben rappresentata invece dal terremoto del 23 novembre 1980.
Il duomo irpino, limitato a W dalle grandi faglie distensive attive |
I MOVIMENTI INDIVIDUATI CON I DATI SATELLITARI. Come si vede dalle figure qui sopra i dati raccolti per il nostro lavoro del 2019 hanno confermato il sollevamento generale della maggior parte dell’Italia meridionale, anche se i valori sono inferiori a quelli dell'Appennino Centrale (soprattutto in quello che nel 2019 abbiamo chiamato il “Duomo Abruzzese”). Poche aree mostrano subsidenza, principalmente a causa dello sfruttamento umano delle acque sotterranee. Proprio tra Benevento e Potenza troviamo i valori di sollevamento più alti di tutto l'Appennino Meridionale, superiori a 1.8 mm / anno e quindi in analogia con quello abruzzese abbiamo identificato il “duomo irpino”. È molto interessante vedere poi che questo duomo possa essere diviso in due porzioni differenti, separate da un corridoio a sollevamento minore posto nei pressi della zona degli epicentri dei terremoti del 1930 e del 1980.
Per quanto riguarda invece la componente E-W si conferma che le faglie normali più attive corrispondono alla fascia di divergenza fra una zona occidentale che si muove verso W e una orientale che si muove verso E.
Gli ultimi 400 anni di terremoti in Irpinia: si nota chiaramente il raggruppamento degli eventi maggiori |
LA SISMICITÀ STORICA IN IRPINIA. Filippo Bernardini ha usato il catalogo parametrico dei terremoti italiani, che si può considerare completo nell’area irpina negli ultimi 400 anni per gli eventi più forti (Mw ≥ 6.0) e dalla fine del XIX secolo per quelli a M compresa fra 4 e 5.
Fino alla fine del XVII secolo la storia sismica del settore irpino è in gran parte incompleta e scarsamente documentata, non perché non ci siano stati terremoti, ma per le informazioni storiche scarse e parziali. Nella finestra di riferimento del catalogo storico (dal 1000) – escludendo come accennato il terremoto del 1456 – si conoscono prima del 1700 solo gli eventi del 1466 e nel 1517); sono noti inoltre due terremoti nel primo millennio (nel 62 – il famoso terremoto che precedette di qualche anno l'eruzione di Pompei – e nell'989), per i quali l’origine è sempre la faglia del monte Marzano (Galli, 2020).
Nei 400 anni di completezza del catalogo sismico in Irpinia i terremoti più forti (Mw≥6.0) tendono a raggrupparsi nel tempo, distanziati da fasi lunghe caratterizzate da sismicità inferiore e meno frequente:
- a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, per un periodo di 40 anni, l'Irpinia fu interessata da quattro terremoti importanti (1692, 1694, 1702 e 1732, gli ultimi 3 con Mw> 6,5, grandi eventi ciascuno dei quali provocò estese distruzioni su vaste aree e molte vittime, con quello del 1694 considerato come una sorta di gemello del terremoto del 1980)
- un altro cluster di forti terremoti è quello che ha colpito il settore nel XX secolo, tra il 1930 e il 1980 (tre eventi con Mw ≥6,0 su un periodo di 50 anni)
- è improbabile che nei 200 anni tra il 1732 e il 1930 in Irpinia si siano verificati grandi terremoti, poiché il catalogo vi documenta eventi minori (1741 Mw 5.4, 1794 Mw 5.3 e 1853 Mw 5.6) e allo stesso tempo documenta eventi forti nelle zone adiacenti (Mw 6,7 1805 Matese e Mw 6,5 nel 1851 e Mw 7,1 nel 1857 in Basilicata).
Si può quindi presumere che la sismicità storica dell'Irpinia sia stata caratterizzata da periodi di intensa attività, con forti terremoti nell'arco di pochi anni o decenni, intervallati da lunghi periodi di attività da lieve a moderata, con terremoti di magnitudo inferiore a 6.0.
CONCLUSIONE. Fondendo la sismicità storica e lo strain rate, pensiamo quindi che si possa delineare uno scenario secondo il quale:
- il breve intervallo di tempo tra eventi forti in Irpinia nei periodi 1694 - 1732 e 1930 – 1980 sia legato a periodi di alto tasso di deformazione
- e che invece la mancanza di sismicità particolarmente forte tra il 1732 e il 1930 potrebbe essere stata dovuta a condizioni di basso tasso di deformazione
Per cui non solo il verificarsi in Irpinia di nuove forti scosse a quarant'anni di distanza da uno dei più forti eventi sismici conosciuti nel distretto è un quadro realistico perché i terremoti significativi in Italia dal 1990 sono avvenuti soltanto in aree caratterizzate da tassi di deformazione elevati (e l’Irpinia appartiene a questa categoria), e perché gli eventi sismici particolarmente significativi avvengono in quest’area in particolari spazi temporali. Per questo è possibile che la crisi iniziata nel 1930 non sia ancora finita e che quindi non siamo arrivati ancora ad un periodo di quiescenza come quello tra il 1732 e il 1930.
Sottolineo ancora una volta che c’è un modo estremamente efficace per prevenire i danni e le vittime di eventuali terremoti attraverso una misura logica e tecnologicamente possibile: la costruzione degli edifici solo con tecnologie appropriarte alla pericolosità sismica locale e solo in aree idonee, cioè non soggette a frane e/o amplificazione delle onde sismiche.
Ascione et al (2020) The MS 6.9, 1980 Irpinia Earthquake from the Basement to the Surface: A Review of Tectonic Geomorphology and Geophysical Constraints, and New Data on Postseismic Deformation Geosciences 2020, 10, 493
Barani et al (2010)
Strain rates in northwestern Italy from spatially smoothed seismicity Journal Of Geophysical Research 115, B07302
Chiodini et al (2020) Correlation between tectonic CO2 Earth degassing and seismicity is revealed by a 10-year record in the Apennines, Italy. Sci. Adv. 2020, 6, 35.
Di Luccio et al (2018) Seismic signature of active intrusions in mountain chains. Sci. Adv. 2018, 4, e1701825.
Farolfi e Del Ventisette (2017) Strain rates in the Alpine Mediterranean region: Insights from advanced techniques of data processing. GPS Solut. 2017, 21, 1027–1036.
Farolfi et al (2020) Spatial forecasting of seismicity provided from Earth observation by space satellite technology. Sci. Rep. 2020, 10, 1–7
Galli et al (2013) Integrated near surface geophysics across the active Mount Marzano Fault System (southern Italy): seismogenic hints Int J Earth Sci (Geol Rundsch) DOI 10.1007/s00531-013-0944-y
Galli (2020) Roman to Middle Age Earthquakes Sourced by the 1980 Irpinia Fault: Historical, Archaeoseismological, and Paleoseismological Hints. Geosciences, 10, 286.
Pino et al (2008) Waveform modeling of historical seismograms of the 1930 Irpinia earthquake provides insight on “blind” faulting in Southern Apennines (Italy). J. Geophys. Res. , 113, B05303.
Serva et al (2007) Environmental effects from five his-torical earthquakes in southern Apennines (Italy) and macroseismic intensity assessment: Contribution to IN-QUA EEE Scale Project. Quat. Int. 2007, 173, 30–44.
Vannoli et al (2016) New constraints shed light on strike-slip faulting beneath the southern Apennines (Italy): The 21 August 1962 Irpinia multiple earthquakes. Tectonophysics 2016, 691, 375–384.
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