martedì 21 settembre 2010

Come limitare le emissioni di gas - serra emessi dai bovini di allevamento

Il settore primario contribuisce non poco alle emissioni di gas serra. È universalmente noto che usare il territorio per campi coltivati sottrae spazi a boschi e foreste, sicuramente dotati di migliori prestazioni in termini  di assorbimento di CO2. Pertanto secondo gli schemi attuali le attività agricole sono responsabili di una parte dell'aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera.

Quella che sembra una battuta – ma invece non lo è – è che anche la zootecnia contribuisca direttamente al fenomeno. Giuro che la prima volta che lessi un ragionamento del genere rimasi sbalordito, ma poi – dati alla mano – mi sono dovuto ricredere: i bovini soprattutto, ma anche caprini ed ovini, con le loro flatulenze contribuiscono fattivamente al rilascio in atmosfera di gas serra come il metano, anzi sono attualmente una delle principali fonti di origine antropogenica di questo gas.

Detto in volgare, le scoregge delle mucche sono ormai considerate una emergenza planetaria....

Secondo Alexander Hristov, professore alla Università della Pennsylvania, ben il 37% del metano rilasciato in atmosfera ha questa origine. Il dato è sostanzialmente confermato dall'International Livestock Research Institute (ILRI), organismo attivo in Africa e parte dell'Asia, E se lo dice una associazione – diciamo così – di settore si può crederci.

In generale la produzione di metano è una conseguenza naturale dei processi digestivi: si forma nel rumine, il più grande dei vari stomaci di questi animali, dove batteri specializzati fermentano i vegetali ingeriti per produrre sostanze nutrienti. Queste reazioni presentano fra i vari sottoprodotti sia il metano che la CO2, gas che non trovando altro uso nell'apparato digerente vengono rilasciati in atmosfera liberi o associati alle feci.

Il problema ogni tanto viene a galla, tantopiù adesso che di effetto – serra si parla (e si sparla) parecchio e la crescente richiesta di carne nel mercato mondiale comporta un aumento del numero di questi animali. Se non si troverà una soluzione il rischio è quello di ingigantire sempre di più la questione perchè più bovini ci sono, più emissioni dirette abbiamo. Non solo, ma devono per forza aumentare le aree strappate ai boschi per nutrirli: attualmente la dieta dei bovini è composta da erbe o mangimi coltivati solitamente in appezzamenti specifici. Sono molto pochi, almeno nei Paesi più avanzati, quelli che si nutrono direttamente con l'erba dei campi.
Un'altra fonte di cibo è la farina di pesce, il cui uso alimentare per l'allevamento animale non mi risulta mai cessato negli USA mentre in Europa fu introdotto el 2001 il divieto di utilizzare questi cibi nei ruminanti, come misura contro la BSE. Dal 2008 è di nuovo possibile impiegarli ma con forti limitazioni nell'origine e solo per bovini non svezzati. Continua ad essere utilizzata, con le stesse limitazioni sull'origine, al di fuori dei ruminanti (suini e avicoltura, per esempio). Chiaramente, anche la produzione farina di pesce arreca danni all'ambiente, stavolta alla fauna ittica.
L'aumento del numero di bovini, oltre all'aumento diretto delle emissioni di gas – serra comporta un aumento delle aree in cui si coltivano i mangimi.

L'alimentazione animale è quindi una componente essenziale dell'agricoltura intensiva e anche questo settore contribuisce al mancato assorbimento di CO2 perchè strappa territorio ai boschi e contribuisce pure alle emissioni di NO2, dovute alle reazioni dei batteri con i fertilizzanti: oltre ai vari danni noti che il biossido di azoto provoca, a partire dalle piogge acide, va considerato che pure esso è un gas – serra e per di più con un potere 300 volte superiore a quello della CO2.
La IRLI raccomanda quindi alcune mosse per diminuire il problema, secondo lo slogan “combattere i cambiamenti climatici con una dieta che comporti meno emissioni di gas”.
Quindi si stanno moltiplicando le ricerche al proposito. Australiani e neozelandesi sono in prima fila ma anche altre nazioni si stanno muovendo.

Per esempio sia la IRLI che il CIAT (centro internazionale per l'agricoltura tropicale), hanno proposto di nutrire i bovini con erbe molto più nutriente del normale, appartenenti al genere Brachiaria. In particolare la Brachiaria humidicola sembra particolarmente adatta allo scopo: è molto nutriente ed è gradita agli animali. 
Originaria dell'Africa, nella fascia tra Sudan meridionale e Etiopia a nord fino a Sudafrica e Namibia a sud, troviamo adesso Brachiaria humidicola in tutta la fascia umida equatoriale: Sudamerica, isole del Pacifico, sud- est asiatico e in Australia settentrionale.
Con i dati attuali sembra che il passaggio da una alimentazione a base di mangimi derivati da soia o mais a quella basata sulla Brachiaria humidicola comporti persino un aumento notevole del peso degli animali e di produzione del latte a parità di quantità di cibo ingerito.
La IRLI afferma che se solo il 30 % degli allevatori sudamericani usasse questa erba al posto di quella naturale o di mangimi verrebbero immesse in atmosfera 30 milioni di tonnellate di CO2 in meno ogni anno, che potrebbero essere usate nel “mercato” mondiale delle emissioni facendo incassare oltre un miliardo di dollari all'anno alle nazioni che la utilizzano.

Inoltre nelle radici di Brachiaria humidicola è presente un composto, il brachiaralactone, che inibisce la formazione di biossido di azoto. Sarebbe un vantaggio in più. Non sono citate ricerche sull'eventuale impatto ambientale della maggiore diffusione di questa erba al di fuori della zona di origine.
Alexander Hristov, della Università della Pennsylvania sta invece studiando un sistema diverso, più adatto ai climi dove non cresce la Brachiaria: l'integrazione nella dieta degli animali di un mangime a base di origano, perchè questa pianta produce delle sostanze che limitano le emissioni di metano nei processi digestivi dei ruminanti.

Anche in questo caso si osserva un aumento della produttività del bovino. Per cui l'obbiettivo di Hristov è di capire quali, fra le varie sostanze presenti nella pianta dell'origano, siano quelle coinvolte nel processo in modo da poter produrre integratori da introdurre direttamente nella dieta.
La spiegazione che viene data in entrambi i casi per l'aumento della produttività è che le perdita di metano nel rumine siano, in buona sostanza, perdite di energia dell'animale: diminuendole si aumenta l'energia a disposizione del bovino. non ho trovato accenni a differenze di costo usando queste alternative, ma la maggiore produttività potrà essere un'arma vincente.

Aggiungo in fondo che - onestamente – non ho trovato accenni a variazioni nella qualità di carne e latte e questo in qualche modo mi inquieta...



4 commenti:

Anonimo ha detto...

E' una questione decisamente interessante. Credo che il problema più grosso riguardi l'allevamento in aree poco fertili, che per la produzione di foraggio richiede ampi spazi e quindi deforestazione (mi riferisco soprattutto al Brasile). Bisognerebbe capire bene l'ecologia della Bracharia, e capire quali effetti possa avere la sua introduzione al di fuori dal suo areale. Qui in Europa, con l'introduzione di erbai intercalari (ovvero colture foraggere annuali come mais ceroso, loiessa, trifogli...) possiamo produrre in spazi relativamente ristretti ingenti quantità di Unità Foraggere, il tutto in un contesto agricolo già ampiamente consolidato. Se è vero che basta un po' di origano per farle scoreggiare di meno, allora direi proprio che la nostra zootecnia sia a posto da questo punto di vista!
Saluti
Simone

Mattia Paoli ha detto...

Diventare vegetariani sarebbe così semplice, se solo riuscissimo per un istante a mettere da parte le gabbie culturali che ci hanno imposto fin da piccoli...

Anonimo ha detto...

Mattia se vuoi diventare vegetariano ..rinasci ruminante

Mattia Paoli ha detto...

Sono già vegetariano da 5-6 anni, grazie :)