mercoledì 30 settembre 2009

Il terremoto delle Isole Samoa del 29 settembre 2009: un caso apparentemente anomalo e le somiglianze con l'Italia


Il terremoto del 29 settembre alle Samoa, a cui è seguito lo tsunami il cui bilancio ancora noin è definitivo mentre scrivo, a prima vista è stato un po' “anomalo”. A larga scala la tettonica della regione è governata dalla convergenza fra la placca australiana e quella pacifica che vi scorre al di sotto. Nella zona del terremoto la velocità relativa delle due zolle è di circa 86 millimetri all'anno (un valore che sembra decisamente alto, ma sono stati misurati nell'area con il GOS dei valori addirittura doppi). Il terremoto è avvenuto presso il punto dove il limite fra le due zolle, che a sud forma un segmento lineare quasi N/S di circa 3000 kilometri comincia a piegarsi per formare un arco e dirigersi verso Ovest. Il quadro è abbastanza complesso perchè l'area è spezzettata in una serie di piccole microzolle ancora non ben comprese visto che il tutto è sepolto sotto migliaia di metri di pceano. Inoltre siamo davanti a uno dei rari casi di subduzione di una zolla oceanica sotto un'altra zolla oceanica (di solito la subduzione è sotto la crosta continentale).

La prima cosa che balza agli occhi nel rapporto del Servizio geologico degli Stati Uniti, è vedere come il terremoto si sia scatenato non nella zona di convergenza, ma davanti ad essa, nella parte di zolla che ancora non è coinvolta nella subduzione e come lo sforzo che lo ha generato non è compressivo ma distensivo: di solito nel quadro generale di un sistema arco - fossa la sismicità si addensa sopra la zona di subduzione e i terremoti principali sono tutti provocati da faglie inverse e da thrusts (sovrascorrimenti). Nella zona esterna della fossa i terremoti sono rari e deboli.

La fossa di Tonga – Kermadec oltre ad essere una delle zone sismogenetiche più forti della Terra, (per esempio nel 2006 ci fu un po' più a sud un altro terremoto di M=8, che è avvenuto “regolarmente” sopra la zona di subduzione: le misurazioni dimostrano che è stato un terremoto di thrust come quello tristemente noto di Sumatra alla fine del 2004). Ma quello del 29 settembre non è stato l'unico terremoto forte all'esterno del limite di zolla, nell'area ancora non subdotta a est della fossa. Ricordiamo ad esempio il 6.9 del maggio 2003 e il 6.8 del 9 dicembre 2008, tutti, guarda caso, di tipo distensivo.
In alcune campagne di studio è stato visto che questa fossa non ha una struttura semplice: si vedono tutta una serie di blocchi rigidi, ora innalzati ora ribassati di origine tettonica (horst e graben) da entrambi i lati. I blocchi sono tutti limitati da faglie normali, che si raggruppano in due sistemi: uno parallelo alla fossa e uno perpendicolare. Quindi, potrà sembrare strano, ma proprio nel cuore di una zona di convergenza si sviluppano delle dinamiche estensionali. Un'altra caratteristica fondamentale è che sopra la fossa la crosta ha subìto un consistente rialzo di oltre 5 kilometri negli ultimi 30 milioni di anni.

Perchè succede questo? Perchè è la fossa stessa che si sta muovendo in direzione ovest e a velocità piuttosto forte. Il movimento crea quindi una zona di distensione contrassegnata dalle faglie normali che ogni tanto provocano terremoti di discreta se non forte intensità come nel caso di ieri, sismi che appartengono ad una classe diversa da quella dei classici “terremoti di subduzione”.
Il perchè succeda questo non è ancora molto chiaro: forse la fossa si sta spostando come conseguenza dell'interazione fra le varie piccole zolle dell'area.

Più o meno è lo stesso meccanismo che è stato ipotizzato per l'Appennino Settentrionale in modo da spiegare come mai il culmine della catena si stia via via spostando verso nordest nella parte più a nord e verso est nella zona delle Marche. Succede la stessa cosa anche nell'Italia Meridionale. La differenza fondamentale fra le due situazioni è che in Italia, come si vede dal disegno, il movimento è verso l'esterno, quindi il sistema migra verso la zona che ancora deve essere coinvolta nella orogenesi (Adriatico) mentre va in distensione formando una serie di blocchi la zona già interessata dall'orogenesi (nel caso dell'Appennino Settentrionale la Toscana). Qui invece il sistema migra verso l'interno, cioè avanza e la zona che deve essere ancora coinvolta nell'orogenesi si trova prima a sopportare delle tensioni anziché delle compressioni, almeno a livello superficiale. Quindi nel caso della fossa Tonga - Kermadec la freccia bianca dovrebbe andare nella direzione opposta e la zona che si assottiglia e si sblocchetta anzichè essere quella in grigio è all'inizio dell'avampaese (foreland), dall'altra parte rispetto alla fossa

Supervulcani

La foto è un panorama della "Long Valley Caldera", un supervulcano.
In questi giorni ha fatto molto rumore la scoperta del supervulcano paleozoico di Lanzo e sui supervulcani ne sono state dette parecchie, spesso inesatte. Innanzitutto i “supervulcani” attuali sono veramente pochi e non ce ne sono stati tanti, almeno nella storia recente della Terra. Per fortuna nessuno ha ancora scritto che possa rientrare in funzione. Ma aspettiamo: prima o poi qualche sito di "misteri" o di "scienze alternative"lo farà di sicuro.
Ma cosa sono in realtà i supervulcani? La storia della loro scoperta è molto interessante. I ricercatori si sono imbattuti in depressioni circolari simili a quelle delle caldere, ma molto più grandi.

Le caldere si formano quando la camera magmatica contenente la roccia fusa sotto ad un vulcano si svuota, provocando così il collasso del terreno soprastante, non più sostenuto al di sotto dalla pressione del magma. Non ci sono dubbi sul fatto che sia un evento traumatico: la maggior parte dei vulcani produce ceneri, che si distribuiscono nelle loro vicinanze e sono molto preziose per chi studia la geologia o la paleontologia del quaternario perchè forniscono livelli databili e correlabili fra un affioramento ed un altro. Ricordo in Italia le celebri “Ciampate del Diavolo”. Quando invece un'eruzione vulcanica forma una caldera le conseguenze escono dall'ambito locale perchè le quantità di polveri in gioco sono molto maggiori e la violenza dell'esplosione le può scagliare ad altezze tali da permettere loro di espandersi ovunque sopra la Terra: la maggior parte di questi collassi sono infatti registrati persino nelle carote estratte dalle calotte glaciali.
Inoltre non tutte le polveri ricadono molto velocemente, per cui si forma uno strato di nuvole che impedisce, o quantomeno disturba, l'irraggiamento solare. Le conseguenze sul clima globale della Terra possono essere disastrose: per esempio l'esplosione del Tambora nel 1815 provocò in Europa l'anno senza estate. L'eruzione del Toba in Indonesia 75.000 anni provocò una grave crisi climatica mondiale che perdurò diversi anni. In Italia le caldere “classiche” sono quelle dei vulcani laziali, come quella riempita dal lago di Bolsena.

Che queste depressioni molto grandi fossero in relazione con fenomeni vulcanici oltre che per la loro forma fu chiaro per quello che le circondava: enormi depositi di tufi, spessi anche più di 400 metri (quindi 4 volte più alti del Duomo di Firenze, tanto per dare un'idea) che mostravano chiaramente di non essere una successione di materiali deposti da più fasi eruttive, ma di essersi formati nel corso di un singolo episodio vulcanico
Come ordine di grandezza, se la Caldera del Tambora ha un diametro di circa 5 km e quella di Bolsena oltre 10, nei supervulcani si passano i 60. Questo spiega gli incredibili spessori di tufi in quanto area della caldera e volume di ceneri sono drammaticamente superiori: un cerchio di 60 kilometri di diametro ha un'area 4 volte maggiore di uno di 30 e quasi 150 volte maggiore di uno di 5 kilometri!

Le caratteristiche delle eruzioni dei supervulcani sono state delineate studiando i cristalli di zircone e la loro età, che hanno due caratteristiche sorprendenti: sono molto recenti, di età di poco precedente a quella delle eruzioni che hanno formato i tufi che li contengono, e mostrano una composizione isotopica dell'ossigeno tipica della superficie terrestre e non delle profondità da cui provengono questi magmi.
Un contributo fondamentale nello studio dei supervulcani è stato dato dalle caratteristiche degli zirconi: si è scoperto che il magma, oltre ad una componente profonda, è formato anche da lave che sono il risultato della fusione della crosta provocata dai magmi mantellici, a causa della elevata quantità di calore che hanno trasportato. Quindi gli zirconi hanno ereditato la composizione isotopica dell'ossigeno delle rocce crustali, in cui è evidente l'apporto dell'acqua piovana che percola nella crosta.
Il fenomeno non è limitato ai supervulcani: non è difficile vedere un magma basaltico molto caldo provocare la fusione, parziale o totale, della porzione di crosta adiacente o soprastante. Ne risultano sia una mescolanza fra i due magmi, sia province vulcaniche con una spiccata bimodalità dei magmi, uno profondo e uno crustale (la provincia magmatica toscana ne è un classico esempio). Qui la differenza è soprattutto quantitativa.
Per quanto riguarda le datazioni degli zirconi, si vede chiaramente che c'è tutta la gamma di età comprese tra l'arrivo sotto la crosta del magma basaltico e l'esplosione che ha formato la caldera.
Il dato è molto interessante anche per capire lo stato attuale di un supervulcano, analizzandone la composizione dei gas fumarolici. Un rapporto fra Ossigeno 16 e Ossigeno 18 tipico della crosta significa che il magma sottostante è “maturo” . Se la percentuale di Ossigeno 18 aumenta, vuol dire che da sotto è in arrivo una nuova iniezione di magma, con il rischio di una nuova esplosione.

L'eruzione di un supervulcano è un processo abbastanza semplice: una enorme bolla di magma arriva verso la superficie e fonde una parte della crosta sottostante. al di sopra del magma la pressione rigonfia la crosta soprastante sulla quale di conseguenza si formano delle fratture, specialmente lungo un anello che corrisponde alla parte esterna del rigonfiamento. Le fratture arrivano alla camera magmatica e innescano la risalita di magmi e si formano lungo questo anello vari centri eruttivi. Le fratture aumentano di numero e di dimensione fino a che la crosta al loro interno diventa un cilindro isolato dal resto della crosta che lo circonda. A questo punto, ovviamente, i cilindro non riesce a rimanere al suo posto e quindi collassa. Il collasso provoca lo svuotamento istantaneo della camera magmatica, con l'emissione della tipica enorme quantità di tufi, ignimbriti e quant'altro.
Da notare che anche nelle caldere di normali dimensioni come quella del Rabaul in Nuova Guinea succede che crateri avventizi (o piccoli edifici polifasici) si formino esattamente sul bordo della caldera che è oltretutto una fascia nella quale si concentra la sismicità.
Lo schema tratto da Wikipedia e che si riferisce alla Long Valley caldera è piuttosto chiaro.

Quali sono i supervulcani attuali? Il più noto è Yellowstone, nel Wyoming. Una spettacolare successione di supercaldere che si sono formate sopra un pennacchio di magma proveniente dal mantello. La successione delle caldere nel tempo fa vedere il movimento della placca nordamericana al di sopra del pennacchio da quando 15 milioni di anni fa incominciò l'attività: all'epoca il pennacchio era sotto l'odierno Idaho.

Negli Usa c'è anche la Long Valley Caldera, tra la California e il Nevada. Questa caldera è responsabile, 760.000 anni fa, della produzione dei Bishop Tuffs, che raggiungono i 200 metri di spessore. Nella foto si apprezza l'enormità di questo cratere: l'asse maggiore del lago è di circa 50 kilometri. Dovrebbe rappreserntare una delle ultime fasi dell'attività vulcanica del Great Basin, un'area tra California, Nevada e Arizona caratterizzata da assottigliamento della crosta. Anche qui è presente il dualismo fra uno o più magmi di origine mantellica e altro materiale proveniente dalla fusione della crosta indotta da questi magmi profondi. Ma ancora ci sono forti dubbi sulle cause che hanno provocato l'assottigliamento crustale e l'arrivo dei magmi.

La maggior parte degli altri supervulcani sono invece ben inquadrabili nel classico meccanismo dei vulcani di arco magmatico, in cui i magmi sono uno degli effetti della dinamica di due zolle che si scontrano. E' il caso del già citato Toba, in Indonesia. Si calcola che 75.000 anni fa abbia emesso quasi 3.000 kilometri cubici di materiale (!). Tanto per dare un'idea della sua grandezza, il lago si vede chiaramente guardando sul PC una foto da satellite dell'intera isola di Sumatra. Ladepressione, di forma molto ellittica, ha gli assi rispettivamente di quasi 100 e quasi 30 kilometri ed è il risultato di almeno 3 se non 4 caldere adiacenti, formatesi tra 1.2 milioni di anni fa e oggi. L'esplosione maggiore è appunto quella avvenuta 75.000 anni fa. L'attività continua anche ai giorni nostri.

C'è poi il Taupo in Nuova Zelanda. La foto ne molstra il lago. Ha provocato la più grande eruzione degli ultimi 5000 anni, datata al 181 DC. Il Taupo presenta una attività piuttosto continua. Circa 22.600 anni fa produsse oltre 1000 kilometri cubici di materiale, formando una caldera di oltre 30 kilometri di diametro. Mi viene in mente una coincidenza: questa datazione è molto vicina a quella dell'ultimo massimo glaciale.

Questi sono i 4 supervulcani principali. Ma ci sono altri vulcani candidati ad entrare nella lista. Uno è italiano: i Campi Flegrei. Ma ci sono anche altri possibili esempi in Kamchatka, Aleutine e Giappone. Secondo alcune fonti anche Krakatoa potrebbe nascondere un supervulcano. Un'altra area con diversi candidati pooteebbe essre il Sudamerica
Ci sono poi le classiche leggende metropolitane che da quando c'è la Rete si diffondono velocemente. Secondo alcuni persino sotto il St.Helen ci sarebbe un supervulcano. Peccato per questi fantasiosi autori che le camere magmatiche si vedano con la tomografia sismica...

domenica 13 settembre 2009

L'eccezionale livello marino registrato nella East Coast americana dell'estate 2009: un concorso di più cause


Il livello dei mari non è come si pensa comunemente una superficie piatta: ci sono delle zone in cui la superficie è molto più alta a causa di giochi di corrente che accumulano in una determinata area più acqua. Anche venti, maree e campo gravitazionale terrestre fanno la loro parte. A largo del Nordamerica esiste un'area in cui la superfice oceanica è molto più alta rispetto allo zero altimetrico. Anche per questo la costa atlantica degli Stati Uniti mostra delle variazioni del livello marino abbastanza continue e complesse, dovute ad una vasta gamma di fattori che si sommano agli effetti delle maree: venti che spingono a seconda della direzione sulla costa o verso il largo ingenti masse d'acqua, Corrente del Golfo, modifiche della temperatura della colonna d'acqua e uragani. Naturalmente le conseguenze maggiori le patiscono le aree costiere pianeggianti.

Accade spesso che per qualche giorno il livello marino si alzi un po' e, proprio per questo la NOAA (National Oceanic and Atmospheric Agency), che è un po' la NASA dell'atmosfera, emette periodicamente un bollettino in cui notifica le previsioni sull'andamento del livello del mare. La cosa è piuttosto complessa non solo perchè l'estensione latitudinale della costa atantica statunitense è vasta, ma anche perchè circostanze locali come morfologia e orientazione delle coste possono modificare pesantemente l'intensità dei cambiamenti a pochi kilometri di distanza.

L'estate del 2009 passerò alla storia della East Coast per un persistente incremento di 60 centimetri del livello del mare. Gli americani hanno tempestato la NOAA di telefonate ed E-mail su spiagge sparite, problemi di approdi per le imbarcazioni da diporto e anche alcuni allagamenti nelle aree costiere, come nel caso visibile nella fotografia, scattata a Silver Spring, nel Maryland.
La seconda immagine illustra quelle che erano le previsioni ordinarie per effetti mareali, assolutamente sottostimate rispetto a quanto accaduto. Il problema è stato analizzato da scienziati preoccupati e soprattutto molto stupefatti, ma alla fine le cose sono state messe in chiaro, come dimostra il rapporto della NOOA “Elevated East coast sea level anomaly: june – july 2009”.

Nella seconda metà di giugno si verifica sempre, per cause astronomiche, una delle maree più imponenti dell'anno. Però stavolta l'aumento del livello marino è stato molto forte e senza che ci fosse la contemporanea presenza di un uragano (la stagione degli uragani quest'anno è stata molto debole per fortuna e il passaggio degli uragani nei Caraibi provoca spesso un aumento del livello marino sulle coste atlantiche meridionali degli USA). Questo ha ovviamente stupito abitanti e frequentatori delle coste, abituati a correlare il fenomeno con questi eventi.
La NOOA ha diffuso allora un bollettino in cui si informava che “il livello marino si è elevato ben al di sopra ai valori previsti su tutta la costa atlantica degli Stati Uniti. Dal 19 al 24 giugno il mare è stato fra 10 e 60 centimetri superiore al normale. L'anomalia è continuata, anche se con livelli minori, in luglio. E' normale che questo possa succedere in piccole zone della costa orientale, ma stavolta copre tutta la costa”.
Pertanto il Centro per i Servizi e i Prodotti Oceanografici della NOAA rassicurava l'opinione pubblica sul continuo monitoraggio dell'evento, per fornire ulteriori informazioni sul suo andamento e sulle sue cause.

E' rapidamente diventato palese che all'eccezionalità dell'evento hanno contribuito diverse concause. Innanzitutto i venti: tutto è iniziato ai primi di maggio, quando 5 giorni di forti venti da NE spingeno le acque sulla costa, hanno provocato un aumento medio di 20 centimetri del livello marino. Un fenomeno che, unito alla marea, in Italia conosciamo molto bene perchè proprio il vento, stavolta da sud, è una delle cause principali dell'acqua alta a Venezia.
Poi, a seconda dell'orientazione della costa, i successivi venti da SW hanno provocato degli accumuli locali di masse d'acqua. Ai primi di giugno hanno ricominciato a soffiare i venti da nordest e quindi la situazione è tornata a peggiorare dappertutto.

All'effetto dei venti si è aggiunta una decisa diminuzione della pressione, che ha influenze molto forti sul livello marino: grossolanamente secondo la NOAA un millibar di pressione in più corrisponde a un millimetro di acqua in meno. La pressione alla fine di maggio cadde di 15 (!) millibar a Nantucket ed in altre località costiere e si è mantenuta piuttosto bassa per tutto Giugno.

Da ultimo ci si è messo pure un rallentamento della Corrente del Golfo, la quale però continuava ad essere alimentata da sud. Non sfogando le acque verso nord anche questo ha contribuito in maniera sensibile al fenomeno. Questo lo si è visto dalle misure del flusso della Corrente della Florida, una delle correnti che contribuiscono a formare la Corrente del Golfo, che nella zona di Miami si muove mediamente a velocità non trascurabili. E' evidente come un rallentamento della corrente a latitudini più settentrionali possa ripercuotersi gravemente sulla costa atlantica degli USA.

Quindi venti, correnti marine e pressione atmosferica hanno giocato un ruolo essenziale in questa vicenda e la NOAA alla fine è riuscita a risolvere questo rompicap, che è quindi il risultato di questa eccezionale contemporaneità di eventi.

Come spesso succede nella Scienza, la soluzione di un problema ne apre altri. In questo caso il dibattito verte sulla questione: “perchè la Corrente del Golfo ha rallentato per un paio di mesi lasua velocità? Dove? E che l'ha bloccata? Non è una discussione solo accademica: il blocco di questa grande arteria in cui scorre l'acqua degli oceani è alla base di periodi molto freddi e asciutti in Europa.

giovedì 10 settembre 2009

Le quattro componenti genetiche principali degli Europei

Non sono un antropologo, né un genetista, e quindi probabilmente da non specialista tendo a semplificare una situazione un po' più complessa, ma le ultime scoperte sull'origine degli europei in campo genetico mi hanno spinto a riprendere in mano dei libri che ho letto recentemente sull'argomento.

Un anno fa venne fuori la notizia che uno scheletro di 28.000 anni fa in Puglia era già “europeo”, nel senso che il suo DNA mitocondriale era compatibile con quello della “sequenza di Cambridge”. Questo non vuole dire che da allora non ci sono più stati apporti genetici, ma conferma l'apporto di popolazioni che erano sul nostro continente da decine di migliaia di anni nel corredo del DNA europeo.
Adesso una equipe italo – anglo – tedesca sul DNA, capeggiata da Barbara Bramanti (altro cervello fuggito....) ha analizzato il DNA di una serie di scheletri provenienti dalle prime popolazioni di agricoltori che giunsero in Europa circa 7500 anni fa. Il termine “giunsero” è appropriato, in quanto sono geneticamente molto diversi dai cacciatori – raccoglitori che abitavano l'Europa precedentemente, i quali erano con ogni probabilità discendenti dai primi Sapiens moderni che avevano scalzato il regno dei Neandertaliani tra 30 e 40.000 anni fa.
Secondo questo studio gli attuali europei non possono essere soltanto i discendenti dei cacciatori - raccoglitori o degli agricoltori (e neanche solo una mescolanza di questi due gruppi): una buona parte del nostro corredo del DNA mitocondriale non appartiene a nessuno di questi due gruppi ancestrali, come dimostrano gli studi di questa equipe. Questo concorda con quanto sostengono Cavalli – Sforza e il suo gruppo, e cioè che agli agricoltori mediorientali provenienti dai Balcani si debba non oltre il 20% del DNA mitocondriale europeo.

Ricordo che il DNA mitocondriale non si ricombina sessualmente, ma si trasmette solo in linea femminile (se Pocahontas avesse avuto una figlia femmina e questa avesse delle discendenti dirette, queste presenterebbero un tipico DNA mitocondriale da nativi nordamericani!). Inoltre è il DNA considerato più “stanziale”: di norma se una regione viene invasa, è più facile che gli invasori maschi si uniscano alla popolazione femminile della regione invasa che il contrario (anche se – ovviamente – al corredo della popolazione dei secoli successivi ci sarà l'ovvio apporto delle donne che facevano parte degli invasori).

Alla questione genetica si sovrappone poi la questione linguistica: è altamente probabile che gli agricoltori portarono con se le lingue indoeuropee, mentre gli indigeni parlavano lingue di tipo basco (e quindi caucasiche). Gli autori di questo studio pensano alla pianura pannonica come origine degli agricoltori che hanno occupato l'Europa Centrale. Io voglio solo far presente che proprio nel 5600 AC circa a causa dell'aumento del livello marino le acque del Mediterraneo invasero la depressione del Lago Eusino, che diventò così il Mar Nero. Alcuni studiosi pensano che fu proprio quella la causa principale dell'emigrazione delle popolazioni agricole verso l'Europa Centrale, a cui seguì la cultura della “ceramica a bande lineari”, di cui gli scheletri esaminati facevano parte. Aggiungo che la zona intorno al Mar Nero è la più probabile fra i luoghi di origine delle lingue indoeuropee.

E' anche probabile che tra le due popolazioni non ci fossero molti contatti: la Linearbankeramik, dopo essersi diffusa nell'Europa Centrale attorno al bacino del Reno, ha smesso di espandersi e per circa un millennio c'è stata una sorta di barriera fra i cacciatori – raccoglitori a ovest e gli agricoltori ad est. Qualcuno, come fa notare Steve Olsen (non un farlocco qualsiasi!) in “Mappe della storia dell'uomo”, dubita persino che siano stati i cacciatori – raccoglitori a costituire i megaliti e non gli agricoltori (e questo potrebbe essere maggiormente vero se si dimostrasse che la civiltà megalitica era bascofona). E' anche probabile che in Francia Meridionale (e cioè a sud delle zone di diffusione della Linearbankeramik) fossero parlate lingue basche fino alla conquista romana, come del resto in gran parte della penisola iberica. Anche altre questioni archeologiche mettono questi territori più vicini alle culture atlantiche che a quelle celtiche dell'Europa continentale. E'chiaro che alla fine anche i cacciatori – raccoglitori stessi abbiano abbracciato le pratiche agricole.

C'è comunque da capire da dove viene quella grossa fetta di DNA mitocondriale che non apparteneva né agli antichi cacciatori – raccoglitori, né agli agricoltori.
Una risposta potrebbe essere “le invasioni barbariche del primo millennio DC”. E' sicuramente una risposta sbagliata, non perchè non abbiano contribuito per nulla al corredo genetico degli europei, ma perchè queste popolazioni erano troppo poco numerose per lasciare delle tracce così massicce. E' chiaro che i discendenti in linea diretta femminile di una donna unna che scese in Italia con Attila abbiano un DNA “unno”: ma quante potevano essere queste donne e quante hanno ancora discendenti dirette in linea femminile in Europa? (lo stesso discorso si può fare per qualsiasi altra tribù barbara: visigoti, vandali, burgundi, gepidi etc etc)

Una risposta migliore può essere una provenienza mediterranea: in Europa nel V secolo AC c'erano al più un milione di individui. Le colonie greche prima e la romanizzazione poi potrebbero aver influito molto sul corredo genetico dell'Europa Centrale: le stime danno circa 10 milioni di individui nel 1000 AC e un valore triplicato nel 200 DC, ma bisogna considerare che all'inizio dell'Era Volgare almeno un milione di persone (se non di più) risiedeva nell'attuale Lazio e che in totale in Italia vivevano tra i 6 e i 7 milioni di individui.

Le mappe della variabilità genetica prodotte dall'equipe di Luigi Luca Cavalli Sforza possono forse venire in aiuto.
Le estremità della prima componente sono in Iraq e in Gran Bretagna – Scandinavia. Le variazioni formano delle fasce orientate all'incirca NE - SW.
Nella seconda componente le fasce sono orientate NW-SE e gli estremi ben distinguibili sono in Spagna e in Lapponia.
La terza componente presenta una distribuzione concentrica. Il centro corrisponde al bacino del Don.
Anche la quarta è concentrica, il centro è nella Grecia.
La quinta componente ha il centro nei paesi baschi e presenta all'inizio un gradiente molto ripida.
La sesta ha un estremo tra Grecia e Italia Meridionale, l'altro è a occhiale con due massimi, uno nell'estremo nord norvegese e l'altro tra la Crimea e il Caucaso

Vediamo dunque che la zone intorno a Paesi Baschi, Grecia, Lapponia e dintorni del Caucaso sono le zone centrali di alcune variabilità. Paesi Baschi e Lapponia sono sicuramente sedi di “anomalie”, la prima solo linguistica, la seconda anche morfologica in quanto oltre a parlare una lingua uralica, i lapponi possiedono spesso morfologie tipicamente asiatiche.
L'isolamento attuale dei baschi è probabilmente una caratteristica maturata dopo la conquista romana, in quanto è una popolazione rimasta attaccata alle sue tradizioni e che si deve essere incrociata poco con non baschi, almeno in casa propria.
Tra la Crimea e il Caucaso c'è la presunta area di provenienza dell'agricoltura e tra Grecia ed Italia un'area che ha visto una grossa espansione politica, con la formazione di importanti colonie quando ancora l'Europa non era molto popolata e dell'Impero Romano

Nella carta a lato, presa da “storia e geografia dei geni umani” di Cavalli – Sforza, Menozzi e Piazza e che è la somma di queste sei carte, si vede come l'Europa possa essere etnicamente divisa in 5 regioni:
- in BLU i lapponi e le altre popolazioni uraliche
- in ROSSO le popolazioni germaniche
- in GRIGIO BLUASTRO le popolazioni delle aree basche e delle zone celtiche delle isole britanniche (tranne la Scozia!)
- in VERDE le popolazioni mediterranee
- NELLA ZONA CHARA le genti slave orientali (Russia e Ucraina).
Si evidenziano le due ondate di migrazione degli agricoltori dall'area del Mar Nero, in rosso quella attraverso i Balcani (di cui fanno parte gli scheletri esaminati dalla Bramanti, e con il verde quella attraverso il Mediterraneo Occidentale.

E' notevole vedere come i dato genetici, linguistici e storico-archeologici concordino e come la popolazione europea sia lungi dall'essere una “razza pura” (e, aggiungo “superiore”...), ma che il nostro continente sia stato negli ultimi 8000 anni un crogiolo di mescolanze che continua anche oggi, da quando l'Europa, da territorio di emigrazione, è ritornata ad essere un continente di immigrazione.

lunedì 7 settembre 2009

L'indecente convegno contro l'evoluzionismo organizzato dal vice-presidente del CNR, roberto De Mattei


Oggi sono di buonumore. Allora mi do alla lettura, visto che mi hanno fornito il numero di “Radici Cristiane”, la rivista del noto Roberto De Mattei, il creazionista vice-presidente del CNR, in cui si parla del famoso workshop “La teoria dell'evoluzione: un bilancio critico”, tenutosi a Roma nella sede del CNR. Di questo avvenimento avevo dato notizia qui. Lo stesso De Mattei, presentando i lavori, afferma che “quello che chiamiamo evoluzionismo è un insieme composto da una ipotesi scientifica, e da un sistema filosofico, che possiamo definire evoluzionismo in senso stretto per distinguerlo dalla teoria dell'evoluzione. Teoria scientifica e teoria filosofica formano due aspetti distinti di un unico complesso, che hanno bisogno l'uno dell'altro per sopravvivere e si sostengono a vicenda. L'ipotesi scientifica, che non è stata mai dimostrata, si nutre del sistema filosofico, la tesi filosofica, per giustificarsi, si fonda a sua volta sulla presunta teoria scientifica”.

Sinceramente non ho mai avuto bisogno della filosofia per comprendere l'evoluzione, ma questi sono gli umanisti nostrali, che pensano che senza la filosofia non ci sia niente.... Incominciamo bene, quindi, ma proseguiamo anche meglio.
Fa piacere notare che di evoluzione, oltre che gli scienziati, ne discutino anche teologi e filosofi. Il difetto è che pretendono di discutere di evoluzione senza capire una emerita mazza di biologia, genetica e quant'altro.

Antonino Zichichi afferma che “la teoria di Darwin non è scienza perchè manca di due requisiti essenziali: l'esistenza di una struttura matematica e la riproducibilità sperimentale”. Forse varrebbe la pena di spiegargli le basi matematiche della genetica e la differenza fra le Scienze Naturali e quelle esatte.

Marco Respinti continua su questa linea: “l'evoluzionismo contraddice la scienza” perchè non può usare il metodo galileiano, in quanto non può “fissare delle leggi matematiche” (e dagli!) Commette un grave errore quando dice che l'evoluzionismo nasce con Darwin e per contestarne la veridicità fa notare che è stato rielaborato parecchie volte. Proprio lui che pontifica sul metodo galileiano non arriva a capire come scoperte successive possano modificare un quadro teorico. Probabilmente, ingabbiato com'è nei dogmi della Fede cristiana, non capisce una cosa molto semplice: anche Darwin ha cambiato varie volte il suo stesso pensiero d in conseguenza delle critiche ricevute e delle novità che già allora mettevano in dubbio una teoria scientifica che si basava anche su alcuni meccanismi biologici intuiti ma non ancora ben dimostrati (come la mutazione e le modalità di trasmissione dei caratteri ereditari). Parlando delle scienze della Terra, anche la Tettonica a Zolle è un po' mutata dalla sua concezione originaria ma non per questo dobbiamo dire che John Tuzo Wilson o John Dewey hanno sbagliato e sono stati rinnegati dai loro successori...
Raggiunge poi vette inarrivabili ai comuni mortali quando, a proposito di Galileo, dice che il dialogo sui massimi sistemi, dopo aver ottenuto l'imprimatur ecclesiastico, sia finito nell'indice dei libri proibiti dal sant'Uffizio perchè “Galilei prese a confondere fisica e metafisica, scienza, matematica e religione”. In pratica secondo Respinti la condanna di Galileo è giusta.... non ho parole....
Qui mi pare proprio l'opposto adesso e cioè che siano i creazionisti a confondere scienza e religione. Stupendo anche il passaggio secondo il quale “i fossili contraddicono l'evoluzione” perchè "non si trovano anelli di congiunzione". Ma non conosce i terapsidi, o il Tiktaalik o i cetacei terrestri e fluviali della valle dell'Indo? O semplicemente non si chiede cosa sia l''ornitorinco? Non conosce gli “equilibri punteggiati Gouldiani? (eppure Gould è spesso citato a vanvera dai creazionisti, specialmente quando dice che il darwinismo va un pò ripensato, peccato che questa non sia una sconfessione dell'evoluzionismo come vogliono far credere...!)

E veniamo al punto forte, l'intervento di Giuseppe Sermonti: ”Evoluzionismo: un'ipotesi eticamente aberrante”. Ricostruiamo un attimo chi è questo personaggio: genetista anche abbastanza affermato, dopo un periodo di ottime ricerche, ha cominciato a sostenere che l'evoluzionismo è un errore e sostiene il devoluzionismo.
Sermonti ovviamente non spiega come mai fra le forme di vita fossili pochissime sono ancora esistenti oggi. Anzi, glissa completamente la questione. Ma su come la pensi direi che sono un ottimo biglietto da visita queste parole, prese da un altro sito: l'idea di uno sviluppo evolutivo graduale della nostra specie da creature come l'australopiteco, attraverso il pitecantropo (un termine privo di valore scientifico, NDR....), il sinantropo e il neanderthaliano, deve essere considerata come totalmente priva di fondamento e va respinta con decisione. L'uomo non è l'anello più recente di una lunga catena evolutiva, ma, al contrario, rappresenta un taxon che esiste sostanzialmente immutato almeno fin dagli albori dell'era Quaternaria. Sul piano morfologico e anatomo-comparativo, il più "primitivo" - o meno evoluto - fra tutti gli ominidi risulta essere proprio l'Uomo di tipo moderno! Sono senz'altro meno lontani dalla verità coloro che sostengono l'ipotesi opposta, e cioè che Australopiteci, Arcantropi e Paleoantropi siano tutte forme derivate dall'Uomo di tipo moderno!" Cioè, la leggendaria Lucy era "migliore" di noi, meglio adattata etc etc etc? Mah.... E' evidente come De Mattei imbarchi tutti, basta che ce l'abbiano con l'evoluzionismo.
Sermonti dice di aver tenuto più di 100 conferenze sull'evoluzionismo nelle quali nessun collega gli ha posto delle obiezioni. Il fatto di essere fuori dall'ambiente della ricerca non gli dice nulla?

La cosa più delirante è che il suo intervento più che di uno scienziato, sembra quello di un filosofo. Fa due piccoli accenni scientifici: quello sull'entropia (di cui parlerò dopo) e quello sulle modificazioni genetiche che secondo lui non possono mai essere positive. Stupendo il paragone: “che il caso possa migliorare, ad esempio, una poesia di Leopardi cambiando una lettera è una eventualità piuttosto remota”. Giuro che non capisco il nesso... Da un genetista mi sarei aspettato delle prove genetiche sulla infondatezza dell'evoluzionismo, ma vabbè....

Si domanda poi cosa sia l'evoluzionismo per passare subito dopo al razzismo di Darwin. Non ci sono dubbi in proposito: in Europa le classi più alte dell'epoca erano tutte permeate dal razzismo, dovunque. Ho letto documenti allucinanti in proposito, scritti in Inghilterra. Fuori dalla “Perfida Albione” le cose non erano molto diverse: nessuno si ricorda di padroni che erano “buoni con gli schiavi e con gli altri animali”? O che nella attuale Namibia i tedeschi stendevano l'elenco degli animali uccisi ogni anno, inserendo fra essi anche i Boscimani? Tornando agli scienziati, leggete per esempio come Linneo descrisse le varie razze umane: eppure nessuno contesta l'autore del “systema naturae”, nonostante la sua etica dichiiaratamente razzista... Prosegue con le solite conseguenze del Darwinismo con gli sviluppi tipo eugenetica e darwinismo sociale. Evidentemente non sa o fa finta di non sapere che proprio uno dei timori maggiori di Darwin era proprio il contrario e cioè che l'evoluzionismo portasse un messaggio di eguaglianza. Eppoi, non è colpa di Darwin se i suoi successori hanno tirato fuori certe cose. Accusarlo di questo sarebbe come dare la colpa a Gesù Cristo per la Santa Inquisizione...
Anche senza la scoperta della reazione a catena non ci sarebbero state le bombe atomiche. Ma l'aver scoperto questo non fa automaticamente di quegli scienziati una banda di criminali.....
Poi,ripeto, sugli errori di Darwin si può discutere parecchio, basta tenere conto delle conoscenze dell'epoca, anche in termini di reperti fossili.

Sconvolgente l'intervento di Guy Berthault. E' chiaro ed evidente che “non crede” nell'evoluzione ma non capisce in cosa credere... anche perchè ho letto in una sua risposta ad alcune critiche nei suoi confronti che lui non è un creazionista. Allora cos'è? Viene descritto come paleontologo e membro della Associazione Internazionale dei Sedimentologi. Ed in effetti ha al suo attivo dei lavori su riviste scientifiche importanti. I suoi esperimenti avrebbero dimostrato che “la maggioranza delle formazioni rocciose si sarebbero sedimentate nello 0,01% del tempo loro attribuito dalla datazione geologica usata dagli evoluzionisti”.
Vediamo come. Dopo aver affermato che “le più moderne ricerche tolgono qualsiasi significato cronologico alle datazioni radiometriche”, omettendo ovviamente di dirci quali siano queste ricerche, parte dai principi esposti da Stenone (!) sulle stratificazioni dicendo che sbagliava in quanto non è sempre vero che “quando uno strato si deposita quello sotto è già solidificato”. In effetti di sedimenti non consolidati ricoperti da altri sedimenti ce ne sono, ma questo non mi pare che cambi molto la sostanza delle cose. Berthault in pratica dice che “il principio della continuità orizzontale afferma che gli strati si formano per sedimentazione all'interno di un fluido (ma guarda un po'...). Quando si forma uno strato o questo fluido era circoscritto lateralmente da corpi solidi oppure dobbiamo considerare che faceva il giro del mondo". Mi domando per esempio come mai le enormi quantità di sedimento che attualmente escono dai grandi fiumi come Rio delle Amazzoni, Gange ed Orinoco formano le grandi conoidi sottomarine anziché espandersi in tutti i mari in modo uniforme come vuole Berthault.... (e, in piccolo, questo vale per qualsiasi fiume che sbocca in mare o in un lago)
Sostiene pure che l'inclinazione degli strati possa essere originaria. D'accordo, in situazioni particolari (esempio nelle dune) ci possono essere stratificazioni inclinate, ma per il resto....

Secondo lui la sovrapposizione meccanica degli strati indica una segregazione meccanica delle particelle e non necessariamente una successione cronologica di eventi sedimentari. Facendo i conti, quindi, le grandi serie sedimentarie si sarebbero sedimentate molto velocemente e la stratificazioni dipendono esclusivamente dalla separazione meccanica dei granuli. Però non si capisce come sia possibile che un sedimento attualmente possa ricoprirne un altro in un modo esattamente uguale a quello con cui nella stragrande maggioranza dei casi il fenomeno sarebbe puramente meccanico.
Ovviamente tace anche sul fatto che nelle grandi serie sedimentarie ci sono ben riconoscibili le varie zone temporali a seconda dei microfossili che contengono.

C'è poi il simpatico intervento di Thomas Sailer, spacciato dalla rivista di De Mattei per fisico dell'Università di Monaco quando non lo è. A questo proposito, dopo aver rilevato che il suo nome non compare nè in Scitation, né sul sito della American Physical Society, nè sul sito dell'Università di Monaco e che in Google, a "Thomas Seiler" corrispondono un pugile, un informatico svizzero ed un attore, ho cercato di saperne di più. Un amico fisico ha chiesto lumi ad un professore ordinario di fisica in quella università. La risposta, testuale, è che “non conosco questo Thomas Seiler. Ho trovato un T. Seiler come coautore di alcuni articoli pubblicati negli anni '90 dall'Istituto di meteorologia applicata. Siccome questo istituto è parte della facoltà di fisica di questa università, questo T. Seiler era forse legato a noi in quel tempo. Attualmente la dichiarazione che una persona di nome Thomas Seiler faccia in qualche modo parte della facoltà di fisica dell'Università di Monaco di Baviera è completamente falsa”. E infatti, con ricerche successive, mi hanno passato l'informazione che il Dr.Sailer lavora al centro ricerche di una nota azienda tedesca.
Sailer insiste sul fatto che la termodinamica si oppone all'evoluzione, perchè i sistemi naturali tendono al disordine e che “la formazione dell'ordine a partire dal disordine è esclusa”. Fa l'esempio di una casa, che lasciata senza manutenzione va in rovina o di un corpo che alla morte si decompone. Da questo punto di vista ammette la degenazione genetica, cioè delle mutazioni che peggiorano, ma non che migliorano. Secondo lui, dopo aver fatto un esempio di una mosca che perde le ali e di un pesce che ha perso gli occhi, la “successione di micro-variazioni che porta alla distruzione di organi complessi, è un processo naturale di entropia crescente. L'opposto, cioè la creazione di nuovi organi complessi attraverso una successione di piccole variazioni genetiche è un processo di entropia decrescente, escluso dala termodinamica".
Ammetto che è possibile parlare di “errore”: dopotutto ogni mutazione genetica può essere definita così. Ma non capisco perchè possano essere solo mutazioni peggiorative. Ma perchè per esempio una adenina può sostituire una citosina se si va a peggiorare la situazione e non se si va a migliorarla?

E' indecente che il CNR ospiti un workshop del genere. Ma lo sa probabilmente anche De Mattei stesso: infatti questo evento non risulta registrato nel sito ufficiale del Consiglio Nazionale delle ricerche. Mi domando, quindi, se gli altri membri del Consiglio di Amministrazione, a partire dal Presidente, il Prof.Maiani (le cui competenze scientifiche sono semplicemente ineccepibili) e del Consiglio Scientifico Generale fossero informati della cosa

Una piccola annotazione finale: a suon di leggere questa massa di idiozie mi è passato il buonumore....

giovedì 3 settembre 2009

i 10 vulcani più mortali al mondo

Indonesia 4, Guatemala, Italia, Francia, Giappone, Colombia e Islanda 1. Di che classifica si tratta? Della classifica per nazioni dei 10 vulcani che hanno provocato nella storia più vittime accertate, stilata da "Forbes Traveler",un sito specializzato in viaggi di lusso che proprone appunto alcuni viaggi “tematici”. Fra gli ultimi c'è quello intorno ai 10 vulcani più mortali della storia umana. Nubi ardenti, lahar, tsunami, proiettili espulsi violentemente dal cratere, ceneri che ricoprono e sfondano i tetti, nevi che si sciolgono, cambiamenti climatici.... Sono una parte del vasto repertorio dei modi in cui si può morire per colpa di un vulcano. Nella rassegna di Forbes Traveller c'è un po' di tutto.
Da notare che invece è molto difficile che si muoia a causa di una colata lavica. Un fatto molto noto agli addetti ai lavori, molto meno al grande pubblico che associa sempre un vulcano alla emissione di lava. Purtroppo non sempre è così: in molti vulcani e soprattutto quelli pericolosi, l'attività prevalente è quella di emettere ceneri e lapilli.

Vediamo quindi quali sono questi 10 vulcani.

Capeggia la classifica il TAMBORA: nel 1815 oltre al congresso di Vienna ci fù quella che pare essere stata la più grande eruzione della storia umana: oltre 100 kilometri cubici di materiale furono espulsi dal vulcano indonesiano. 12.000 persone morirono subito ma si calcola che ci furono almeno altre 80.000 vittime per fame, malattie ed altro connesse a quello che passò alla storia come "l'anno senza estate", il 1816, in cui i raggi solari fecero molta fatica a penetrare l'atmosfera resa opaca dalle polveri rilasciate dall'esplosione. Il VEI (Volcanic Explosion index) attribuito è 7: un valore difficilmente raggiungibile (negli ultimi 10.000 anni ci sono stati appena 5 eventi comparabili a questo).

Al secondo posto c'è il KRAKATOA. Il vulcano dentro lo Stretto della Sonda, che divide Giava da Sumatra saltò in aria nel 1883. Non fu la prima volta che successe, ma fu la prima volta che il fenomeno venne osservato. Due terzi dell'isola vennero distrutti. Nessuno morì per l'esplosione, sentita persino a Perth, in Australia, a oltre 2.000 kilometri di distanza: vista la situazione l'isola era stata abbandonata. Ma lo tsunami che generò investì le coste dello stretto. C'è persino un bilancio ufficiale dei morti: 36.417. Preciso, forse, ma immagino sia un dato ottimistico.
Il numero 3 è riservato al MONTAGNA PELEE, nella Martinica francese. Stavolta non fu una esplosione ma una nube ardente. Le nubi ardenti sono fenomeni pericolosissimi: dal cratere viene emesso del materiale che per il suo peso non va in aria ma forma una valanga in cui la temperatura passa i 700 gradi. Ovviamente per cose e persone che vengono colpite da un fenomeno del genere non c'è scampo: e infatti nel 1902 morirono 30.000 abitanti di Saint Pierre. Le foto del dopo tragedia sono impressionanti. Su questa eruzione ho trovato una bella documentazione: http://www.geology.sdsu.edu/how_volcanoes_work/Pelee.html


Al quarto posto c'è il NEVADO DEL RUIZ. Quando ero studente all'università lessi che in Sudamerica uno dei rischi più grossi era costituito dalla possibilità di un brusco scioglimento di nevi e ghiacci che spesso ricoprono le alte vette dei vulcani andini. La cosa mi lasciò molto perplesso, ma non feci a tempo a laurearmi prima di ricredermi con la grande tragedia del 1985: fu proprio lo scioglimento delle nevi del Nevado del Ruiz a provocare l'alluvione che distrusse Armero, provocando 23.000 vittime. Due riflessioni: la prima è che si è trattato di una eruzione di bassissima intensità; la seconda che le autorità ignorarono l'allarme. Fra chi, inascoltato, dette l'allarme c'era pure il professor Martini, dell'Università di Firenze, che conoscevo benissimo anche se non avevo seguito il suo corso. Inutile descrivervi il suo stato d'animo...

Spesso negli ultimi 10.000 anni l'Europa Settentrionale ha subito problemi climatici a causa del vulcanismo islandese. Una prova recente di questo è l'eruzione del LAKI nel 1783, durata quasi un anno e che ottiene il quinto posto nella classifica. La cappa di gas e polveri ricoprì mezza Europa (in Inghilterra ricordano l'estate del 1783 come l'”estate sabbiosa”). Persino Parigi ne fu invasa. L'Islanda fu devastata: la carestia provocò la morte della maggior parte del bestiame che non aveva più erba da mangiare e di conseguenza di un quinto della popolazione dell'isola (circa 10.000 persone). Ma se fra le vittime ci mettiamo gli europei che persero la vita per le complicazioni meteorologiche del freddo inverno successivo il conto si fa più salato (e nulla si sa rispetto a malattie polmonari indotte da gas e polveri). Una caratteristica importante di questa eruzione è che non avvenne in un cratere, ma lungo una linea piuttosto lunga.

Il VESUVIO, il “padre di tutti i vulcani” si colloca al sesto posto. Ovviamente è inserito per la celeberrima eruzione del 79 DC, ma anche altre eruzioni hanno provocato diverse vittime, specialmente quelle iniziali dopo un periodo di quiescenza. Per la irresponsabile situazione urbanistica che lo circonda è considerato uno dei vulcani più potenzialmente pericolosi al mondo
Al settimo posto troviamo l'UNZEN: il vulcano giapponese, molto meno noto del Fujiyama, è in classifica perchè nel 1792 il collasso di un duomo lavico ha provocato uno tsunami in cui morirono circa 15.000 persone (come si vede dalla foto siamo proprio sul mare). Si è comunque distinto anche in tempi recenti, nel 1991, quando un flusso piroclastico (una ignombrite di piccole dimensioni) uscito improvvisamente dal cratere, uccise 43 fra scienziati e giornalisti.

L'ottavo posto è per il KELUT, uno dei vulcani più attivi dell'Indonesia (il che è un'ottima referenza...!) Si segnalano 10.000 morti nel 1919, colpiti dai Lahar, colate di fango originatosi dalle ceneri deposte dalle eruzioni. Tanto per fare un esempio, i lahar stanno seppellendo attualmente la città di Chaiten a causa dell'eruzione dell'omonimo vulcano che dura ormai da 14 mesi. Completano il quadro una quarantina di morti nel 1990 colpiti da bombe sparate dal cratere (chissà... forse è stata l'ispirazione per il film Dante's Peak?). Per questi precedenti nel 2007 le autorità furono costrette a sfollare 30.000 abitanti. Per fortuna non successe niente.

Al nono posto c'è il guatemalteco SANTA MARIA. Gli effetti della eruzione del 1902, una delle più violente degli ultimi 200 anni si sentono ancora adesso: nella stagione delle piogge la cenere dell'eruzione continua a formare i lahar.

Decimo e ultimo posto per il GALUNGGUN, un vulcano indonesiano nell'isola di Giava. L'eruzione del 1822 fu seguita da una serie di inondazioni che trascinarono nell'acqua la cenere. Morirono più di 4000 persone. Ancora una volta la situazione ricorda quella del Chaiten. Una cosa simile avvenne nel 1982, ma grazie all'evacuazione ordinata dalle autorità ci furono solo poche decine di danni, nonostante i danni ingentissimi.

Alcune considerazioni finali: si tratta di una classifica molto parziale, che non può essere quella delle eruzioni più potenti. Infatti il criterio è quello delle vittime accertate e in questo caso il Vesuvio è stato inserito data la precisione della documentazione riguardante il 79 DC. Però non disponiamo di indicazioni precise su danni e vittime di vulcani indonesiani o andini fino a poco meno di 150 anni fa e per gli stessi motivi non è stato possibile inserire nella classifica eventi come quello del Santorini (a cui è associato anche uno tsunami) o del Rabaul in Nuova Guinea, la cui eruzione nel VI secolo, la peggiore degli ultimi 3000 anni, è probabilmente alla base della crisi climatica del 535 DC, che tanto influì sulla civiltà umana.

Inoltre avendo provocato pochi o nessuna vittima mancano nella lista il Novarupta (Alaska) e il Pinatubo (Filippine), le cui eruzioni, rispettivamente nel 1912 e nel 1991 sono nel podio delle 3 eruzioni più potenti del XX secolo, assieme al Santa Maria, che è l'unico nella classifica di Forbes Traveler dove si piazza, come si è visto, solo al nono posto.
Invece sono citati eventi come quello della Montagna Peleè o del Nevado del Ruiz che se hanno provocato molti morti, da un punto di vista vulcanologico sono state eruzioni deboli che non hanno avuto grosse ripercussioni a distanza.

Questo ci fa capire come nei vulcani di tipo “orogenico”, cioè connessi a zone in cui si scontrano due placche, il pericolo sia sempre in agguato e che solo una corretta sorveglianza possa impedire se non i danni alle cose, almeno quelli alle persone e che gli insediamenti umani nelle loro adiacenze debbano essere fatti “cum grano salis”. E in questo Napoli e l'Italia non sono poi un esempio così luminoso di prevenzione.

martedì 1 settembre 2009

Mi ha scritto un progettista del Ponte sullo Stretto di Messina! Alcune precisazioni sull'ingegneria (ma restano altri dubbi)


Il mio primo post a proposito del Ponte sullo stretto di Messina mi ha dato delle grandi soddisfazioni, perchè nel mare magnum della letteratura sull'argomento è stato scelto da diverse persone, linkato e pubblicato su vari siti e giornali. Poi ne avevo scritto un secondo. Adesso riprendo l'argomento perchè una persona molto competente e favorevole al ponte (anzi, addirittura dovrebbe essere uno dei progettisti!), mi ha scritto, in forma anonima (ma so chi è...) dei commenti in quel post, chiarendo alcune questioni ingegneristiche. Lo ringrazio sentitamente di questo e per amore di obbiettività e di informazione, mi sento in dovere di riproporre la questione: continuo ad essere “pregiudizialmente contrario” all'opera ma se Scienzeedintorni vuole essere un blog obbiettivo, l'autore non può certo ignorare fatti e documenti reali, anche se presentano dati che portano acqua al mulino di chi ha opinioni contrarie alle sue..





Il Cavalier Caprotti di Esselunga ha detto che "in Italia tutte le questioni vanno in politica, come se le piste ciclabili fossero di sinistra e l'Alta Velocità ferroviaria fosse di destra". Sulla questione del ponte di Messina, al di là di alcune rimarchevoli eccezioni, siamo sempre a questo livello. Fino ad oggi sull'argomento ho sempre richiamato delle questioni tecniche (e non politiche), a cui i favorevoli, collegandosi rigidamente e acriticamente in una certa area politica hanno risposto alle mie domande con frasi al limite dell'insulto, come “non vedi al di là del tuo naso”, “sei un poveretto”, “tanto SB si farà come sempre beffe di voi” e altre frasi su questo tono, che non hanno certo apportato ricchezza al dibattito né avuto l'effetto di farmi cambiare opinione. Annoto di aver avuto pure dei complimenti anche da parte di esponenti del centro-destra. Gli unici con cui sono riuscito a discutere serenamente sono Cariddi di Ferrovie on Line (favorevole con assoluta fiducia nella tecnica) e il Leoni (mio amico, questo di vecchissima data).
Anche nel fronte politico opposto molti sono animati più da faziosità politica che da conoscenze in tema di costruzioni, ambiente, trasporti e geologia.

Le novità più importanti che l'Anonimo ha scritto (molto manzoniana la cosa: sto scrivendo a 24 lettori in base ad un testo di un anonimo....) riguardano il ruolo del professor Calzona e la questione del rapporto di snellezza.

Innanzitutto sottolinea che il progettista del ponte è stato Sir William Brown, un'autorità mondiale nell'argomento. Il ruolo del professor Calzona è invece molto marginale: non è particolarmente esperto di ponti sospesi, ma è stato semplicemente “un non meglio precisato coordinatore scientifico - per volere dall'alto - solo dopo che il progetto di massima definivo era stato completato (1992)”.
Se le cose stanno così ovviamente mi sono sbagliato. Come scusante, sia pure marginale, posso solo dire di essere in buona compagnia.

E ora veniamo alle questioni ingegneristiche: anche qui ovviamente sono in buona, anzi ottima, compagnia. Nella foto vediamo forse il più bel ponte sospeso del mondo, il Golden Gate Bridge a San Francisco.
Io avevo ripreso dei lavori dell'Ingegner Mazzolani, uno dei maggiori esperti italiani di costruzioni, che in un convegno, aveva espresso dei grossi dubbi, di cui fino ad oggi non avevo trovato smentita. I punti fondamentali erano il rapporto di snellezza e la questione che ferrovie e ponti sospesi particolarmente lunghi parevano inconciliabili. Cominciamo dalla lunghezza e citiamo l'Akashi-Kaikyo a Kobe-Naruto, lungo “solo” 1.991 metri: originariamente previsto ferroviario, poi misto sia stradale che ferroviario, infine è stato realizzato solo stradale. Nel ponte più lungo d’Europa, il danese Great Belt, nella parte con la campata più lunga le automobili continuano a passare sul ponte mentre il treno passa sottoterra attraverso un tunnel. A Lisbona il ponte “25 Aprile” (1.013 metri) è stato realizzato nel 1966, ma per la ferrovia c'era una corsia rimasta inutilizzata fino al 1999. Il più lungo ponte sospeso ferroviario è lungo “appena” 1300 m (ponte Tsing Ma, tra Hong Kong e il nuovo aeroporto), circa 2/3 della lunghezza dell'Akashi Kaikyo e poco più di un terzo dei fatidici 3.300 metri.
Secondo l'Anonimo l'unico problema era il collegamento fra i binari del ponte e quelli sulla terraferma, a cui Brown ha trovato finalmente una eccellente soluzione. Quindi non erano rischi sulla statica del ponte legate al passaggio del treno.
Interessante il suo punto di vista sulla lunghezza: dice che per farci passare un treno (risolto il problema dei binari!), più lungo è il ponte, meglio è.
E ora veniamo alla questione del “rapporto di snellezza”. Ricordo che la snellezza di un ponte è definita come l’inverso del rapporto fra l’altezza della travata e l’intera luce del ponte. L'ingegner Mazzolani afferma che gli americani, dopo il disastro del Tacoma Bridge, hanno limitato questo rapporto a 1/350. I ponti attuali hanno una snellezza che oscilla tra 1/150 e 1/350, mentre a Messina il rapporto sarebbe 1/1320, valore che appare decisamente irreale nonostante la ricercatezza delle soluzioni aerodinamiche proposte. Il ragionamento filerebbe, ma ecco che l'Anonimo mi dice che la cosa riguarderebbe i ponti strallati e non quelli sospesi. Qui davvero una persona non addentro alle cose di ingegneria fa veramente fatica a raccapezzarcisi e mi domando come è possibile che Mazzolani si sia così clamorosamente sbagliato (e la cosa non sia venuta fuori).

Può darsi in effetti che di ponti sospesi e strallati in Italia si capisca poco, perchè non ce ne sono tanti: conosco due ponti sospesi in Toscana, uno esclusivamente pedonale sui monti sopra Pistoia (su cui fra parentesi fa un po' impressione passare), mentre l'altro era a Firenze al posto dell'attuale “ponte della Vittoria”. Quanto agli strallati, mi viene in mente il Viadotto dell'Indiano a Firenze (nella foto) e il nuovo ponte ferroviario sul Po a Piacenza. Se però così fosse, non solo cadrebbero una serie di obiezioni, ma soprattutto ne uscirebbe frantumato l'ambiente accademico italiano (di cui l'anonimo non ha una grande stima).

Risolti i dubbi ingegneristici, continuano a sussistere quelli geologici che riassumo brevemente:
1. movimenti relativi continui e costanti fra le due coste che stanno tuttora allontanandosi. Il versante calabrese si sta sollevando a un tasso piuttosto veloce, e superiore a quello del versante siciliano.
2. movimenti improvvisi durante eventi sismici principali (tipo 1908), presumibilmente di ordine anche molto superiore al metro. Il già citato Akashi-Kaikjo ha subìto il forte terremoto di Kobe del 1996, in cui i due piloni si sono allontanati di un metro circa, meno di quanto potrebbero spostarsi i piloni messinesi.
3. deformazioni gravitative profonde che interessano il versante calabrese: praticamente tutto il versante calabrese dello stretto è in frana, la cui superficie di base è molto profonda. Ci sono seri dubbi che una massa così gigantesca come il pilone del ponte riesca a restare stabile in tale quadro geologico.
4. la presenza di almeno una faglia sismogenetica importante in mezzo allo stretto (quella responsabile dell'evento del 1908) che non è stata ancora individuata e che, comunque, sarebbe difficile studiare perchè non arriva in superficie. Noto che se non si individua la faglia, non si può neanche avere certezze sui possibili movimenti del terreno durante l'evento sismico.

Al di là delle polemiche fra chi sostiene che il tempo di ritorno di un terremoto come quello del 1908 sia di oltre 1.000 anni, annoto che la zona non ha una sola struttura sismogenetica. Sull'origine del terremoto del 1908 ancora si brancola nel buio. In un post dedicato al terremoto del 1908 io ho proposto, tentativamente, che si sia originato lungo il contatto fra la zolla ionica in subduzione e la crosta continentale calabra, una struttura che o è bloccata o mostra uno spostamento asismico, perchè non è sede di sismicità diffusa (ed è un'altra stranezza della geologia dell'area).

C'è poi una questione economica e trasportistica.
Qui non posso essere d'accordo con l'Anonimo che dice: “sugli utili dei privati (che finanzieranno il ponte, ndr) lo stato si rifarà con le imposte e dopo 30 anni potrebbe appropriarsi dell'opera ed avere un enorme gettito col quale FINANZIARE ALTRE OPERE, prime tra tutte, secondo me, l'AV in Calabria e Sicilia; anche la Spagna sta facendo lo stesso.”
In sostanza secondo lui bisognerebbe aspettare 30 anni per iniziare, grazie alle tasse sui proventi del ponte, a programmare il rinnovamento delle ferrovie e strade in Calabria e in Sicilia. Mah... Mi domando a cosa serva il ponte se in Sicilia ci sono, tranne che in pochi tratti, delle ferrovie che posso definire semplicemente impresentabili (basta consultare gli appositi “fascicoli di linea” per rendersene conto...) e mi domando pure se i costi saranno coperti o ci sarà il solito buco: il precedente della crisi che ha avuto Eurotunnel, che gestisce il tunnel della Manica, in cui decisamente il traffico è superiore non è certo confortante.....
Parlare poi di “alta velocità” al sud è fuorviante: a parte i costi ricordo come con uno sforzo finanziario relativamente basso la ferrovia fra Salerno e Reggio Calabria potrebbe praticamente essere percorsa quasi tutta a 200 km/h, mentre la Jonica andrebbe sicuramente rivista in maniera pesante (almeno da Taranto a Sibari per allacciarsi alla Tirrenica a Paola via Cosenza). Quanto alla Sicilia, la Messina – Palermo è in totale ristrutturazione e consentirebbe, ultimati i lavori, in diverse parti velocità simili. La tragedia ferroviaria è nell'interno dell'isola. E a questa situazione il ponte non potrà certo offrire rimedi.
Ritengo che un miglioramento delle strutture in Sicilia sia preferibile perchè servirebbe sia a chi passa lo stretto che a chi si sposta per l'isola (e immagino che questa seconda categoria sia più numerosa della prima) e che si possa risparmiare parecchio tempo sistemando diversamente il traghettamento, modificando le strutture, permettendo a un convoglio di entrare e uscire da solo dal traghetto senza fare manovre (ovviamente occorrerebbe acquistare dei convogli a composizione bloccata dilinghezza giusta accoppiabili fra loro).

Pertanto io continuo a dire che il Ponte sullo Stretto, sia pure fattibile tecnicamente, rimane un'opera assolutamente inutile visto il contesto stradale e ferroviario che lo circonda.