giovedì 30 settembre 2010

La Tetide: origine, vita e morte di una serie di piccoli bacini oceanici


La storia della Tetide è quella di una serie di bacini oceanici lungo i quali è avvenuta la prima fratturazione in Laurasia e Gondwana della Pangea, il grande supercontinente in cui tutte le masse continentali erano unite alla fine del Permiano, alla fine della l'orogenesi ercinica.

La Pangea aveva una forma lontanamente simile a quella del pac-man: ad est di quella che diventerà la Tetide si estendeva un grande golfo, la Paleotetide, che bagnava le rive dell'Asia da una parte e delle future Arabia, India e Australia dall'altra. La divisione del supercontinente cominciò proprio a partire dall'estremità di questo golfo e, dall'altro lato, dal Panthalassa (che ristretto equivale al nostro Oceano Pacifico, lungo l'America centrale (per capire la paleogeografia dell'epoca bisogna chiudere l'Oceano Atlantico!). La rottura ha provocato la formazione di una serie di piccoli bacini oceanici che nel loro complesso sono chiamati “Tetide”, dal nome della madre dell'eroe omerico Achille.
Curiosamente le interazioni fra Laurasia da una parte e Gondwana dall'altra, provocheranno non solo la fine precoce dei movimenti divergenti, ma addirittura decretarono la quasi totale chiusura di questi bacini entro il Paleocene, ad eccezione di Jonio, Mar dei Caraibi e Golfo del Messico. Quindi la Tetide si è aperta e in buona parte richiusa prima che da successive rotture si sono individuati i continenti attuali.

La storia della Tetide è documentata in tutta una serie di rocce che vanno dalla Turchia ai Caraibi, le serie ofiolitiche, che contengono i resti di quei piccoli bacini oceanici
Studiare le ofioliti vuol dire studiare tempi e caratteristiche della rottura della Pangea. Nel corso di questa storia bisogna tenere conto che ci sono 3 tipi di bacini oceanici: oceani a “lunga vita” come l'Atlantico, oceani a breve vita come quello ligure – piemontese i cui resti si vedono su Alpi e Appennini e oceani fossili, come lo Jonio, non più in espansione ma in chiusura.
Se non si contano le età assolute, ma solo quelle relative, la durata di alcuni oceani sembra veramente breve, tra quando si apre e quando viene chiuso: per esempio l'Oceano Ligure si apre nel Giurassico medio e comincia a chiudersi nel Cretaceo superiore: queste date sembrano vicine, ma in termini assoluti tra l'apertura (170 MA) e la chiusura (80 MA) passano 90 milioni di anni, un tempo ben più lungo di quello che separa noi dall'estinzione dei dinosauri.
Nelle ricostruzioni della Pangea gli Autori sono sostanzialmente tutti d'accordo. Ci sono invece delle differenze notevoli sulla interpretazione di quello che è successo poi, nel mesozoico.
Un lavoro di Valerio Bortolotti e Gianfranco Principi è uscito di recente sulla rivista “The Island Arc” e ha riassunto lo stato dell'arte delle ricerche in materia, avanzando un quadro che ormai pare definitivamente accertato nelle sue grandi linee.

Geograficamente possiamo distinguere la Tetide orientale (compresa tra Balcani, Grecia e Turchia), quella occidentale (Alpi, Appennini, Corsica, costa mediterranea tra Marocco e Tunisia e cordigliera Betica) e quella Caraibica (tra le Antille, l'America centrale e il bordo settentrionale di quella meridionale). L'apertura dell'Atlantico separerà la Tetide Occidentale da quella caraibica, ma nel triassico – giurassico queste due zone erano molto vicine fra loro se non comunicanti.

Per datare gli eventi ci si riferisce a datazioni assolute ricavate dall'analisi di gabbri e basalti e a datazioni relative usando i microfossili contenuti nei diaspri, sedimenti silicei che si sono deposti immediatamente dopo le effusioni basaltiche oceaniche (se non, come in qualche caso, durante).
É spesso molto difficile usare le rocce magmatiche delle serie ofiolitiche per determinazioni radiometriche dell'età, per il loro stato di conservazione: sono comunemente alterate e inoltre possono aver subito diversi episodi di metamorfismo, sia di tipo oceanico quando, appena formatesi, facevano parte della dorsale oceanica, sia di tipo orogenico, durante la loro messa in posto sopra la crosta continentale europea o africana.

Le prime tracce di apertura della Tetide li abbiamo nel Triassico medio: assottigliamenti crustali che portano alla formazione di strutture di rift simili all'attuale Rift Valley dell'Africa Orientale, attorno alle quali si formeranno i bacini oceanici. Contemporaneamente, nelle fasce immediatamente adiacenti, si evidenziano i margini continentali su cui si svilupperanno le spesse serie sedimentarie che oggi caratterizzano le catene montuose dell'area mediterranea.
In questa carta si vede la posizione di Africa, Europa e Nordamerica. In particolare si vede come la odierna Florida è vicina a quello che doventerà il Marocco.
La Tetide orientale, immediatamente adiacente al golfo della paleotetide, è stata la prima ad aprirsi e ha due tipi di ofioliti, ben distinte nel tempo e nella composizione: una triassica medio-inferiore e una giurassica media. Questa dicotomia aveva fatto pensare a due momenti di apertura se non a due oceani diversi pur se adiacenti. Invece gli ultimi studi hanno definitivamente stabilito che solo le ofioliti triassiche costituiscono delle classiche sequenze di fondo oceanico in una dorsale a bassa velocità di espansione. Quelle giurassiche invece sono caratterizzate da un chimismo molto diverso che, accompagnato a particolari strutture metamorfiche, testimoniano che era in corso all'epoca una collisione fra due zolle a crosta oceanica, come succede adesso nella zona del Pacifico posta tra Giappone e Filippine, dove la zolla pacifica scende sotto quella delle Filippine.
Quindi si può dire che l'apertura della Tetide orientale risale al triassico inferiore (circa 230 MA fa, mentre la chiusura risale a circa 170 MA fa).

La Tetide occidentale presenta due situazioni un po' diverse fra loro. nelle zone che ora formano le catene alpina e appenninica, le lave basaltiche hanno una composizione tipica da basalti di dorsale oceanica. Qui la formazione dell'oceano è avvenuta significativamente dopo rispetto alla Tetide orientale: età radiometriche e sedimenti diasprini sono sostanzialmente d'accordo nell'attribuirla al Bajociano nelle zone più a nord (Alpi) e all'Oxfordiano nella zona più a sud. Siamo quindi attorno ai 170 milioni di anni fa, proprio nel periodo in cui sta chiudendo la Tetide orientale. La formazione di queste ofioliti e quindi della crosta oceanica è proseguita solo per una ventina di milioni di anni, dopodichè la situazione si è congelata e il bacino è diventato un oceano fossile fino a quando, oltre 100 milioni di anni dopo si osservano i primi sintomi della chiusura.
Più verso occidente, tra Algeria, Marocco e Spagna la composizione dei basalti è più simile a quelli che si formano in zone di estensione su crosta continentale. E' molto probabile che in questa zona il limite fra la zolla africana e quella euroasiatica avesse una piccola componente estensiva ma soprattutto una componente trascorrente molto marcata. A riprova di ciò le rocce dell'epoca fanno pensare più alla presenza di una serie di piccoli bacinetti paralleli l'uno con l'altro. che di una unica zona oceanica.

Il collegamento fra Tetide Orientale e Tetide Occidentale è un po' incerto, anche se probabilmente collocabile nella zona dei Carpazi. La transizione fra la Tetide occidentale e quella caraibica è invece avvenuta attraverso l'Atlantico centrale, probabilmente attraverso l'attuale zona di frattura Azzorre – Gibilterra. Vediamo qui la situazione a metà del Giurassico.

Nella Tetide caraibica le cose invece appaiono più confuse, soprattutto nella individuazione dei margini. Le età dei magmi, più disperse, vanno dal Triassico al Tardo Cretaceo e questo vuole dire che i processi di espansione sono durati molto a lungo. Rift di età triassica si trovano sia nel Venezuela che nel nord del golfo del Messico (la cui parte più profonda si ipotizza essere parte della Tetide caraibica). Vaste serie ofiolitiche sono diffuse nelle Grandi Antille, in Venezuela e Centro America, e mostrano diaspri di età bathoniana (170 MA fa).
In quest'area sembra che la frattura si sia propagata dal Pacifico verso Est.
Anche la Tetide Caraibica è stata in parte richiusa molto presto: ci sono ottime evidenze di un arco magmatico già nel Cretaceo medio nella zona delle Antille. Il fondo del Mar dei Caraibi è invece pavimentato da basalti del Cretaceo che non sono ancora stati coinvolti in movimenti orogenici.

Riassumendo quindi si può dire che:
- la tormentata storia della Tetide comincia con i rift continentali del Triassico medio che porteranno alla rottura della Pangea tra la parte più interna del golfo della Paleotetide e l'Oceano Pacifico
- la Tetide orientale alla fine del triassico appare già formata e comincia a chiudersi quando si apre, più a ovest, la Tetide Occiodentale, nel Giurassico medio
- la Tetide orientale si apre tra il Giurassico ed il Cretaceo.
- Tra il Cretaceo e il Paleocene cominciano le chiusure anche di questi due piccoli oceani di cui gli ultimi residui ancora non chiusi sono il Mar Jonio, il Mar dei Caraibi e una parte del golfo del Messico

martedì 28 settembre 2010

Il ciclo del metano su Marte: reazioni con il suolo, vulcanismo o "vita"?


L'atmosfera marziana, oltrechè molto tenue, è anche irrespirabile per i nostri standard: 95% di anidride carbonica, 3% di azoto, e 1,6% di Argo. Il restante 0,4% è suddiviso fra ossigeno, vapore d'acqua e pochi altri gas, fra i quali in tracce veramente scarsissime c'è il metano, roba da parti per miliardo. Ma sono proprio queste scarsissime quantità ad aver innescato una serie di studi che stanno portando a diverse ipotesi, che prevedono tutte una situazione di attività (biologica o chimica) precedentemente inaspettata.
Furono degli italiani, il team di Vittorio Formisano a scoprire la presenza di metano nell'atmosfera marziana nel dicembre 2003. Nessuno si aspettava una cosa del genere. Sulla Terra le emissioni naturali di metano esistono e per la maggior parte sono dovute ad esseri viventi. Messi in allarme da questa scoperta, altre sonde e anche delle osservazioni da Terra hanno confermato il tutto.

Il ciclo di questo gas su Marte presenta alcuni aspetti particolari.
Innanzitutto è stato dimostrato che non è stabile e si dissolve presto (inizialmente era stato previsto un periodo di persistenza di circa 300 anni). Questo comporta una conseguenza semplice e logica: sul pianeta Rosso sono sicuramente presenti dei fenomeni che lo producono (o, quantomeno, lo emettono da sotto la superficie).La dimostrazione che ancora una qualche attività c'è.
A dispetto delle previsioni, il metano emesso in discrete quantità negli anni precedenti, era praticamente scomparso ai primi del 2006. E questa velocità maggiore del previsto non trovava nessuna soluzione con i modelli atmosferici esistenti.
L'irregolarità oltre che temporale è anche spaziale: studi successivi hanno dimostrato che ci sono 3 zone principali di persistenza, tutte e tre poste tra l'equatore e le medie latitudini dell'emisfero settentrionale: Arabia Terrae, Tharsis ed Elysium.
La distribuzione temporale accertata presuppone ovviamente che il metano si produca più o meno di continuo e che in qualche modo si dissolva.

Da un punto di vista teorico sulla sua origine ci sono diverse possibilità teoriche: attività di forme di vita, reazioni sul suolo ed emissioni vulcaniche.
Una prima spiegazione è stata la presenza di reazioni che coinvolgessero il suolo marziano, per esempio attraverso il perossido di idrogeno (noto ai più come acqua ossigenata), sostanza ritrovata dalla sonda Viking nel 1976.
È anche possibile che sia coinvolta l'acqua: potrebbe non essere un caso se queste aree sono proprio quelle dove al di sotto esistono dei giacimenti di acqua.
Restava presente anche la possibilità che sia il risultato di attività vulcanica, visto che i massimi si hanno in una zona che per gli standard locali pullula di vulcani, fra i quali l'Olympus Mons, il più grande vulcano conosciuto del sistema solare, illustrato nella foto.

In ogni caso questo è un altro segnale che ci dice come Marte non sia ancora completamente privo di attività. Non può stupire – quindi – che la prossima sonda che arriverà sul pianeta sarà dotata della strumentazione per indagare sul metano.
Intanto sulla questione altri due italiani, Sergio Fonti e Giuseppe Marzo hanno presentato al congresso europeo di scienze planetarie una memoria in cui dimostrano che il metano nell'atmosfera del Pianeta Rosso dura meno di un anno marziano

Una prima considerazione è la estrema localizzazione delle fonti del gas, confermando quello che si pensava e cioè che proviene soprattutto dalle zone già indicate e specialmente da Tharsis, una regione piena di grandi vulcani. Quanto alla concentrazione, risente di elevata stagionalità: i valori sono minimi nell'inverno dell'emisfero settentrionale, a partire dalla primavera aumentano per tutta l'estate fino all'autunno, in cui arrivano ai massimi (sempre dell'ordine delle parti per miliardo...). A quel punto la concentrazione crolla fino alla primavera successiva, ad eccezione di una piccola fascia a latitudini medio – alte.
Notare come durante l'inverno dell'emisfero settentrionale, la concentrazione di metano diventa più alta in quello meridionale dove è estate.
la carta presenta le concentrazioni autunnali ed è grossolanamente orientata W-E con il centro a circa 20° di latitudine nord. In giallo le concentrazioni maggiori, in blu quelle minori
La stagionalità esclude quindi fra le cause l'attività vulcanica: non se ne comprenderebbe il rapporto con le stagioni. Restano in piedi sia la possibilità di reazioni che riguardano il suolo, sia quella che alla base ci siano delle forme di “vita” e non sfugge anche il fatto che la produzione avviene nel momento più caldo e quindi più favorevole.
In particolare nel caso di metano biologico vorrebbe dire che queste eventuali forme di vita siano molto più attive durante l'estate. L'ipotesi di metano biogenico è senza dubbio la più affascinante, e attualmente da un punto di vista teorico è assolutamente plausibile. Ma non è la sola: fenomeni di idratazione del terreno dovuti all'acqua sottostante o reazioni geotermiche e/o idrotermali sono spiegazioni altrettanto se non più, plausibili.
Per quanto riguarda la scomparsa del metano, l'attività fotochimica sembra troppo poco elevata per consentire una dissoluzione del metano in questo modo. Per cui una soluzione può essere data dai venti che abrasando la superficie, trascinano in aria particelle di perclorati che reagiscono con il metano dissolvendolo.

Questi sono i primi risultati: se sul dissolvimento del gas ci sono idee molto chiare, le ricerche sulla sua origine sono invece ancora molto più indietro. Ma essendo diventato un target importante per le ricerche su Marte, sicuramente nei prossimi anni ne vedremo delle belle.

EDIT: 5 Giungo 2012: finalmente è arrivata la soluzione del problema: il metano si orifgina con il bombardamento dei raggi ultravioletti sulla superficie di meteoriti caduti sul pianeta: questo è il post in proposito.

martedì 21 settembre 2010

Come limitare le emissioni di gas - serra emessi dai bovini di allevamento

Il settore primario contribuisce non poco alle emissioni di gas serra. È universalmente noto che usare il territorio per campi coltivati sottrae spazi a boschi e foreste, sicuramente dotati di migliori prestazioni in termini  di assorbimento di CO2. Pertanto secondo gli schemi attuali le attività agricole sono responsabili di una parte dell'aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera.

Quella che sembra una battuta – ma invece non lo è – è che anche la zootecnia contribuisca direttamente al fenomeno. Giuro che la prima volta che lessi un ragionamento del genere rimasi sbalordito, ma poi – dati alla mano – mi sono dovuto ricredere: i bovini soprattutto, ma anche caprini ed ovini, con le loro flatulenze contribuiscono fattivamente al rilascio in atmosfera di gas serra come il metano, anzi sono attualmente una delle principali fonti di origine antropogenica di questo gas.

Detto in volgare, le scoregge delle mucche sono ormai considerate una emergenza planetaria....

Secondo Alexander Hristov, professore alla Università della Pennsylvania, ben il 37% del metano rilasciato in atmosfera ha questa origine. Il dato è sostanzialmente confermato dall'International Livestock Research Institute (ILRI), organismo attivo in Africa e parte dell'Asia, E se lo dice una associazione – diciamo così – di settore si può crederci.

In generale la produzione di metano è una conseguenza naturale dei processi digestivi: si forma nel rumine, il più grande dei vari stomaci di questi animali, dove batteri specializzati fermentano i vegetali ingeriti per produrre sostanze nutrienti. Queste reazioni presentano fra i vari sottoprodotti sia il metano che la CO2, gas che non trovando altro uso nell'apparato digerente vengono rilasciati in atmosfera liberi o associati alle feci.

Il problema ogni tanto viene a galla, tantopiù adesso che di effetto – serra si parla (e si sparla) parecchio e la crescente richiesta di carne nel mercato mondiale comporta un aumento del numero di questi animali. Se non si troverà una soluzione il rischio è quello di ingigantire sempre di più la questione perchè più bovini ci sono, più emissioni dirette abbiamo. Non solo, ma devono per forza aumentare le aree strappate ai boschi per nutrirli: attualmente la dieta dei bovini è composta da erbe o mangimi coltivati solitamente in appezzamenti specifici. Sono molto pochi, almeno nei Paesi più avanzati, quelli che si nutrono direttamente con l'erba dei campi.
Un'altra fonte di cibo è la farina di pesce, il cui uso alimentare per l'allevamento animale non mi risulta mai cessato negli USA mentre in Europa fu introdotto el 2001 il divieto di utilizzare questi cibi nei ruminanti, come misura contro la BSE. Dal 2008 è di nuovo possibile impiegarli ma con forti limitazioni nell'origine e solo per bovini non svezzati. Continua ad essere utilizzata, con le stesse limitazioni sull'origine, al di fuori dei ruminanti (suini e avicoltura, per esempio). Chiaramente, anche la produzione farina di pesce arreca danni all'ambiente, stavolta alla fauna ittica.
L'aumento del numero di bovini, oltre all'aumento diretto delle emissioni di gas – serra comporta un aumento delle aree in cui si coltivano i mangimi.

L'alimentazione animale è quindi una componente essenziale dell'agricoltura intensiva e anche questo settore contribuisce al mancato assorbimento di CO2 perchè strappa territorio ai boschi e contribuisce pure alle emissioni di NO2, dovute alle reazioni dei batteri con i fertilizzanti: oltre ai vari danni noti che il biossido di azoto provoca, a partire dalle piogge acide, va considerato che pure esso è un gas – serra e per di più con un potere 300 volte superiore a quello della CO2.
La IRLI raccomanda quindi alcune mosse per diminuire il problema, secondo lo slogan “combattere i cambiamenti climatici con una dieta che comporti meno emissioni di gas”.
Quindi si stanno moltiplicando le ricerche al proposito. Australiani e neozelandesi sono in prima fila ma anche altre nazioni si stanno muovendo.

Per esempio sia la IRLI che il CIAT (centro internazionale per l'agricoltura tropicale), hanno proposto di nutrire i bovini con erbe molto più nutriente del normale, appartenenti al genere Brachiaria. In particolare la Brachiaria humidicola sembra particolarmente adatta allo scopo: è molto nutriente ed è gradita agli animali. 
Originaria dell'Africa, nella fascia tra Sudan meridionale e Etiopia a nord fino a Sudafrica e Namibia a sud, troviamo adesso Brachiaria humidicola in tutta la fascia umida equatoriale: Sudamerica, isole del Pacifico, sud- est asiatico e in Australia settentrionale.
Con i dati attuali sembra che il passaggio da una alimentazione a base di mangimi derivati da soia o mais a quella basata sulla Brachiaria humidicola comporti persino un aumento notevole del peso degli animali e di produzione del latte a parità di quantità di cibo ingerito.
La IRLI afferma che se solo il 30 % degli allevatori sudamericani usasse questa erba al posto di quella naturale o di mangimi verrebbero immesse in atmosfera 30 milioni di tonnellate di CO2 in meno ogni anno, che potrebbero essere usate nel “mercato” mondiale delle emissioni facendo incassare oltre un miliardo di dollari all'anno alle nazioni che la utilizzano.

Inoltre nelle radici di Brachiaria humidicola è presente un composto, il brachiaralactone, che inibisce la formazione di biossido di azoto. Sarebbe un vantaggio in più. Non sono citate ricerche sull'eventuale impatto ambientale della maggiore diffusione di questa erba al di fuori della zona di origine.
Alexander Hristov, della Università della Pennsylvania sta invece studiando un sistema diverso, più adatto ai climi dove non cresce la Brachiaria: l'integrazione nella dieta degli animali di un mangime a base di origano, perchè questa pianta produce delle sostanze che limitano le emissioni di metano nei processi digestivi dei ruminanti.

Anche in questo caso si osserva un aumento della produttività del bovino. Per cui l'obbiettivo di Hristov è di capire quali, fra le varie sostanze presenti nella pianta dell'origano, siano quelle coinvolte nel processo in modo da poter produrre integratori da introdurre direttamente nella dieta.
La spiegazione che viene data in entrambi i casi per l'aumento della produttività è che le perdita di metano nel rumine siano, in buona sostanza, perdite di energia dell'animale: diminuendole si aumenta l'energia a disposizione del bovino. non ho trovato accenni a differenze di costo usando queste alternative, ma la maggiore produttività potrà essere un'arma vincente.

Aggiungo in fondo che - onestamente – non ho trovato accenni a variazioni nella qualità di carne e latte e questo in qualche modo mi inquieta...



martedì 7 settembre 2010

Continua la "cattiva scienza" a proposito dei terremoti.

In Italia è proprio cattiva scienza.

Ritorno, molto controvoglia, sull'argomento degli allarmi sismici, quando ci sarebbe da dire cose molto più interessanti. Nel post precedente, pubblicato solo giovedì scorso, al riguardo avevo scritto:
Non dico di silenziare o censurare le notizie, ma davanti al sensazionalismo della stampa occorre fare qualcosa...
Oggi sono persino riuscito a leggere che “io sono libera di leggere delle informazioni e trarne delle mie conclusioni. Non è giusto occultare”. Siamo dunque alla "previsione sismica fai da te"? E poi occultare cosa? una scossa con magnitudo inferiore a 2 ????

Questa frase era riferita all'uscita odierna del Professor Boschi, che, giustamente irritato per questo marasma, ha proposto la censura sui terremoti.

Come si legge su Repubblica.it (e su altri giornali) il direttore dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia pensa a oscurare il sito e tutti i dati relativi agli eventi sismici in Italia. Queste le sue testuali parole, secondo l'articolo: "Noi stiamo valutando di smettere di informare, e di non rendere raggiungibili i nostri dati via web, perché vengono usati per arrivare a conclusioni che non stanno né in cielo né in terra".

Sono parzialmente d'accordo: io limiterei le notizie a scosse con M uguale o superiore a 3. 

I problemi, come mi hanno saggiamente fratto notare due miei amici - corrispondenti dotati di un certo senno sono che:

- in Italia non siamo avvezzi a farci una cultura di ciò che non sappiamo e parliamo come sapientoni pur non sapendo niente
- fare in Italia informazione seria, corretta e completa è molto, molto difficile
- a questo si somma una generale sfiducia verso le istituzioni di ogni ordine e grado
- nello specifico molti continuano a non capire che per certe zonei l pericolo di una forte scossa è continuo

Si capisce che una situazione del genere rende popolari quelli che la sparano più grossa e che parlano a vanvera. Questo è il problema

Tutto questo mi ricorda la cura Di Bella e il can-can che vi fu fatto intorno e come qualcuno sfruttò biecamente e bassamente il dolore delle persone. Oggi mi dicono che il figlio del dottor Di Bella starebbe conducendo brillanti studi in America al proposito. Bene, sono passati più di 10 anni e purtroppo su quel fronte non ho notizie di risultati incoraggianti.
Come non ne ho sul campo della “previsione sismica”, se non con le probabilità stoatistiche.

In Italia, comunque, di gente seria ce n'è ancora. Purtroppo per struttura mentale queste persone obiettano sempre e civilmente su personaggi più o meno improbabili come le loro ricerche e le loro verità, che imperversano nelle televisioni e nei giornali in TV. Magari ne discute in privato ma non alza mai la voce.
O, peggio ancora, se ne lava le mani

Lo si vede pure con questioni come oroscopi, cerchi nel grano, 2012 etc etc. Tutti zitti e intanto delle bugie totali solo per il fatto di essere dette, ridette e stradette, diventano delle verità perchè “l'hanno scritto su internet” (detto che ha affiancato e in parte sostituito il vecchio adagio “l'hanno detto in TV”).

E così di regola accade l'esatto contrario: chi tenta di fare della informazione corretta e obiettiva viene immediatamente zittito dalla massa di ignoranti manovrata da chi dice quello che la gente vuole ascoltare.
In testa a ciò ci sono quasi tutti i giornalisti generici, che cavalcano la tigre pretendendo di avere sempre ragione. E magari sono pure in buona fede. Ignoranti quindi ma quasi onesti (quasi perchè sapendo di non capirci niente non chiedono lumi all'esperto “ufficiale”, che spesso viene pure deriso).
Chi invece racconta le cose come stanno spesso è malvisto ed emarginato perchè fa poco "notizia" e mentre gli “avventurieri” spopolano in televisioni e sale incontro in cui, magari profumatamente pagati, danno sfoggio della peggiore ignoranza e demagogia nelle loro cassandrate, questi pochi veri professionisti devono anche sopportare l'umiliazione di essere lasciati soli nel loro brodo.

Per capire la differenza fra un giornale nostro e uno inglese o americano, basta leggere come sono riportate le notizie scientifiche su quei giornali, e non negli “inserti scientifici”, ma in posizione ordinaria. Ammetto che io prima non leggevo tali notizie su quei giornali, forte della esperienza italiana. Adesso li leggo eccome: me ne sono perse di notizie nel passato...

Da ultimo un filo di speranza anche dall'Italia: vi linko un articolo apparso oggi sul quotidiano on-line dell'Aquila, “Il capoluogo”: a parte il titolo, catastrofico (in tutti i sensi, dal pragmatico al metafisico), un articolo forse troppo lungo ma sicuramente documentato e scientificamente rigoroso.
Talmente fatto bene da fare notizia il fatto che sia uscito un articolo del genere. Decisamente “buona scienza”!

lunedì 6 settembre 2010

L'estrazione di gas dagli scisti bituminosi: Marcellus Shale - Pennsylvania


In un mondo che ha fame di idrocarburi, per tutta una serie di implicazini, a partire dal loro costo basso rispetto alle fonti alternative fino alla pressione delle compagnie petrolifere che smuovono immensi capitali, una nuova risorsa di gas naturale è rapprentato dagli scisti bituminosi. Le prospettive sullo sfruttamento di questi giacimenti sono molto interessanti, a giudicare dagli analisti.

L'origine degli idrocarburi di queste rocce è la stessa delle altre riserve di combustibili fossili: distruzione di materiale organico rimasto intrappolato in un sedimento argilloso e che si è ritrovato in un ambiente caratterizzato da mancanza di ossigeno da parte di microorganismi capaci di vivere in quelle condizioni. In questo caso si tratta per lo più di resti di alghe. I sedimenti argillosi sono, al netto di fratturazioni, quelli più impermeabili: infatti le dimensioni dei pori, estremamente alte in sabbie e ciottolami, sono minime, per cui la circolazione dei fluidi e spesso anche quella dei gas è praticamente impossibile.

La più importante formazione che li contiene per adesso la troviamo negli USA occidentali: è il “Marcellus Shale" (in grigio nella carta qui accanto), che prende la denominazione dal paese della Pennsylvania intorno al quale per un piccolo tratto questi sedimenti affiorano in superficie: in realtà questi scisti di età medio – devoniana (circa 400 milioni di anni fa) si estendono sottoterra per una fascia lunga centinaia di kilometri che comprende anche parti di Ohio, West Virginia, New York, Maryland, Kentucky, Tennessee e Virginia. Quindi occupano un fianco della catena appalachiana e sono un deposito di fossa connesso alla formazione di questa catena. Lo spessore è ingente, arrivando fino ai 3.000 metri. Rappresentano quindi il candidato ideale per una ampia coltivazione di metano.

Gli scisti bituminosi erano noti ai geologi dagli albori delle scienze della Terra, come era noto che contenessero metano. Però nessuno fino a pochi anni fa era riuscito a capire come sfruttarli. In effetti l'estrazione di metano da queste rocce non è cosa semplice, in quanto materiali estremamente duri e compatti. L'estrazione avviene in due fasi: prima si scava un pozzo verticale fino a trovare lo strato giusto e poi da lì bisogna scavare in orizzontale lungo lo strato. C'è poi un'altra complicazione: per rompere la roccia e non disperdere il gas occorre introdurre acqua a pressione e una consistente quantità di acidi. Nella figura qui accanto si vede il sistema che deve essere adottato

Negli USA gli scisti bituminosi sono presenti in quasi tutta la nazione (almeno nei cosiddetti “Stati Uniti continentali” ), come si vede da questa cartina.
La ricerca sugli scisti bituminosi si è poi spostata anche in Canada (nell'Alberta) e attualmente promette bene il Venezuela.
Per quanto riguarda l'Europa, Germania e Polonia sembrano candidate ideali, ma è tutta la zona orientale, fino agli Urali, che potrebbe dare delle gradite sorprese.

Il costo del loro sfruttamento ai fini dell'estrazione di gas è elevato, per cui in un'era di gas e petrolio abbondanti ed a basso costo nessuno pensava alla necessità a queste risorse. Oggi, invece, il costo degli idrocarburi, comincia ad essere tale da renderli giacimenti interessanti.

Gli scisti bituminosi stanno riscrivendo la storia delle riserve mondiali di metano: gli USA addirittura vogliono diventare esportatori di gas, da importatori che sono. Allo scopo sono in studio grosse trasformazioni del sistema di stoccaggio e movimentazione del gas della costa orientale del Paese.

Gli ambienti ecologisti sono ovviamente contrari a questo genere di attività, anche se sostituendo il carbone con il gas naturale, l'inquinamento a parità di energia prodotta appare inferiore. E non solo per la questione delle emissioni, che usando il metano degli scisti bituminosi al posto di energie rinnovabili continuerebbero ad accumularsi in atmosfera: la produzione di metano dagli scisti bituminosi necessita l'iniezione nei pozzi di liquidi ad altra pressione per rompere le rocce, accompagnata dall'uso di composti chimici che vengono aggiunti per facilitare la rottura delle argilliti. Quindi la produzione di gas dagli scisti bituminosi mette a rischio le riserve d'acqua, sia per il loro semplice utilizzo che per l'inquinamento dovuto a queste sostanze.
C'è poi il rischio che la roccia sovrastante sia interessata da crolli e che quindi si possano innescare fastidiosi fenomeni di subsidenza: tutti fenomeni che presentano una concreta possibilità di ripercussioni fino sulla superficie, con possibili ripercussioni sulla stabilità degli edifici e per il sistema della circolazione dell'acqua delle falde acquifere.

Ho scritto che usando metano al posto del carbone l'inquinamento a parità di energia prodotta appare inferiore. Questo perchè secondo Robert W. Howarth della Cornell University durante l'estrazione ci sarebbero significative immissioni dirette di metano in atmosfera, tali da raddoppiare la quantità delle emissioni per unità di energia. Una cosa in cui è sostanzialmente d'accordo anche il il Servizio Geologico della Pennsylvania (che chissà come mai in questo periodo sta ricevendo copiosi finanziamenti....): in una sua pubblicazione di due anni fa asserisce che, con le tecnologie attuali, fra gas costretto in tasche che non verranno sfruttate e gas estratto che sfugge prima dell'immagazzinamento, la percentuale recuperata sul totale di quello disponibile si attesterà al massimo su un 5% delle risorse totali. 

Adesso su questi argomenti registriamo una novità interessante: una compagnia impegnata nell'estrazione di gas in Pennsylvania, la Chief Oil & Gas, annuncia che in maniera del tutto volontaria invierà ai dipartimento di protezione ambientale della Pennsylvania e del West Virginia informazioni dettagliate sugli additivi usati nel processo di fratturazione idraulica dei pozzi.
È chiaro ed evidente, dunque, che la legislazione degli Stati Uniti e quella di questi Stati in particolare consente attualmente di utilizzare qualsiasi additivo senza farne comunicazione alle autorità.
In qualche cosa, almeno teoricamente, siamo superiori agli USA, almeno dal punto di vista legale.... In Italia non è certo permesso immettere materiali sottoterra senza dichiararlo. Almeno teoricamente...

giovedì 2 settembre 2010

Schizofrenia da panico sismico in questi giorni tra Abruzzo, Lazio e Umbria

Comincio con un paio di note di servizio:

1: In questo periodo è probabile che per tutta una serie di impegni sia poco presente su scienzeedintorni.


2: Ho aderito a un nuovo gruppo, (cattiva) scienza in TV. Ne fanno parte illustri scienziati, blogger ed appassionati, tutti più o meno “alterati” per come la scienza viene trattata in televisione (e, aggiungo) sui giornali. Per adesso, mentre scrivo, siamo in 179 (ieri sera ero il 155esimo). Invito gli interessati ad entrare nel gruppo. 


Sempre a proposito di informazione, amici, lettori, qualche scambio di opinione su facebook ed altri fatti mi hanno spinto a parlare di un grave problema e cioè la situazione sismica italiana. Problema che è grave per più motivi
- l'inadeguatezza della prevenzione, sperando che i morti dell'Aquila servano a qualche cosa.
-  il can-can mediatico e i suoi riflessi su internet su piccole scosse che si verificano di continuo e che serve solo a terrorizzare la popolazione

Sull'inadeguatezza della prevenzione sismica in Italia siamo a livelli disarmanti. Ovunque nel nostro Paese gli amministratori locali hanno sempre cercato di declassificare il proprio territorio. Con l'Aquila ci sono riusciti e i risultati purtroppo si sono visti. Però, intanto, sono stati citati a giudizio i sismologi rei di non aver previsto il terremoto...

Ricordo con un misto di rabbia e di tristezza che la Casa dello Studente aveva avuto problemi statici anche gravi per delle scosse che in una zona “normale” non avrebbero fatto neanche cascare i piatti appesi alle pareti delle cucine...
Come spesso ci accade, siamo lo zimbello del mondo civile (ammesso che possiamo ancora pensare di farne parte...)

Ma vengo subito al can-can mediatico, che è l'argomento principale del post.

Il mio primo incontro fisico con gli effetti di un terremoto è stato nella primavera del 1981 in Irpinia. Non posso nascondere di aver avuto le stesse sensazioni di cui parlano coloro che si recano nella zona colpita dal terremoto dell'anno scorso, quando per la prima volta vidi gli effetti del tereemoto, a Senerchia e cioè quella calma irreale che ti fa percepire dietro al silenzio i rumori delle ambulanze e delle ruspe, le grida dei soccorritori che scavano a mani nude e quelle di chi è intrappolato nelle macerie e il terrore dei superstiti. Ed erano passati già 5 mesi dalla tragedia
Sono sensazioni “forti”, anzi terribili. Soltanto chi c'è stato (e a maggior ragione ancora di più chi l'ha vissute) sa cosa voglio dire: non basta aver visto foto o filmati per capirlo.

Ora sto notando che da quando è avvenuto il terremoto aquilano, ogni scossa che avviene in Italia, persino quelle di magnitudo inferiore a 2.5, viene annunciata dai mass-media e da siti più o meno specializzati con la ormai abituale sfilza di commenti di persone terrorizzate come inevitabile corollario. 
E' vero che in questo periodo l'attività è abbastanza elevata in termini quantitativi, ma non vedo perchè si debba arrivare alla psicosi collettiva:  è normale che succeda così ogni tanto e non capisco proprio il perchè di cotale chiasso....

Adesso con internet di queste scosse si sa tutto, ma vi assicuro che 30 anni fa, ai tempi dell'università, a noi ci sarebbe piaciuto sapere quando, quanto grandi erano e dove avvenivano queste scosse. Era difficilissimo saperlo e qualcuno (non dell'università, ci tengo a sottolinearlo) ci rispose persino più o meno così: "ma tanto cosa volete sapere e a quanti potrebbe interessare una cosa simile?????".

Poi arrivò televideo con la pagina della geofisica, in cui, giustamente, l'allora ING (oggi INGV) vi segnalava scosse con una M di almeno 3.

Oggi siti e giornali enfatizzano persino scosse di M inferiore a 2 che nessuno riuscirà mai a percepire, salvo poi essere “molto preoccupato” dopo aver ascoltato la (insignificante) notizia. Un paio di giorni fa all'Aquila erano tutti spaventati per 4 scossette.... ma se i politici non declassavano la città come zonazione sismica e se chi ha costruito male lo avesse fatto correttamente, adesso di quella scossa si parlerebbe solo per il crollo di una chiesa e di qualche altro edificio storico.....

Quello che io non comprendo, ripeto, è il terrore di chi ha appreso da giornali e siti internet di una scossa che 19 volte su 20 manco hanno sentito. Come non ce la faccio più a sopportare le previsioni di Giuliani, che servono solo per dire cosa? che in Abruzzo c'è una attività sismica frequente di bassa intensità??? ma che scoperta!!!!!
Da premio ig-nobel....

Non dico di silenziare o censurare le notizie, ma davanti al sensazionalismo della stampa occorre fare qualcosa... chi parla così si rende semplicemente responsabile di continuare a terrorizzare la gente, anziché educarla a vivere in zone ad elevato rischio sismico. Punto e basta.

Questa estate ho conosciuto una ragazza che vive in un paese limitrofo all'Aquila. Mi ha raccontato delle scosse che hanno preceduto il terremoto, comprese quelle della notte del 6 aprile, scosse che loro continuano a vedere come precursori dell'evento maggiore. Hai da spiegare loro che non era possibile pensare una cosa così (o, meglio, che quelle scosse aumentassero la probabilità dello scatenarsi di un terremoto di grandi dimensioni, evento tra l'altro indicato come fra quelli più probabili nell'area fino dagli anni '80 del XX secolo....).
Ho sentito nel suo racconto e nel suo stato d'animo il terrore per il terremoto, terrore che è sempre vivo un anno e mezzo dopo (anzi, semmai sta andando via via ad aumentare). Questa persona ha anche perso dei parenti, sepolti dalla loro casa crollata.
Ripeto ancora una volta che è stato il primo terremoto di una certa intensità che si è verificato in mezzo ad una crisi sismica di bassa intensità: queste scosse sono state intese dalla popolazione come scosse premonitrici ma non c'è nessuna osservazione scientifica che possa giustificarlo. Magari i forti terremoti fossero sempre annunciati da un crescendo di scosse...

E mentre scrivo queste note si sta assistendo tra Facebook e giornali alla solita ridda di voci, paure e dichiarazioni che c'è in corso un allarme sismico. Una persona ha persino scritto che “siamo in allerta in Lazio, Umbria e Abruzzo ....sembra poco????”. Un'altra che è stato evacuato un paese quando invece amici abruzzesi mi assicurano che si stanno allestendo aree di emergenza per consentire a chi avesse timore di dormire in casa, di avere un punto di ritrovo.
Cose da pazzi....
Ma se non ci fossero tutte queste pressioni? Se venisse avviato un programma per capire quale scuotimento possa sopportare un singolo edificio?
Magari una scossa forte arriverà. È purtroppo possibile. Ma è nella logica delle cose, indipendentemente dalla (abbondante) sismicità di fondo.... 

Infine, mi domando una cosa: ma tutto questo can-can serve a qualcuno?