mercoledì 28 ottobre 2015

Il grande terremoto dell'Hindu Kush del 26 0ttobre - quadro tettonico


Il 26 ottobre alle 14.30 locali, un fortissimo terremoto (M=7.5) ha interessato la zona dell'Hindu Kush, in Afghanistan. Siamo immediatamente ad W dell'Himalaya e in una zona la cui caratteristica geologica più spiccata è proprio la presenza di una nutrita serie di scosse anomalmente profonde, delle quali uno studio recente ha finalmente individuato la distribuzione. Lo scontro fra India ed Eurasia ha ancora parecchi punti oscuri e le sue modalità sono ancora dibattute, come scrissi in questo post dove ricapitolai le varie ipotesi sulla dinamica della collisione fra India, Eurasia e arco del Kohistan - Ladakh , un blocco che divideva in due l'oceano che venne in seguito stritolato dalla collisione dei due continenti.


In questa carta ottenuto con l'Iris Earthquake browser, vediamo i terremoti con M uguale o superiore a 6.5 degli ultimi 15 anni tra Mar Caspio, Golfo Persico e Himalaya. Le linee gialle sono i limiti convergenti fra la zolla afro-arabica e quella indiana da un lato e quella euroasiatica dall'altro. Le linee celesti sono invece le zone trascorrenti lungo le quali l'India si introduce (in geologhese si direbbe “si indenta”) nell'Eurasia. Ho parlato della situazione diffusamente a proposito del terremoto del Belucistan del 2013.
Il terremoto del 26 ottobre è uno dei due pallini gialli ad ovest dell'Himalaya che si sovrappongono; è stato risentito a grandi distanze, a causa della profondità dell'ipocentro, che invece è stata determinante nel bilancio dei danni. Un terremoto profondo viene risentito a distanza maggiore di un terremoto superficiale che però, a parità di Magnitudo, provoca dei danni molto maggiori.
A dimostrazione di questo confrontiamo l'eveno con uno molto recente: circa 200 km a sudest il primo pallino viola ricorda il grande terremoto M 7.6 del Kashmir dell'8 ottobre 2005, una scossa dall'energia molto simile a quest'ultimo; il suo ipocentro era a 26 km di profondità e così ha causato una devastazione totale delle abitazioni e quasi 90.000 morti (anche perchè molto vicino ad importanti centri abitati). Oggi per fortuna le vittime sono "solo" qualche centinaio.

Al momento in cui scrivo non è ancora chiaro il meccanismo focale della scossa: è stata sicuramente una compressione ma ci sono ancora dubbi se si tratta di una faglia suborizzontale o subverticale.

I GRANDI TERREMOTI DELL'HINDU KUSH E LE FRANE ASSOCIATE AI SISMI DELLE CATENE ASIATICHE

Il pallino del terremoto del 26 ottobre si sovrappone a quello di un altro sisma vicinissimo (e infatti a prima vista sembra esserci un pallino solo) perchè sono gli unici eventi a profondità ipocentrale superiore a 150 km ottenuti con la query che ha generato questa carta: la profondità ipocentrale degli eventi in viola è minore di 35 km, di quelli blu fra 33 e 70, e di quelli verdi fra 70 e 150. Quel secondo pallino giallo, semicoperto dal primo nella carta, si riferisce al grande terremoto M 7.4 del 3 marzo 2002, il cui epicentro si trova a soli 20 km a W di questo ultimo e – naturalmente – dalla profondità è più o meno simile.
I due terremoti dell'Hindu Kush appartengono ad un cluster di 12 eventi a quella profondità avvenuti nella stessa area negli ultimi 15 anni. Li vediamo in questa seconda carta ottenuta con l'Iris Earthquake Browser, abbastanza larga da comprendere anche Kabul e Islamabad per dare un'idea della sua collocazione.

Nel 2002 i 150 morti e la distruzione di centinaia di abitazioni addebitate all'evento, non furono causati dalla scossa principale, ma dalle frane che lo hanno seguito.
Le frane sono una conseguenza classica dei forti terremoti dell'area a causa della scarsità di vegetazione e/o del rilievo energico: ne contiamo parecchie per esempio dopo il recente sisma del Nepal e nel grande terremoto cinese del Sichuan del 2007, quando gli smottamenti formarono delle dighe, ostacolando il corso di diversi fiumi.

Le notizie che arrivano ci dicono che anche questo terremoto ne abbia innescate diverse; alcune di queste hanno provocato interruzioni nelle comunicazioni stradali che stanno dando davvero grossi problemi ai soccorritori. Però, a differenza del suo gemello di 13 anni fa, ci sono state oltre alle vittime indirette  (come le ragazze morte nella calca all'uscita da una scuola) centinaia di morti anche per i crolli delle costruzioni. Mi chiedo se questa differenza sia un sintomo di un peggioramento dell'edilizia a causa delle guerre che affliggono da decenni quest'area, dove solo pochi anziani ormai si ricordano come si vive senza un conflitto.

Parlando del marzo 2002, è da notare come la scossa profonda del giorno 3 sia stata seguita pochi giorni dopo da quella M 6 del 25 marzo, molto più debole ma con un ipocentro a 8 km di profondità, talmente superficiale  da aver provocato oltre 1000 morti (anche il meccanismo focale è stato molto diverso, in questo caso una distensione su una faglia quasi verticale).
Vediamo in questa immagine dell'USGS i due terremoti del marzo 2002.

LA STRUTTURA PROFONDA DEL PAMIR E DELL'HINDU KUSH: PERCHÈ TERREMOTI COSÌ PROFONDI?

Il terremoto del Nepal del 2015 e quello del Kashmir del 2005 sono avvenuti a bassa profondità, lungo la zona di scorrimento fra la zolla euroasiatica e quella indiana che le si incunea sotto ad una velocità di quasi 4 cm/anno.
Tutto l'insieme fra Tibet, Himalaya, Karakorum, Pamir e Hindu Kush raggiunge altitudini particolarmente elevate ed è davvero qualcosa di fuori dal normale: solo una piccola parte delle Ande raggiunge quote simili. la ragione di questa anomalia sta nel forte spessore della crosta continentale, oltre 70 km. La spiegazione è che probabilmente di croste continentali ce ne sono due: quella asiatica sopra e quella indiana sotto: la seconda, più leggera del mantello non riesce ad affondarvi come fanno invece le pesanti croste oceaniche; quindi preme sotto l'Asia tendendo a spingerla in alto.

Questa sezione trasversale,che però ha il Nord a sinistra e quinid è rovescia rispetto a quella precedente, tratta da [1] ci fa vedere la struttura dell'area: ci sono vari cunei, orientati verso nord (il classico scorrimento della zolla indiana sotto l'Asia).

Notiamo però che anche nonostante lo spessore crustale, i maggiori eventi dell'Hindu Kush avvengono nel mantello sottostante; quindi non rappresentano una deformazione nella crosta, perchè dovremmo essere nel mantello. 
E qui si innestano alcune considerazioni:
  • quando una zolla oceanica scende sotto un continente, come intorno al Pacifico (e, a casa nostra, sotto il Tirreno) i terremoti intermedi e profondi sono abbastanza diffusi. Ma in uno scontro continente – continente li troviamo solo nell'Hindu – Kush, in Romania più un caso recente nel sud della Spagna 
  • l'Hindu Kush e i suoi terremoti si collocano un pò spostati verso occidente rispetto all'asse principale di deformazione attuale.
  • in questa zona il raccorciamento superficiale è avvenuto in tempi precedenti a quelli attuali, nel Terziario (durante il quale il Pamir si è incuneato nell'Asia per circa 300 km chiudendo in parte un bacino di cui sono rimasti ad est il bacino del Tarim e ad ovest la depressione del Tajikistan) 
  • le considerazioni paleogeografiche rendono difficile la presenza di crosta oceanica in subduzione
Per spiegare questi terremoti, unici al mondo in zone di scontro fra continenti, sono state avanzate diverse ipotesi, dalla presenza di uno dei cosiddetti “piani di Benioff” a condizioni particolari che provocano davvero la produzione di eventi sismici direttamente nel mantello.
Recentemente è stato effettuato uno studio sulla sismicità di fondo dell'area grazie al quale è stato scoperto che andando in profondità i terremoti si concentrano in una fascia verticale che è stata successivamente modellizzata [2]. Sono stati identificati gli ipocentri di 9532 scosse grazie alle quali sono state riconosciute due zone nelle quali si verificano i terremoti tra  150 e 250 km di profondità nel Pamir e nell' Hindu Kush, separate da una fascia asismica:
  • nell'Hindu Kush tra 40 e 240 km di profondità è presente una struttura planare spessa tra i 15 e i 25 km orientata E-W che si immerge quasi verticalmente verso nord, nella quale I terremoti si addensano preferenzialmente tra I 160 e I 220 km di profondità 
  • nel Pamir i terremoti evidenziano una struttura arcuata più semplice e più piccola, spessa una decina di km; all'inizio è diretta N-S e si immerge verso est e poi, con la curvatura, assume gradatamente una direzione E-W immergendosi verso sud
Le vediamo raffigurare in questo schema, sempre preso da [2]



Sull'interpretazione di quello che rappresentino questi slab però ci sono ancora troppe incertezze: vecchie croste oceaniche? archi magmatici? Crosta continentale in qualche modo subdotta nonostante la leggerezza? Provengono dalla zolla euroasiatica, da quella indiana o dal blocco arabico?

Preferisco non addentrarmi in una questione del genere. Per chi fosse interessato il lavoro citato contiene un ampia discussione in merito.

[1] Faryad et al (2013): Magmatism and metamorphism linked to the accretion of continental blocks south of the Hindu Kush, Afghanistan Lithos 175–176 (2013) 302–314

[2] Sippl et al (2013): Geometry of the Pamir-Hindu Kush intermediate - depth earthquake zone from local seismic data Journal of Geophysical Research: Solid Earth, 118, 1438–1457



venerdì 23 ottobre 2015

Il vulcanismo europeo permiano e il suo contesto geodinamico


Nel post precedente ho illustrato la vasta presenza di rocce magmatiche del Permiano inferiore raggruppate nella provincia vulcanica permiana di Europa e NW Africa (EUNWA) e la loro connessione con il mantello terrestre, in particolare con la presenza di una zona calda posta oggi sotto l'Africa, TUZO. Adesso proviamo a cercare un legame di questa attività vulcanica con la tettonica del periodo e con quello che succederà in seguito.


LA PANGEA (ANCORA INCOMPLETA) DEL PERMIANO INFERIORE

fig.1 - il mondo nel Permiano superiore 
Questa è la paleogeografia del Permiano inferiore: dopo che tra Ordoviciano e Devoniano l'orogenesi caledoniana aveva sancito l'unione fra Laurentia, Baltica e Avalonia facendo nascere Euromerica (nora anche come Laurussia), a questo continente nel Carbonifero superiore si è aggregato il Gondwana. L'immagine qui a destra è di poco anterore a questa ultima collisione. Di conseguenza, lungo la zona dello scontro fra le due zolle si era formata una catena montuosa estesa dal Messico alla Polonia attraverso Spagna e Marocco, geologicamente nota come orogene Ercinico o Varisico. Più ad oriente le coste SE di Baltica, quelle meridionali di Siberia e Kazakistan  e quelle orientali del Gondwana erano bagnate da un oceano, la Paleotetide (attenzione: non siamo ancora alla Pangea, perché tra Euromerica, Siberia e Kazakhstan c'erano ancora dei bacini oceanici!)


VULCANISMO PERMIANO E ATTIVITÀ TETTONICA 
INTORNO ALLA CATENA ERCINICA NEL PERMIANO INFERIORE

Nel Permiano inferiore, 20 milioni di anni dopo la conclusione dell'orogenesi ercinica, a nord della catena ercinica, nell'odierna Europa Settentrionale, si è messa in posto la provincia magmatica dello Skagerrak, una “vera” Large Igneous Province, i cui prodotti affiorano fra Scozia, Norvegia e Germania settentrionale. Nello stesso periodo a sud della catena la provincia magmatica dell'Europa e dell'Africa di NW (EUNWA) ha formato una serie di rocce intrusive ed effusive tra Boemia, Italia,  Francia, Spagna e Marocco. I graniti del Lago Maggiore, il supervulcano della Valsesia e i graniti di Sardegna e Calabria sono fra i prodotti più noti che troviamo in Italia. 

fig. 2 - la futura area mediterranea nel Permiano
e il suo vulcanismo da [1]
Nello stesso periodo dell'attività vulcanica (305– 285 Ma) l'Europa Centrale è stata interessata da fenomeni estensionali guidati essenzialmente da faglie trascorrenti, che hanno profondamente modificato l'assetto della giovane catena ercinica (molti Autori parlano addirittura di un suo collasso) e si sono formati tra il Mare del nord e la Svizzera i cosiddetti “bacini permiani” [2]. 
Anche il versante meridionale è stato interessato dalla formazione di questi bacini, dove si sono messe in posto le vulcaniti italiane dell'epoca.
Andiamo ora nel Gondwana. Lungo la sua costa nordorientale, quindi a SE della catena ercinica, dal tardo Carbonifero si registra un cambiamento pesante: la formazione di una serie di rift alla fine ha aperto un nuovo braccio oceanico, la Neotetide, separando dal continente una serie di blocchi (Iran, Afghanistan, Karakorum, Qiangtang) che ora troviamo coinvolti nella catena alpino – himalayana tra il Mar Caspio e l'Himalaya [3]. 

Questi bacini per molti Autori si sarebbero aperti come riflesso dello spostamento del piano di subduzione della Paleotetide, analogamente a quella che è l'ipotesi più “gettonata” per la formazione dei bacini del Mediterraneo occidentale, un'idea che per il Permiano della costa del Gondwana non mi trova particolarmente d'accordo.

Negli anni passati sono state avanzate molte ipotesi per spiegare la presenza dei magmi di Skagerrak e EUNWA. Che quelli dello Skagerrak siano di origine mantellica non lo mette in dubbio nessuno, mentre quelli del Sudalpino e della Sardegna hanno spesso una affinità calcalcalina tipica della convergenza di zolle, per cui qualcuno li aveva addebitati a fasi finali della compressione. Ma ormai è chiaro che questa interpretazione è errata, perchè la maggior parte dei prodotti della EUNWA hanno (come quelli a nord della catena) una affinità alcalina e i vulcani si sono sviluppati lungo i bordi di bacini la cui formazione è stata controllata, come per i bacini permiani dell'Europa centro – settentrionale, dalla attività di faglie trascorrenti. L'affinità calcalcalina è dovuta a una forte contaminazione dei magmi con materiali della crosta. 


L'ORIGINE DEI MAGMI PERMIANI

Anche i graniti della Sardegna tagliano le strutture della catena ercinica e quindi ne sono posteriori ed appartengono ad un regime diverso da quello compressivo varisico.
Non vi è dubbio quindi che anche i magmi della EUNWA provengano dal mantello, anche piuttosto profondo. Ma perchè si sono formati? Ci sono due modelli di base sulla fusione del mantello;
  • si innalza la temperatura 
  • diminuisce la pressione sovrastante e quindi diminuisce la temperatura di fusione
Alcune ipotesi invocano un generico rialzo termico, altre pensano ad una decompressione dovuta al collasso della catena ercinica, magari coinvolgendo i vecchi piani di subduzione ancora presenti sia pure oramai inattivi, che avrebbero influito sulla riorganizzazione dei flussi termici e di materiale nel mantello sottostante alla catena (a pensarci bene potrebbero anche aver immesso acqua nel mantello, abbassandone la temperatura di fusione). In questa visione è la tettonica superficiale che induce il magmatismo. 
fig.3 - le zone calde permanenti del mantello
Ma c'è anche la soluzione opposta: è stato il mantello la causa e del magmatismo e della tettonica, in un dibattito sulla geodinamica del tipo “prima l'uovo o prima la gallina?” che ha appassionato tanti studenti di Scienze della Terra: "è la divergenza fra due masse continentali a provocare la formazione degli oceani e dei magmi o sono stati i magmi del mantello a provocare la rottura dei continenti?

Bene, per quello che ho scritto nel post precedente, l'ipotesi del pennacchio di magma proveniente dal basso è, almeno in questo caso, lo scenario più realistico, perché nel Permiano queste zone erano direttamente sopra a TUZO, la zona calda permanente del mantello sopra la quale oggi c'è l'Africa.


UNA ZONA DI TAGLIO IN MEZZO ALLA PANGEA?

Fig.4: la sovrapposizione teorica di Gondwana e Euromerica ricavata
dai dati paleomagnetici [4]
Se consideriamo la Pangea di Wegener, i dati paleomagnetici rimettono bene a posto i continenti derivati dalla rottura del supercontinente fino al Permiano. Ma in tempi precedenti sembra che qualcosa non funzioni, perché Gondwana e Laurasia si sovrappongono parzialmente. Così, verso la fine degli anni '70 è stato proposto che tra quando la Pangea si è formata e quando si è successivamente frantumata ci siano stati dei movimenti interni: in particolare alla fine dell'orogenesi varisica America Meridionale e Africa erano posti più ad est di quanto lo fossero quando si sono di nuovo staccati dalla Laurasia [5]. Quindi la Pangea si sarebbe evoluta da una configurazione “Pangea B” alla fine del Carbonifero in una successiva “Pangea A” nel Permiano (ricordo che questa definizione è un po' forzata, visto che di Pangea vera e propria senza le parti asiatiche non si può parlare..) 
Fig.5: il taglio destro intra - pangeano  [4]
Questo cambiamento sarebbe avvenuto lungo una zona di taglio, praticamente una faglia trascorrente chiamata intra-Pangean dextral shear (taglio destro intra – pangeano, in sigla IPDS), come si vede in fig. 5.
La dislocazione sarebbe stata di ben 3000 km e siccome il tutto non sarebbe durato più di 30 milioni di anni se ne ricava una velocità fra le zolle di circa 10 cm/anno, che è già piuttosto alta ma potrebbe esserlo ancora di più se questa trascorrenza fosse esistita per un tempo minore.
Noto che anche nella zona fra Turchia e Himalaya alcuni movimenti dei blocchi derivati dalla fratturazione della costa nordorientale del Gondwana avrebbero raggiunto in quel periodo velocità fino a 17 cm/anno. 

Questa velocità estremamente alta è stata riconsiderata di recente, in uno studio paleomagnetico sui fusi generati dall'impatto di un meteorite al passaggio Permiano – Triassico nel Brasile centrale, il cratere Araguainha [6]. I dati ricavati con questo lavoro mostrano una longitudine differente per il Gondwana che riduce – e di parecchio – la lunghezza della trascorrenza intra – pangeana e – quindi, anche la sua velocità. 

Ci sono però molti Autori che sono semplicemente contrari a questo scenario, come per esempio il mitico Gérard Stampfli [7]; altri, in precedenza tendenzialmente molto favorevoli alla presenza di questa struttura, l'hanno riconsiderata grazie all'acquisizione di nuovi dati paleomagnetici [8]. 


IL TAGLIO DESTRO INTRAPANGEANO È ESISTITO DAVVERO?

A questo punto, notando due visioni molto diverse, c'è da chiedersi quale delle due sia giusta: lo scorrimento intra – pangeano sia  davvero esistito o no?

Penso di sì, che sia esistito, ma anche che sia stato molto più corto di quanto ipotizzato (e così anche meno problematico...). 
Innanzitutto possiamo dire che alla fine dello sviluppo di un orogene intracontinentale, quando non ci sono più spazi per una ulteriore compressione, una trascorrenza è un modo molto logico per accomodare gli sforzi residui. In questo caso il taglio destro intrapangeano potrebbe avere un significato simile a quello della faglia di Great Glen in Scozia, che si è evidenziata solo alla fine dell'orogenesi caledoniana o alla linea delle Giudicarie nelle Alpi. 
Inoltre tutti questi bacini permiani... insomma a me vederli nel quadro di un sistema di trascorrenze non mi dispiace affatto..

Vediamo questa figura: è il confronto fra vecchi e nuovi dati di Domeier & C. (fra gli Autori c'è anche Trond Torsvik, una garanzia quando si parla di geografia paleozoica).
Si nota tra Carbonifero e Permiano un certo scollamento dei dati, sicuramente più ridotto rispetto a prima ma sempre visibile. E, casualmente, questo scollamento dovrebbe avvenire nel Permiano inferiore, proprio durante la messa in posto dei basalti dello Skagerrak e dell'EUNWA.
Con TUZO abbiamo anche la pistola fumante: il calore e il magma provenienti dal mantello hanno indebolito ulteriormente la litosfera già stravolta dall'orogenesi varisica e la Pangea ha reagito muovendosi con una rottura che ha mosso i due settori in un regime trascorrente ma anche leggermente estensionale, che successivamente si è evoluto fino alla formazione dei bacini oceanici della Tetide mediterranea dal Triassico in poi.

Penso che anche la formazione dei rift della Neotetide, con il distacco di Iran, Afghanistan, Karakorum e Qiangtang dal Gondwana sia dovuto alla presenza di TUZO. 
La presenza del plume può spiegare anche la forte velocità delle zolle: come dimostra Faccenna BIB a proposito della elevatissima velocità dell'India immediatamente prima e dopo la messa in posto dei basalti del Deccan.


LA PALEOGEOGRAFIA DELL'EPOCA E UN ESEMPIO ATTUALE

fig.7: la costa pacifica del nordamerica e i cambiamenti
del limite della zolla pacifica
Ora c'è da chiedersi se c'è un qualcosa di analogo oggi sulla Terra a questo sistema del Permiano inferiore.
La paleogeografia dell'epoca fra il NE del Gondwana e la costa occidentale della Pangea centrale possa essere stato simile a quello che oggi si vede lungo la costa pacifica dell'America Settentrionale: la dorsale pacifica orientale entra nel Golfo di California, dove il limite tra la zolla pacifica e quella di Nazca si trasforma da estensionale a trascorrente lungo la faglia di San Andreas. È interessante vedere come a nord della faglia di San Andreas il limite fra la zolla pacifica e quella del nordamerica si sdoppia, con la compressione lungo la costa NW degli Usa e quella canadese (tra il Washington, l'Oregon e la British Columbia) e la formazione di crosta oceanica lungo la dorsale di Juan da Fuca poco più a largo. Questa terminazione settentrionale può essere un analogo della situazione nel NW africano, dove tra Mauritania e Guinea l'orogenesi varisica è perdurata fino al Permiano inferiore, durante l'attività del taglio destro intrapangeano.

Fig.8: il limite Gondwana - Euromerica nel Permiano
AF: Africa AR: Arabia NA: nordamerica EU Euromerica
SIB: Siberia CM: blocchi tra Iran e Tibet
da [1]
Quindi l'inizio della nuova separazione fra Euromerica e Gondwana è avvenuto lungo una trascorrenza destra intra – pangeana più ristretta nello spazio rispetto a quella ipotizzata dalla letteratura e che, come la attuale faglia di San Andreas, era la continuazione trascorrente del limite divergente costituito dalla dorsale che faceva da centro di spreading della Neotetide. Il tutto è stato dovuto alla debolezza della litosfera locale, appena interessata dall'orogenesi ercinica e che doveva pure  fare i conti con il sottostante plume del mantello. Questa immagine da [1] illustra la situazione dell'epoca.

[1] Segev (2002) Flood basalts, continental breakup and the dispersal of Gondwana: evidence for periodic migration of upwelling mantle flows (plumes) EGU Stephan Mueller Special Publication Series, 2, 171–191, 2002
[2] Pascal et al. 2006 Post-Variscan (end Carboniferous – Early Permian) basin evolution in Western and Central Europe. Geological Society, London, Memoirs, 32, 355–388
[3] Muttoni et al 2009 Opening of the Neo-Tethys Ocean and the Pangea B to Pangea A transformation during the Permian GeoArabia, v. 14, no. 4, 2009, p. 17-48
[4] Muttoni et al 2003 Early Permian Pangea ‘B’ to Late Permian Pangea ‘A’Earth and Planetary Science Letters 215 (2003) 379-394
[5] Irving 1977. Drift of the major continental blocks since the Devonian. Nature, v. 270, p. 304-309.
[6] Yokoyama et al Palaeomagnetism of the Permo-Triassic Araguainha impact structure (Central Brazil) and implications for Pangean reconstructions. Geophysical Journal international doi: 10.1093/gji/ggu125
[7] Stampfli et al 2013 The formation of Pangea Tectonophysics 593 1–19 
[8] Domeier et al 2012 Paleomagnetism and Pangea: The road to reconciliation Tectonophysics 514–517 (2012) 14–43

lunedì 19 ottobre 2015

Il vulcanismo del Permiano nelle Alpi e i rapporti fra la crosta e il mantello


Dalle Dolomiti al Piemonte, lungo il versante meridionale delle Alpi sono molto diffuse rocce magmatiche sia vulcaniche che intrusive. Le lave sono state eruttate in bacini estensionali coevi che sono stati riempiti contemporaneamente e in seguito da sedimenti continentali. Il vulcanismo del sudalpino è successivo a quello dei Massicci Cristallini Esterni tra il Monte Bianco e il Gottardo, che è chiaramente connesso con l'orogenesi Varisica) ed è avvenuto dopo la conclusione dell'evento orogenico; inoltre è associato nel tempo e nello spazio ad altre manifestazioni simili, disperse fra Boemia e Marocco, passando per Francia, Sardegna, Calabria, Pirenei e Spagna. Tutte queste manifestazioni magmatiche sono raggruppate nella provincia magmatica dell'Europa e dell'Africa di NW (EUNWA) e la loro origine è dovuta al passaggio di questo settore della Pangea sopra TUZO, la zona permanente di risalita di correnti dal mantello inferiore posta oggi sotto l'Africa.

Nelle Alpi sono stati da tempo individuati i vari megablocchi tra i quali si è svolta la collisione che ha formato l'imponente catena. Le unità geologiche possono quindi essere suddivise in europee, oceaniche e adriatiche. L'area adriatica è conosciuta anche come Sudalpino o Alpi meridionali e consiste in un basamento Paleozoico derivato da sedimenti formatisi tra Cambiano e Siluriano, successivamente coinvolti nell'orogenesi ercinica (o, come è meglio chiamarla, varisica). L'impulso orogenico principale ha portato questi sedimenti in profondità nella crosta, dove sono stati metamorfosati principalmente nel Carbonifero inferiore. Nel Carbonifero superiore nuovi movimenti li hanno riportati in superficie, e dall'inizio del Permiano al Cenozoico medio (da 300 a 30 milioni di anni fa) su queste rocce si è depositata la spessa serie sedimentaria del Sudalpino. Alla base della sequenza troviamo prodotti magmatici sia effusivi che intrusivi di una attività durata un pò più di una ventina di milioni di anni all'inizio del Permiano, che meritano una attenzione speciale a causa del loro particolare significato geotettonico.     

LE ROCCE MAGMATICHE PERMIANE DEL SUDALPINO


All'inizio del Permiano nell'area che poi è diventata il settore meridionale delle Alpi tra le Dolomiti e il Piemonte si è formato un sistema di faglie grazia al quale si è individuata una serie di bacini separati l'uno dall'altro. In questi bacini si sono sedimentati spessori non irrilevante di depositi continentali contenenti lave alcaline o calcalcaline (principalmente rioliti e riodaciti). L'associazione tra bacini e lave ne suggerisce una connessione. Questa carta, presa da [1], ne mostra la distribuzione.
Da Est a Ovest le troviamo nel gruppo vulcanico Atesino, nelle Alpi Bergamasche (bacini orobici e Val Trompia – Val Caffaro) e nell'area tra Ticino, Piemonte e il NW lombardo, conosciuta come zona Sesia - Lanzo, dove è stata riconosciuta la presenza di grandi strutture come quella di Lugano – Valganna e le radici di una enorme caldera, nota come supervulcano della Valsesia [2]. Appartengono alla Zona Sesia Lanzo anche alcuni dei più famosi graniti italiani, i Graniti della Serie dei Laghi sulla sponda orientale del Lago Maggiore, fusi magmatici intrusi in una sequenza sedimentaria metamorfosata poco prima, durante l'orogenesi varisica, anche in quei tempi interessata dalla messa in posto di graniti. 
Ancora più a ovest la zona Ivrea-Verbano rappresenta una sezione crustale completa, dominata da corpi intrusivi mafici (gabbri e dioriti) del Permiano inferiore, intrusi in migmatiti (rocce miste, formate da una commistione fra un magma e dalle rocce metamorfiche in cui si è intruso) del Carbonifero.
La zona Ivrea-Verbano e la zona Sesia - Lanzo rivestono un interesse geologico particolare perchè sono le uniche aree dove sono visibili parti profonde, medie e ancora più superficiali della crosta del dominio sudalpino. La loro giustapposizione è posteriore all'orogenesi varisica, e precede l'orogenesi alpina in quanto si è realizzata proprio durante il periodo in cui era attivo il vulcanismo Permiano.

L'età di tutte queste rocce magmatiche si colloca fra 290 e 260 milioni di anni fa [1], diciamo una quindicina di milioni di anni dopo le ultime fasi dell'orogenesi varisica e la loro associazione con eventi associati alle ultime fasi della compressione che ha formato la catena ercinica è parecchio improbabile, anche se era stata invocata perchè alcuni di questi magmi mostrano una affinità calcalcalina tipica delle zone di scontro fra zolle. 
In Piemonte e Ticino, dove troviamo sia rocce intrusive che effusive, vediamo che i graniti dei laghi e le intrusioni nella crosta della zona Ivrea-Verbano sono coeve o leggermente più antiche della attività vulcanica subaerea. La messa in posto dei graniti corrisponde anche ad un episodio di metamorfismo della crosta media e superiore.
Il magmatismo del sudalpino è più giovane di quello dei “massicci cristallini esterni” delle Alpi, diffusi tra Monte Bianco e Gottardo, la cui origine è invece sicuramente da addebitare allo scontro fra le zolle che hanno formato l'orogene Varisico.

IL VULCANISMO PERMIANO NON È ESCLUSIVO DEL SUDALPINO

Il vulcanismo del Permiano inferiore è diffuso ben oltre quello che diventerà il sudalpino, nella zona di cerniera fra Laurasia e Gondwana dove erano posti i blocchi oggi appartenenti all'area mediterranea e a ciò che la circonda.
A nord della linea insubrica, che segna il confine fra le unità adriatiche (sudalpino) e quelle europee (Austoalpino) e quindi è la cicatrice del contatto che ha generato le Alpi, troviamo una serie di corpi gabbrici o dioritici sparsi lungo tutta la fascia al confine fra Italia e Svizzera dal Vallese allo Stelvio.
Andando un pò più in là, in quei tempi si stava formando una parte consistente del batolite Sardo – Corso e delle sue appendici che sono state separate dal corpo principale solo in un passato geologicamente molto recente a causa dalla formazione del Bacino Ligure Provenzale nel Miocene (il massiccio dell'Esterel in Costa Azzurra) e del Tirreno nel Pliocene quelli della Calabria (Sila e Serre). L'attività magmatica del batolite sardo – corso è iniziata ben prima del limite Carbonifero / Permiano e all'inizio del Permiano risalgono la parte finale della sequenza principale, la U2, e la terza, la U3 [3]. Anche i massicci calabri sono databili al passaggio Carbonifero – Permiano e a tempi immediatamente successivi.
Possiamo andare ben oltre: rocce vulcaniche ed intrusive del Permiano inferiore sono diffuse in una vasta area tra Repubblica Ceca, Francia, Pirenei, Spagna e Marocco. Tutte sono state inserite nella provincia magmatica europea e del NW africano. L'EUNWA non può definirsi una “grande provincia magmatica (LIP)", ma è significativo notare come un magmatismo di LIP era attivo contemporaneamente intorno all'odierno mare del Nord, i basalti dello Skagerrak, distribuiti tra Scozia, Norvegia meridionale, Danimarca e Germania. 
Questa carta, presa da [4], ne mostra la larga diffusione (per riferimento si distingue bene la Sardegna sotto la scritta "EUNWA"). 

LA GENESI DEI MAGMI DELLA EUNWA

La messa in posto nelle Alpi meridionali e non solo di importanti volumi di magma nella crosta inferiore e la loro composizione dimostra un pesante coinvolgimento del mantello terrestre in questa attività magmatica. Quindi, considerando che l'area all'epoca si trovava in una zona equatoriale, la presenza dei magmi di EUNWA può essere messa in relazione con il movimento della Pangea sopra TUZO, una delle due zone di risalita permanente nel mantello, i Superswell o LLSVP (Large Low Shear wave Velocity Provinces - grandi province a bassa velocità delle onde di taglio) del mantello terrestre che oggi sono posti sotto l'Africa e il Pacifico meridionale. In questo post ho parlato del passaggio di Baltica sopra TUZO e della conseguente formazione delle Large Igneous Provinces paleozoiche europee. EUNWA e i basalti dello Skagerrak rappresentano la fase permiana di questo passaggio. 
La carta presa da [5] mostra TUZO oggi: l'area dell'EUNWA all'epoca era più o meno alla stessa longitudine ma molto più a sud, in posizione equatoriale, proprio al di sopra di questo superswell.

La domanda è se questo vulcanismo possa far parte di un quadro tettonico particolare o no. 
È molto probabile, ma siccome la faccenda diventerebbe troppo lunga, ne parlerò nel prossimo post. 

[1] Schaltegger e Brack (2007) Crustal-scale magmatic systems during intracontinental strike-slip tectonics: U, Pb and Hf isotopic constraints from Permian magmatic rocks of the Southern Alps. Int J Earth Sci (Geol Rundsch) 96,1131–1151
[2] Quick et al (2009) Magmatic plumbing of a large Permian caldera exposed to a depth of 25 km. Geology 37, 603-606 
[3] Casini et al (2015) Evolution of the Corsica–Sardinia Batholith and late-orogenic shearing of the Variscides. Tectonophysics 646, 65–78
[4] Segev (2002) Flood basalts, continental breakup and the dispersal of Gondwana: evidence for periodic migration of upwelling mantle flows (plumes) EGU Stephan Mueller Special Publication Series, 2, 171–191, 2002
[5] Burke (2011) Plate Tectonics, the Wilson Cycle, and Mantle Plumes: Geodynamics from the Top. Ann Rev Earth Planet Sci 39, 1–29.

martedì 13 ottobre 2015

Il demenziale rifiuto dei vaccini e le possiibli conseguenze.



Stavolta parlo di un argomento assolutamente non solito su Scienzeedintorni, ma sento come dovere civico di farlo per la drammatica notizia di Bologna.
Ebbene sì, nella città della Alma Mater Studiorum una bambina di meno di un mese è morta di pertosse. Non perchè i genitori fossero contrari ai vaccini ma perché era ancora troppo piccina per essere vaccinata.
Mentre solo pochi mesi fa in Spagna un bimbo di 6 anni è morto di difterite.
È come se fossimo tornati indietro di decine di anni... da quanti anni non succedevano in Europa cosa simili? La recrudescenza tocca anche (e maggiormente) gli Stati Uniti.

Dopo aver espresso anche io il più profondo cordoglio alla famiglia mi chiedo semplicemente se ci sia un colpevole di tutto questo.
Non ce n'è uno... di colpevoli ce ne sono tanti, e sono quei dementi che non vaccinano i figli, credendo nelle più imbecilli leggende metropolitane, dal fatto che i vaccini portano l'autismo, sbugiardatissima, o che i vaccini contengono alluminio (e il latte materno, allora?) o sono imposti dalle case farmaceutiche ad altre cazzate (scusatemi il francesismo, come si dice a Campi Bisenzio, ma sono veramente su di giri) che si leggono su gruppi Facebook o su Youtube.

Simpatico a proposito delle casa farmaceutiche il fatto che impongono i vaccini contro certe malattie per guadagnare ma nel contempo non producono “il vaccino contro il cancro” perchè ci guadagnano più con le cure....
Insomma.... siamo sul completamente folle...

Il risultato di queste sconsiderate azioni è il ritorno di malattie che sembravano praticamente debellate e la cosa più grave è quando sostengono che “se non mi vaccino è un problema mio”.
Nossignori... 
Non è un problema loro ma, al limite, un problema dei loro figli, i quali non hanno nessuna colpa se non di avere dei genitori quantomeno disinformati benché convinti di sapere. Infatti il problema è che vengono colpiti “gli altri”, divisibili in due categorie:
  • quelli per i quali un qualsiasi motivo fa sì che la protezione di uno specifico vaccino non sia perfetta
  • quelli che per qualche motivo sanitario non hanno potuto fare quello specifico vaccino

Ora vi racconto due casi autobiografici: 
1. da bambino (primi anni '60) ho seguito il regolare cammino di vaccinazioni tranne che contro il vaiolo. Evidentemente quel vaccino rischiava di portarmi dei problemi, quali non saprei e per “motivi tecnici” non posso più chiederlo né ai miei genitori né ad altre persone...
Chiaramente in presenza di un caso di vaiolo io sarei stato particolarmente a rischio (e forse a quel punto mi avrebbero vaccinato). 
Il rischio alla base della tragedia bolognese è chiaramente il secondo, la bimba era troppo piccina per vaccinarsi e purtroppo la diminuzione dei vaccinati rende più vulnerabili non solo coloro che non vengono vaccinati per scelta, ma anche coloro che per qualsiasi motivo non possono esserlo per motivi sanitari.

2. Ho contratto il morbillo a 18 anni (non c'era ancora la vaccinazione apposita) e ho rischiato di rimetterci la buccia. Mi ricordo una nottata tremenda con febbre oltre 40.

Sempre a proposito di morbillo, in un ospedale toscano qualche anno fa si è sforata la tragedia.
Arrivò una ragazza che era messa molto male per delle "classiche" complicazioni del morbillo in età adulta ed il rischio che non ce la facesse era elevatissimi.
I medici espressero qualche dubbio ai genitori perché data l'età quella ragazza da piccola avrebbe dovuto essere vaccinata. 
Al che la mamma rispose sdegnata “no, mica l'abbiamo vaccinata... siamo contrari a queste cose, ma voi dovete fare qualcosa per salvare la mia bambina
Risposta del medico: “signora, poteva fare qualcosa lei quando la ragazza era ancora una bambina, vaccinandola”.
Per fortuna poi la ragazza è guarita.

Il problema degli antivaccinisti è la loro ignoranza scientifica.

Un primo aspetto è il mancato riconoscimento (anzi, di più, la contestazione) del ruolo dei vaccini nella protezione da tante malattie virali. Come spesso non lo riconoscono neanche per gli antibiotici (altra classe di farmaci aborrita da questa gente.
Sia ben chiaro, io sono contro l'abuso di antibiotici e io stesso li prendo solo “in caso di estrema necessità” anche perchè purtroppo i batteri sono molto plastici e bisogna evitare il più possibile la comparsa di ceppi antibiotico – resistenti (uno dei motivi per cui ci si aspetta una leggera dimiuzione della speranza di vita è proprio la maggiore diffusione di ceppi batterici resistenti agli antibiotici)
Da questo consegue persino il rifiuto della realtà e cioè dell'eccezionale ruolo nella sconfitta (purtroppo non definitiva) di certe malattie virali rivestito dai vaccini prima e di infezioni batteriche in seguito grazie agli antibiotici. D'accordo, una migliore nutrizione e una igiene più soddisfacente hanno fatto, ma senza questi prodotti farmaceutici la situazione non sarebbe migliorata eccessivamente...

Un secondo aspetto dell'ignoranza scientifica è il non capire che la letteratura scientifica in peer-review (concetto probabilmente sconosciuto) sia più autorevole di quanto si legge su internet in un gruppo Facebook o in un sito spazzatura antivaccinista o si vede su un filmato su YouTube.

E il guaio è che ci sono movimenti politici ben rappresentati in parlamento nei quali il rifiuto dei vaccini è propagandato da diversi militanti anche di alto livello....

È vero: Occorre che il mondo scientifico cerchi di penetrare meglio nella divulgazione scientifica in materia. 
A questo scopo anche l'opera di sbugiardamento da parte di tante persone può servire e parecchio, ma non tanto per convincere quelli completamente suonati come l'autore del commento che ho messo come immagine: in quelli, ormai, i neuroni sono desinapsizzati come quelli degli antievoluzionisti e dei fessi delle scie chimiche e non c'è niente da fare... 

Qualcuno sostiene che sono sforzi vani. Invece ridicolizzare questa gente con i dati scientifici serve ad evitare che qualcun altro cada nella trappola anche perchè con i motori di ricerca in questo caso (e anche in altri casi di bufale) spesso trovi insieme coloro che smentiscono le idiozie e quelli che le propagandano e, anzi, i siti bufalai hanno spesso la precedenza.
Ricordo che questa gentaglia rappresenta meno del 10% della popolazione. Cerchiamo di non farla aumentare.
Gli ultimi eventi dimostrano che non vaccinare porta inevitabilmente alla recrudescenza di malattie gravi, invalidanti o mortali.


PS: per un serio approfondimento leggete questa: http://www.butac.it/vi-stanno-mentendo/

domenica 4 ottobre 2015

La vicenda del ponte sul Rio Siligheddu a Olbia e considerazioni generali sul ripristino del territorio dopo una catastrofe naturale


Su Scienzeedintorni mi piacerebbe di più stare a parlare della storia della Terra, dell'evoluzione della vita e di qualche nuova scoperta. Ma purtroppo siamo in Italia e il mondo delle Scienze della Terra si deve misurare con un territorio difficile che avrebbe bisogno di una attenzione molto maggiore della media europea e invece viene spesso trattato con una assoluta mancanza di rispetto. E alle volte la realtà supera la fantasia.....
Parliamo della vicenda del ponte sul Rio Siligheddu a Olbia: contrariamente a quello che si pensa la piena del 2013 non lo ha distrutto, ma danneggiato. E quindi non è stato ricostruito, ma ripristinato. La vicenda merita poi una postilla su quello che in generale succede nella ricostruzione dopo una di quelle che sono chiamate "catastrofi naturali" ma che in realtà hanno una base antropica, specialmente nel caso in cui - nonostante i precedenti - si lascia su un fiume un ponte che rischia di fare la diga della situazione.  

Era il 18 novembre 2013 quando la Sardegna fu investita da un'ondata di maltempo che anche grazie a agli insani interventi urbanistici del passato sul territorio si è rivelata un disastro, compreso un tributo di 16 vittime. Fra le varie zone colpite c'era anche quella di Olbia, dove il Rio Saligheddu si riprese senza chiedere il permesso agli umani un po' di quello spazio che gli era stato tolto. Mi dicono che da quelle parti ci sia stata in passato una fase piuttosto intensa di speculazione edilizia, in aree non proprio felici dal punto di vista idrogeologico e che gli abusi siano stati regolarmente sanati con gli appositi condoni. Non entro nell'argomento perché non conosco la vicenda in maniera specifica e non posso dire se le zone colpite di Olbia siano quelle condonate.

GLI SPECIFICI FATTI DI OLBIA E LA CONFUSIONE SUI TERMINI NORMATIVI

Veniamo al punto: nella giornata di giovedì 1 ottobre, durante una fase di emergenza a causa delle intense piogge che hanno colpito la Sardegna, ampiamente prevista dal sistema di allerta della Protezione Civile, si sono succedute una serie di voci sul ponte del Rio Saligheddu. L'unica cosa sicura è che, come nel 2013, questo manufatto si è comportato come una barriera che ha molto rallentato il fiume; filmati e fotografie confermano la cosa: le acque a monte del ponte sono decisamente più alte che a valle. Vedendone una foto è abbastanza chiaro il perché: la portata sotto ai piloni, a causa del loro elevato ingombro, è molto inferiore a quella del corso d'acqua libero da ostacoli. 
Alla fine il ponte è stato demolito ma purtroppo non si può riavvolgere il film a mercoledì scorso ed evitare i nuovo danni.

Ci sono però delle precisazioni da fare si questa vicenda
A caldo si era diffusa la sensazione che il ponte nel 2013 fosse crollato e che successivamente sia stato ricostruito tal quale.
Ciò in base a dichiarazioni attribuite al Sindaco di Olbia secondo le quali 2 anni fa il ponte sarebbe crollato ma sarebbe stato ricostruito tale e quale, e quindi a 3 campate anziché, come invece aveva richiesto il Comune, essere ricostruito ex novo con una campata unica. Ma, sempre secondo questa dichiarazione, i fondi della Protezione civile per le emergenze riguardavano esclusivamente il ripristino. E quindi l'hanno dovuto rifare tale e quale.

A quel punto delle due l'una:
  • o la dichiarazione era veritiera e le disposizioni applicate dalla Protezione Civile erano demenziali 
  • o, se invece le cose non stavano così, qualcuno aveva demenzialmente avvallato la ricostruzione del ponte tal quale

Mi sembrava una cosa troppo allucinante persino per l'Italia e allora ho visto bene di capirci qualcosa di più. Indagando ho potuto accertare che le cose non sono andate propriamente così e che le parole del sindaco si sono prestate ad un gigantesco equivoco.
Mi è entrata una pulce in un orecchio analizzando questo concetto: “anzichè ricostruirlo ex novo”. Grazie ad una geologa sono venuto a sapere che nel 2013 il ponte non era crollato, ma aveva subìto dei danni, sia pure piuttosto ingenti. 
Pertanto non c'è stata una sua “ricostruzione”, bensì un più semplice “ripristino” della struttura per farlo tornare alle sue funzioni prima del danneggiamento
Questo torna anche con la seconda parte della dichiarazione del Sindaco, secondo la quale i fondi della Protezione Civile erano solo per il ripristino tal quale e in tali risorse non era contemplabile la possibilità di ricostruire in maniera diversa dal pregresso.

Però, aggiungo, questa operazione mi lascia parecchio perplesso: che questo ponte non era esattamente qualcosa di ben fatto non era qualcosa di stabilito a priori in via teorica, ma ciò era stato purtroppo dimostrato dalla pratica (cioè dall'alluvione del 2013) e non ci sono dubbi sul fatto che il ripristino sia avvenuto in spregio a qualsiasi logica dal punto di vista della dinamica fluviale. 
Sempre indagando sono venuto a sapere che l'alluvione della Sardegna del 2013 è stata anche chiaramente indicata nella legge 147 del 27 dicembre 2013, ossia la Legge di stabilità' 2014, dove il comma n.118 dell'articolo 1 (e unico: la legge è composta da un solo articolo, peraltro suddiviso in 749 commi) recita:
Al fine di favorire i  processi  di  ricostruzione  e ripresa economica delle zone della regione Sardegna interessate dagli  eventi alluvionali del mese di novembre 2013, il Presidente della regione, in qualità di  Commissario  delegato per  l'emergenza, predispone, entro trenta giorni dalla data di entrata in  vigore  della  presente legge, con il Commissario straordinario per il dissesto idrogeologico nominato ai sensi dell'articolo 17, comma 1, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n.195, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 26, un piano di interventi urgenti per la messa in sicurezza e il ripristino del territorio interessato dagli eventi alluvionali. Al fine di favorire un'oculata pianificazione territoriale e urbanistica, compatibile con una riduzione complessiva del rischio idrogeologico, il piano di cui al primo periodo deve prevedere misure che favoriscano la delocalizzazione in aree sicure degli edifici costruiti nelle zone colpite dall'alluvione classificate nelle classi di rischio R4 e R3 secondo i piani di assetto idrogeologico, o comunque evidentemente soggette a rischio idrogeologico. I progetti per la ricostruzione di edifici adibiti a civile abitazione o ad attività produttiva  possono usufruire di fondi per la ricostruzione soltanto qualora risultino ubicati in aree classificate nei piani di assetto idrogeologico nelle classi R1 o R2, previa realizzazione di adeguati interventi di  messa  in sicurezza. Gli  interventi sul reticolo idrografico non devono alterare l'equilibrio sedimentario dei corsi d'acqua e gli interventi di naturalizzazione e di sfruttamento di aree di laminazione naturale delle acque devono essere prioritari rispetto agli interventi di artificializzazione. A tal fine possono essere utilizzate le risorse non programmate alla data di entrata in vigore della presente legge giacenti sulla contabilità speciale intestata al Commissario straordinario per il dissesto idrogeologico, di cui al precedente periodo, e quelle di cui al comma 122, ad esclusione dei fondi provenienti dal bilancio della regione Sardegna. 
Qualcuno sobbalzerà sulla sedia... una “Legge finanziaria” che parla di riduzione del rischio idrogeologico attraverso la delocalizzazione e di equilibrio sedimentario dei corsi d'acqua!!!
Il trucco è che la versione definitiva del comma 118 nella parte più specificamente geologica è il risultato di un emendamento scritto da un geologo, l'on. Samuele Segoni, attualmente membro della Camera dei Deputati...

Secondo me il ponte sul Rio Saligheddu potrebbe appartenere a ben due categorie di cui parla il comma 118:
  • insiste sopra un fiume e quindi è compreso fra gli edifici in arra evidentemente soggetta a rischio idrogeologico  
  • si può configurare come un tipico intervento sul reticolo idrografico che altera l'equilibrio sedimentario dei corsi d'acqua: basta vedere come è fatto e quanto le sue colonne ostacolano il deflusso a valle. Ed in effetti non mi pare sbagliaro dire che abbia influenzato pesantemente lo svolgersi degli eventi, provocando nel 2013 e in questi giorni la sedimentazione al di fuori del corso del Rio Siligheddu di quella montagna di fango che ha invaso le case 

Inoltre è sicuramente un qualcosa che si può configurare come artificializzazione del corso d'acqua (un ponte non è certo un qualcosa di naturale nei confronti della corrente di un fiume).

Quindi il mio pensiero è che quel ponte doveva essere abbattuto e ricostruito in maniera diversa (campata unica). Lasciarlo così è stato un atto irresponsabile...
E difatti in molte aree colpite da alluvioni molti ponti sono stati ricostruiti, anche quelli non crollati.
O forse si pensava che una piena del genere non venisse più?

BUROCRAZIA E RICOSTRUZIONE DOPO LE CATASTROFI “NATURALI” 

Due anni fa mi chiesi se queste catastrofi si possano davvero definire naturali. Per me di “naturale” hanno poco, se non l'innesco. Come sempre succede la Procura della Repubblica competente per territorio, in questo caso quella di Tempio Pausania, ha aperto un fascicolo. 
Ma qui vengono delle riflessioni ulteriori:
Il buonsenso ci direbbe che ci sono due categorie di responsabili:
  • a livello tecnico coloro che hanno deciso che il ponte andava ripristinato e non abbattuto e ricostruito in modo corretto
  • a livello politico chi ha avvallato tutto ciò

Purtroppo quello di trovare le responsabilità è un rito che non serve più a nessuno: si apre il fascicolo ma non si sa quando la vicenda finirà, tra indagini, rinvii e vari gradi di giudizio. Il rito avrebbe un significato quando è regale, breve, e capito da tutti. 
Vediamo perché.

Capire chi ha commesso l'atto irresponsabile (in questo caso la mancata sostituzione di questo ponte con uno nuovo più consono alle esigenze) sembra facile ma non lo è.
Il problema delle responsabilità rimane tutto nel campo della procedura amministrativa, che è spesso frammentata e senza controllo, per le varie competenze diverse che si sovrappongono e lo sterminato oceano delle 1000 norme, ciascuna delle quali si presta a diverse interpretazioni o equivoci (basta vedere in questo caso la confusione fra "ricostruzione" e "ripristino" del ponte) 

Questo dipende anche da due circostanze preoccupanti: 
  • la valutazione scientifica dei contenuti dei progetti non sempre è al centro di questo iter farraginoso
  • manca una sorta di Comitato di controllo per gli atti amministrativi prodotti  nelle aree definite a rischio 

E così si compiono ad essere buoni degli errori (magari frutto del compromesso fra competenze diverse), se non addirittura degli abusi belli e buoni e il rischio della corruzione per connivenze fra apparato burocratico e quello tecnico è reale. 

Questo fardello offusca e sovraccarica la Magistratura e disarticola anche l'azione politica, mentre fa esattamente l'interesse dell'apparato burocratico coinvolto, che ovviamente se ne “catafotte”. 
Insomma, in genere i risultati di queste indagini non si sapranno mai, o meglio, si saprà qualcosa fra qualche anno. Dopodichè fra lentezza dei processi, vari gradi di giudizio e tempi di prescrizione dei reati buonanotte allo Stato di diritto...
Con in più il rischio (elevato) che a pagare alla fine non siano i veri colpevoli (i quali sovente in situazioni del genere ci sguazzano) ma alcune persone in buona fede che, come si suol dire, saranno "becchi e bastonati"

NB: ogni riferimento in questo post a persone coinvolte in questa particolare situazione nel passato, nel presente e nel futuro è da ritenersi puramente casuale. In particolare quanto ho scritto nella seconda parte sono considerazioni generali che valgono a livello nazionale. Di sicuro nella vicenda olbiese ci sono stati degli errori ma NON affermo assolutamente che vi si annidino per forza malgoverno e corruzione.