mercoledì 29 marzo 2023

la presunta carta dell’Italia nel Pliocene e i suoi gravi errori


la sbagliatissima carta
che vorrebbe rappresentare l'Italia nel Pliocene
Circola in questi giorni una carta dove sarebbe rappresentata l’Italia del Pliocene. Nella vita la abbiamo vista tutti almeno una volta, vista la sua presenza in quasi tutti i libri di scuola, e oggi viene regolarmente propagandata da diversi siti (purtroppo anche da qualche sito scientifico) nonché dalla onnipresente wikipedia.Ed è proprio quanto di peggio si possa vedere perché la carta è totalmente sbagliata in quanto presuppone nel Pliocene la stessa paleogeografia odierna. Invece è molto difficile trovare nel mondo un’area che negli ultimi 5 milioni di anni sia cambiata in modo così massiccio come quella italiana. E soprattutto si fa presto a dire “Pliocene”, ma tra l’inizio del Pliocene, 5,33 e la sua fine 2.58 ci sono enormi differenze.

Vediamo sommariamente (ci vorrebbe un libro intero…) quanto siano diverse l’Italia del Pliocene e quella attuale, iniziando da quella più macroscopica, la posizione della Calabria o, meglio, dell’Arco Calabro-Peloritano: dal punto di vista geologico la punta NE della Sicilia, tra il Golfo di Patti e la costa ionica a nord di Catania, fa parte dello stesso blocco della Calabria e differisce totalmente dal resto dell’isola. Da qui in poi per semplificare parlerò di “Calabria” ma ricordatevi che in realtà intendo “arco Calabro Peloritano” e quindi tutti i terreni presenti dal massiccio del Pollino alla Sicilia di NE.

L'APERTURA DEL MEDITERRANEO OCCIDENTALE. Vediamo qui sotto come si sono aperti i bacini che compongono il Mediterraneo occidentale. L’antefatto pre-pliocenico è il distacco dal continente europeo tra Catalogna e Provenza del blocco formato da Baleari, Sardegna, Corsica e Arco Calabro - Peloritano e la formazione del bacino ligure – provenzale (in parte noto come il golfo del Leone), avvenuta grossolanamente fra 35 e 20 milioni di anni fa (dalla fine dell’Eocene per tutto l’Oligocene e fino al Miocene inferiore), accompagnata da un tipico vulcanismo di arco magmatico sparso fra Sardegna, Baleari e offshore spagnolo. 
Successivamente il blocco delle Baleari si ferma, mentre Sardegna, Corsica e Calabria ruotano in senso antiorario di una quarantina di gradi. E finita questa rotazione inizia l’apertura del Tirreno meridionale, circa 9 milioni di anni fa, nel Miocene superiore (la cronologia non è ancora molto precisa). Dal Miocene superiore si apre il Tirreno). Vediamo il tutto nella immagine qui sotto.
Il risultato finale, Tirreno compreso, sono stati:
  • la creazione di nuovi bacini a crosta oceanica 
  • lo smembramento della vecchia catena alpina. 
Un indizio importante sul posizionamento originale della Calabria è rappresentato dai graniti della Sila, che sono parte del grande batolite paleozoico dei graniti sardo-corsi.
 

Vediamo ora come nel Pliocene la paleogeografia della regione italiana sia variata in modo notevole con l'alertura del Tirreno e la migraizone verso ESE dela Calabria e la rotazione della catena appenninica, utilizzando le carte di un lavoro di review estremamente interessante e cioè Viti et al (2021), nelle quali per confronto è messa anche la posizione attuale della Calabria.
Per un altro confronto della posizone della Calabria nel tempo potete usare come riferimento in alto nelle figure la punta della striscia gialla che prolunga verso W i Carpazi, la cui longitudine corrisponde in modo "spannometrico" a quella della Calabria attuale.

INIZIO DEL PLIOCENE (5.33 Milioni di anni fa). La prima figura si riferisce all’inizio del Pliocene, che trova già aperto da poco (nel Miocene superiore) il Tirreno settentrionale (nella carta indicato con NT); senza il Tirreno meridionale la Calabria quindi si trovava molto più vicina alla Sardegna di dove è adesso. A Est, in posizione più occidentale rispetto a dove si trova adesso, si sta formando la catena appenninica: essendo in compressione mancavano i bacini intermontani a parte qualcuno in Toscana meridionale, e nel paesaggio dell’Appennino centrale mancavano le superbe vette che ammiriamo oggi. Guardando alla parte più meridionale il fronte che oggi è nello Ionio a E della Calabria lo troviamo dove adesso c’è il Tirreno meridionale. 
Inoltre la Sardegna viveva una stagione di magmatismo piuttosto importante. Contemporaneamente si sono verificate delle rotazioni: una antioraria dell’Appennino centrale e una oraria in Sicilia che hanno consentito nel tempo all’orogene appenninico di raggiungere la sua posizione attuale.

PLIOCENE MEDIO (circa 4 milioni di anni fa). Si evidenzia l’apertura del bacino del Vavilov (la parte in celeste tra Sardegna e Calabria), mentre la Calabria e il fronte compressivo appenninico continuavano a muoversi verso ESE a una velocità media piuttosto alte, stimata nell’ordine dei 6 cm/anno.

FINE PLIOCENE (circa 2.5 milioni di anni fa). Il bacino del Vavilov nel Pliocene superiore ha continuato ad aprirsi e alla finde del peirodo ha ormai assunto le sue dimensioni quasi definitive.



La storia dell'area italiana dall'inizio del Pliocene ad oggi

SITUAZIONE ATTUALE. Nel Quaternario a SE del bacino del Vavilov si apre il bacino del Marsili (evidenziato dalla parte in celeste), che continua ad ampliarsi fino a 700.000 anni fa quando la Calabria si ferma o quasi, raggiungendo la posizione attuale (prima o poi parlerò delle diverse idee su cosa faccia la Calabria, cioè se continua a muoversi anche se molto lentamente oppure no). Sempre 700.000 anni fa le fasi compressive nell’Appennino continuano solo sul fronte padano, mentre in quello centrale e meridionale al regime compressivo si sostituiscono un forte sollevamento e un regime distensivo: si formano così le grandi faglie normali e le vette della catena (ne ho parlato qui). 

Quindi la cosa più importante che discende da questo è che nel Pliocene la paleogeografia era molto diversa da quella attuale e - a cascata -  da quella proposta nell'immagine incriminata, soprattutto per quanto riguarda Calabria e Sicilia. In particolare la Calabria si trovava all’inizio del Pliocene quasi 300 km a WNW da dove è adesso (scusate se è poco), mentre alla fine del Pliocene era ancora a circa 100 km dalla sua posizione attuale.

ARTICOLO CITATO: Viti et al (2021) Basic Role of Extrusion Processes in the Late Cenozoic Evolution of the Western and Central Mediterranean Belts. 
Geosciences 2021,11,499  https:// doi.org/10.3390/geosciences11120499


PS: Da ultimo una selezione (solo una selezione!) degli insulti che mi sono beccato quando ho fatto notare che quella carta sia, per parlare chiaro “una cagata pazzesca” totalmente priva di senso

 





mercoledì 22 marzo 2023

la duplice provenienza del CO2 emesso dai Campi Flegrei alla Solfatara e a Pisciarelli


Il CO2 rappresenta il gas volatile più abbondante nei magmi dopo l'acqua e per questo i vulcani emettono grandi quantità. Nelle caldere attive l’intensa interazione tra fluidi magmatici, ampi sistemi idrotermali e le loro rocce ospiti può emettere anche CO2 proveniente da altre fonti non magmatiche e la caldera dei Campi Flegrei al momento non fa eccezione. Siccome fra i segnali più importanti che segnalano la possibile ripresa della attività vulcanica c’è un aumento di CO2 magmatica, l’eventuale presenza di una componente di questo gas non dovuta direttamente al vulcanismo deve essere distinta qualitativamente e quantitativamente.

I Campi Flegrei sono il vulcano che negli ultimi 60.000 anni ha prodotto le più importanti eruzioni esplosive tra Europa e Mediterraneo: oltre ad un vasto numero di eventi minori, eruzioni particolarmente importanti sono avvenute 29.000 e 15.000 anni fa (quest’ultima è la fonte del celebre Tufo Giallo napoletano). Invece gli ultimi studi hanno evidenziato come la famosa eruzione di 39.000 anni fa, tradizionalmente legata ad essi, sarebbe avvenuta più a nord, nella piana campana e presumibilmente nella zona di Parete, 5 km a SW di Aversa (Rolandi et al, 2020), dove perforando dei pozzi geotermici sono state trovate lave calc-alcaline andesitiche e basaltiche (Aprile e Ortolani, 1978) e dove i dati aeromagnetici evidenziano una zona semicircolare con una magnetizzazione simile a quella di Vesuvio e Campi Flegrei, sulla quale ci sono state diverse interpretazioni (Florio et al, 1999)

i movimenti verticali del terreno ai Campi Flegrei dal 1980
(da Troise et al, 2019)
BRADISIMO ED EMISSIONI DI GAS. Dopo le ultime attività nel II millennio AC la caldera aveva subito un forte abbassamento, che è proseguito anche dopo l’età romana come dimostrano i resti sommersi della città di Baia. L’unica eruzione storica ai Campi Flegrei è quella che ha formato il Monte Nuovo nel 1538, precedutaa da un importante sollevamento del terreno (non tutti sono d’accordo su una eruzione nel 1198 alla Solfatara, che probabilmente è stata una esplosione vulcano - freatica). Nei secoli successivi la caldera è stata interessata da un periodo di subsidenza terminato nella seconda metà del XX secolo quando sono state registrate 3 distinte crisi bradisismiche caratterizzate da evidenti sollevamenti tra 1950–1952, 1970–1972 e 1982–1984 (quest’ultima particolarmente nota perché portò all'evacuazione della città di Pozzuoli). 
Dopo il 1985 è nuovamente intervenuta la subsidenza, interrottasi nel 2005, all’inizio della fase di sollevamento che continua ancora oggi dopo quasi 20 anni eattualmente è insieme all'Etna fra i massimi emettitori naturali di CO2 (Werner et al., 2019)
Sollevamenti e subsidenze sono legati ad intrusioni magmatiche a bassa profondità come nel 1985 (Troise et al, 2019) o a aumenti della temperatura nel sistema idrotermale dovuto all’afflusso dal profondo dei gas liberati dal magma che aumentano la temperatura e la pressione nel sistema idrotermale. A questo modo si genera la sismicità a profondità minore di 3 km (e quindi ben risentita dalla popolazione) attualmente presente nei dintorni di Pozzuoli. Al contrario, la conclusione della fase di intrusione e la fine degli afflussi di vapore profondi provoca un raffreddamento del sistema, la relativa subsidenza e una netta diminuzione dell’attività sismica. Da notare che la velocità del sollevamento per cause magmatiche come nel 1984-85 è decisamente più alta che in una fase semplicemente guidata dai gas come quella attuale.

i rapporti N2/CO2 e He2/CO2 evidenziano
a partire dal 2005 una deviazione dal modello teorico
(da buono et al 2023)
CO2 E CAMPI FLEGREI. Ai Campi Flegrei il CO2 viene emesso nel sito di Solfatara-Pisciarelli sia per degassamento diffuso del suolo che tramite le fumarole. I flussi, monitorati con regolarità dal 1980, si sono mantenuti costanti fino al 2014 su valori inferiori a 2000 t/giorno; da quel momento i quantitativi sono aumentati fino alle odierne 4000–5000 t/giorno (Chiodini et al., 2021), valore che colloca i Campi Flegrei tra i primi otto vulcanici emettitori di CO2 sulla Terra. 
In bibliografia sono stati definiti e proposti due scenari principali per spiegare le composizioni delle fumarole:
(1) decompressione semplice: un degassamento continuo del magma situato a 8 km di profondità indotto dalla sua decompressione
(2) miscelazione profonda: il degassamento avviene a diverse profondità durante la risalita del magma tra i 20 e gli 8 km di profondità
I modelli teorici sono stati confrontati con i dati delle fumarole di Pisciarelli e della Solfatara, e qui si è visto che dal 2005 in poi, in corrispondenza anche dell’aumento di volumi e temperature (Chiodini et al., 2015), le cose non quadrano: i rapporti fra Elio e Azoto da un lato e CO2 dall'altro evidenziano da quel momento fino ad oggi una deviazione sistematica e crescente nel tempo (Buono et al,2023). Quindi, il confronto tra le composizioni misurate e i modelli suggerisce che intorno al 2005 al flusso di CO2 si sia aggiunta alla componente vulcanica una fonte esterna in concomitanza con il riscaldamento del sistema.

DA DOVE PROVIENE QUESTO CO2 NON MAGMATICO? Ricordando che nei magmi campani potrebbe esserci anche un po' di CO2 proveniente da reazioni tra il magma e le rocce carbonatiche incassanti (in profondità sotto la piana campana si trovano le stesse rocce che affiorano in gran parte dell’Appennino centrale e meridionale) ma che questa componente dovrebbe essere poco significativa, per Buono et al (2023) la fonte esterna di CO2 dovrebbe provenire da reazioni chimiche e fisiche che interessano la calcite presente nelle rocce serbatoio del sistema idrotermale: i dati petrologici e isotopici dei carotaggi anche profondi effettuati in zona hanno evidenziato come nei primi 3 km di profondità le rocce del sottosuolo ospitano alti contenuti di calcite idrotermale (Chiodini et al., 2015).
Quando come oggi il sistema si riscalda queste reazioni liberano il CO2 della calcite idrotermale, e lo aggiungono al flusso proveniente dal magma. Gli Autori stimano che questa fonte non magmatica di CO2 contribuisca in caso sia valido il modello di decompressione semplice fino a circa il 40% del totale delle emissioni fumaroliche, mentre l’incremento sarebbe solo di circa il 20% nel caso della miscelazione profonda 

NOTA IN CALCE. A seguito di alcune polemiche venute fuori a Napoli, in particolare sul fatto che il lavoro non presenti “conclusioni sulla profondità o sul volume, o sul cambiamento di volume, del magma in degassamento che è la questione più importante per la sicurezza pubblica” mi sento di esprimere una mia posizione: mi trovo d’accordo sul fatto che non ci siano (dato oggettivo!), però a mio avviso la ricerca (e quindi l’articolo) non avevano questo come obbiettivo: l’obbiettivo consisteva invece nel dire: "guardate che siccome i monitoraggi per la segnalazione di una possibile eruzione prevedono essenzialmente il controllo di microsismicità, gravimetria, deformazioni del terreno e temperatura e analisi delle fumarole, nelle emissioni c’è un quantitativo non magmatico (e variabile) di CO2 non magmatica e ne dovete tenere conto quando studiate le analisi sulle fumarole".
Sono altresì pienamente d'accordo sul fatto che la presenza di magma a 8 km in caso di nuova iniezione di nuovi magmi (scenario tutt’altro che irrealistico) possa innescare una eruzione e che la popolazione su questo debba essere informata e cosciente.

Però se nel 2005 non vi è stata in profondità nuova intrusione di magma dopo quella da cui proviene l’intrusione del 1985, anche io non ho capito come mai si è verificato questo aumento di temperatura che a cascata sta provocando la liberazione del CO2 dalla zona della falda geotermica. Interrogativo a cui non ho trovato risposta (forse per colpa mia?)

Aprile e Ortolani, F., 1979. Sulla struttura profonda della Piana Campana. Boll. Soc. Nat. Napoli 88.

Buono et al 2023 Discriminating carbon dioxide sources during volcanic unrest: The case of Campi Flegrei caldera (Italy)

Chiodini et al 2015 The geological CO2 degassing history of a long-lived caldera: Geology, v. 43, p. 767– 770,

Chiodini, G., et al., 2021, Hydrothermal pressure-tem- perature control on CO2 emissions and seismicity at Campi Flegrei (Italy): Journal of Volcanology and Geothermal Research, v. 414,

Fischer, T.P., and Aiuppa, A., 2020, AGU Centennial Grand Challenge: Volcanoes and deep carbon global CO2 emissions from subaerial volcanism—Recent progress and future challenges: Geochemistry, Geophysics, Geosystems, v. 21, https://doi.org/10.1029/2019GC008690.

Rolandi et al 2020 The 39 ka Campanian Ignimbrite eruption: new data on source area in the Campanian Plain in:. -Vesuvius, Campi Flegrei, and Campanian Volcanism - Elsevier Inc.

Florio et al 1999 The Campanian Plain and Phlegrean Fields: structural setting from potential field data Journal of Volcanology and Geothermal Research 91 Ž1999. 361–379

Troise et al 2019 The Campi Flegrei caldera unrest: Discriminating magma intrusions from hydrothermal effects and implications for possible evolution. Earth-Science Reviews 188, Pages 108-122

Werner, C., et al., 2019, Carbon dioxide emissions from subaerial volcanic regions: Two decades in review, in Orcutt, B.N., et al., eds., Deep Carbon; Past to Present: Cambridge, UK, Cambridge Uni- versity Press, p. 188–236


mercoledì 8 marzo 2023

la relazione fra piogge, frane ed uso del suolo in un bacino degli USA nordoccidentali: un monito per tutti sul possibile impatto della attività antropica sulla vulnerabilità da frana



Le piogge intense rappresentano un meccanismo molto importante di innesco delle frane. Le probabilità dello scatenarsi di un dissesto gravitativo sono soggette a fattori di diverso tipo, in primis meteorologici, soprattutto la quantità di pioggia, mentre dal punto di vista geomorfologico contano soprattutto la litologia e la pendenza del versante. Ci sono poi le condizioni preesistenti di saturazione del suolo (direi un fattore intermedio fra meteo e geomorfologia). Ma una discriminante importante e spesso trascurata (specialmente nella programmazione di interventi!) è l’uso del suolo: su questo qualcuno fa finta di non sapere che la suscettibilità da frana può variare in modo decisivo in caso di interventi antropici che incidono nell’uso del suolo, le cui conseguenze possono arrivare ad essere drammatiche. Vediamo come in un bacino forestato dell’Oregon variazioni antropiche nell’uso del suolo abbiano influenzato in modo consistente le conseguenze di piogge intense.

Le frane interessano soprattutto la parte occidentale degli USA, tra le Montagne Rocciose e il Pacifico, ma anche altrove. e provocano in media 25 morti e circa un miliardo di dollari di danni all’anno (stime dell’USGS, il servizio geologico nazionale). Per verificare quanto l’uso del suolo influenzi la franosità, un gruppo di ricercatori della Oregon State University ha indagato un bacino forestale interessato nel passato da pesanti interventi antropici (deforestazione e annessa realizzazione di strade) di cui si conoscono i dati su decenni di piovosità e franosità. Lo scopo della ricerca è stato il capire come queste pratiche abbiano influenzato tasso e quantità di inondazioni e smottamenti e modificato la morfologia delle aste acquifere. I risultati hanno dimostrato come tali variazioni abbiano influenzato pesantemente quantità ed entità di frane e alluvioni.

IL BACINO DEL LOOKOUT CREEK. Lo studio (Goodman et al, 2023) ha riguardato il bacino del Lookout Creek, 64 km2 all’interno della H.J. Andrews Experimental Forest, un sito di ricerca ecologica a lungo termine nella Catena delle Cascate nell’Oregon occidentale, gestito dalla National Science Foundation (l’equivalente del CNR degli USA). Il bacino è stato scelto anche perché è piuttosto variegato: sono state distinte 3 aree differenti, una in alto, in cui la morfologia è scolpita dalle ultime fasi glaciali, meno vulnerabile alle frane, una zona a quota intermedia dominata da frane di scivolamento attive e non, anche di dimensioni kilometriche, e una zona più bassa dominata da frane di crollo e annesse colate detritiche.
La vegetazione consiste in vari tipi di conifere, la quota varia tra 410 e 1630 msl, vi affiorano le classiche rocce vulcaniche che caratterizzano tutta la Catena delle Cascate, la temperatura media è 9°C e vi piove abbastanza: tra 2200 e 2700 mm all’anno, di cui più dell’80% tra Ottobre e Aprile. L’accumulo nevoso è inferiore al metro.
si nota come anche una debole riforestazione
abbia diminuto il detrito
nel 1996 rispetto a 30 anni prima
Le pratiche forestali nel bacino del Lookout Creek, iniziate negli anni ‘30 del XX secolo ma decisamente incrementate con la costruzione di apposite strade negli anni ‘50, sono in gran parte cessate negli anni '80, il che ha consentito oggi agli scienziati di monitorare il loro impatto su frane e inondazioni durante e dopo il periodo di gestione attiva. In particolare la costruzione delle strade di servizio ha determinato la formazione di pendii localmente molto acclivi in corrispondenza dei tagli,
L’abbattimento di foreste secolari e la costruzione di strade di servizio hanno controllato per decenni la quantità di erosione e deposizione dei sedimenti e modificato la naturale vulnerabilità del bacino all'erosione, alle frane e agli eventi alluvionali. Insomma, la frequenza di frane e colate detritiche dipende dalle condizioni create dalle pratiche di gestione negli anni precedenti. 
Per quanto riguarda le alluvioni i risultati sono quasi sorprendenti: anche le piccole inondazioni a frequenza annuale hanno generato risposte geomorfologiche importanti nel periodo del disboscamento e della costruzione di strade.

ATTIVITÀ ANTROPICA E FRANE DA ALLUVIONI. La bibliografia in materia segnala fra le conseguenze del disboscamento un enorme afflusso di detriti rocciosi e legnosi nei corsi d'acqua, un aumento del ruscellamento (il 50% in più), dell’umidità della parte più profonda del suolo per la mancanza di evapotraspirazione e del tasso di scioglimento delle nevi (Jones e Grant, 1996). E il bacino studiato non fa eccezione. Ad esempio delle 32 frane registrate nel bacino come conseguenza degli eventi del dicembre 1964 (tre impulsi in meno di 24 ore), 29 di esse erano adiacenti ai canali di ruscellamento; ma soprattutto il 93% dei circa 30.000 m3 di sedimenti spostati proveniva da frane avvenute lungo le strade. Nell’immagine si nota la differenza fra il dicembre 1964 e il febbraio del 1996, quando in assenza di attività forestale, nel detrito la presenza di grossi tronchi è molto minore. Per quanto riguarda i maggiori eventi alluvionali (tra 1965 e 1966, nel 1995 e nel 2011), quelli del 1966, contemporanei al disboscamento, hanno prodotto risposte geomorfologiche molto più ampie rispetto a quello del 1996, avvenuto più di un decennio dopo la cessazione del disboscamento; la risposta è stata addirittura trascurabile nel 2011, quando le aree deforestate si erano trasformate in piantagioni forestali di 20-70 anni. 
Questo vale per tutte le tre zone geomorfologiche: la risposta alle alluvioni è stata più influenzata dalla costruzione delle strade e dei relativi tagli del bosco, dagli eventi passati e dalle dinamiche forestali, rispetto alla entità degli eventi stessi, determinando in quel periodo una maggiore movimentazione di sedimenti e legname a parità di precipitazione, rispetto alla fase di assenza delle lavorazioni. 

ITALICA POSTILLA. Pertanto che le variazioni nell’uso del suolo influenzino molto pesantemente la suscettibilità da frana e da alluvione, dovrebbe entrare nella testa degli italiani, a partire dai decisori.  La cosa era già nota nel XVI secolo, quando per decisione di Cosimo I, dopo l’alluvione di Firenze del 1557 fu vietato il disboscamento nelle zone alte di Mugello e Casentino, per diminuire la velocità del ruscellamento. Poi nel periodo post-unitario ci fu una seconda ondata di disboscamenti, che ha avuto pesantissime conseguenze sulla morfologia delle aste fluviali, invadendole di detrito e quindi diminuendone drasticamente la portata.  
Oggi almeno in Italia a causa dell’abbandono dei versanti montani e collinari il disboscamento non è un problema delle aree montuose e lontane dai centri urbani, dove abbiamo avuto al contrario una avanzata degli alberi. Però in aree urbane o suburbane non sono purtroppo pochi i casi di interventi scellerati che hanno provocato dissesti: purtroppo in questi ultimi anni è toccato anche a me leggere diverse (troppe..) volte relazioni nelle quali si dichiarava più o meno esplicitamente che in quel versante non sarebbe successo nulla senza quegli interventi antropici…. 
Meditate gente, meditate


Goodman et al 2023 Seventy years of watershed response to floods and changing forestry practices in western Oregon, USA Earth Surf. Process. Landforms. 2023, 1-16.

Jones e Grant (1996) Peak flow responses to clear-cutting and roads in small and large basins, Western Cascades, Oregon. Water Resources Research, 32(4), 959–974.



mercoledì 1 marzo 2023

I dinosauri italiani, pochi ma buoni. Anzi: spesso eccezionali!


Fino a 30 anni fa circa era opinione comune che in Italia non fossero vissuti dei dinosauri. In realtà questa asserzione era semplicemente il frutto della mancanza di reperti: dagli anni ‘90 invece è dimostrata la presenza di dinosauri anche nei territori che costituiscono l’Italia. Non solo, ma fra fossili e impronte fossili abbiamo alcuni dei ritrovamenti più clamorosi (parlo di Antonio, Ciro e delle impronte di Altamura). Faccio quindi una breve disamina della situazione, premettendo che i siti dove sono state trovate le impronte sono molto numerosi e non posso citarli tutti.

Innanzitutto una puntualizzazione: non è che i dinosauri siano vissuti solo nel Giurassico. La confusione l'ha creata il famoso film Jurassic Park e anche in Jurassic Park ci sono dinosauri del Cretaceo che ancora non esistevano nel Giurassico, per esempio i Tirannosauri. Penso che sia stato scelto il titolo più accattivante: probabilmente Cretaceous Park o Mesozoic Park avrebbero funzionato peggio. Anche i reperti italiani sono sia giurassici che cretacei.

Tiziana Brazzatti e una copia del "suo" Antonio
al villaggio del Pescatore
I DINOSAURI ITALIANI: POCHI MA “BUONI”. Nel XX secolo sono stati scoperti fra Italia e Svizzera due esemplari di Ticinosuchus ferox, un rettile del triassico medio e le impronte note come Cheirotherium sono probabilmente state lasciate da un Ticinosuchus o da un suo simile. Nel Triassico gli arcosauri, oggi rappresentati solo da uccelli e coccodrilli, erano particolarmente variegati; all’interno di questa complessità Ticinosuchus, che ha convissuto con i primi dinosauri, appartiene ai Rauisuchidi, un gruppo nella cui classificazione c’è un po' di confusione (Gower, 2000). L’unica cosa sicura è che i Rauisuchidi appartengono agli arcosauri più vicini ai coccodrilli che a uccelli e dinosauri.
Dagli anni ‘90 del XX secolo sono iniziate le scoperte, prima di impronte poi anche di fossili e fra questi due degli esemplari più spettacolari al mondo: Antonio a Trieste e Ciro nel Sannio.
I dinosauri italiani appartengono a diversi gruppi: il triestino Antonio (scientificamente noto come Tethyshadros insularis), scoperto dalla mia amica Tiziana Brazzatti (Brazzatti e Calligaris, 1995) e riportato completamente alla luce qualche anno dopo, è un adrosauro, quindi un classico esponente dei dinosauri ornitischi; la cosa incredibile è che durante la campagna per liberarlo dalla roccia è stato trovato Bruno, un altro adrosauro della stessa specie, anche esso in buono stato di conservazione, pur se deformato. 
Ci sono poi 4 fossili di saurischi. Vicino Roma, sulle pendici dei monti Prenestini, sono state scoperte parti dello scheletro di Tito, un grosso sauropode, esponente di un gruppo il cui nome è tutto un programma dal punto di vista delle dimensioni: i titanosauri. Sono invece dei teropodi il Saltriosauro (Saltriovenator zanellai) che era un Ceratosauro (un dinosauro carnivoro appartenente ad un clade diverso rispetto ai carnosauri come gli allosauri o al rigoglioso gruppo dei celurosauri), Ciro, scientificamente noto come Scipionyx samniticus, l’esemplare di poche settimane di vita trovato a Pietraroja, e il proprietario di un arto isolato di difficile collocazione più precisa, trovato nella parete di una grotta nei pressi di Palermo in depositi di ambiente lagunare del Cretaceo superiore.
Le piccole dimensioni di Ciro (in realtà scoperto nel 1981 ma rimasto a lungo sconosciuto al mondo scientifico) ma soprattutto la sua tenera età ne rendono incerta la classificazione: è tradizionalmente considerato un compsognatide, quindi un celurosauro parente molto prossimi degli antenati degli uccelli, ma Andrea Cau sostiene che si tratti invece di un pulcino di un allosauro (Cau, 2021). Il suo stato di conservazione è eccezionale perché le condizioni chimiche della sua fossilizzazione hanno consentito di preservare i calchi di tessuti molli ed organi interni. Solo tra i fossili delle faune di Jehol, in Cina, si può riscontrare uno stato di conservazione simile! (ne ho parlato qui).

alcune impronte di Altamura
Foto nel sito del comune
NON SOLO OSSA: ANCHE ORME. Dalle impronte fossili si possono ottenere informazioni utili, confrontandole con le caratteristiche del piede dei fossili conosciuti; in alcuni casi sono state persino evidenziati alcuni aspetti della pelle. I siti italiani con impronte sono molti di più di quelli fossiliferi e confermano la presenza di dinosauri carnivori medi e piccoli, di sauropodi e di vari ornitischi come iguanodonti e ankylosauri. Qui devo limitarmi a citarne alcuni. Per chi volesse dettagli maggiori i due lavori di Petti et al (2020) rappresentano un ottimo livello di approfondimento della questione.
Diversi siti contenenti orme fossili si trovano tra Trentino Alto Adige Veneto e Friuli, dove meritano una menzione speciale quelle leggendarie dei Lavini di Marco a Rovereto (Avanzini et al, 2003) e del monte Pelmo (Belvedere et al, 2017). In entrambi i casi sono presenti sia teropodi che dinosauri erbivori. Le impronte trovate in un blocco usato per il molo di Porto Corsini a Ravenna vengono dal Friuli (cava Sarone, vicino a Pordenone). Nel centro – sud d’Italia le impronte sono state trovate soprattutto dentro cave o in blocchi provenienti da cave. Fra la decina di siti in Puglia spicca la cava di Altamura che ne contiene almeno 26.000 secondo un rilievo eseguito con il drone. Purtroppo le tracce si incrociano (forse sono state lasciate da un singolo branco) e così spesso le successive vanno a danneggiare quelle preesistenti, rendendo difficile la ricostruzione. Sull’attribuzione definitiva degli animali che sono passati di lì circa 80 milioni di anni ci sono ancora molte incertezze. 
Nel Lazio una cava a Sezze contiene oltre 200 impronte in 3 differenti orizzonti lasciate da un titanosauro simile a quello ritrovato a Roma, da un oviraptoride e da un teropode generico; a Esperia le tracce non sono ben conservate ma una serie appartiene sicuramente ad un piccolo teropode alto meno di un metro; nel Circeo a Porto Canale – Riomartino un blocco di calcare cavato vicino a Terracina presenta le impronte di un teropode (probabilmente uno strutiomimus, chiamato così per il suo scheletro straordinariamente simile a quello di uno struzzo), che stava camminando, si è fermato per un pò e successivamente è ripartito. 

Carta modificata da Citton et al (2016) con evidenziati i siti con fossili.
Quelli con le impronte sono di più ma essendo spesso vicini fra loro
 non sono stati indicati tutti
DOVE VIVEVANO QUESTI DINOSAURI. Il nome scientifico di Antonio, Tethyshadros insularis si riferisce esplicitamente alle caratteristiche geografiche dell’area dove vivevano i dinosauri italiani: una serie di isole pianeggianti a quote molto basse, circondate da bracci di mare di scarsissima profondità, poste nella fascia tropicale lungo il margine settentrionale della Tetide, l’oceano allora interposto fra l’Eurasia da un alto, Africa, Arabia e India dall’altro, la cui chiusura ha formato il sistema montuoso che va da Gibilterra all’Himalaya, passando per Italia, Balcani, Turchia e Iran. Dal punto di vista ambientale l’area si trovava nella fascia tropicale: per trovare una analogia attuale un buon esempio dell’Italia che fu è il complesso Florida – isole Bahamas: un continente e un sistema di isole con intorno un mare non molto profondo. Queste isole erano esattamente il tipo di ambiente dove è possibile la conservazione delle impronte: basta che un nuovo sedimento si depositi sopra di esse dopo che si sono momentaneamente consolidate e prima che vengano naturalmente distrutte e il gioco è fatto.
La Tetide, che era di suo un oceano molto stretto, a quell’epoca si stava già chiudendo. I suoi margini, spezzettati in una serie di microzolle potevano essere piuttosto mobili e in movimento fra loro, per cui è possibile che alcuni di questi blocchi si avvicinassero e poi si allontanassero di nuovo. Questi movimenti orizzontali potevano anche innescare dei movimenti verticali che nel sistema di terre poco elevate e bracci di mare poco profondi erano in grado di aumentare o diminuire a dismisura l’estensione delle isole; questo poteva succedere anche a causa di oscillazioni globali del livello marino. In particolare nei momenti in cui il livello marino era estremamente basso (come per esempio ad un certo punto nel Cretaceo medio, circa 115 milioni di anni fa) ci possano essere stati dei “ponti”, che hanno sporadicamente collegato l’Africa all’Eurasia, provocando di conseguenza diversi scambi faunistici fra Africa ed Eurasia. I maggiori indiziati per questi corridoi sono la zona ora rappresentata dalla penisola iberica e proprio le piattaforme carbonatiche intorno all’attuale mar Adriatico. Le ossa di sauropode dei monti Prenestini dimostrano il ruolo rivestito dalla piattaforma appenninica in questi scambi faunistici (Dal Sasso et al, 2016).

NON SOLO RETTILI MESOZOICI TERRESTRI. Nel mesozoico anche nei mari vicini a dove vivevano i dinosauri italiani nuotavano i grandi rettili marini del mesozoico, come testimoniano il fossile di un ittiosauro, un rettile marino mesozoico morfologicamente simile ad un delfino, trovato a Genga, nell’Appennino centrale (Paparella et al 2016) e l’impronta di un rettile marino non identificabile in un sedimento deposto ad una certa profondità al Conero. In realtà questo non è il primo reperto di ittiosauro trovato in Italia: Serafini et al (2023) hanno descritto la parte anteriore del muso di un ittiosauro rinvenuta in Veneto nel XIX secolo e ora al museo di Verona e solo un anno fa è stato scoperto un reperto analogo sempre vicino a Verona, attualmente in studio a Modena dall’equipe del prof. Papazzoni
Inoltre in un sedimento deposto ad una certa profondità al Conero, sono state trovate delle impronte lasciate sul fondo da un non meglio identificato rettile marino.

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Serafini et al 2023 Dead, discovered, copied and forgotten: history and description of the first discovered ichthyosaur from the Upper Jurassic of Italy Italian Journal og Geosciences 142/1, 131-148