Sono stato molto impegnato in questi giorni e quindi pubblico un pò in ritardo il secondo intervento di Eugenio Tabet per chi non legge la pagina del caffèscienza di Firenze "atomic-cafè". Ci sono al solito degli spunti molto interessanti e soprattutto di cui non si sente parlare molto nei giornali.
A favore dei tecnici che si adoperano per riprendere il controllo dell’impianto gioca la circostanza seguente: una volta spento il reattore, mano a mano che passa il tempo, come si vede dalla figura, il calore generato ogni secondo dentro il combustibile dal decadimento dei prodotti della fissione nucleare diminuisce sensibilmente. Ovviamente questa differenza è massima nei prini giorni, poi si attutisce sempre di più. Si passa dal 7% del valore della potenza termica del reattore al momento dello spegnimento a un pò meno del 2 per mille dopo 15 giorni e a poco più dell’un per mille dopo trenta. Poi, però, il calo è sempre più lento (vedremo in un’altra occasione le ragioni di ciò), così che dopo un anno il calore di decadimento generato in un secondo da un reattore di taglia standard è ancora pari alla notevole potenza di quasi 700 kW. In altri termini, il calore che occorre asportare per impedire la fusione degli elementi di combustibile, con le conseguenze di cui si è parlato in altra occasione, diminuisce con il tempo e questo può rendere meno difficile l’azione delle squadre di intervento. Ciò, però, vuole anche dire che la sorveglianza dell’impianto non può essere interrotta neanche dopo tempi lunghi.
Diminuiscono i valori della temperatura all’interno del contenimento primario del reattore n. 1, ma crescono quelli relativi al n. 2. L’acqua di refrigerazione viene immessa in tutti i reattori (attraverso diverse vie) o mediante pompe temporanee alimentate da diesel o sistemi elettrici provvisori. Per avere un’idea di che cosa si tratti, si rammenta che le portate in gioco sono attorno a 7-8 m3/h.
Le misure radiometriche mantengono lo stesso carattere di non sistematicità e incerta significatività che ha caratterizzato l’intero arco di tempo a partire dall’innesco dell’incidente.
Tuttavia vi sono dati che mettono in evidenza che:
a. la contaminazione al suolo è spazialmente molto disomogenea (cosa non sorprendente)
b. vi sono delle “macchie” dove si raggiungono valori piuttosto alti, quali un picco,per la deposizione integrata, di 25 MBq/m2 di Iodio 131 (1 MBq è pari ad un milione di Bq) e di 3.7 MBq/m2 di Cesio 137 (il rapporto Iodio-Cesio potrebbe indicare che i rilasci provengono dal nocciolo dei reattori piuttosto che dagli elementi di combustibile immagazzinati nella piscina del reattore n.4).
E’ plausibile che i valori di picco siano associabili a precipitazioni locali, capaci di trascinare al suolo materiale radioattivo (anche in Italia ai tempi di Chernobyl proprio a causa di piogge intense e circoscritte, in alcuni luoghi si sono registrati valori sopra la media della radioattività, NdR)
Non è agevole, per usare un eufemismo, disporre di dati sull’esposizione dei lavoratori impegnati nel tentativo di riportare l’impianto sotto controllo. Eppure solo un’informazione puntuale permetterebbe di fugare il sospetto che si possa ripetere il dramma dei vigili del fuoco e dei primi liquidatori sovietici di Chernobyl. Non bisogna tuttavia illudersi che i margini nell’ intervento siano diversi da quelli che, in realtà, sono.
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