domenica 14 novembre 2021

Di come con un servizio di sorveglianza del territorio con i satelliti InSAR sarebbe stato possibile individuare alcune frane prima del loro procedere


Il 29 maggio 2018 si è verificato un collasso di frana a Gallivaggio, in provincia di Sondrio, lungo la statale dello Spluga. Dal 2011 quel versante era monitorato da terra per il rischio del distacco di una massa importante della rupe che incombeva sul sottostante Santuario. Il Centro di monitoraggio geologico di Arpa Lombardia aveva già segnalato dei movimenti anomali fra dicembre 2017 e febbraio 2018. Il 24 maggio 2018 il sistema di rilevamento ha individuato un aumento della velocità dei movimenti della massa rocciosa, con il superamento al mattino della soglia di moderata criticità e poi, nel pomeriggio, il superamento della soglia successiva di elevata criticità.
 Da allora in poi il monitoraggio si è fatto sempore più attento fino a quando il 28 maggio, il report del Centro ha evidenziato il progredire dell'accelerazione e il manifestarsi di una situazione di estrema pericolosità che si è esplicizzata il giorno dopo con il crollo della parte incriminata. Grazie allo stato di allerta non si è fatto male nessuno. In questo caso si trattava di una frana nota, posta al di sopra di un bene storico come il Santuario della Madonna di Gallivaggio e di una strada importante, per cui appunto da tempo era stato implementato un sistema di monitoraggio. Ma le aree dove si può scatenare una frana in Italia (e non solo) sono tantissime ed è impossibile monitorare da terra tutto il territorio. Vediamo come sia realmente possibile con una indagine speditiva sorvegliare con i satelliti rada un territorio molto vasto e prevedere l’innesco di una frana. I casi che presento sono “a posteriori”, cioè se ci fosse stato tale sistema, sarebbe stato facile capire che stava per avvenire una frana. Sarà importante implementare questi sistemi per avere sempre in mano la situazione reale e capire dove e quando sia opportuno prendere una serie di provvedimenti di Protezione Civile a salvaguardia di cose e persone. 

Ralph Peck e Karl Terzaghi nel 1956
 The Terzaghi & Peck Libraries NGI, Oslo
PREVEDERE UNA FRANA? Quando ci si accorge che sta per scatenarsi una frana in genere è ormai troppo tardi: il danno è fatto e va bene se ci sono soltanto danni alle cose oltreché alle persone. Ma nel 1950 il grande Terzaghi, uno di quelli che hanno fatto la storia della geologia applicata ai suoi albori, osservò argutamente che le frane possono verificarsi in quasi tutti i modi immaginabili, lentamente e all'improvviso, con o senza alcuna apparente provocazione. Ma se una frana arriva all’improvviso, sarebbe più esatto affermare che nessuno abbia potuto notare i fenomeni che hanno preceduto il suo innesco.
La domanda è se dal 1950 sia cambiato qualcosa che consenta di accorgersi di quei movimenti impercettibili alla base dello scatenarsi di una frana citati da Terzaghi. Chiaramente si, a patto che ci sia un sistema di monitoraggio adeguato, come abbiamo visto per Gallivaggio; purtroppo questi sistemi in genere vengono allestiti dopo che il danno è avvenuto. Il problema è che non si può mettere sensori a tappeti sul territorio, per i costi e per la quantità di risorse umane che occorrerebbero per la loro manutenzione. Allora come si può fare?
Distinguiamo innanzitutto fra vari tipi di frana, usando ovviamente la classicissima classificazione di Cruden e Varnes (altri giganti della materia) e vediamo come sia possibile in mancanza di un sistema di monitoraggio sul posto capire come “prevedere” (termine piuttosto impegnativo) l’innesco di una frana quando questa abbia – almeno all’inizio – una cinematica lenta.

LA SOLUZIONE: IL RADAR SATELLITARE. Il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze è fra i centri più importanti al mondo che lavorano su questo argomento, anche perché è stato uno dei primi ad occuparsene (non a caso nel 2023 il prossimo World Landslide Forum si terrà proprio a Firenze). La tecnica si basa sullo studio delle serie temporali dei PS, sigla che abbrevia la denominazione di persistent scatterers (riflettori persistenti). Si tratta di punti o superfici più estese che riflettono sempre allo stesso modo il segnale emesso dal satellite. Le elaborazioni forniscono ad ogni passaggio del satellite la distanza del PS da esso e viene costruito un grafico nel quale si evidenzia la storia dello spostamento del punto rispetto al satellite. InSAR (abbreviazione di INterferometric Synthetic-Aperture Radar) dovrebbe essere anche un vanto nazionale visto che le prime tecniche di sfruttamento dei dati e le aziende che hanno iniziato a produrre questi dati sono italiane. 
I satelliti InSAR si muovono in orbita polare e passano sopra un territorio sia in orbita ascendente (quando si dirigono verso il Polo Nord) che in orbita discendente, quando si dirigono verso il Polo Sud. Siccome le ottiche dei satelliti guardano verso destra un movimento gravitativo viene segnalato dal diverso comportamento dei PS nelle due orbite: ad esempio se il versante guarda a est i PS si allontaneranno dal satellite in orbita ascendente e si avvicineranno al satellite in orbita discendente. Invece se entrambe le orbite registreranno un allontanamento dei PS questo evidenzierà una subsidenza.

I GROUND MOTION SERVICES. Ormai di satelliti o di costellazioni satellitari equipaggiati con radar InSAR ce ne sono diversi e fra tutti sono largamente usate le immagini della costellazione Sentinel-1 dell’ESA, attiva dal 2014, che hanno una serie di vantaggi: innanzitutto la frequenza del passaggio (in Europa uno ogni 6 giorni), e poi un buon compromesso fra precisione, densità della misura e area coperta da una singola immagine. Inoltre aggiungiamo che le immagini Sentinel-1 sono gratuite e di facile ottenimento (ma ovviamente non è immediato il loro utilizzo, che per ottenere le serie temporali dei PS necessita di lunghe e costose elaborazioni!). Il risultato di questo complesso di operazioni è un "ground motion service", in sigla GMS, cioè un servizio in cui un territorio viene costantemente sorvegliato aggiornando dopo ogni passaggio del satellite le serie temporali dei Persistent Scatterers. Di fatto Sentinel è nato proprio in prospettiva di attivare dei ground motion service tante di vasti territori
Con i dati di Sentinel-1 già diverse regioni italiane hanno attivato dei Ground Motion Services e quindi coprono il proprio territorio con regolarità: la Toscana, grazie proprio alla sensibilità della Regione e ai geologi dell’Università di Firenze, è stata nel 2016 la prima regione al mondo a mettere in opera un GMS (ne ho parlato qui); successivamente sono stati attivati servizi analoghi in Valle d’Aosta, Veneto e Friuli. Alcune nazioni come la Germania e la Norvegia hanno un servizio del genere, altre si stanno organizzando, come si sta organizzando l’Europa nel suo complesso. L’Italia, pur con il fantastico precedente del Piano Straordinario di Telerilevamento con i dati di tutto il territorio nazionale tra 1991 e 2011 che è stato una prima mondiale) e dove sono stati approntati i primi GMS regionali al mondo, è purtroppo invece un po' in ritardo come nazione. Questi servizi sono utili ma per esempio quello europeo fornirà gli aggiornamenti ogni 6 mesi con tutti i dati del semestre precedente: servirà per vedere cosa è successo in passato quindi, ma non lo possiamo considerare utile per vedere ad ogni passaggio del satellite cosa succede. Quindi i GMS regionali avranno ancora la loro utilità e chiunque dovrà veder ele cose in tempo reale non potrà accontentarsi di quei dati.

L'obbiettivo per chi si occupa di frane quindi è ottenere un controllo del territorio attraverso lo studio delle immagini dei satelliti InSAR per  allestire un sistema di monitoraggio a terra prima di un evento o addirittura ad intervenire per eliminare le condizioni che possono portare a scatenarlo.
Vediamo quindi tre casi studiati dal Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze in cui un monitoraggio satellitare preventivo in tempo reale sul tipo di quello della Regione Toscana avrebbe consentito di capire l’innescarsi di un movimento franoso prima che avvenisse davvero studiando i dati satellitari delle immagini precedenti l’evento (il cosiddetto back-monitoring), grazie ai quali è stato possibile riconoscere i segnali, impercettibili all’occhio umano, in base ai quali un monitoraggio in tempo reale avrebbe letteralmente previsto l’evento.

Le serie temporali dei Persistent Scatterers a Ponzano evidenziano già oltre 10 anni prima
i primi sintomi dell'innesco del fenomeno (Solari et al, 2018)


LA FRANA DI PONZANO. Il 12 Febbraio 2017 a Ponzano (località del comune di Civitella del Tronto in provincia di Teramo) l’effetto combinato di piogge molto intense, dello scioglimento di una coltre nevosa di circa un metro e di un incremento molto sensibile della temperatura ha innescato una frana che ha danneggiato 25 case e costretto all’evacuazione un centinaio di persone. Per studiare cosa fosse successo prima dell’innesco del movimento sono state utilizzate le immagini di Sentinel-1 dall’inizio del servizio (2014), insieme a quelle del canadese RADARSAT-2, che lavora con le stesse lunghezze d’onda di Sentinel-1 (banda C, lunghezza d'onda 5,6 cm) tra 2003 e 2009. Le serie temporali dei persistent scatterers hanno dimostrato che la frana si stava già muovendo lentamente già a partire dal 2004 (Solari et al, 2018). Nella figura qui sopra si vedono le serie temporali degli ascendenti in blu (in avvicinamento) e dei discendenti in rosso (in allontanamento). Si capisce anche che il versante guarda verso ovest, altrimenti i comportamenti sarebbero stati opposti: allontanamento in ascendente e avvicinamento in discendente.

Da Intrieri et al (2018) a sinistra: l'area di futuro distacco della frana presenta già dei movimenti a Maoxian
a destra: le serie temporali evidenziano un aumento della deformazione subito prima dell'evento

LA FRANA DI MAOXIAN. Un caso ben più nefasto per le sue conseguenze, è la frana di Maoxian, avvenuta in Cina sui monti che sovrastano il Sichiuan: il 24 giugno 2017 il villaggio di Xinmo è stato sepolto dalla frana e purtroppo si sono registrate decine di vittime. Anche qui le immagini radar di Sentinel-1 sono state elaborate per capire se e cosa cosa fosse successo nei mesi precedenti (Intrieri et al 2018). Vediamo nella figura qui sopra nella parte sinistra l'immagine del versante, diretto a SE. I persistent scatterers sono quelli dell'orbita discendente e quindi quelli che si muovono si allontanano; vediamo che si annidano nella parte più alta del versante. A destra le serie temporali di alcuni di essi, dove si vede non solo che i movimenti iniziano ben prima dell’evento, ma anche la loro vistosa accelerazione nelle due settimane precedenti allo scatenarsi del fenomeno, che quindi avrebbe potuto essere ampiamente predetto con una sorveglianza satellitare in tempo reale.

da Carlà et al (2018) Una miniera di rame a cielo aperto in cui si è verificato un importante cedimento
su un lato, al di sopra dell'area coltivata. I PS rossi  evidenziano l'area che è stata interessata dal crollo

UNA MINIERA A CIELO APERTO. Un terzo caso è un miniera a cielo aperto. In queste coltivazioni le frane sono all’ordine del giorno: particolarmente studiato è l’evento della miniera di Bingham Canyon nello Utah del 2013 (Moore et al 2017), predetta dai monitoraggi a terra già 2 mesi prima (il buon Dave Petley ha ben coperto l’evento nel suo Landslide Blog). Anche quando l’evento non registra vittime (questo succede in genere se e solo se viene predetto), una frana in una miniera a cielo aperto provoca interruzioni anche molto lunghe dell’attività, con evidenti danni economici. Per questo oggi tutte le principali attività di questo tipo sono attentamente monitorate sia con strumentazione a terra sia con i radar satellitari. Nel novembre 2016, si è verificato un catastrofico cedimento del pendio in una miniera di rame a cielo aperto, di cui per questioni di riservatezza non vengono indicati nome e ubicazione (Carlà et al, 2018). La miniera era – direi ovviamente – dotata di un sistema di monitoraggio del versante, ma sfortunatamente la frana è avvenuta senza evidenti segnali di allarme perché è partita da un settore di versante naturale soprastante la miniera, al di fuori del campo visivo del sistema. Oltre alla sospensione delle attività estrattive,  la mancata previsione è alla base della morte di 16 minatori. L'instabilità potrebbe essere associata a un semplice meccanismo di traslazione, e il suo innesco è stato attribuito ad un periodo di piogge maggiore del normale.
Sono quindi state aquisite le immagini InSAR in orbita ascendente degli ultimi 10 mesi più quella immediatamente successiva. Le serie temporali dei persistent scatterers evidenziano nell’area che sarà interessata successivamente dal crollo una notevole deformazione che quindi lo anticipa. Non solo, ma i dati hanno descritto persino il perimetro entro il quale si è innescato il fenomeno, perché i bersagli radar che circondavano l’area in deformazione erano in gran parte stabili (Carlà et al 2018).

Questi esempi dimostrano che è possibile in diversi casi individuare i fenomeni precursori di frana in un’area coperta da un servizio di monitoraggio dei dati satellitati InSAR. Si tratta proprio di quei movimenti citati da Terzaghi, spesso invisibili persino all’occhio di un esperto, ma che sarebbero stati rilevati da un sistema di monitoraggio a terra o, in mancanza di questo – e cioè in quasi tutti i casi – dai dati satellitari se fosse stato utilizzato un ground motion service sul tipo di quello della Regione Toscana.


BIBLIOGRAFIA

Carlà et al 2018. Integration of ground-based radar and satellite InSAR data for the analysis of an unexpected slope failure in an open-pit mine. Engineering Geology 235 (2018) 39–52

Cruden e Varnes 1996. Landslide types and processes. In: Turner AK, Schuster RL (eds) Landslides investigation and mitigation, Special Report 247. Transportation Research Board, National Research Council, Washington, DC, pp 36–75

Intrieri et al 2018. The Maoxian landslide as seen from space: detecting precursors of failure with Sentinel-1 data. Landslides 15:123–133

Moore et al 2017. Dynamics of the Bingham Canyon rock avalanches (Utah, USA)resolved from topographic, seismic, and infrasound data. J. Geophys. Res. EarthSurf., 122, 615–640

Solari et al 2018. Satellite radar data for back-analyzing a landslide event: the Ponzano (Central Italy) case study. Landslides 15:773–782



sabato 6 novembre 2021

A 55 anni dall’evento alluvionale della Toscana e dell’Italia di Nord-est: lo stato dei lavori lungo il corso dell’Arno


La ricorrenza del 4 novembre 1966 è sempre una occasione importante per vedere cosa è stato fatto in 55 anni per mitigare il rischio – alluvione a Firenze e in tutto il bacino dell’Arno (mitigare, perché – appunto – il rischio zero non esiste), ma anche per ricordare attraverso questo evento che Firenze non è stata l’unica città colpita in quei giorni e che comunque in Italia di centri urbani, industriali e commerciali a rischio – alluvione ce ne sono fin troppi. E che spesso la soluzione costa molto meno dei danni che può evitare con la sua realizzazione.

la situazione meteorologica ai primi di novembre 1966
SCENARI IN UN CLIMA CHE CAMBIA. Sono passati 55 anni da quel drammatico 4 novembre 1966 in cui l’evento alluvionale della Toscana e dell’Italia di Nord-est arrecò danni immensi a vasti territori. Quello del 1966 è passato alla storia come l’alluvione di Firenze ma siccome non è che nel resto del Valdarno e dell’Ombrone, o nelle Alpi orientali come il Cadore e in città come Venezia o Trento le cose andarono meglio. Per questo, nonostante lo abbia vissuto proprio a Firenze, io insisto a voler portare avanti questa definizione, per me più completa. La domanda non è “se” ma “quando” si ripresenteranno condizioni come quelle del 1966: ad esempio nel Veneto con la tempesta Vaia ci siamo arrivati vicino… mi ricordo nei giorni precedenti i commenti sulla situazione, ampiamente prevista, che stava per crearsi e come con alcuni amici come il cadorino Paolo de Pasqual e lo staff dell’Osservatorio Meteosismico di Perugia eravamo in serio pensiero per quelle valli alpine dalle quali non arrivavano notizie e di cui nei TG, troppo impegnati a fa rivedere i danni agli yacht in Liguria, non facevano menzione. Ma anche a Firenze e in Toscana tutta che si ripresentino quelle condizioni prima o poi è sicuro. Adesso poi, con i mari sempre più caldi e quindi con una evaporazione maggiore rispetto al passato la situazione si fa ancora più grave: oggi 300 mm di pioggia in un giorno (quelli del 1966) stanno diventando normali anche se il regime pluviometrico sta cambiando: per fortuna in genere questi livelli di precipitazione estrema interessano aree ristrette e non l’intera estensione di grandi bacini e quindi più che grandi alluvioni dei bacini principali, destano più preoccupazione soprattutto i flash flood dei piccoli bacini colpiti da nubifragi pesantissimi (si chiamano così! Odio il termine “bombe d’acqua”). 
Nell’immagine si vede la situazione del 1966: la bassa pressione che viene dalla penisola iberica viene bloccata da un anticiclone nei Balcani, con forti venti meridionali nell’Adriatico. Nel 2018 con Vaia la situazione era abbastanza simile, in particolare nel gradiente di pressione che ha scatenato i venti.

L'Arno si stringe prima di arrivare al Ponte Vecchio
L’ARNO: I PROBLEMI. Venendo allo specifico dell’Arno, vediamo cosa è stato fatto negli ultimi dieci anni e cosa si sta facendo nel suo bacino per migliorare la situazione. Riprendo l’ultimo dei 4 post che ho scritto nel 2016 per il 50esimo dell'evento in cui parlavo degli scenari futuri, dove evidenziai tre cose:
  1. il reticolo fluviale del bacino dell’Arno non è in grado di contenere le acque piovane nel caso di un evento analogo a quello del 4 novembre 1966 (pioggia su quasi tutto il bacino, mediamente sull'ordine dei 160 mm di altezza, con punte, in determinate aree, di 250 - 300 mm, arrivate per giunta dopo una serie di giornate molto piovose per cui né i suoli né i torrenti erano in grado di assorbire qualcosa; e da ultimo, anche se questo è un aspetto che ha riguardato soprattutto le Alpi, il riscaldamento ha provocato lo scioglimento improvviso della neve accumulatasi in quota nei freschi giorni precedenti, accumulando portata a portata
  2. le condizione più critiche sono a valle di Firenze, ove praticamente tutto il Valdarno Inferiore costituisce una grande area di espansione per le portate di piena tipo 1966. 
  3. a Firenze città più di così non si può fare e come si vede la caratteristica più importante è la strettoia che inizia a monte del Ponte Vecchio e dopo il Ponte alle Grazie
Inoltre aggiungo che molte aree alluvionate nel 1966 sono state oggetto di interventi urbanistici, soprattutto industriali e commerciali ma anche a destinazione abitativa. Una alluvione porterebbe a delle conseguenze gravissime a livello proprio della produzione industriale (oltreché dell’inquinamento).

la piana di Pisa e le Everglades, ottimo esempio di come sarebbe la piana di Pisa senza le bonifiche

progetto di Bernardo Buonalenti per il taglio
di un mendro presso Empoli
ARNO, PALUDI E RETTIFICHE. Qual’è il problema fondamentale? Come nel resto d’Italia, prima delle bonifiche sia nel Valdarno superiore che in quello inferiore esistevano dei sistemi di paludi che consentivano di stoccare l’acqua delle piene: ricordo che le pianure come le vediamo noi non sono per niente naturali e che il termine geomorfologico è “pianure alluvionali” come ricordo spesso, cioè se c'è del sedimento è una alluvione che lo ha portato lì. Nell’immagine qui sopra la piana di Pisa e le Everglades in California, che hanno l’aspetto della piana di Pisa come sarebbe senza l’intervento umano. 
A causa delle bonifiche e delle operazioni sugli alvei (restringimenti e rettifiche) i  fiumi quindi si trovano a dover gestire anche le acque che in condizioni naturali sarebbero finite nelle paludi. In seguito le aste fluviali sono state ristrette e rettificate, e questo ha ulteriormente diminuito la capacità del sistema di contenere acqua. Comunque le alluvioni avvenivano lo stesso, talvolta però più per il disboscamento selvaggio che contribuì massicciamente ad esempio al disastro del 1557 e dopo il quale il governo granducale impose severi limiti al taglio degli alberi dei versanti più alti, oppure arrecavano danni a costruzioni costruite nel posto sbagliato. 
Il contributo delle paludi alla laminazione delle piene è dimostrato dal caso di Pisa dove l’Arno ha una portata minore rispetto a quella che ha a Firenze, nonostante la ricca serie di affluenti che riceve fra le due città (2800 mc/sec in uscita da Firenze e 2300 a Pisa!) e dove quindi ai tempi delle paludi la piena da Firenze arrivava parecchio in ritardo rispetto ad oggi e pure più distribuita nel tempo: ciononostante anche la città della Torre era spesso sott’acqua, ma se da un lato per una serie di motivi (probabilmente per la fine della piccola era glaciale, in cui il clima era più piovoso), Firenze dalla fine del XVIII secolo ha subìto ben poche (ma disastrose) alluvioni, dall'altro lato Pisa ha continuato ad alluvionarsi a tal punto che come ho scritto in questo post è stato deciso di realizzare lo scolmatore di Pontedera, che da quel momento ha salvato spesso Pisa da un bagno non desiderato, anche poco tempo fa.

Cassa di espansione del Bisenzio a San Donnino
GLI INTERVENTI ATTUATI POST – 1966. Quindi il rischio idraulico sussiste ed è pesante lungo tutto il corso del fiume, non solo a Firenze. 
Dal 1966 fino a qualche anno di interventi nel bacino dell’Arno e dei suoi affluenti principali ne sono stati fatti pochi: lo scolmatore di Pontedera nel 1976 dopo decenni di lavori, aumento della portata del fiume nel centro storico fiorentino (sempre negli anni ‘70) e negli anni ‘90 l’invaso di Bilancino, che però è in grado di risolvere in parte le magre estive ma sulle piene non ha praticamente effetto alcuno.
Negli anni recenti sono state realizzate diverse casse di espansione nei bacini degli affluenti (per esempio di Bisenzio, Ombrone pistoiese e Mensola). Sono tutte realizzazioni importanti, alcune delle quali hanno già consentito di evitare delle situazioni gravi a livello locale, ma di non particolare estensione e quindi di scarsa inicdenza per il corso principale, che comunque di quest’acqua avrebbe risentito ben poco, semplicemente data la differenza di dimensioni. 

LE CASSE DI ESPANSIONE LUNGO L’ASTA PRINCIPALE DELL’ARNO. In questo post quindi parlo delle casse di espansione di dimensioni più importanti in corso di realizzazione lungo il corso dell’Arno, visibili nella carta a fianco e come dichiarato in un comunicato della Regione Toscana di pochi giorni fa.
Nel Valdarno superiore, a monte di Firenze, il sistema di laminazione di Figline comprende le casse di espansione di Pizziconi, Prulli, Leccio e Restone. A cose fatte saranno in grado di gestire la laminazione di circa 25-30 milioni di mc di acqua, diminuendo la portata di acqua in arrivo nel centro storico di Firenze del 10%.
Di queste, l’unica già realizzata in parte è Pizziconi: il primo lotto è stato concluso nel luglio 2019, mentre il secondo dovrebbe concludersi entro il 2022. L’acqua dell’Arno in eccesso verrà convogliata nella cassa di espansione sottopassando la autostrada A1 e la linea dell’Alta Velocità, immediatamente adiacenti (dalla ferrovia si vede benissimo). 
Per quanto riguarda le altre, i lavori della cassa di Restone dovrebbero concludersi nel 2023 e per quella di Prulli nel 2025. Per la cassa di Leccio le cose sono un po' più complesse: la conclusione prevista per il 2026, ma se e solo se ci sarà un finanziamento Pnrr. Speriamo bene.
Ciò comunque non toglie che con i valori del 1966 qualche problema ci sarà e che in ogno caso il rischio zero non esiste mai da nessuna parte. 

la cassa di espansione di Roffia a San Miniato
A valle di Firenze, nel Valdarno inferiore, ci sono altre 3 opere importanti:
  • la cassa di espansione dei Renai (a Signa) in corso di realizzazione dalla capacità di circa 11 milioni di metri cubi 
  • la cassa di espansione di Fibbiana, immediatamente a monte di Empoli, estesa circa 60 ettari per un un volume totale di invaso di circa 4 milioni di metri cubi, per la quale la conclusione dei lavori è vicina
  • la cassa di espansione di Roffia (o dei Piaggioni), che è l’unica già efficiente: situata nel Comune di San Miniato, con un estensione totale di oltre 100 ettari, un volume totale di invaso di circa 9 milioni di metri cubi. I lavori sono conclusi da circa 3 anni ed è già entrata in funzione durante la piena dell'Arno del 17 novembre 2019

CONCLUSIONE. Tutte queste operazioni sono costate e costeranno diverse decine di milioni di euro ma è una cifra ridicola rispetto a quello che può essere evitato con la loro realizzazione. Per questo sarebbe meglio che di opere di questo tipo, come di canali scolmatori e di bacini montani ne venissero finanziate tante e non solo nel bacino dell’Arno. Per esempio a Genova gli scolmatori di Bisagno e Fereggiano, in realizzazione, diminuiranno fortemente la portata dei fiumi in una zona urbanisticamente molto delicata e già colpita duramente negli ultimi 20 anni. Ne ho parlato spesso che occorre da questo punto di vista una maggiore consapevolezza sia da parte delle istituzioni che della cittadinanza. 

A questo punto una annotazione cabalistica: le alluvioni principali sono avvenute nel 1333, 1555 e 1966, che sono poi le uniche che hanno interessato il quadrilatero della città romana, posto in area sopraelevata: Florentia nacque proprio come presidio militare per difendere l’unico guado possibile dell’Arno tra Arezzo e la foce – o forse addirittura già un ponte – presente proprio a causa di questo minimo rialzo che stringeva il fiume (ne ho parlato qui). E oltre al 1966 l’unica altra alluvione post XVIII secolo è avvenuta nel 1844. 
Se fossi superstizioso per l’autunno 2022 avrei dei forti timori…

lunedì 1 novembre 2021

Il vulcanismo pre e post collisionale in Himalaya


Sul gruppo facebook di geologi.it, dove oltre a geologi ci sono parecchi curiosi, come geologi siamo contenti (almeno la maggior parte…) che ci siano in quel gruppo non geologi e siamo contenti che questi facciano domande di qualsiasi tipo (siamo molto meno contenti quando molti di essi arrivano a conclusioni o presentano ipotesi perché in genere si tratta di sfondoni notevoli...). Fra le tante è stata recentemente posta una domanda piuttosto interessante e cioè come mai nell’Himalaya, pur essendoci uno scontro fra placche, non ci sia vulcanismo. La risposta sarebbe molto semplice e nell’occasione ho contribuito a dare una risposta, ma come membro del gruppo di Geologia Himalayana della Società Geologica Italiana mi sento in dovere di precisare meglio le cose: di vulcanismo convergente ce n'è stato, e tanto, nel passato. Solo che da quando l'India si è scontrata con l'Eurasia sono venute a mancare le le condizioni adatte alla sua continuazione.

PLACCHE CONVERGENTI CON SUBDUZIONE E NO. Da un punto di vista generale il vulcanismo di collisione richiede la presenza di una placca in subduzione, cosa che si verifica puntualmente quando la collisione coinvolge crosta oceanica, sia in collisioni oceano – oceano che oceano – continente (dove per questioni di densità la crosta che va in subduzione è sempre quella oceanica). Però alla chiusura di un oceano la collisione diventa continente – continente e le cose cambiano perché la crosta continentale è troppo densa per “immergersi” all’interno del mantello. Insomma, è un po' come immergere un palloncino pieno d’aria nell’acqua: se non viene spinto non rimane sott'acqua. Siccome nulla preme sopra la crosta continentale se non quanto vi sta sopra, non c’è quindi verso che la crosta continentale vada in profondità nel mantello. In molti casi addirittura la vecchia crosta oceanica prosegue il movimento e si distacca da quella continentale (come si vede dall'immagine a fianco, che evidenzia nel punto cerchiato la rottura dello slab). E questo chiude la possibilità di sviluppo di nuovo vulcanismo di tipo “sopra subduzione”. Non preclude però, come vedremo, un altro tipo di vulcanismo che è comune proprio a tutte le collisioni continente – continente.
Una applicazione pratica di queste differenze fra collisione oceano – continente e continente – continente si vede proprio la lunga zona di convergenza che va da Gibilterra all’Indonesia passando per Italia, Mediterraneo, Iran e Himalaya: il magmatismo di tipo orogenico, quello “sopra una subduzione” si trova alle Eolie, in Grecia e poi in Indonesia, cioè negli unici punti dove la collisione è ancora oceano – continente. Nel resto dell’area non abbiamo più magmatismo (o – meglio – se è presente ha altra origine) perché, consumata ormai tutta la crosta oceanica della Tetide, Africa, Arabia e India sono entrate in collisione con l’Eurasia. Dopodichè i blocchi meridionali continuano a spingere e provocare terremoti in Eurasia anche a distanza del fronte di collisione attuale e questo vale sia per il blocco Africa-Adria (specialmente nelle Alpi orientali, ne ho parlato qui) che per l’Arabia (ne ho parlato qui). Ma chi fa veramente sconquassi è l’India che sta penetrando come un rompighiaccio nell’Eurasia (ne ho parlato qui): di fatto una buona parte della sismicità all’interno del continente asiatico è dovuta a movimenti lungo le vecchie cicatrici fra i blocchi che si sono amalgamati nel paleozoico formando l’orogene dell’Asia centrale, una gigantesca fascia orogenica, nata dalla chiusura dell’oceano paleoasiatico, un bacino che iniziò a formarsi oltre un miliardo e mezzo di anni fa alla separazione fra Siberia e Cina settentrionale e che si è chiuso fondendo insieme una impressionante serie di blocchi continentali più o meno grandi (ne ho parlato qui). 

da PALEOMAP di Christopher Scotese la situazione dopo l'amalgamazione
del microcontinente di Lhasa nell'Eurasia  
INDIA E TERRENI TIBETANI IN AMALGAMAZIONE CON L'EURASIA. Dopo questo grande evento l’Asia, fusa anche con l’Euroamerica grazie alla formazione degli Urali, ha continuato ad accrescersi nel suo fianco SW con l’aggregazione dei terreni cimmerici (Iran Afghanistan etc etc), tibetani e da ultimo, circa 55 milioni di anni fa, dell’India.
Di fatto, mentre l’America Settentrionale e i continenti meridionali, India compresa, sono il residuo del vecchio supercontinente Pangea, l’Asia nella sua grandezza e maestosità è all’opposto un continente nato di recente proprio grazie a questa enorme collisione e che ancora si sta amalgamando (ma, contemporaneamente, rispezzettando).
Sulla collisione India – Eurasia innanzitutto occorre fare una distinzione, anche se approssimativa e non completa, ma funzionale a questa narrazione fra i due oceani mesozoici, la Paleotetide e la Neotetide e al magmatismo associato alla loro chiusura:
  • la Paleotetide era frapposta fra i terreni che si sono staccati nel tardo paleozoico dal Gondwana (in genere dl lato dell’Africa – Arabia) e l’Asia 
  • la Neotedide tra questi terreni e il Gondwana
Insomma, nel Mesozoico tra l’Eurasia e l’India c’erano due settori oceanici, divisi dal blocco di Lhasa e dall’arco del Kohistan – Ladakh.
L'immagine tratta dalle Paleomap di Scotese mostra la situazione nel Paleocene.
Il blocco di Lhasa altro non è che un microcontinente staccatosi dal Gondwana nel Triassico o tutt’al più nel Giurassico e che si è scontrato con l’Asia (esattamente contro il blocco del Qiangtang) nel Cretaceo, lungo la sutura di Bangong–Nujiang, che si trova nel Tibet. Vediamo la sua storia nella figura tratta da Peng et al (2020).

Le suture lungo le quali si erano sviluppati precedentemente gli archi vulcanici 
IL VULCANISMO DI CONVERGENZA IN HIMALAYA. Adesso nei dintorni dell’Himalaya di vulcanismo non ce n’è o quasi (si registrano in Tibet 3 zone attive nel Quaternario, ma non direttamente collegate alla collisione), ma di vulcanismo “sopra una subduzione” ce n’è stato parecchio in passato, a più riprese.
In particolare ci sono 2 episodi fondamentali: la chiusura della Paleotetide e la chiusura della Neotetide e si deve dire che il magmatismo pre-collisionale di arco, ovviamente in genere a chimismo calcalcalino è stato molto abbondante ed è una cosa complessa perché sono esistite e si sono alternate nel tempo diverse suture (come succede ad esempio adesso con l’arco delle Izu-Bonin davanti a quello delle Filippine).
Questo vulcanismo si suddivide in diversi blocchi principali (il timing è preso da Parsons et al, 2020):
1. LATO NORD DEL BLOCCO DI LHASA E QIANGTANG MERIDIONALE: la fascia metallogenica di Bangong–Nujiang contiene rocce magmatiche che si sono prodotte durante la collisone fra il microcontinente di Lhasa e il Qiangtang fra fine Triassico e Cretaceo inferiore. La cosa curiosa è che sono distribuite in entrambi i lati della sutura di Bangong–Nujiang e quindi la direzione della collisione è ancora incerta: qualche ricercatore la vede diretta verso nord sotto il Qiangtan, altri verso sud sotto il microcontinente di Lhasa e così altri ancora hanno pensato ad una subduzione doppia come succede ora in Indonesia tra Sulawesi e le Molucche oppure a due subduzioni diverse nello stesso lato che si sono alternate nel tempo.
2. IL BATOLITE DEL KARAKORAM. Si tratta di una suite dalla storia molto lunga, perchè inizia alla fine del Triassico e arriva fino al miocene (ma la parte più recente fa parte di un altro contesto geodinamico, come vedremo poi). Gli eventi orogenici sono registrati dal Giurassico al Cretaceo. Da notare che in genere le ricostruzioni pleogeografiche considerano il Karakoram come l’estensione verso ovest del Qiangtang (ora sono divisi dalla importantissima faglia del Karakoram)
3. A SUD DEL BLOCCO DI LHASA: IL GANGDESE. Il microcontinente di Lhasa era in mezzo all’oceano e quindi dopo che la collisione ha sancito la chiusura di quel settore della Tetide, a sud c’era ancora l’oceano che lo separava dall’India. Per cui è iniziata la subduzione della Neotetide sotto il blocco di Lhasa, che è diventato un margine di tipo andino tra il cretaceo e il paleocene, quando all’arrivo dell’India contro l’Asia la collisione da oceano – continente diventa continente – continente e si conclude la fase magmatica. La grande sutura dell’Indo – Brahmaputra (Tsangpo in cinese) è la traccia della collisione.
Quindi il blocco di Lhasa è circondato da subduzioni che vedono la presenza di importanti episodi vulcanici sia a nord che a sud di esso, a nord tra fine triassico e inizio del cretaceo con lo scontro con il Qiangtang e – finita questa – quella meridionale del Gangdese che inizia nel Cretaceo arriva all’inizio dell’Eocene.
4. L’ARCO DEL KOHISTAN – LADAKH. Questo blocco registra il magmatismo correlato alla subduzione della Neotetide sotto l’Asia in un ambiente intraoceanico tra il Giurassico superiore e l'Eocene, e si compone dell’arco intraoceanico del Kohistan dove affiorano sia la crosta inferiore che quella superiore di una imponente e quasi completa sequenza magmatica di arco intraoceanico. A questa sequenza è tradizionalmente associato il vicino batolite del Ladakh. La relazione tra l'arco intraoceanico di Kohistan e il Gangdese è controversa. Alcuni autori propongono che l'arco intraoceanico del Kohistan si sia formato lungo una zona di subduzione intraoceanica non correlata al Gangdese, mentre altri propongono che l'arco intraoceanico del Kohistan fosse la continuazione verso ovest dell'arco Gangdese, una situazione simile a quello che succede oggi con la subduzione delle Aleutine, che inizia in Alaska sotto il continente e prosegue nell’arcipelago. C’è poi un pò di incertezza ancora sui tempi della collisione fra India e arco del Kohistan – Ladakh. Ne parlai a suo tempo, ma sull’argomento non sono molto aggiornato e so che sono stati scritti diversi altri lavori in proposito.

le zone interessate nel tempo dal vulcanismo post-orogenico.
Le stelle rosse indicano gli episodi più recenti e quella gialla la zona
dell'Himalaya in cui il gruppo italiano ha trovato evidenti tracce di un eventi termico
IL MAGMATISMO POST-COLLISIONALE: la chiusura definitiva dell’oceano fra India e Eurasia ha provocato la cessazione del vulcanismo orogenico nel Kohistan e nel Gangdese all’inizio dell’eocene. Però un nuovo ciclo vulcanico è iniziato quasi subito: il magmatismo tardo orogenico.  Questa attività la troviamo quasi dovunque ci sia stata una collisione continente – continente, addirittura fin dall’esordio della tettonica a placche, nel paleoproterozoico. Diciamo che negli orogeni di questo tipo si instaura spesso un regime estensionale (conditio sine qua non per avere vulcanismo!). Oltre a un collasso gravitativo dovuto allo squilibrio di masse dovuto alla sovrapposizione di vasti domini una volta affiancati durante la fase di convergenza ci sono altri fattori importanti che possono contribuire (o addirittura originare) il regime tensionale: una questione geodinamica, il richiamo di magma dal mantello che si incunea nella zona di rottura dello slab che abbiamo visto all'inizio del post e una questione geometrica: in tutti gli sconti continente - continente c'è una componente di movimento non perpendicolare alla convergenza,  per cui gli sforzi laterali continuano lungo le suture che diventano linee di debolezza o lungo altre linee di debolezza preesistenti; il che può portare a situazioni strane con la formazione di grandi trascorrenti come nel post-varisico mediterraneo (Muttoni et al, 2009). Un esempio himalayano è la faglia di Altyn Tagh che borda a nord il Tibet e corrisponde alla sutura lungo la quale si sono scontrati il blocco del Tarim e quelli del Tibet settentironale nel Paleozoico superiore: e ora viene ripresa come faglia trascorrente (Heron et al, 2016). Inoltre la placca che preme può anche portare all'estrusione di parti crustali come nel settore orientale delle Alpi e - appunto - dell'Himalaya 
In Italia di queste fasi ne sappiamo qualcosa, con i graniti “tardo-varisici” delle Alpi (Gottardo, Monte Rosa, Monte Bianco etc etc) e di Sardegna, Corsica e Calabria) e con l’attività tardo – alpina nelle Alpi Occidentali (Adamelllo e Hochgall, per esempio). In Himalaya questo magmatismo è dovuto ad un cambiamento dello stile tettonico, dalla compressione ad una componente estensionale (come nel post-varisico dell’area italiana). In ogni caso è probabile che in questo quadro anche la rottura dello slab vista all'inizio di questo post conti qualcosa.
Le rocce ignee neogeniche sono distribuite in tutto il Tibet. Nella carta, modificata da Mo et al (2006) e dove ho evidenziato le suture ma purtroppo non sono riuscito a inserire la topografia (ahi, le mie scarse competenze in computer graphics...), si vede un ottimo quadro riassuntivo della evoluzione spazio-temporale delle aree via via interessate dal vulcanismo tardo – orogenico, che sia pure in minimi termini sta continuando tuttora. 
Immagino che l’evento termico che è stato oggetto di studi da parte di ricercatori italiani nell’area dell’Himalaya, a Dolpo (Nania et al, 2021) sia riferibile proprio ai riflessi della messa in posto di questi magmi.

BIBLIOGRAFIA

Heron et al 2016. Lasting mantle scars lead to perennial plate tectonics. Nature communications DOI: 10.1038/ncomms11834
Muttoni et al 2009. Opening of the Neo-Tethys Ocean and the Pangea B to Pangea A transformation during the Permian. GeoArabia, v. 14, no. 4, 2009, p. 17-48
Nania et al 2021. A thermal event in the Dolpo region (Nepal): a consequence of the shift from orogen perpendicular to orogen parallel extension in central Himalaya?  Journal of the Geological Society, DOI 10.1144/jgs2020-261
Parsons et a. 2020. Geological, geophysical and plate kinematic constraints for models of the India-Asia collision and the post-Triassic central Tethys oceans. Earth-Science Reviews 208 (2020) 103084
Peng et al 2020. The odyssey of Tibetan Plateau accretion prior to Cenozoic India-Asia collision: Probing the Mesozoic tectonic evolution of the Bangong-Nujiang Suture. Earth-Science Reviews 211 (2020) 103376
Po et al 2006. Petrology and geochemistry of postcollisional volcanic rocks from the Tibetan plateau: Implications for lithosphere heterogeneity and collision-induced asthenospheric mantle flow Geological Society of America Special Paper 409, 507-530