lunedì 24 luglio 2023

Rilevata sulla Luna per la prima volta la presenza di un corpo magmatico intrusivo granitico simile ad un batolite terrestre


Il vulcanismo nel sistema solare è in genere il risultato della effusione di lave basaltiche, derivate dalla fusione parziale del mantello dei pianeti di tipo terrestre e di alcuni satelliti. Così avviene anche sulla Terra tranne che lungo le zone di convergenza fra placche dove si costruisce nuova crosta continentale, soprattutto con magmi a composizione più silicea. Sulla Luna sono noti alcuni esempi di probabile vulcanismo siliceo ma grazie ad osservazioni alla frequenza delle microonde è stato osservato per la prima volta un corpo magmatico intrusivo di importanti dimensioni sotto la superficie del nostro satellite.

una eruzione lineare in Islanda contrassegnata 
da una serie di fontane di lava lungo tutta la sua estensione
ROCCE VULCANICHE SULLA LUNA E IN ALTRI CORPI DEL SISTEMA SOLARE. Potrà sembrare strano ma prima degli anni '60 per la comunità scientifica i crateri lunari erano soprattutto il risultato dell'attività vulcanica: solo gli studi successivi con le varie missioni (automatiche e umane) hanno rivelato che questi crateri erano invece in prevalenza il prodotto di impatti di altri corpi celesti.
Ciononostante sulla superficie lunare è acclarata la presenza di rocce vulcaniche. Si tratta essenzialmente di basalti, magmi a basso contenuto di silice ed alto contenuto di ferro e magnesio: coprono almeno il 16% del nostro satellite. Si deve notale però che sulla Luna difficilmente si trovano, come invece accade su Venere e Marte, dei veri vulcani, perché queste lave per la maggior parte derivano da eruzioni lineari: i magmi fuoriescono da fratture lunghe anche parecchi km in tutta la loro lunghezza (un po' come l’eruzione del Laki del 1883 in Islanda). 
Anche in altri corpi del Sistema Solare fra le rocce magmatiche si rileva una netta dominanza di basalti: provengono dalla fusione parziale del mantello sottostante e la composizione del magma arrivato in superficie è abbastanza simile a quella del fuso iniziale.
Sulla Terra la situazione è più o meno identica negli oceani e nelle rare manifestazioni vulcaniche in mezzo ai continenti, mentre nelle aree di scontro fra le placche la situazione può essere diversa, in quanto esistono vulcani caratterizzati da magmi molto più silicei (noti genericamente come graniti: qui i due termini sono considerati sinonimi anche se in realtà ci sono parecchie sfumature e distinzioni. Parecchio diffuse ad esempio sono le granodioriti). In particolare in queste aree si possono formare i batoliti, estesi corpi intrusivi di rocce magmatiche silicee che alimentano le catene vulcaniche di arco magmatico: esempi attuali sono le Ande o la Catene delle Cascate e ci sono diversi batoliti fossili in molte catene montuose più vecchie, uno per tutti il batolite del Kohistan - Gangdese nell’Himalaya. 
Sulla Luna la presenza di vulcani distinti come normalmente vediamo sulla Terra, e formati da lave con maggiore tenore di silicio è scarsa. Seddio et al (2015) hanno trovato 4 frammenti di roccia ad alto contenuto di silice nei campioni del regolite lunare riportati a terra dalla missione Apollo 12,  attribuibili a colate laviche di composizione simile al granito, indicandone come fonte i duomi Gruithuisen, un insieme di tre alte montagne la cui morfologia (pendii ripidi, fino a 18–20°) e le loro specifiche caratteristiche di telerilevamento sono significativamente diverse e particolari rispetto alla generale morfologia lunare, suggerendone una formazione da eruzioni di lava altamente viscosa e quindi a chimismo siliceo (Ivanov et al 2016).

ORIGINE DEI MAGMI GRANITICI. La produzione di magmi più silicei richiede processi più complessi rispetto a quelli che nel Sistema Solare hanno prodotto magmi basaltici:
  • la rifusione parziale di rocce a composizione basaltica (spannometricamente si può dire che più parziale è la fusione, maggiore sarà il contenuto in silice) 
  • il frazionamento cristallino dei liquidi basaltici durante la loro ascesa, con la parte ferrosa più pesante che rimane all’interno della crosta e quella silicea più leggera che se ne va in su
  • un basso grado di fusione parziale del mantello
Questi processi (che ovviamente possono anche coesistere fra loro) determinano nei magmi più silicei anche una maggior concentrazione rispetto ai magmi basaltici dei cosiddetti “elementi incompatibili (elementi che trovano male posto nei reticoli cristallini e quindi sono i primi a fuggire in caso di inizio di fusione) come diversi isotopi / elementi radioattivi come potassio-40, torio e uranio. E difatti i rari clasti granitici trovati nei campioni lunari contengono un'alta concentrazione di elementi radioattivi.

carta da Siegler et al (2023) con le anomalie termiche in cui si nota la vistosa anomalia
che si trova sotto il Compton - Belkovich 


UN VULCANO LUNARE PARTICOLARE NELLA FORMA E NELLE EMISSIONI TERMICHE. Sulla faccia nascosta della Luna si trova il Compton–Belkovich, un vulcano dalla struttura simile a quella di una caldera terrestre.
Siegler et al (2023) hanno studiato la superficie lunare con nuovo strumento che lavora alle lunghezze d'onda delle microonde, montato sui satelliti cinesi Chang'E 1 e 2, che da diversi anni orbitano intorno alla Luna. Questo strumento é nato per rilevare anomali aumenti di temperatura dovuti ad una importante concentrazione di elementi radiogenici, legati come detto in precedenza, alla presenza di magmi più silicei. I dati hanno rilevato una sorgente anomala di microonde sotto il Compton-Belkovich, misurando un flusso di calore dall’interno della Luna di circa 180 mW m−2, un valore circa 20 volte quello di fondo che caratterizza gli altopiani lunari e oltre 8 volte quello misurato nel sito dell'Apollo 15. Questa scoperta implica la presenza sotto il vulcano di una fonte di calore estesa per un diametro di circa 50 km. L’uso delle microonde, in grado di mappare le temperature al di sotto della superficie della Luna è stato determinate: lavorando come è stato fatto finora con la radiazione infrarossa invece non sarebbe stato possibile distinguere un calore più superficiale da uno più profondo.

sezione E-W della anomalia termica
(da Siegler et al 2023)
DA COSA PROVIENE QUESTO CALORE? Per datare le strutture lunari si osserva la presenza di crateri da impatto e inbase alla craterizzazione è stato determinato che l'ultima eruzione nota di questo vulcano sia avvenuta circa 3,5 miliardi di anni fa (Shirley et al, 2016). Pertanto è assolutamente improbabile che il calore rilevato dai rilievi delle sonde Chang'E sia un sintomo della presenza sotto al vulcano di lava fusa. È quindi più plausibile che questo calore derivi dagli elementi radioattivi presenti all'interno di una roccia ormai solidificata e solo la presenza di un corpo granitico al di sotto del complesso vulcanico ne conterrebbe una quantità sufficiente per fornire questa anomalia nella temperatura.
Il quadro più logico che deriva da queste osservazioni suggerisce quindi la presenza di una antica camera magmatica a composizione granitica molto grande che alimentava il vulcano e rappresenta il vulcanismo lunare più simile a quellosiliceo terrestre mai trovato sulla Luna fino ad oggi. Si tratta di un vulcanismo parecchio anomalo per il nostro satellite e in generale, a parte la Terra, per i corpi del sistema solare. Forse è un pò piccolo per essere considerato un batolite ma le sue dimensioni sono piuttosto importanti anche in riferimento ad analoghi esempi di camere magmatiche sotto vulcani terrestri.

BIBLIOGRAFIA CITATA

Ivanov et al (2016). The lunar Gruithuisen silicic extrusive domes: Topographic configuration, morphology, ages, and internal structure. Icarus 273, 262-283

Seddio et al (2015). A. Silica polymorphs in lunar granite: implications for granite petrogenesis on the Moon. Am. Mineral. 100, 1533–1543 (2015).

Shirley et al (2016). Crater size– frequency distribution measurements at the Compton–Belkovich Volcanic Complex. Icarus 273, 214–223 (2016).

Siegler et al (2023). Remote Detection of a Lunar Granitic Batholith at Compton-Belkovich Nature





lunedì 10 luglio 2023

Ricerca di base e ricerca applicata a braccetto negli studi nell'Etna sul Radon


Specialmente in Italia politica e opinione pubblica non sono molto convinti dell’utilità della ricerca, specialmente di quella di base, in genere osteggiata. Eppure le ricadute della ricerca di base possono essere assolutamente inaspettate. Inoltre a volte la linea di demarcazione fra ricerca di base e applicata sono piuttosto labili. Presento a questo proposito il caso delle ricerche sulle emissioni di radon nell’Etna, dove a una attività vulcanica in continua evoluzione si affianca una attività tettonica significativa e dove le scoperte della ricerca pura vanno a braccetto con le ricadute pratiche, che a loro volta aprono nuovi scenari per la ricerca di base.

sezione N-S del sistema etneo (Giammanco et al 2023)
Gli studi sul Radon sull’Etna sono numerosi e si focalizzano su vari aspetti come il riconoscimento dei valori di fondo dei suoi isotopi e dei radionuclidi che li precedono e li seguono nella catena radioattiva, sulla correlazione fra emissioni di Radon, attività vulcanica, dinamica dei magma all'interno dell'Etna e attività tettonica, sulla concentrazione del gas nelle acque sotterranee, sulle variazioni temporali di questi parametri in relazione all'attività vulcanica e, negli ultimi anni, sui possibili effetti negativi sulla salute umana di alte concentrazioni di radon all’interno nelle case. 
I risultati complessivi mostrano che, nella maggior parte dei casi, è possibile comprendere i meccanismi che causano cambiamenti nel rilascio di radon nel suolo dalle rocce e la sua migrazione verso la superficie. Sono stati prodotti diversi modelli fisici per spiegare la correlazione di questi cambiamenti con l'attività vulcanica, rendendoli potenziali precursori, soprattutto nei casi di parossismi eruttivi. Più complessa è invece l'analisi delle variazioni del radon in relazione all'attività tettonica. Un lavoro appena uscito (Giammanco et al, 2023) ha delineato un modello completo che tiene conto sia dei meccanismi di rilascio del radon dal magma e delle rocce circostanti sia di quelli del suo trasporto e accumulo in superficie.

FATTORI CHE INFLUENZANO LA PRESENZA DI RADON. I fattori che in generale influenzano a priori la concentrazione di Radon sono diversi: 
(1) concentrazione dei radionuclidi padri; 
(2) permeabilità del terreno, influenzata dalla sua granulometria e dalla eventuale presenza di fratture e/o faglie, via privilegiata di risalita dei gas; 
(3) presenza nel sottosuolo di altri gas (principalmente CO2): sono dei vettori per il radon e quindi ne potenziano o abbattono le emissioni (per diluizione in caso di loro eccessive portate) 
(4) parametri ambientali quali umidità, vento e temperatura.
Inoltre sull’Etna sono dimostrate significative modifiche della concentrazione di radon in corrispondenza di attività vulcanica e/o tettonica.

modalità di rilascio del radon sull'Etna in caso di terremoti
e in caso di eruzioni, da Giammanco et al (2023)
IL RADON SULL’ETNA. Le principali considerazioni di Giammanco et al (2023) sono le seguenti:
1. I radionuclidi padri nelle rocce vulcaniche sono utili per identificare processi e trend evolutivi nella sorgente magmatica in grado di modificare il tenore di radon. È stato possibile definire dei livelli di fondo delle emissioni, le cui modifiche sono spia di cambiamenti a breve e lungo termine delle condizioni della riserva magmatica e/o di fenomeni di degassamento che precedono i parossismi eruttivi 
2. il radon emesso dai crateri sommitali proviene principalmente dal degassamento del magma della camera magmatica superficiale e dei condotti sovrastanti che raggiungono la superficie. La concentrazione sua e dei suoi radionuclidi genitori e figli nei gas del cratere sommitale aiutano a definire il possibile collegamento diretto di uno specifico condotto del cratere alla sorgente profonda di magma sotto il vulcano e quindi a determinare i tempi di trasferimento del gas dal serbatoio di magma alla superficie. Queste osservazioni hanno evidenti ricadute pratiche per la previsione di parossismi eruttivi e possono essere facilmente trasferite al monitoraggio di altri sistemi vulcanici, anche se con le opportune modifiche dei parametri in gioco. 
3. il degassamento magmatico nella zona sommitale si presenta prevalentemente in forma diffusa attraverso le rocce quando permeabili ai gas per porosità e soprattutto per fessurazione: quindi il radon raggiunge la superficie principalmente attraverso discontinuità strutturali (fessure eruttive, faglie, crateri e bordi calderici) che intercettano i condotti di risalita del magma.
4. combinando nelle stazioni della zona sommitale il rapporto isotopico del Radon con le emissioni di CO2 dal suolo è anche possibile ottenere informazioni sulle condizioni di pressione del sistema del gas: le variazioni nel tempo di questo rapporto si sono rivelate utile nel rivelare anomalie in corrispondenza di variazioni dell'attività magmatica del vulcano, ed in particolare prima delle eruzioni esplosive
5. l’entusiasmo che possono suscitare le considerazioni del punto precedente si affievoliscono un pò perché la correlazione tra livelli di radon ed eruzioni non è automatica: in alcuni casi si sono verificati aumenti significativi delle emissioni di radon nel suolo in assenza di attività vulcanica visibile in superficie; la spiegazione migliore è che derivino da variazioni del livello del magma nel condotto centrale del vulcano o da interazioni tra attività sismica e movimenti dei gas vulcanici nell'area sommitale. Quindi una comprensione più rigorosa del significato di queste variazioni potrebbe essere ottenuta solo attraverso il confronto con altri tipi di segnali acquisiti dalle reti di monitoraggio (sismico, gravimetrico, delle deformazioni e degli altri gas). Anche in questo caso le ricerche sull’Etna potrebbero essere esportate in altri sistemi vulcanici
anno 1988: in arancione il tremore sismico, in blu le emissioni di Radon
e in grigio i parossismi eruttivi. Da Alparone et al (2006)
6. da ultimo un aspetto apparentemente sorprendente: il radon nelle acque sotterranee etnee è generalmente basso, in contrasto con l'alto contenuto di uranio nelle rocce vulcaniche ospiti. Questo succede probabilmente a causa del termalismo dell'acqua che consente un rilascio maggiore del gas dalla falda perché la solubilità del radon diminuisce con la temperatura

Radon e attività vulcanica nel luglio 2006 
da Neri et al (2006)
LA RIDUZIONE DEL RISCHIO RADIAZIONI DA RADON. Le elevate concentrazioni di radon lungo i bordi dei crateri, specialmente vicino alle fumarole e in condizioni sottovento producono un potenziale, seppur limitato, rischio per la salute delle persone che frequentano costantemente quelle zone. Per quanto riguarda invece gli edifici, nell'area etnea diversi sono i casi di abitazioni con accumuli ben al di sopra dei limiti di sicurezza previsti da raccomandazioni e regolamenti comunitari. Sarebbe quindi fondamentale l’implementazione di adeguate misure quali ventilazione forzata dei locali, vespai per la ventilazione delle fondazioni, posa di rivestimenti antiradon e sigillatura di fessure (quest’ultimo provvedimento soprattutto in zone ad alto rilascio di radon dal suolo, principalmente appunto nelle aree più vicine a faglie e, per un edificio specifico, durante il periodo invernale). Al fine di mitigare il rischio le misure di degassamento del radon si rendono quindi auspicabili non solo alla scala della singola abitazione o altro edificio destinato all'uso umano, ma anche in occasione di studi generali di pianificazione territoriale.

PROSPETTIVE. Oltre alle possibili correlazioni fra radon e terremoti ci sono almeno due settori nei quali queste ricerche possono svolgere un ruolo fondamentale nell’Etna e potenzialmente esportate altrove:
1. riconoscimento di faglie sepolte: le differenze nel rapporto isotopico del Radon consente di riconoscere faglie nascoste e distinguerle tra quelle più profonde e quelle più superficiali. Si tratta di una integrazione fondamentale nella stesura di carte geologiche molto dettagliate, soprattutto in luoghi dove le colate laviche recenti hanno sepolto evidenze di strutture tettoniche, come gradini morfologici o fratture del suolo.
2. monitoraggio dei rischi sanitari: l'applicazione e l'implementazione di modelli di dispersione del radon sia indoor che in atmosfera aiuterà a valutare il pericolo per la salute rappresentato dal potenziale accumulo di questo gas negli edifici e nelle aree sommitali del vulcano.

emissioni di Radon lungo la faglia Pernicana tra novembre 2009 e aprile 2011.
Le frecce rosse indicano i parossismi ein blu la cumulata della deformazione.
da Neri et al (2016)
LA NECESSITÀ DI UN MONITORAGGIO CONTINUO. Le misure dei valori del radon sono disponibili dal 2005 in poi per lunghi periodi, ma purtroppo manca la continuità delle misurazioni, nel senso che le stazioni non trasmettono i dati in tempo reale ma è necessario che i ricercatori o chi per essi vadano fisicamente in loco per prelevarli.
Questa mancanza azzoppa un pò gli studi, perché sono possibili solo analisi “a posteriori” e mancano così i potenziali vantaggi derivanti dal seguire in tempo reale l'andamento delle variazioni del segnale prima, durante e dopo fenomeni eruttivi parossistici o attività sismica. È evidente che basterebbe dotare le stazioni di misura di semplicissimi sistemi di trasmissione in tempo reale per ovviare a questo problema ed ottenere un aggiornamento continuo dei dati. Sarebbe inoltre auspicabile associare i sensori di radon a quelli meteorologici, gravimetrici, sismici e delle stazioni di deformazione, specialmente se installate nella zona sommitale del vulcano, al fine di consentire una analisi comparativa in tempo reale di tutti i segnali acquisiti dalle reti di monitoraggio.
Ribadisco comunque come in questi studi sia particolarmente evidente il legame fra ricerca pura e ricerca applicata e come la prima serva alla seconda, ma anche come la seconda serva alla prima.


modello generale delle sorgenti del Radon e dei meccanismi di trasporto ed emissione  e di potenziale accumulo negli edifici (Giammanco et al, 2023)




BIBLIOGRAFIA

ALPARONE ET AL (2005). Paroxysmal summit activity at Mt. Etna (Italy) monitored through continuous soil radon measurements. Geophys. Res. Lett. 32, L16307.
GIAMMANCO ET AL (2023). Radon on Mt. Etna (Italy): a useful tracer of geodynamic processes and a potential health hazard to populations. Front. Earth Sci. 11:1176051.
NERI ET AL (2006). Continuous soil radon monitoring during the July 2006 Etna eruption. Geophys. Res. Lett. 33, L24316.
NERI ET AL (2016). Soil radon measurements as a potential tracer of tectonic and volcanic activity. Sci. Rep. 6, 24581. 

venerdì 7 luglio 2023

nuove scoperte genetiche sulle relazioni fra i gruppi ancestrali degli animali


Diversi anni fa avevo scritto un post sulle relazioni più antiche fra i gruppi ancestrali di Animalia. Dall’epoca sono cambiate alcune cose, sia per nuove scoperte di fossili, come il più antico bilatero (Ikaria wariootia) e uno cnidario ancestrale (Auroralumina attenboroughii). L’incertezza maggiore era su quale gruppo si è differenziato per primo: l’ipotesi morfologica è la più semplice e indica alla base di Animalia i loro rappresentanti più semplici, le spugne. Alcune analisi genetiche hanno dato risultati coerenti con questo quadro, ma alltre invece hanno evidenziato, un po' a sorpresa, la linea degli ctenofori come primo gruppo che si è separato dagli altri Animalia. Oggi finalmente sembra arrivata una conclusione definitiva: uno studio recente che ha esaminato le sintenie, cioè anziché i geni le loro associazioni nel genoma, ha evidenziato gli ctenofori come il gruppo che si è differenziato per primo. A questo punto è più che mai aperta la questione se alcune caratteristiche come le cellule neuronali e muscolari sono sorte più volte nell’evoluzione degli animali o sono andate perse negli antenati di spugne e placozoi.

rappresentazione di Ikaria wariootia, da Evans et al (2020)
LE 5 LINEE PRINCIPALI DI ANIMALIA. Sopravvivono fino ai giorni nostri cinque principali lignaggi che sono sorti all'inizio dell'evoluzione degli animali. Li elenco in quella che potrebbe essere una “complessità crescente.
1. PORIFERI: le spugne: non hanno apparati di nessun genere e il nutrimento arriva all’interno grazie all’acqua che circola nei pori. Hanno diversi tipi di cellule differenti, in particolare quelle per la nutrizione, la riproduzione e la difesa, ma non cellule muscolari o neuronali
2. PLACOZOI: sono talmente diversi dal resto di Animalia che c’è chi li considera addirittura un sottoregno a se stante. Sono sostanzialmente dei piatti con cellule diverse nella superficie ventrale e in quella dorsale. Si nutrono con la sua superficie ventrale, che produce enzimi digestivi. Spesso gli individui contraggono parte della superficie ventrale in una sacca dove la digestione può avvenire in modo più efficiente. In questo momento se non sbaglio se ne conoscono appena 4 specie, fra cui lo studiatissimo Trichoplax adhaerens
3. CTENOFORI: predatori marini gelatinosi, dotati di ciglia che servono loro per nuotare, come fanno tanti protozoi (anzi, sono gli esseri viventi più grandi che usano le ciglia per muoversi). Alcuni sono dotati di tentacoli. In genere sono lunghi al massimo qualche cm, ad eccezione di alcune specie come le “cinte di Venere” del Mediterraneo che passano il metro. Si tratta come le meduse, con le quali sono stati a lungo confusi, di esseri gelatinosi. Sono dotati di ciglia che si dispongono come i denti di un pettine, e per questo sono note come comb jellies (gelatine a pettine: in inglese le meduse sono jellyfish, letteralmente pesci gelatinosi). 
4. CNIDARI: a questo gruppo appartengono coralli, meduse, anemoni di mare e qualcos’altro. Sono caratterizzati da una simmetria radiale e il loro ciclo di vita è particolarmente complesso: le meduse ad esempio possiedono uno stadio polipoide e uno medusoide. Altre hanno larve plactoniche e adulti sessili.
5. BILATERIA: la loro caratteristica principale è la simmetria bilaterale ben precisa. Indicando solo i phyla principali, si dividono essenzialmente in 3 macrogruppi, Deuterostomia (Cordati, Emicordati ed Echinodermi), Ecdysozoa (Arthropodi e Nematodi), Lophotrochozoa (Molluschi, Anellididi, Briozoi)

Quando ero giovane il phylum dei celenterati comprendeva sia gli cnidari che gli ctenofori: questi ultimi infatti hanno parecchie somiglianze con gli cnidari, in particolare la simmetria radiale, un apparato digerente formato da una cavità interna che contiene il sistema digerente con una singola apertura per far entrare il cibo ed espellere i residui e reti neurali; ma oggi è evidente, specialmente con i dati genetici, che si tratta di due gruppi differenti.

stabilita la presenza di Parahoxozoa, le due possibili soluizoin:
poriferi o ctenofori come sister group degli altri animali
LE RELAZIONI FRA I GRUPPI PRINCIPALI DI ANIMALIA. Gli orologi molecolari evidenziono un’origine di Animalia oltre 700 milioni di anni fa, ma ci sono davvero pochissimi fossili precedenti l’inizio del Cambriano, 540 milioni di anni fa, quando iniziò con la cosiddetta esplosione del Cambriano la incredibile radiazione del gruppo. Sono quindi centinaia di milioni di anni di evoluzione silente. 
Dunn et al (2022) hanno presentato Auroralumina attenboroughii dall'Ediacarano della foresta di Charnwood in Inghilterra (557–562 milioni di anni fa). Il fossile presenta una serie di caratteri che lo allineano con i primi medusozoi, ma ne mostra altri più tipici degli antozoi, dimostrando come la fissazione del piano corporeo degli Cnidari sia avvenuta decine di milioni di anni prima della esplosione del Cambriano, iniziata 540 milioni di anni fa. Invece sui bilateri qualche tempo fa ho parlato di Ikaria wariootia, il più antico appartenente a questo gruppo ad oggi conosciuto, vissuto nell’Ediacariano dell'Australia almeno 560 milioni di anni fa e considerato l’autore delle tracce fossili note come Helminthoidichnites (Evans et al, 2020). 
Per quanto riguarda l’evoluzione di Animalia, era ritenuto possibile un quadro di “complessità crescente”, e cioè l’ordine spugne → placozoi → ctenofori → cnidari → bilateri. Però già nel 2007 le prime analisi genetiche evidenziarono che forse le cose non siano andate così perché gli ctenofori sembravano essere il gruppo più antico, ma gli Autori stessi del lavoro espressero dei dubbi sul risultato (Dunn et al 2007).
In un albero evolutivo un sister group comprende i parenti più stretti di un'altro gruppo di forme viventi: nel 2017 due lavori ottennero risultati discordanti: per Simion et al (2017) le spugne erano gli animali più antichi e si trovano in posizione di sister group rispetto agli altri Animalia, mentre Whelan et al (2017) confermarono il ruolo di sister group degli altri Animalia gli Ctenofori, come indicato da Dunn et al (2007). Parecchi anni fa avevo già parlato di questo problema. Oggi sia gli studi morfologici che quelli filogenetici uniscono costantemente bilateri, cnidari e placozoi in un clade monofiletico (Parahoxozoa) che esclude spugne e ctenofori, i quali non sono dotati di vari geni, tipo gli HOX. 
Resta comunque il dubbio sui rapporti fra parahoxozoa, poriferi e ctenofori.

Ed ecco la novità: Schultz et al (2023) hanno esaminato alcuni esempi di sintenia, l'associazione di due o più geni in uno stesso cromosoma, tra i vari gruppi di Animalia e altri esseri viventi unicellulari e hanno trovato negli ctenofori sette serie di geni condivise con uno o più eucarioti unicellulari e non con il resto di Animalia e diverse sintenie condivise fra bilateri, cnidari, placozoi e spugne non presenti negli ctenofori. Per cui gli antenati degli ctenofori si sono separati per primi dalle altre forme ancestrali di Animalia. Non esistono invece sintenie presenti nelle spugne e assenti negli altri gruppi, quindi l'ipotesi della complessità crescente “prima le spugne” non è supportata da alcun carattere genetico basato sulla sintenia. Da notare anche una variazione rispetto ai quadri descritti prima: all'interno di Parahoxozoa la prima separazione è quella degli antenati dei bilateri e non degli antenati dei placozoi.

IMPLICAZIONI DELL'IPOTESI DELLA SEPARAZIONE PRECOCE DEGLI CTENOFORI. Lo scenario di aumento della complessità in cui le spugne sono il sister – group rispetto agli altri esponenti di Animalia suggerisce un'unica origine dei neuroni negli antenati comuni di ctenofori e parahoxozoi, dopo che si sono separati dalle spugne. Ma se la prima divergenza è fra gli antenati degli ctenofori rispetto a tutti gli altri abbiamo un problema che si può risolvere in due modi:
  1. nell’evoluzione delle spugne sono stati persi i neuroni
  2. una evoluzione convergente dei neuroni negli ctenofori e nei parahoxozoi, con successiva semplificazione dei Placozoi, che in quanto a complessità sono anch’essi piuttosto scarsi, avendo appena 4 tipi di cellule diverse (fra queste non ci sono cellule neuronali, anche se pur se non avendo muscoli sono capaci di contrarre parte della superficie ventrale)
Considerazioni simili si applicano ad altri tipi di cellule metazoiche. 
La perdita genica è comune durante l'evoluzione animale, quindi è possibile che alcuni di questi geni fossero presenti nel cosiddetto “animale ancestrale” ma siano stati persi in ctenofori e placozoi e il fatto che una volta gli ctenofori fossero stati classificati insieme agli cnidari nei celenterati suggerisce una evoluzione convergente fra i due gruppi.
Albero filogenetico in base alle sintenie da Schultz et al (2023) che prende in considerazione anche gruppi di eucarioti unicellulari.
da notare rispetto ai grafici presentati sopra la posizione di Bilateria e non dei placozoi come sister group all'interno di Parahoxoa (il cui nome non è indicato)



una "cintura di Venere" (Cestum veneris), uno dei pochi cnenofori di grandi dimensioni
Fonte: biologiamarina.com
MA COME ERANO FATTI I PRIMI ANIMALI? La ricostruzione tradizionale in base alla crescente complessità oltre a non essere supportata dalla genetica, potrebbe essere viziata da un grave errore di fondo: siamo sicuri che il più recente antenato comune degli animali sia stato simile a una spugna o a un ctenoforo attuali? 
No, non lo siamo!
Dobbiamo quindi essere consapevoli che i rappresentanti viventi di spugne, ctenofori, bilateri e placozoi possano essere estremamente diversi dai primi membri di ciascuna linea, per non parlare del loro comune antenato. 
Inoltre, le spugne viventi e quelle fossili conosciute, sono animali complessi a pieno titolo, adattati con successo a uno stile di vita unico di alimentazione bentonica, sebbene siano spesso definite dai caratteri cellulari, morfologici e di sviluppo che mancano rispetto ad altri animali. Ed è anche interessante notare che le spugne possiedono tipi di cellule secretorie e componenti molecolari estesi associati alla funzione presinaptica, il che è coerente con un antenato portatore di neuroni, che potrebbero essere derivati da una cellula neurosecretoria primitiva. Anche i sistemi nervosi elaborati e divergenti di ctenofori, bilateri e cnidari viventi potrebbero essere estremamente diversi da quelli degli antenati vissuti prima del Cambriano, per non parlare del loro stile di vita. E siccome hanno ciascuno proprietà uniche, potrebbero rappresentare un'evoluzione divergente da un antenato comune più semplice, per esempio un polipoide sessile (Zhao et al, 2019). 
Da notare che l'ipotesi della insorgenza più volte del sistema nervoso rappresenterebbe uno scenario interessante anche dal punto di vista astrobiologico su come possano essere forme di vita complesse extraterrestri

BIBLIOGRAFIA CITATA

Dunn et al (2007) Broad phylogenomic sampling improves resolution of the animal tree of life. Nature 452,745–74
Dunn et al et al (2022) A crown-group cnidarian from the Ediacaran of Charnwood Forest, UK. Nature Ecology & Evolution 6, 1095–1104
Evans et al (2020) Discovery of the oldest bilaterian from the Ediacaran of South Australia. PNAS DOI: 10.1073/pnas.2001045117
Schultz et al (2023) Ancient gene linkages support ctenophores as sister to other animals Nature 618, 110–117 
Simion et al (2017) A Large and Consistent Phylogenomic Dataset Supports Sponges as the Sister Group to All Other Animals. Current Biolgy. 3;27(7):958-967
Whelan et al (2017) Ctenophore relationships and their placement as the sister group to all other animals. Nature Ecology & Evolution 1(11), 1737-1746
Zhao et al (2019) Cambrian Sessile, Suspension Feeding Stem-Group Ctenophores and Evolution of the Comb Jelly Body Plan. Current Biology 29, 1112–1125