I piani comunali di Protezione Civile dovrebbero seguire il “metodo Augustus”. Questo metodo considera un territorio come un organismo vivente e come tale costituito da vari organi, ciascuno con una sua funzione specifica. Quando l'equilibrio dell'organismo viene alterato per una malattia (in questo caso una catastrofe) tutte le sue funzioni concorrono per guarirlo. In Protezione Civile gli organi sono, le varie funzioni che agoscono sul territorio, che in caso di calamità si mettono ad operare tutte insieme. Il Metodo Augustus è quindi un qualcosa di diverso da una direttiva o una norma, che, data la incredibile diversità di caratteristiche morfologiche, climatiche, culturali e civili del territorio italiano, irrigidirebbe di fatto la stesura dei piani di emergenza. Una parte essenziale nel piano viene rivestita dalla comunicazione ai cittadini. Anzi, si può dire che il piano non esiste senza la comunicazione preventiva, quella in tempo “di pace”, da cui la popolazione ha imparato cosa fare durante le emergenze.
La Protezione Civile (o, meglio, il Servizio della Protezione Civile) è una cosa un po’ particolare, perché non esiste sul territorio una “caserma della Protezione Civile”: si tratta di un soggetto multiforme, a cui partecipano in modo coordinato tutti: enti pubblici, soggetti privati (soprattutto il volontariato) e anche – bene ficcarselo in testa – il singolo cittadino.
Detto che i protagonisti di una emergenza sono 4 (lo scenario, chi vi opera, cosa si fa e la popolazione interessata), bisogna rilevare l’importanza dei sindaci in tutto questo: oltre ad essere all'interno del territorio comunale autorità sanitaria (per esempio sono loro a emettere ordinanze che in casi di allarme sanitario vietino l'uso degli acquedotti), autorità di pubblica sicurezza (possono ad esempio chiudere delle strade), i sindaci sono anche l'unica autorità di Protezione Civile del proprio comune, cioè comandano e governano tutto quello che ha a che fare con la sicurezza dei cittadini in caso di eventi catastrofici di ogni ordine e grado: è il sindaco che deve comunicare tempestivamente ai cittadini la situazione e i pericoli; si tratta di una responsabilità enorme (specialmente in un Paese come l'Italia dove frane e alluvioni sono eventi comuni), che passa in buona parte attraverso il piano comunale di Protezione Civile: qualche sindaco è andato sotto processo proprio perché come autorità di Protezione Civile non ha recepito in modo idoneo le indicazioni che gli erano arrivate.
Questa funzione deriva dalla legge 225 del 1992, mentre prima questa funzione era svolta dal prefetto. Eppure ci sono dei sindaci che ancora non hanno capito questa funzione, se è vero che in fase di emergenza hanno chiamato altre Autorità chiedendo di “parlare con il responsabile della protezione civile”. Anzi, si dice che a qualcuno, dopo questa richiesta, sia stato fornito proprio il…. numero del telefono da cui stava parlando!
Naturalmente il sindaco non è onnipotente (tantomeno è ogniscente) quindi per agire deve essere informato del problema da parte degli appositi centri funzionali regionali, che diramano una allerta, a cui deve seguire da parte sua l’attivazione dei servizi di Protezione Civile.
Diramare una allerta non è una cosa banale che fa una singola persona pigiando un bottone, ma il risultato di una catena di controllo che alla fine emette una sentenza dopo aver analizzato dei modelli.
Si può dire che il sistema della Protezione Civile abbia agito nel miglior modo possibile durante una emergenza quando:
- il coordinamento operativo dell'intera macchina dei soccorsi, sia dal punto di vista comunicativo interno, sia nella gestione delle risorse è stato efficiente
- ci sia stata una efficace comunicazione nei confronti della popolazione interessata all'intervento
GLI EQUIVOCI CHE CONDIZIONANO I GIUDIZI SUL SISTEMA DI PROTEZIONE CIVILE
Una serie di equivoci ha minato i rapporti del sistema di protezione civile con società, magistratura e parlamento. Alla base ci sono alcuni errati convincimenti, che continuano ad essere poco chiari (anzi, spesso completamente sconosciuti) non solo alla cittadinanza, ma anche a molti decisori, per non parlare della magistratura.
Il primo è la convinzione (o, forse, la pretesa) che la Scienza riesca a prevedere tutto al millimetro. Non c'è la percezione del fatto che i modelli su cui viene diramata una allerta non sono deterministici, ma probabilistici.
In sostanza: con che precisione i modelli descrivono quantità di pioggia e portata dei fiumi? Nell'Italia dei piccoli bacini, dove in una valle piovono 200 mm di piogge in poche ore mentre pochi km accanto non succede nulla, è impossibile determinare con precisione dove e quanto pioverà.
Quindi bisogna capire che non sempre ad una allerta corrisponda poi un evento “esattamente come previsto”. E bisogna mettere in conto che questo evento possa essere “un po' più forte” o “meno violento” del previsto, parlando di eventi meteorologici.
Purtroppo dopo molti interventi assurdi da parte della magistratura (a partire dal processo dell'Aquila alla Commissione Grandi Rischi), prendersi la responsabilità di dare o no un allarme in base ai modelli è diventato non solo difficile in sé, ma anche a causa dei possibili strascichi giudiziari. Una cosa che esiste solo in Italia. E tutto per la assurda pretesa che i modelli siano deterministici.
Ora, è chiaro che nessuno goda a diramare allarmi che poi si riveleranno esagerati, perché come sono oggettivamente un problema gli eventi non previsti, anche i falsi positivi presentano una forte criticità: quando più allerte si dimostrano esagerate c'è il rischio che quelle successive vengano percepite più come fastidi che come pericoli reali. Come nessuno gode se le cose sono andate peggio di come era stato modellizzato (attenzione! modellizzato, non ipotizzato!).
Il secondo equivoco è ritenere che la protezione civile quando interviene sia in grado da sola di aiutare subito tutti e lo Stato faccia tutto. In sostanza, c'è la convinzione che i cittadini abbiano solo il compito (se non addirittura il diritto!) di stare lì ad aspettare l'aiuto. Non si può garantire la presenza di un membro dell’esercito, dei pompieri, del comune, del volontariato o quant’altro porta a porta che dice cosa fare: i cittadini dovrebbero saperlo già da prima come comportarsi e dove andare perché dovrebbe essergli già stato comunicato preventivamente dal piano di Protezione Civile.
Quindi nessuno può pensare di delegare ad altri quello che è in grado di fare da solo.
Il terzo equivoco è nel concetto stesso di Protezione Civile: generalmente viene associata alla risposta alle emergenze, mentre in realtà questo complesso organismo agisce anche prima, classificando i rischi e cercando, ove possibile, di abbassarne l’entità se non di eliminarli.
A queste errate percezioni si somma la secolare diffidenza dell'italiano medio nei confronti delle istituzioni (che, oggettivamente - spesso fanno di tutto per meritarsi questa diffidenza...). E per aumentare i problemi, negli ultimi anni si sta affiancando una sempre maggiore diffidenza nei confronti del mondo scientifico da parte di una rumorosa minoranza, che però riesce spesso a catturare i primi posti nei motori di ricerca e che spesso è sovraesposta mediaticamente da parte di alcuni giornalisti (o siti internet) irresponsabili che “la sparano grossa”: alcune volte questo succede per scarsa preparazione specifica, ma altre volte purtroppo è una cosa puramente voluta per fare audience.
Annoto che spesso chi in tempo di pace esprime la sua diffidenza sulla comunità scientifica, spesso è proprio colui che durante le emergenze pretende precisione dagli scienziati.
LA COMUNICAZIONE AI CITTADINI DURANTE LE EMERGENZE
Abbiamo visto che in un piano di Protezione Civile sia fondamentale la comunicazione, e non solo quella all'interno della macchina dei soccorsi, ma anche quella ai cittadini, che però devono sapere già cosa fare: un cittadino non informato diventa durante l'emergenza un diversamente abile anche se non lo è!
Negli ultimi anni la situazione durante le emergenze è notevolmente cambiata: la diffusione degli smartphone ha trasformato chiunque in fotografo o regista, in grado di documentare e commentare un evento calamitoso quando è in corso, diffondendo immediatamente e capillarmente tutto quanto grazie ai social network. Questo anche perchè gli smartphone e i nodi della telefonia mobile hanno delle batterie per cui non necessitano continuamente di alimentazione elettrica (uno dei servizi che si interrompono spesso durante le catastrofi). Ne segue che se fino a qualche decennio fa era difficile avere delle notizie dalla zona colpita (e infatti la regola era “il punto di massimo danno è quello da cui NON vengono comunicazioni”), oggi si assiste ad una sterminata produzione di notizie, non sempre chiare e scientificamente corrette perché molte di loro provengono da fonti a cui non sono ben chiari i concetti che ho espresso poco sopra.
E, soprattutto, i soccorsi arriveranno sempre “parecchio dopo” ...
In realtà, la comunicazione non deve avvenire solo DURANTE le emergenze: deve esserci anche una COMUNICAZIONE PREVENTIVA, che deve essere fatta prima delle eventuali emergenze e che ne semplifica la gestione.
LA COMUNICAZIONE PREVENTIVA NEI PIANI COMUNALI DI PROTEZIONE CIVILE
I piani comunali di protezione civile dovrebbero essere in grado di rispondere alle possibili emergenze e quindi devono nascere sul territorio, capendone i rischi, naturali (per esempio un fiume) o antropici (un impianto industriale pericoloso).
Il piano deve contenere 4 aspetti: previsione, prevenzione, emergenza e ripristino.
Qui occorre parlare della resilienza, cioè della capacità di una comunità che è consapevole di convivere con dei rischi accettabili, e che reagirà in caso di bisogno in modo attivo ed integrato con le autorità locali.
Più una comunità è riuscita a diminuire i rischi, più è resiliente.
Cioè, il piano di Protezione Civile in qualche modo deve fare un po' di prevenzione per diminuire i rischi.
In sostanza si può dire che se il piano è leggero, allora siamo davanti a una comunità resiliente e organizzata. Più il piano è pesante, meno la comunità è resiliente e organizzata.
Oltretutto, più un piano è complesso, più è di difficile applicazione.
Il concetto di resilienza introduce un altro concetto, quello del “rischio accettabile”.
È un rischio “non frequente” che i cittadini sanno che però incombe sulle loro teste (o sui loro averi).
Quindi si forma un patto fra sindaco e cittadini, che hanno recepito una qualche indicazione di essere esposti potenzialmente a un rischio e che sono consapevoli di dover agire in caso di criticità.
Ma oltre a sapere di essere potenzialmente a rischio, bisogna che i cittadini siano stati avvisati di cosa debbano fare in caso di allerta.
Da questo conseguono alcuni aspetti:
- la comunicazione deve essere al centro del piano di Protezione Civile
- il piano non deve essere percepito come un servizio esterno che viene fatto alla comunità, bensì il cittadino deve essere consapevole di essere parte attiva del piano
- il cittadino deve essere informato dei suoi rischi e deve sapere cosa fare e come comportarsi
Se questi requisiti non vengono soddisfatti, nella criticità ne scoppia un’altra, quella di chi non sa cosa fare...
Finisco con una considerazione: il piano di Protezione civile funziona quando si parte dalla base dal basso verso l'alto, e le strutture della Protezione civile che sono AL SERVIZIO del piano, non sono IL piano, che deve essere redatto dopo aver esaminato ogni aspetto.
Il problema maggiore è che oggi la maggior parte di questi piani sono soltanto dei semplici adempimenti burocratici.
Purtroppo se hai un piano che non è mai stato collaudato con delle esercitazioni, né hai informato i cittadini dei rischi che corrono, sei burocraticamente a posto, ma a un fiume in piena che esonda della burocrazia non gliene frega proprio niente…
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