sabato 16 settembre 2017

Dopo Livorno 1 - La necessità della educazione al rischio geo - idrologico


Già altre volte ho parlato della questione del rischio geo – idrologico (incominciamo a definirlo così, come nel resto del mondo e non con quel termine italiano “rischio idrogeologico” che in teoria vorrebbe dire che sono dissestatele le falde acquifere): si tratta di una questione scarsamente presente nel cervello degli italiani tranne nella fase immediatamente successiva ad un disastro di questo tipo, quando i geologi finiscono in tutti i mezzi di comunicazione, dalla televisione ai social. Ora l’alluvione di Livorno lo ha riportato al centro della attenzione dell’opinione pubblica, ma siccome temo che, al solito, entro pochi giorni di queste cose non se ne parlerà più di nuovo, mi chiedo in che modo, invece, si possa continuare a tenere alta l’attenzione della popolazione sul problema e, soprattutto, in che modo informarla e tenerla sempre informata. Purtroppo stampa, televisione e social network pullulano di bestialità in proposito e basta vedere quello che il parlamento sta per approvare a proposito di condoni edilizi (il famigerato disegno di legge Falanga, non a caso lodato dalla stampa e dai politici di aree a forte abusivismo edilizio) per dimostrare che proprio non si vuole imparare le lezioni che continuamente gli eventi geo - idrologici cercano di spiegare. Vorrei quindi avanzare alcuni miei pensieri sul modo in cui si possa porre un po' più di attenzione nella società italiana per l’assetto del territorio e il rischio geo-idrologico.

Dopo il disastro sui giornali di Livorno sono state pubblicate le carte del rischio geo – idrologico. Immagino che molte persone abbiano scoperto solo in questo modo di abitare in (o possedere) un edificio situato in una zona a rischio, e ciò porta alla ribalta ancora una volta il disinvolto uso del territorio, da sempre al centro di interessi che poco ne rispettano i pericoli. 
Un particolare piuttosto importante è che mentre si possono importare dall’estero tutte le cose di cui abbiamo bisogno e che non produciamo a sufficienza (ad esempio oltre il 90% del nostro fabbisogno di idrocarburi), al giorno d’oggi non esistono più in Italia “miniere di suolo”: cioè, il territorio disponibile è questo, punto e basta (anche le guerre sono servite e servono proprio per conquistare altri territori…). 
La domanda che viene spontanea è se questa mancanza di informazione è voluta proprio perché non è possibile creare nuovi territori. 

LE BONIFICHE VANNO CONTINUAMENTE MANTENUTE. Questa domanda si intreccia, per esempio, con le reazioni alla recente estensione della tassa sui consorzi di bonifica in Toscana in aree che fino a poco tempo fa erano esenti da questo tributo. Premetto che non mi voglio occupare dell’argomento “tasse, balzelli & c” che non è attinente a Scienzeedintorni e quindi non entro nel merito della opportunità o meno di questa nuova tassa (o altra definizione come più vi piaccia); mi limito ad osservare – asetticamente – che: 
  • - l’attività di mantenimento e manutenzione delle operazioni di bonifica è strettamente necessaria e qualcuno la deve fare, indipendentemente da chi e con quali risorse finanziarie
  • - le novità (specialmente in fatto di tasse…) andrebbero spiegate prima di applicarle. Si chiama “comunicazione istituzionale

Osservo però che una serie di dichiarazioni da parte di giornalisti ed esponenti politici denotano una totale mancanza di conoscenza del territorio e dei problemi connessi con il suo assetto.
Per esempio leggo questa: nel 1904 un regio decreto crea la tassa sulle paludi: è un contributo per la loro bonifica, che però continua ad essere richiesto anche quando su quelle terre ormai bonificate vengono costruite intere cittàL’autore di questa frase, nell’occasione un giornalista di Repubblica non fa altro che riportare un “sentire comune”, che contiene un errore scientifico di fondo: il territorio ormai bonificato sarebbe a posto. Cioè, non occorra più farci niente.
Riflettevo su questo argomento nel caldo e secco scorso luglio quando in treno passavo per la val di Chiana: la ferrovia si tiene lungo il margine orientale della valle e scavalca alcuni fossi, in quel momento completamente in secca a causa della tremenda siccità di quest’anno, tra campi coltivati, qualche agglomerato di case, le tipiche case rurali della zona, le leopoldine (ben descritte qui) e qualche capannone industriale, mentre in fondo spiccavano nonostante la distanza e la foschia estiva l’Amiata e il Cetona. Mi sono domandato quanti sappiano che questa pianura in quel momento riarsa, dove è necessario irrigare i campi, fino a 200 anni fa circa fosse un insieme di laghi e aquitrini collegati addirittura in epoca etrusca ad un fiume come il Clanis, che svolgeva un ruolo fondamentale nelle rotte commerciali del’Italia pre – romana. E che la zona fosse sovrabbondante di acqua lo testimonia pure la convinzione che da queste parti provenisse la causa delle alluvioni del Tevere a Roma (addirittura la giovane Florentia mandò nel 17 d.C. una delegazione a Roma per scongiurare la deviazione del Clanis nell’Arno, ne ho parlato qui).

i meandri naturali del Syr Darya in Kazhakstan:
il fiume cambia di continuo il suo percorso
PERCHÈ SONO STATE FATTE LE BONIFICHE E LE PROBLEMATICHE GEO – IDROLOGICHE CONSEGUENTI. Fondamentalmente ci si dimentica molto spesso come siamo arrivati all'idrografia attuale e come i fiumi che ricevono affluenti e poi sfociano a mare e la separazione netta fra terra e mare delle coste in pianura siano una creazione antropica: in Natura un fiume appena scende dal pendio in una piana si ferma, divaga in vari meandri e le acque si impaludano; per quanto riguarda le coste, consideriamo una eccezione la laguna veneta, ma è esattamente la situazione naturale di una costa bassa in cui stagni, dune e cordoni si alternano senza poter dare un limite chiaro tra mare e terraferma. E quando la pianura alle spalle del mare è molto larga si passerebbe dagli acquitrini di acqua salata a quelli di acqua dolce.
Insomma, buona parte delle aree pianeggianti sarebbe per natura coperta da specchi d’acqua e ciò che vediamo adesso, dalle pianure interne a quelle costiere, è il risultato di vaste operazioni di bonifica. Qualche anno fa ho scritto una serie di post sulla storia delle opere idrauliche in Toscana (e, quindi, soprattutto delle bonifiche). Sono post concatenati e quindi chi volesse dal primo, che è questo, li può leggere in fila essendoci una serie di link che portano dal primo al secondo e così via.
Firenze prima delle bonifiche: in verde le aree palustri
Anche l'attuale centro di Firenze era circondato da acquitrini (ne ho parlato qui) su cui è stata costruita dagli inizi del XX secolo la periferia e, tanto per citare un caso letterario noto, il Boccaccio nel Decamerone ha ambientato la novella di Chichibio e della gru nella palude che insisteva dove ora c’è il quartiere di Campo di Marte. Mi domando quanti dei miei concittadini abbiano presente il fatto di abitare in una casa costruita strappando quel terreno alle acque palustri e quanti capiscano che senza una adeguata manutenzione i loro beni siano a rischio.

Le bonifiche, quindi, sono servite nel passato come “miniere di suolo”: paludi e lagune sono ecosistemi particolarmente produttivi ma si tratta di aree piuttosto sfavorevoli per l’Umanità: difficile lì dentro muoversi o fare delle attività economiche, a parte caccia e pesca; per non parlare dei rischi sanitari connessi (in primo luogo la malaria). Quindi sono state trasformate in aree più confacenti alle necessità umane, in primo luogo quelle alimentari e sanitarie. Però, ripeto, si tratta di "conquiste" di aree che sono sempre soggette al rischio di essere allagate e quindi oltre ad una corretta manutenzione delle opere che permettono al territorio di non allagarsi, nei territori stessi è necessario che popolazione, autorità e classe dirigente in generale siano consapevoli di dover mitigare il più possibile i rischi legati alle piene e alle alluvioni. Ad esempio si dovrebbero evitare il più possibile insediamenti nelle zone più esposte o operando in tali zone modo da essere più sicuri (ad esempio: evitare gli appartamenti ai piani terreni o, peggio ancora, l'uso di seminterrati. Dove non si può fare altrimenti, va seguito l'esempio di Aulla: visto il grave errore di averlo costruito in zona idraulicamente troppo pericolosa, il quartiere Matteotti è stato cancellato e gli abitanti trasferiti altrove.

Per l’uso agricolo del suolo le alluvioni sui terreni bonificati erano persino benedette, in quanto spargevano sui campi un provvidenziale strato di limo fertile, ma dalla seconda metà del XIX secolo sono aumentate le esigenze di aree edificabili a scopo residenziale ed industriale, che sono state impiantate nelle aree bonificate in quanto pianeggianti, con un ritmo sempre crescente fino alla fine del XX secolo.
I dati di ISPRA [1] a proposito di Toscana ed Emilia – Romagna sono disarmanti: il 30% delle unità locali di aziende nella prima e il 60% nella seconda sono poste in aree a rischio idraulico e come dimostra la raffineria a Stagno le conseguenze di un evento alluvionale oltre che economiche possono avere pesanti ricadute ambientali per la dispersione delle sostanze inquinanti presenti nelle industrie,
Però mi chiedo se oggi siamo davanti a irresponsabilitò (cioè a non considerare un problema conosciuto) o semplice ignoranza del problema stesso: non può stupire un “addetto ai lavori” che con 250 milimetri di pioggia in poche ore si sia allagata una zona come quella della periferia settentrionale di Livorno, impostata su una laguna bonificata (e quindi a livello del mare), e significativamente contenente toponimi come “Stagno”, “Faldo” (che fa trapelare la presenza di una duna o un rialzo, forse dovuto all’attività del fiume Tora) o “Guasticce” (area guastata dalle acque palustri). Ma la stragrande maggioranza della popolazione non è stata messa in grado di rendersene conto.  

Canali di bonifica nella campagna olandese
Il problema quindi è che senza una corretta manutenzione delle opere di bonifica il rischio idraulico è destinato ad aumentare, essenzialmente per tre motivi:
  • il continuo aumento dell’uso del suolo in zone a rischio
  • una maggiore frequenza dei fenomeni estremi a causa dei cambiamenti climatici
  • nel XX secolo l’espansione degli insediamenti in zone a rischio ha semplicemente eliminato una buona parte del reticolo di canali atto a far funzionare le bonifiche

Mi soffermo un attimo su questo terzo aspetto: per funzionare le bonifiche hanno bisogno di un reticolo di canali che viene appositamente creato, visibile in questa immagine della campagna olandese. In occasione del 50esimo delle alluvioni del 1966 invece ho esplicitamente parlato delle distruzione del reticolo delle bonifiche lorenesi. Lo vediamo nella carta qui sotto, dove le zone urbanizzate fra la periferia occidentale di Firenze e Prato sono caratterizzate da una densità molto minore di questo reticolo. Che i canali di bonifica siano stati sostituiti da una corrispondente densità di strutture interrate è solo una pia illusione. In assenza di questi canali le acque piovane, anziché stoccarsi in parte in queste canalizzazioni, si scaricano tutte e più velocemente nel corso d’acqua principale, anticipando e aumentando così la portata in caso di piena.  

Nei cerchi sono indicate le aree urbanizzate tra la periferia di Firenze e Prato
Si nota che le urbanizzazioni dopo il secondo dopoguerra hanno fatto tabula rasa del reticolo delle bonifiche 

Fonte: autorità di bacino dell'Arno

Nella foto pubblicata da Massimo della Schiava
si vede una delle casse di espansione del Rio Maggiore
il cui funzionamento è stato provvidenziale
I RISCHI DEI RII CHE SCENDONO DAI MONTI. Quanto al secondo epicentro del disastro livornese, e cioè i piccoli rii che scendono dai monti che dominano la parte meridionale della città, le valli a ridosso dei monti sono sempre state soggette ad eventi importanti. Genova e la Liguria tutta, come le pendici delle Alpi Apuane e i monti livornesi, hanno in più la pericolosa caratteristica di essere  alture importanti prospicienti il mare e quindi più prone ad eventi estremi come le celle temporalesche autorigeneranti; lo dimostrano gli eventi degli ultimi 20 anni, dall’alluvione dell’alta Versilia del 1996 in poi. I genovesi fino ad oltre la metà del XIX secolo si sono guardati bene da abitare la valle del Bisagno (dove nel medioevo vi fu persino impiantato un lazzaretto!) a causa delle note intemperanze del fiume e i nuclei urbani principali si erano formati sulle scomodissime colline che la circondano, lasciando sul fondovalle del Bisagno solo qualche borghetto minore (ne ho parlato qui). Altro esempio è Varese Ligure: come mai il nucleo del paese è un po' più in alto della piana e il ponte è molto alto rispetto al livello normale del fiume? Semplice, per le possibili piene del torrente, del tutto simili a quelle che si sono verificate a Livorno domenica scorsa. Il ponte moderno, su cui è scattata l’immagine presa da Google Maps, denota che non altrettanta attenzione sia stata posta nella costruzione del ponte più moderno.

CREARE CONSAPEVOLEZZA SUI RISCHI GEO – IDROLOGICI. Quindi le conclusioni principali che possiamo fare sono le seguenti: 
  • non si può continuare a sigillare nuovi territori (come invece purtroppo si continua a fare e nonostante che esistano territori sigillati attualmente abbandonati)
  • tantomeno è possibile tollerare colpi di spugna sull'uso del territorio come quello contenuto nel decreto Falanga
  • i territori che sono stati bonificati, sostituendo le paludi e le lagune con pianure occupate a scopo agricolo, industriale o abitativo, per continuare ad esistere ed essere protetti da alluvioni e da un nuovo impaludamento hanno bisogno di interventi continui
  • per la sicurezza idraulica è necessario ripristinare il reticolo delle canalizzazioni nelle zone in cui è stato con estrema disinvoltura eliminato. 
  • le risorse finanziarie vanno per forza trovate e questi interventi eseguiti. Perchè la prevenzione evita vittime e costa meno. Già con #Italiasicura qualcosa è stato fatto

Il ponte vecchio di Vezzano Ligure e quello nuovo: quale sarà il meno impattante in caso di piena? Da Google Maps


Immagine ottenuta grazie al motore di ricerca semantico
sempre attivo, ideato, brevettato e realizzato dai ricercatori
del gruppo di Geologia Applicata del dipartimento di
Scienze della Terra dell'Università di Firenze, descritto in [2]
Però occorre rendere consapevole la popolazione di tutto ciò. È ovvio che dietro questa mancata informazione ci siano diversi aspetti, in particolare la scarsa educazione scientifica dell’italiano medio e gli interessi a non far sapere agli eventuali acquirenti del rischio connesso ad un immobile.
Ripeto ancora che questa generale "non conoscenza" del problema ha una conseguenza politica importante: costruire un ponte o un centro commerciale e persino finanziare una sagra paesana “fanno immagine”. Sistemare un fiume o un versante no, perché in ben pochi si renderebbero conto di aver evitato una alluvione o una frana grazie a dei lavori, lavori che per di più molto facilmente si renderanno utili parecchie legislature dopo (ma – al contrario – i cittadini si accorgono tutto in una volta che avrebbero dovuto essere fatti dei lavori quando il problema lo subiscono).
A Livorno, ad esempio, le casse di espansione sul Rio Maggiore hanno funzionato benissimo nonostante i dubbi sulla adeguatezza del tratto tombinato finale e l’eccezionalità dell’evento: non oso pensare al disastro che sarebbe successo senza queste opere e solo lo sfondamento di una paratia ha provocato un forte allagamento. Spero che i Livornesi se ne rendano conto, in particolare quelli che grazie a questi lavori “l’hanno scampata”. 
Ma a monte delle casse e sui bacini degli altri torrenti su cui non sono stati eseguiti interventi il disastro si è trattato della classica “catastrofe geo-logica” (perché dalla stringente logica geologica - definizione di Nicola Casagli). 

Come se ne esce? Con l’educazione al rischio: occorre aumentare la percezione del rischio alla popolazioni in modo di da far adottare ai cittadini comportamenti adeguati di autodifesa. Si tratta di abbattere quella mentalità deleteria che pretende di delegare totalmente allo Stato la propria sicurezza, come se la protezione civile fosse un servizio esterno alla loro vita quotidiana, una sicurezza da fruire senza partecipare e magari senza rinunciare a nulla dei propri comportamenti nei momenti di allarme.

Le mie proposte quindi sono:
  • affiggere dappertutto nelle scuole, negli altri edifici pubblici, nei luoghi di culto, nei circoli e nei centri commerciali le carte in tema geo – idrologico (basta con il chiamarlo idrogeologico, non è un problema di falde acquifere…), corredate dalla differenza fra "rischio" e "pericolosità" e di note su "elementari norme di comportamento"
  • proporre una “certificazione geo – idrologica di un immobile come quella energetica
  • differenziare in qualche modo l’imposizione fiscale sugli immobili in modo da penalizzarli in proporzione al rischio geo - idrologico
  • riguardare un po' (un po' tanto..) la questione della Protezione Civile. Di questo però parlerò in uno specifico post

[1] ISPRA 2015: il consumo del suolo in Italia
[2] Battistini et al (2013) Web data mining for automatic inventory of geohazards at national scale Applied Geography 43, 147-158


Nessun commento: