Le statistiche in merito alle borse per giovani ricercatori distribuite dalla Unione Europea sono interessanti perché forniscono uno specchio reale dell'Italia di oggi, Paese di eccellenze che però stenta nella produzIone di base. È un grosso problema perché non si vive di solo turismo e di pelletteria, anche se qualcuno fino all'epoca pre-COVID era pure convinto di questo. Nossignori, noi siamo un Paese che ha basato la sua ricchezza sull'export manifatturiero, nonostante la mancanza di materie prime. Ma per esportare bisogna essere più bravi degli altri. E senza ricerca e sviluppo non si rimane più bravi. Purtroppo siamo anche un Paese in cui ci si laurea poco e poi o si va all'estero o si va a fare qualsiasi altra cosa. Solo uno sforzo per recuperare in ricerca e sviluppo potrà salvarci da quello che è per adesso un inarrestabile declino. Ma occorre che la classe dirigente se ne renda conto.
LE BORSE ERC E LA LORO DISTRIBUZIONE PER NAZIONE. Marco Cattaneo, il Direttore di Le Scienze, ha presentato questi due grafici il 3 settembre, facendo notare delle cose che da un lato non possono che farci piacere, ma dall’altro sono devastanti.
Quel giorno sono stati assegnati gli ERC Starting Grants, le borse europee per i giovani ricercatori, non necessariamente in materie scientifiche. I finanziamenti del Consiglio europeo delle ricerche (ERC - European Research Council) supportano ricercatori di qualsiasi nazionalità ed età che desiderino condurre un progetto di ricerca di frontiera su un tema da loro proposto. È interessante che nella distribuzione di queste borse siano incoraggiate proposte trasversali a vari ambiti disciplinari, progetti "pionieristici" che si rivolgano ad applicazioni e ambiti nuovi ed emergenti e che introducano approcci non convenzionali e innovativi (ovviamente non convenzionali ma cum grano salis, quindi ad esempio l’approccio di chi vuol dimostrare l’influenza di Giove e Saturno sui terremoti risulta sì parecchio alternativo e non convenzionale, ma anche altrettanto idiota…)
Ora vediamo i risultati:
Il primo grafico, qui sotto, mostra i vincitori per nazione: con 102 su 436 i tedeschi fanno il pieno, rappresentando quasi il 25% del totale (giudizio critico: scontato). Ma per noi c’è una ottima notizia: i giovani italiani arrivano secondi, aggiudicandosene 53 (giudizio critico: standing ovation), mentre i francesi, terzi, sono solo 37 (giudizio critico: prrrr ai giovani galletti) e gli estoni quarti (!) con 28 (giudizio critico: stratosferici: con poco più di 1.300.000 abitanti, prendere tutto quel popò di premi... ). Gli inglesi, quinti ne hanno prese la metà di noi… (giudizio critico: meno fantasiosi persino dei tedeschi).
Insomma, sarà pure scalcinato e in preda a vari difetti, vessato dalla burocrazia, dalle lotte fratricide e tutto il resto, ma il mondo universitario (e scolastico in generale) del Belpaese da questa assegnazione esce parecchio bene.
E ne esce molto bene anche vedendo la percentuale assolutamente insoddisfacente di PIL che viene spesa nella Pubblica Istruzione rispetto ad altri Paesi (come si vede qui accanto). Forse siccome hanno poche risorse a disposizione, i nostri si sanno ingegnare meglio. Ma è l'ambiente italiano stesso a stimolare la fantasia, che se ben indirizzata è fondamentale nella ricerca tanto quanto lo sono la razionalità e la voglia di creare qualcosa di nuovo.
Purtroppo l’entusiasmo viene successivamente smorzato se andiamo a vedere dove lavorano questi ricercatori, cioè dove verranno sviluppati questi progetti (e quindi dove andranno i soldi degli ERC Starting Grants, dati visibili nel secondo grafico).
Al solito vince la Germania (giudizio critico: toh, ma guarda… chi se lo poteva aspettare???). Ma il disastro per noi è che tra borse ottenute da italiani e borse che si spenderanno in Italia c’è un saldo netto di -33 (giudizio critico: imbarazzante).
In confronto il Regno Unito, pure con la Brexit, ha un saldo di +36: hanno vinto 26 britannici e in UK si spenderanno 62 borse (giudizio critico: attentissimi all'innovazione).
Così, se siamo secondi per borse vinte, finiamo decimi per borse incassate, dietro anche a Belgio e Svezia (e – naturalmente – all’Estonia, ma questo ve lo immaginavate...).
Il commento di Marco Cattaneo è questo:
non c'era bisogno di questa ennesima catastrofe per ricordare come l'Italia non sia capace di attirare talenti dall'estero mentre è bravissima a perdere i suoi.Però, ecco, sono quattro mesi che parliamo dei fottuti banchi a rotelle e non ci accorgiamo che ci è sfuggito il futuro.
Il futuro ci scappa anche quando cerchiamo ricercatori dall'estero o di richiamare i nostri espatriati, per un semplicissimo motivo: parlo di cifre spannometriche ma diciamo che un incarico che all'estero vale 6.000 euro al mese, in Italia ne vale 2000. Difficile accapararsi i migliori pagandoli meno...
RICERCATORI E LAUREATI IN ITALIA E LA CRISI DEL SETTORE PRODUTTIVO ITALIANO. Ce ne dà un altro esempio di questo l’amico Carlo Bisci dell’università di Camerino, un ateneo piccolo ma che funziona molto bene, con delle belle eccellenze (il paradigma contrario a quello che ha indicato la legge Gelmini con il suo accorpamento dei dipartimenti…): la bilancia commerciale dei ricercatori.
La nostra è saldamente e tristemente negativa. E non di poco rispetto agli altri. È bello notare come in molte nazioni è normalissimo vedere i propri ricercatori andare all'estero e nel contempo ne accoglie un numero simile dall'estero. Dall'Italia in tanti se ne vanno si accoglie pochissimo. Anche per le cifre che queste persone possono guadagnare, come abbiamo visto sopra.
A questo si aggiunge l'ennesimo guaio: noi “produciamo” meno laureati in proporzione rispetto al resto d’Europa, e, pur essendo meno, fanno fatica a trovare il lavoro per il quale hanno studiato ed è abbastanza comune vedere in Italia laureati che lavorano in ruoli decisamente demansionati.
Ora qui faccio un ragionamento sui laureati in discipline scientifiche o tecniche. Non perché non considero quelle umanistiche e sociali, ma perché non ne conosco il mondo in maniera sufficiente a parlarne (ricordo che nel mio curriculum c’è anche l’organizzazione di stagioni musicali, cerco sempre citazioni letterarie su eventi geologici, etc etc).
Si è detto che “non c’è collegamento fra industria e università”. Ok, è chiaro che se i laureati trovassero il posto “giusto” non ce ne sarebbero tanti che svolgono attività demansionate. Ora, se il problema fossero i laureati italiani, le aziende li troverebbero all’estero (dove questo problema non mi risulta essere così stringente e quindi se ne deduce che l'università “accontenti” l’industria). Ma non mi pare che ci sia questa corsa al laureato straniero. Ed è anche chiaro che questo concetto di sfasamento sia pure influenzato da un altro gravissimo errore concettuale: la ricerca in università è diversa da quella dell'industria e se le due entità possono collaborare, non è che un dipartimento universitario possa diventare il reparto ricerca e sviluppo di una azienda.
La realtà è un’altra: all’industria italiana i ricercatori non servono. L’Italia è un Paese strano. Prendiamo l’automotive: abbiamo la Ferrari, la Maserati, la Ducati e la Betamotor. Eccellenze allo stato puro nel loro settore. Ma nelle auto “normali” e specialmente medio-grandi non è che si vada un gran chè. Sulle moto poi… la mia amata Guzzi vivacchia, e passano settimane senza che ne veda una per strada. Bei tempi quando ero giovane che oltre alle 4 tradizionali giapponesi, Triumph e BMW c’erano Guzzi, Morini (lo avevo anche io) e Benelli come se piovesse. Per non andare ancora più indietro ricordando i tempi di Vespa e Lambretta.
E questo succede anche in altri settori. Insomma… abbiamo eccellenze assolute ma poca produzione “di base” e il fatto di avere un costo del lavoro alto non è una scusa viste per esempio la Germania o la Svezia (Paese quest’ultimo dove la disoccupazione è davvero bassa).
La mancanza di ricerca la si è vista con la fine dell'industria ferroviaria italiana: per un bel pezzo abbiamo vissuto nella bambagia di una nazione in cui le ferrovie, considerate un residuo del passato (il radioso futuro era per la gomma), più che per spostare uomini e merci servivano per collocare personale e far lavorare l’industria con le commesse (per Andreotti c'erano due tipi di pazzi, quelli che si credono Napoleone e quelli che credono di poter risanare le ferrovie).
Inoltre il mercato che riforniva di mezzi e materiali le ferrovie era un mercato chiuso, autarchico e assistenzialista, in cui addirittura alcune gare per le forniture erano divise in tre sezioni, una per il Nord, una per il Centro e una per il Sud. Soprattutto mancava una spinta a migliorare la produzione, che è rimasta, a parte qualche eccezione, mediocre (le E656 degli anni '70 in sostanza non erano altro che delle E636 degli anni '30 potenziate..). L’unica vera invenzione, l’assetto variabile della FIAT Ferroviaria, giacque per 15 anni inutilizzata, con un solo esemplare, l’ETR 401. Poi quando questa tecnologia fu ripresa negli anni ‘90 iniziarono le commesse anche dall’estero, persino dalle leggendarie ferrovie tedesche! Oggi l’assetto variabile, venduta alla francese Alstom la FIAT Ferroviaria, si chiama "tilt-train".
La mediocrità di un mercato chiuso ha avuto conseguenze drammatiche dopo l'introduzione del mercato unico del 1992 e cioè la chiusura di quasi tutte le aziende del settore (o la vendita a grossi gruppi stranieri delle poche rimaste). Per cui oggi Trenitalia e le altre imprese ferroviarie acquistano treni in Polonia, Germania, Svizzera e Francia. E meno male che la decotta Ansaldo – Breda è stata salvata dal cattivo straniero e ora si chiama Hitachi Rail Italy. Restano solo (ma fino a quando?) la Alstom (ex FIAT ferroviaria) a Savigliano e la Bombardier a Vado Ligure (l’ex TIBB), più poco altro, non in grado di incidere significativamente a livello europeo.
Dopodiché, se non si fa ricerca applicata figuriamoci se si fa ricerca di base, in un distinguo assurdo: non è vero che la ricerca di base sia fine a se stessa e basta… (forse perché non produce effetti immediati?) perché la ricerca applicata sfrutta le scoperte di quella di base… prendiamo l’elettricità: ora come potremmo farne a meno? Eppure quando fu scoperta sembrava solo un giocattolo per ricchi che prendendosi per mano si facevano passare la corrente nei corpi.
PERCHÈ QUESTO DECLINO? Il risultato è che un Paese come l’Italia che dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale è stato il terzo a mandare un veicolo nello spazio, stupiva con la Vespa, la 500, la Olivetti con il personal computer (che occasione perduta questa... roba da crampi allo stomaco...) e le ricerche su plastiche e nucleare (anche se queste due si sono rivelate un boomerang per l’ambiente) ora vive un declassamento tecnologico mostruoso. Ho pensato che il problema sia nato dalla sciagurata riforma scolastica di Gentile e Croce (quello che la Scienza non vivifica l’intelletto e che gli scienziati sono “menti minute” mica come i filosofi e gli storici (ne avevo parlato qui)
E da questo ne consegue che non sono riconosciute le tante eccellenze che abbiamo in Italia dal punto di vista scientifico, in cui i nostri ricercatori che lavorano ancora in Italia, spesso al prezzo di sacrifici economici e non solo (dalla medicina allo studio delle frane). E ricordo anche che i soldi spesi in ricerca in qualche modo tornano indietro e non solo perché i ricercatori hanno poi bisogno di tutto il famoso “indotto”.
Eppure il nostro è un Paese dove nei giornali e soprattutto nei telegiornali termini come innovativo, innovazione e simili sono usati a profusione ma anche quello in cui troppo spesso Scienza e Tecnologia sono ritenute cose che "non fanno cultura", con tanta gente che si vanta ad esempio di non sapere la matematica (ma pronta a darti di cretino se sbagli l'anno di morte di qualche grande filosofo). E se notate i "coccodrilli" in TV e giornali sono dedicati molto di più a giornalisti, letterati, giuristi e persino a sportivi. Ma quanti scienziati vengono nominati? Guardate invece in Gran Bretagna dove al funerale di Stephen Hawking c'erano migliaia di persone (ma in Inghilterra c'era un giornale scientifico che faceva 200.000 copie a numero... nel XIX secolo...)
I guai sono essenzialmente 3:
il primo sono gli economisti in stile bocconiano, quelli “ganzi”del “che ce ne frega della ricerca scientifica e tecnologica quando facciamo le scarpe più belle del mondo?” e tutti coloro che pensano cha all'Italia basti il turismo
il secondo problema è avere i soldi per la ricerca. Non solo nel pubblico. Qualche anno fa noi di CaffeScienza Firenze e Prato organizzammo un caffè-scienza con quelli della Betamotor sulla ricerca per motori più efficienti a due tempi. È una azienda che dedica al reparto ricerca & sviluppo ingenti risorse (il 10% del personale..) che però ha anche un certo fatturato. Invece il tessuto produttivo italiano è spesso fatta di piccole aziende che non possono permettersi di finanziare un reparto di ricerca e sviluppo “importante”. Sono poche le aziende che possono permetterselo grazie a un fatturato importante.
il terzo problema sono gli amministratori delegati con contratto a breve termine e premi sui risultati: a questi interessa incassare il più possibile e spendere il meno possibile e non sono per la “soddisfazione degli azionisti”. Risparmiano sulla manutenzione, pensate un po' cosa gli possa interessare della ricerca, che nel loro mandato costerebbe e basta, facendo al limite guadagnare i loro successori.
Il problema purtroppo, è che senza la ricerca scientifica e tecnologica:
- non si inventano nuovi prodotti e nuovi procedimenti di lavorazione
- non si migliora l’esistente, né in qualità né in costo
- e quindi l’unico modo per restare competitivi è strizzare fornitori e dipendenti
E poi mi è anche toccato sentire che spendere di più per la istruzione è inutile perché tanto i laureati vanno a fare altre cose (anche io ne sono stato per tanti anni un esempio...
Questo discorso lo trovo proprio autolesionistico. Perché in un Paese come il nostro o si fa ricerca scientifica e tecnologica o il declino diventa inarrestabile.
Ciascuno ha le sue idee dal punto di vista politico (ci mancherebbe altro..) Però mi auguro che in tutti gli schieramenti d’ora in poi vedano l’istruzione e la ricerca scientifica e tecnologica come strettamente necessarie. Non si può continuare a pensare all’edilizia (e per di più “normale”) come ad un settore trainante. Punto e basta. Oppure a dire che tanto si vive con il turismo (si è visto ora con il COVID il crollo del settore...)
E poi c’è – battuta finale – il problema della burocrazia asfissiante che ti leva qualsiasi voglia di fare.
Noi siamo la nazione in cui fra smart working e burocrazia succede questo:
mi scrive una amica che di lavoro fa (e bene) la ricercatrice:
pensa che vado in missione la settimana prossima. Ebbene: per loro risulto in presenza perché una missione é una attività "non smartizzabile" e la mia compagna di stanza non può andare al lavoro perchè .... risulteremmo entrambe in presenza (lei perché sarebbe lì e anche io che invece sono fuori regione in missione)
Il problema è stato risolto con il solito bizantinismo burocratico...
Musica associata:
Lunapop: 50 special (oggi probabilmente una canzone verrebbe scritta sull'Honda SH..)
Gioacchino Rossini: Ouverture del Guglielmo Tell con la cavalcata finale in memoria dell'industria motociclistica italiana
Donald Fagen: I.G.Y. (international Geophysical Year) dall'album "the nightfly"
4 commenti:
Bellissimo articolo, scritto in modo brillante, le cui riflessioni condivido in larga parte e di cui ho - purtroppo - una certa contezza. Una cosa però non mi convince: perché il primo "guaio" sarebbero gli economisti bocconiani? (va beh, ammetto di essere un ex bocconiano - e pure figlio di bocconiano e padre nonché zio di bocconiani- anche se ho relazioni più frequenti con PoliMi). Non mi è capitato di conoscerne molti che si esprimono privilegiando "le scarpe più belle del mondo" alla ricerca (tranne qualcuno con la fabbrichetta di famiglia che di lì è passato perché fa "ganzo" ma resta irrilevante - qualsiasi università avesse frequentato perché portatore di un interesse diverso). C'è da sottolineare, invece, il limite delle dimensioni aziendali che non favorisce né la ricerca né i processi di innovazione. Il mito del "piccolo è bello e flessibile" è piuttosto falso, piccolo è debole (e fatica ad attrarre i talenti migliori).
Grazie per quanto hai scritto, ho apprezzato ��
Mi scuso per il ritardo, ma non mi arrivano le notifiche dei commenti.
beh, fra quei "qualcuno" delle scarpe ci sono parecchi esponenti politici ....
e la mia impressione che il proliferare di posizioni "dirigenziali" su cose che prima facevano "impiegati" e l'avere le aziende, anche quelle grand,i che non guardano al di là dell'immediato futuro, sia colpa della classe dirigenziale ... e chiaramente la Bocconi è al top su questo...
quanto alla questione della piccola azienda e del piccolo è bello, sicuramente è fiunzionale ai grandi gruppi che così possono far meil bello e il cattivo tempo con i fornitori
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