lunedì 30 maggio 2016

La frana del Lungarno Torrigiani e il monitoraggio da parte del Dipartimento di Scienze della Terra


Ad evento appena avvenuto ho descritto sommariamente i primi interventi in corso da parte del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Firenze per il monitoraggio della frana del lungarno Torrigiani. Oggi, vorrei chiarire un pò la storia di quell'area e descrivere meglio quanto il dipartimento sta facendo per controllare l'evoluzione della situazione.

IL LUNGARNO TORRIGIANI. Come tutti ormai sanno, a Firenze il 25 maggio 2016 alle ore 6.15 il muro d’argine del Lungarno Torrigiani, in riva sinistra fra il ponte alle Grazie e il Ponte Vecchio, è stato interessato da un cedimento su un tratto di circa 200 m. 
Il Lungarno Torrigiani risale alla seconda metà del XIX secolo, quando nell’ambito dei lavori per Firenze Capitale (1865-1871) le due sponde del fiume a monte del Ponte Vecchio vennero sistemate realizzando i lungarni. In riva sinistra si vede bene infatti che il vecchio itinerario di entrata in città dalla porta a San Niccolò passava dalle odierne via di San Niccolò e via dè Bardi, salendo in parte sulla collina proprio per la mancanza di spazio pianeggiante accanto al fiume. 
Questi interventi migliorarono il decoro dell’area, chiudendo per sempre un’epoca di sviluppo disordinato delle sponde del fiume con sbarramenti, tiratoi, pescaie, mulini e gualchiere, più o meno abusivi, dandole, insieme ad un'altra serie di importanti interventi, un respiro più moderno e più adatto ad una capitale europea.

Il muro d’argine del lungarno è fondato su pali in legno. 

I lavori furono coordinati dall’architetto/ingegnere Giuseppe Poggi e fra le opere sussidiarie fu compresa, approfittando della costruzione dei Viali dei Colli e del Piazzale Michelangelo, anche una messa in sicurezza della collina sovrastante alla città, interessata da una storica frana studiata persino da Leonardo da Vinci. In questo quadro il Poggi realizzò un sistema di drenaggio che sfocia in Arno proprio sotto il Lungarno Torrigiani attraverso una galleria di 5 metri.
Al di sopra della galleria del Poggi si trovano una condotta fognaria e diverse tubazioni dell’acquedotto: il lungarno Torrigiani è una zona nevralgica perchè in questo tratto la riva sinistra dell’Arno corre praticamente a ridosso della collina mentre a monte (prima del Ponte a San Niccolò) e dopo il Ponte Vecchio la pianura si allarga: per questo quindi proprio qui troviamo una particolare concentrazione dei sottoservizi che interessano la riva sinistra del fiume.


In questa immagine, che dimostra come l'Arno in questo tratto sia così vicino alla collina, vediamo a destra lo sbocco della galleria di drenaggio delle acque della collina stessa, realizzata dal Poggi.

L'EVENTO. La frana di questi giorni presenta diverse analogie con quella del 1965, che interessò, un pò più a valle e sempre in riva sinistra, un tratto del lungarno Soderini: nell’occasione furono mobilizzati 5000 metri cubi di terra e l’innesco del fenomeno è da addebitarsi a una rottura della tubazione idrica. In quell'evento il muro del lungarno crollò e ci furono una vittima e alcuni feriti.

Nel caso in oggetto si tratta di una frana di sponda, e non di una voragine di sprofondamento, come è stato erroneamente riportato da molte fonti.
A vedere le immagini viene da domandarsi dove fosse andato a finire il materiale mancante. In realtà di materiale mancante ce n'è poco. Infatti:
  • il muro si è deformato in avanti per 1180 metri cubi
  • il piano stradale è ceduto verso il basso per 1303 metri cubi

La differenza è quindi minima, 123 metri cubi, ed è imputabile a deformazioni sotto la superficie del fiume, compattazione della terra e a un po' di erosione e dilavamento. 
La maggior parte del materiale è stato integralmente trattenuto dal muro d'argine che, spanciando, si è molto deformato, ma per fortuna non è crollato (e in quel caso nessuno avrebbe contestato di essere davanti a una frana...). 
Quanto all'innesco, in fatti del genere è normale che sia colpa dell'acqua. Ma se e quale sia la condotta dell'acquedotto che ha provocato il guaio ci sono indagini in corso delle autorità competenti e non entro nel merito. 

IL SISTEMA DI MONITORAGGIO. Come ho già scritto, fin dalla mattina stessa del dissesto, il Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Firenze, che è Centro di Competenza della Protezione Civile, ha installato un sistema di monitoraggio delle deformazioni, in continuo e in tempo reale, costituito da: 
  • un interferometro radar, che produce mappe di deformazione di tutto lo scenario osservato aggiornate ogni 5 minuti 
  • un scanner laser, con cui vengono prodotte a tempi prefissati dei rilievi digitali dell’intero scenario osservato 

Nei giorni successivi il sistema è stato potenziato con altri strumenti che il dipartimento usa normalmente per il monitoraggio delle frane:  
  • una stazione totale robotizzata, che rileva ogni 15 minuti la posizione di una serie di prismi posizionati sul muro d’argine e sugli edifici retrostanti  
  • una serie di sensori, inclinometri e fessurimetri, posizionati sul muro d’argine e sugli edifici retrostanti. 

Questo sistema opera all'interno di una rete wireless sul modo di quella che ho descritto a proposito della frana di Ricasoli.
in corrispondenza delle fratture perimetrali sul muro d’argine sono stati inoltre impiantati fessurimetri e spie a lettura manuale


INDAGINI GEOFISICHE. Volendo capire bene come sia la situazione sotto il lungarno Torrigiani, sono state avviate anche delle indagini geofisiche per l’esplorazione del sottosuolo. Quindi sono state eseguite delle analisi tomografiche (come in medicina una TAC) usando sia metodi sismici che geoelettrici.
Inoltre è stato usato anche un georadar, un sistema che legge con facilità strutture sepolte, dalle tubazioni di vario tipo ai muri. 

I MOVIMENTI PRECEDENTI ALL'EVENTO. C'è poi un altro aspetto importante: tutte queste indagini servono per capire cosa succede ORA e quindi, come in tutti gli eventi del genere quando giungono inaspettati, in mancanza di segnali di rischio preesistenti (che dovrebbero consigliare un monitoraggio preventivo...) le strumentazioni sono installate dopo il fatto. 
Sarebbe importante, invece, conoscere i prodromi dell’evento, sia dal punto di vista della ricerca scientifica che per le indagini che dovranno stabilire eventuali colpe. In particolare bisognerà in quelche modo stabilire quanto prima e quando sono iniziati i movimenti. 
Ed è possibile farlo, come ho spiegato a proposito del crollo della diga del Fundao in Brasile, grazie alle immagini satellitari ottenute con radar interferometrici, che coprono gli ultimi 25 anni.
Diverse agenzie spaziali dispongono di satelliti che scattano queste immagini, come i Sentinel dell'ESA, l'Agenzia Spaziale Europea, il TERRASAR-X dell’Agenzia Spaziale Tedesca e anche i nostri COSMO SkyMed dell’ASI.
Grazie a queste immagini sarà possibile capire se sul tratto di lungarno crollato fossero già presenti dei fenomeni deformativi prima dell’evento di mercoledì scorso.

venerdì 27 maggio 2016

Novità sulla datazione di Homo floresensis: non è così recente come veniva ipotizzato


Aveva destato molto clamore la notizia della scoperta dei piccoli uomini che hanno abitato in tempi recenti l'isola di Flores. Anche io mi sono occupato di questa scoperta diverse volte perché è davvero una delle cose più interessanti della paleoantropologia: un essere umano che viveva in un'isola della Piccola Sonda, molto diverso da noi, probabilmente più imparentato con gli erectus (se non con gli habilis...) che con i sapiens e di altezza e cervello ridotti. Addirittura si pensava che questa popolazione fosse esistita fino a 12.000 anni fa. Invece questo ultimo aspetto è stato smentito perchè che la storia sedimentaria della grotta di Liang Bua si è rivelata molto più complessa del previsto e i sedimenti che contengono i resti di Homo floresensis sono molto più antichi di quelli alla stessa altezza da cui erano stati presi i campioni di materiale carbonioso da datare con il C14. Quindi le ultime tracce di questa popolazione risalgono a circa 50.000 anni fa, ma siccome poco dopo la sedimentazione nella grotta si è interrotta per 25.000 anni non si sa effettivamente quando si è estinta, né se esisteva ancora quando i primi sapiens diretti in Australia sono passati da quelle parti.

Negli anni fra il 2001 e il 2004 le campagne di scavo a Liang Bua avevano fornito manufatti e parti scheletriche di Homo floresensis, il piccolo Homo delle piccole isole della Sonda, insieme a ossa di vari animali fra cui reperti attribuiti al genere Stegodon (un proboscidato molto affine ad elefanti attuali e mammut). I reperti furono datati direttamente e attraverso altro materiale trovato vicino, fra 95 e 12 mila anni fa, suggerendo che l'Hobbit (così è stato soprannominato per la sua altezza ridotta) avesse abitato l'isola almeno da circa 100.000 anni fa fino a tempi recentissimi e cioè 12.000 anni fa: ne risulterebbe quindi che in qualche modo avesse convissuto con i moderni sapiens che nell'area sono presenti da almeno 50.000 anni fa [1]. La cosa importante da notare è che la data più recente è stata dedotta dallo studio di sedimenti vicini e non direttamente dallo strato che conteneva i reperti.
Ne ho parlato in diversi post, per esempio qui.
Pochi mesi fa avevo scritto una sintesi che è ancora valida, anche se il passaggio sulla fine degli Hobbit è ovviamente da modificare.

Poco tempo fa è uscito un lavoro che ha pesantemente modificato le idee sulla datazione di quei reperti di Homo floresensis, perché per farlo erano stati utilizzati dei sedimenti considerati della stessa età dei diversi resti di Hobbit, ma che, secondo le ultime ricerche, sono molto più recenti.
Ma da cosa deriva questo sbaglio?

Lo spiega questo disegno (molto) sommario: 



  • PRIMO CICLO SEDIMENTARIO: nella grotta si sono formati dei sedimenti tra 120 e 50 mila anni fa nei quali si trovano i reperti di Homo floresensis
  • poi per un certo periodo la sedimentazione si è interrotta e i sedimenti sono stati erosi fino a produrre una grande incisione
  • SECONDO CICLO SEDIMENTARIO: circa 20.000 anni fa è ricominciata la sedimentazione, colmando l'incisione che si era formata nei 25.000 anni di erosione e nella quale si trovano invece i depositi carboniosi precedentemente considerati coevi dei fossili

Il tutto dovrebbe essere successo a causa di qualcosa che ha modificato la circolazione delle acque nella grotta (nel carsismo queste variazioni possono arrivare all'improvviso), ma data l’intensità degli eventi geologici di quell’area è anche possibile che potrebbe essere dipeso da cause esterne alla dinamica carsica.
I reperti di Homo floresensis e di Stegodon erano contenuti nei sedimenti del primo ciclo sedimentario, una parte dei quali sono stati erosi, mentre le datazioni che avevano fornito le età così recenti erano state effettuate sui sedimenti che hanno riempito successivamente il canale che si era formato a causa della erosione, non riconoscendo quanto era successo. 
I resti di H. floresiensis e dei depositi che li contengono sarebbero dunque databili tra 100 e 60 mila anni fa. Più ampia è invece la datazione dei manufatti, che vanno invece da 190 a 50 mila anni fa (il range maggiore di presenza di strumenti litici è logico: è molto più facile trovare questi che resti scheletrici).

Il disegno dei sedimenti della grotta, da [2] 
con indicati i sedimenti e i reperti. Sulla sinistra in alto sono
segnati i tufi deposti durante il primo ciclo (T1-T5)
I tufi del secondo ciclo, da T6 a T8, colorati in grigio 
e segnalati sulla destra sopra la superficie di erosione, 
stanno più in basso di quelli più vecchi
La nuova campagna di scavi fra il 2007 e il 2014 ha interessato una zona a poco più di 10 metri a sud di quella precedente, fornendo dettagli stratigrafici inaspettati.
È importante notare che i resti ossei si trovano sotto (e quindi sono più antichi di) una sequenza di tufi deposti da alcune delle classiche forti eruzioni vulcaniche che interessano frequentemente l’area (quelli da T1 a T5), alternati a sedimenti normali e che, appunto, questa sequenza è stata in gran parte erosa. Come si vede dalla figura qui sopra, l'incisione del periodo di erosione è stata molto profonda e ne risulta una superficie di erosione molto inclinata, per cui a 10 metri di distanza tra le due zone di scavo le cose cambiano totalmente. Annoto che senza vederla sarebbe stato molto difficile capirne la presenza: le due serie sedimentarie sono molto simili (a dire poco..). 
In particolare, tutte i residui carboniosi che erano stati datati con il metodo del Carbonio-14 derivano dall’ultimo riempimento della grotta e non sono quindi collegabili con i reperti dell’Hobbit, che pur essendo più o meno alla stessa quota, appartengono a sedimenti più antichi. 
Un osso di un uomo di tipo moderno trovato in questi livelli del secondo riempimento ha fornito una età di 7.500 anni che è in accordo con le età dedotta con il C14 dei residui carboniosi che è tra i 9.500 e i 6.400 anni.

Quindi la correlazione fra i sedimenti che contengono i reperti con quelli recenti del riempimento è stata un errore, come dimostra tutta una serie di datazioni radiometriche dei tufi e delle stalattiti della prima fase, che vanno dai 113 ai 40 mila anni fa, effettuate sia con il metodo Uranio / Torio che con il metodo Argon / Argon.
Le datazioni delle ossa di Homo floresensis e Stegodon sono invece state effettuate solo con l’Uranio / Torio. La datazione radiometrica con il metodo Uranio - Torio fornisce buoni risultati nella datazione delle stalattiti recenti ma il suo utilizzo sulle ossa è più complesso: una datazione radiometrica funziona bene quando dall’età che si deve studiare ad oggi il sistema rimane chiuso negli elementi che si considerano e cioè non ci sono stati né ingressi né uscite di atomi di questo elemento. Bene, l’interno delle stalattiti - essendo impermeabile - rimane chiuso per l'uranio ma le ossa no, perché l’acqua bene o male continua a scorrervi e questo vi produce una ritardata e continua diffusione di questo elemento che non è calcolabile. Per questo la loro datazione con l’uranio consente soltanto di definire una età minima del reperto.

Le nuove ricerche forniscono una datazione molto diversa della fine di Homo floresensis. Ma allora, fino a quando è esistita questa popolazione superstite derivante da Homo erectus se non da forme ancora più antiche?
La fine di H. floresiensis dovrebbe essere avvenuta nella fase in cui si deponeva la prima serie sedimentaria della grotta di Liang Bua, in particolare durante la messa in posto dei livelli tufacei e sicuramente non prima del livello T3, in quanto nei sedimenti interposti fra questo e il livello precedente, T2, gli strumenti litici sono per l’80% di tufo silicizzato e al 20% di diaspri, mentre gli Uomini moderni mostrano una preferenza notevole verso i diaspri (che arrivano al 60%). 
Nel periodo in cui si collocano le tracce dell’Hobbit parti dell’Asia sudorientale sono state abitate da Denisovani o da altri ominini e che l’Uomo moderno è arrivato in Australia circa 50.000 anni fa. 
Il livello tufaceo T3 ha giusto quella età e questo suggerisce un rapporto fra l’arrivo dei sapiens e la fine degli hobbit. Ma per adesso non c’è niente che lo possa dimostrare, appunto, se non una contemporaneità più o meno evidente degli avvenimenti: non è dato sapere ancora se il davvero quando si è deposto il livello T3 questa popolazione era già scomparsa o meno: il problema è che poco dopo la deposizione del T3 si interrompe la sedimentazione del primo ciclo nella grotta di Liang Bua e quindi non c’è più la possibilità per oltre 25.000 anni (e cioè fino a 20.000 anni fa circa) di avere dei reperti.

[1] Brumm et al. (2006). Early stone technology on Flores and its implications for Homo floresiensis. Nature 441, 624-628

[2] Sutikna et al (2016). Revised stratigraphy and chronology for Homo floresiensis at Liang Bua in Indonesia. Nature, 532, 366-368

mercoledì 25 maggio 2016

Il dipartimento di Scienze della Terra monitora la frana del lungarno


Stamattina verso le 6.30 come è noto c'è stato un cedimento verticale del terreno sul lungarno Torrigiani, in riva sinistra dell'Arno, tra il Ponte alle Grazie e il Ponte Vecchio, dovuto a infiltrazioni di acqua da parte di una condotta dell'acquedotto (quale, quando e perché non è materia di questo post).  Di sicuro si è rotta una delle condotte principali dell'acquedotto ma francamente non ho capito se la perdita sia stata da una condotta minore e quindi quella principale si è rotta a causa del cedimento o il cedimento è stato causato proprio da quella principale.
Quello di cui vorrei parlarvi è invece l'intervento immediato dei ragazzi e delle ragazze del gruppo di Geologia applicata del Dipartimento di Scienze della Terra, che si sono messi immediatamente al lavoro come Centro di Competenza della Protezione Civile.
Infatti c'è da capire come si stia comportando in questo momento la spalletta: di sicuro c'è stato un secondo forte movimento verso le 11, ma ci sono altri movimenti non certo rilevabili ad occhio nudo che possono dire tante cose sulla evoluzione della situazione.
Per questo è stato installato un radar interferometrico sulla sponda opposta del fiume allo scopo di capire se la sponda sinistra si stia ancora muovendo o no.
Dal punto di vista concettuale è la stessa strumentazione che fu usata per monitorare il relitto della Costa Concordia e si presta a molti usi, compreso quello delle deformazioni degli edifici (e in questo caso la spalletta dell'Arno può essere considerata proprio un edificio).

Questo sistema di monitoraggio viene inoltre usato comunemente nello studio delle frane ed è capace di riconoscere movimenti meno che millimetrici del terreno. 

I dati vengono trasmessi immediatamente ad una sala di controllo e/o rilevati sul posto. 




In queste immagini vediamo la sequenza delle operazioni di montaggio del sistema.

Al radar interferometrico è stato aggiunto anche un laser - scanner: è uno strumento che anziché rilevare in continuo come il radar, effettua ad intervalli determinati una scansione della superficie da monitorare e quindi serve a confrontare la forma della superficie nei confronti di un momento X iniziale o anche di uno qualsiasi di quelli precedenti.

Dopo poche ore dall'evento, quindi, il sistema di monitoraggio è già installato e pronto per funzionare.






mercoledì 18 maggio 2016

Una pietra miliare nella geomorfologia: un nuovo studio sui ciottoli in Portorico dimostra che la larghezza delle aste fluviali è guidata dall'entità degli eventi di piena


Le nuove tecnologie informatiche possono avere applicazioni nei campi più disparati e fornire dei dati a cui sarebbe impossibile arrivare senza (o, quantomeno, sarebbe estremamente difficile farlo). Una interessante applicazione (mettere dei microrilevatori in ciottoli fluviali per tracciarne il movimento) è alla base di una scoperta molto particolare, che si configura come una pietra miliare nella storia delle ricerche sulla geomorfologia fluviale: è stato dimostrato che una corrente più veloce erode in proporzione meno di una meno forte. Cioè, erode di più, ma meno di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Da questo si capisce meglio perché un’asta fluviale abbia esattamente quelle dimensioni. La scoperta rivoluziona le previsioni dei modelli dell’aumento dell’erosione dovuta ai cambiamenti climatici in corso e futuri lungo le aste fluviali, ma deve anche farci riflettere (tanto per cambiare) sulla situazione del territorio in Italia.

Quando piove una parte della precipitazione si infiltra nel sottosuolo alimentando le falde acquifere. Questo quantitativo è variabile a seconda del tipo e dell’entità della precipitazione e delle condizioni della superficie, ma c’è una regola generale e cioè che maggiore è la pioggia, minore la percentuale di precipitazione che si infiltra nelle falde acquifere. 
Ne segue che i bacini idrografici in qualche modo debbano stoccare (ma, soprattutto, smaltire quando non contengano laghi, lagune o paludi) l’acqua che vi piove. Le piene dei fiumi sono la conseguenza diretta di questo aspetto e la politica attuale in Italia di costruire delle casse di espansione serve proprio a tentare di laminare le piene stoccando in questi bacini artificiali parte delle acque risultato delle precipitazioni più forti e che in passato si sarebbero riversate nelle paludi.

I FATTORI CHE DETERMINANO L'EROSIONE DEI LATI DEI FIUMI E LA COSIDDETTA SOGLIA DI MOVIMENTOLa questione è capire come reagiscono i corsi d’acqua a questa situazione e, soprattutto, alle modifiche nella loro dinamica che seguiranno all’aumento delle piogge eccezionali e quindi, a cascata, del numero e delle dimensioni delle piene maggiori. Gli occhi quindi sono puntati sulle dinamiche di erosione e sedimentazione sul fondo e ai lati del fiume. 

Per prima cosa dobbiamo introdurre il concetto della soglia di movimento dei sedimenti, ovvero la velocità della corrente necessaria per muoverli da dove sono.
È abbastanza intuitivo che più forte sia la corrente, maggiore è il peso dei sedimenti che possono essere trasportati: se troviamo delle ghiaie la corrente che li ha trasportati sarà stata più forte di quella che è stata in grado di farlo solo con dei granelli di sabbia. Il geologo si basa su questo quando, esaminando i sedimenti, fa delle ricostruzioni paleoambientali.
Per quanto riguarda invece la capacità erosiva, l’incisione dei materiali delle sponde e del fondo di un fiume è dovuta soprattutto all’abrasione provocata dai materiali trasportati dalla corrente sui materiali consolidati e dallo spostamento dei materiali provvisoriamente deposti sul fondo.
Naturalmente, oltre alla velocità della corrente contano altre variabili come per esempio quantità e qualità dei solidi trasportati, quanto sono erodibili i materiali che costituiscono le rive e il fondo e la forma stessa della sezione del corso d’acqua.

IL RAPPORTO FRA ENTITÀ DELLE PIENE E MOVIMENTO DEI CIOTTOLI. Un lavoro recente ha dimostrato una cosa un po' inaspettata e cioè che la relazione fra entità della piena e soglia di movimento non è lineare: in sostanza una corrente più veloce in proporzione erode meno di una meno forte. Cioè, erode ovviamente di più, ma meno di quanto sarebbe lecito aspettarsi. I risultati sono appena stati pubblicati su Science [1]. 

Nella regione di Portorico piove parecchio di suo: a San Juan, la capitale, in un anno medio cadono circa 1.600 mm di pioggia (e non per nulla l'isola è coperta da una estesa e rigogliosa foresta pluviale!). Ma in alcune zone, per questioni geografiche, uragani e tempeste tropicali forniscono le condizioni che permettono la formazione di flash flood di dimensioni eccezionali rispetto, per esempio, a quelle nostrane: anche 1.000 mm in 24 ore. Il record italiano mi risulta essere detenuto dal bacino del Fereggiano, a Genova, nel 2011 con poco meno di 500 mm in 24 ore.
A Portorico i ricercatori hanno studiato il bacino del fiume Mameyes, dove i flash floods sono comuni, mettendo 350 microrivelatori in altrettanti ciottoli delle dimensioni di un pompelmo e tracciandone i movimenti nei 2 anni successivi. È evidente come senza una tecnologia che consente di farlo, osservare come si spostano nel tempo 350 ciottoli di un fiume sia una cosa assolutamente impossibile.
Faccio notare inoltre che il termine italiano “bombe d’acqua” descriva un primo aspetto del fenomeno, la pioggia intensa in un tempo piuttosto breve, mente il termine anglosassone e scientifico “flash flood” insiste più sulle conseguenze della precipitazione e cioè sul repentino e drammatico aumento della portata di un corso d’acqua che ne consegue.

I movimenti dei ciottoli sono poi stati correlati con le misurazioni di un idrometro posto nelle vicinanze.
Lungo il Mameyes mediamente avvengono 20 piene all’anno capaci di muovere questi ciottoli ma, inaspettatamente, durante le piene più importanti (quelle seguite ai flash flood) i ciottoli non si muovevano molto di più rispetto a quelle ordinarie, nonostante valori di portata anche 100 volte superiori. Quindi, sebbene le precipitazioni estreme siano in grado di muovere una quantità di acqua incredibile, il loro contributo all’erosione è minore di quanto ci si potrebbe aspettare.

La cosa era piuttosto sorprendente e quindi il passaggio successivo è stato quello di capire se queste caratteristiche fossero tipiche dei ciottoli del Mameyes o, come più probabile, siano condivise anche degli altri fiumi.
Diagramma frequenza / entità del flusso. modificato da [1]: 
- in alto: assoluti
- in basso: normalizzati per un migliore confronto 
Perciò, i ricercatori hanno preso i dati dell’USGS (il mitico servizio Geologico degli Stati Uniti) di alcune aste fluviali e dopo un lungo e attento esame, si sono resi conto di alcuni aspetti interessanti e inaspettati che riguardano fiumi in cui il trasporto di solidi da parte delle acque coinvolge anche la frazione grossolana a livello di ciottoli o di dimensioni ancora superiori:
  • è molto difficile che il flusso superi valori capaci di sorpassare il valore della soglia di movimento dei ciottoli
  • indipendentemente da quante volte all’anno la soglia viene passata e i ciottoli si mettono in movimento, c’è sempre un rapporto simile in tutti i fiumi fra il numero di piene totale e quello capace di muoverli

Per quanto riguarda soltanto gli eventi capaci di sorpassare la soglia di movimento dei ciottoli, i risultati sono i seguenti:
  • il numero dei flussi capaci di sorpassare di una volta e mezzo la soglia di movimento è 100 volte inferiore al numero di quelli che la raggiungono
  • il numero dei flussi capaci di passare di due volte la soglia è a sua volta 100 volte inferiore al numero di quelli che la passano di una volta e mezzo

LO STRETTO RAPPORTO FRA DIMENSIONI DELLE ASTE FLUVIALI E PIENE. Ma perchè succederebbe questo? Perché c’è in Natura un meccanismo che adegua le dimensioni del fiume alle loro necessità. In pratica la larghezza e la profondità delle aste fluviali si adegua per tenere la forza dell’acqua vicine al valore della soglia di movimento.

Quindi se una piena muove troppi sedimenti, il fiume eroderà i suoi lati e, di conseguenza, l’asta fluviale si allargherà.
Ma se il fiume si allarga e si approfondisce, allora diminuiranno le forze che premono sui lati e quindi la corrente si troverà presto sotto la soglia di movimento dei sedimenti.
Questi dati sono validi per fiumi dalla corrente capace di muovere i sedimenti di grandezza uguale o superiore ai ciottoli, ma probabilmente sono gli stessi che governano fiumi in cui la soglia di movimento è più bassa ed è quindi capace di muovere solo sabbie o argille. L’obbiettivo prossimo degli autori di questo studio è quindi quello di confermare il modello anche quando il meccanismo coinvolge masse di dimensioni minori di quelle del ciottolo.

Andando sul pratico, cosa possiamo dire e, cioè, quale sarà la reazione dei fiumi all’aumento della intensità le precipitazioni maggiori (cosa che purtroppo sembra assodato che avverrà)?
La buona notizia di questa ricerca è che gli scenari dei modelli di erosione nel futuro sono probabilmente sovradimensionati.
La reazione del territorio all’aumento degli eventi estremi avverrà in due stadi: all’inizio aumenteranno le alluvioni e l’erosione), ma il reticolo fluviale è destinato ad adeguarsi alla svelta perché i corsi d’acqua si allargheranno e quindi meno acqua passerà sulle superfici in erosione. 
Quindi i modelli attuali sembra che stiano sovrastimando il problema: l'erosione aumenterà di sicuro ma a livelli inferiori a quello che si poteva supporre fino ad oggi, almeno dopo la fase iniziale di modifiche come risposta alla nuova situazione.

E IN ITALIA? Questa ricerca mette sul tappeto ancora una volta il problema dei fiumi in Italia, spesso confinati in arginature artificiali immodificabili o quasi (e, purtroppo, anche ristretti in maniera massiccia)
Gli interventi sulle aste fluviali sono stati spesso molto ingenti:
  • le rettifiche hanno aumentato la velocità e ridotto le distanze fra le foci degli affluenti
  • gli alvei sono stati spesso ristretti e confinati, senza tenere conto delle esigenze delle piene maggiori
  • le bonifiche hanno impedito i “normali” straripamenti e lo stoccaggio delle acque di piena nelle zone paludose

È evidente che tutte queste operazioni non hanno tenuto conto delle necessità naturali, ma solo di quelle antropiche. Non solo, ma rettifiche e bonifiche avrebbero imposto un allargamento delle sezioni delle aste fluviali e non - come è successo - un loro restringimento.
Le conseguenze, in base ai risultati di questa ultima ricerca, sono che si rischia seriamente il superamento della soglia di movimento dei materiali che costituiscono i lati e gli argini, e l’erosione delle loro rive è un pericolo reale.

[1] Phillips e Jerolmack (2016): Self-organization of river channels as a critical filter on climate signals. Science 352, 694-697

domenica 15 maggio 2016

Il tenore di CO2 atmosferico nella storia della Terra: lezioni dal passato


Il tenore di CO2 in atmosfera sta aumentando velocemente a causa delle emissioni antropiche: le 200 PPM di prima dell'inizio della rivoluzione industriale sono diventate oggi 400. Per capire che oggettivamente questo è un grosso problema, bisogna guardare la storia della Terra: il tenore atmosferico di CO2 è stato quasi sempre più alto di oggi, ma con un clima più caldo e un livello del mare più alto, ed è questo l'aspetto fondamentale: stiamo immettendo un importante quantitativo di biossido di carbonio in un momento in cui il suo tenore atmosferico è fra i più bassi nella storia della Terra. Il grosso guaio è che gli incrementi improvvisi del tenore atmosferico di CO2 sono alla base di fasi molto difficili per la storia della vita sulla Terra, spesso culminate in eventi di estinzione di massa. Oggi purtroppo le emissioni antropiche sono a livelli talmente alti che oltre al riscaldamento globale, abbiamo già un'altra serie di fenomeni che hanno preparato le fasi acute delle estinzioni di massa negli oceani, quali l'acidificazione delle acque, l'aumento del fitoplancton e, buon ultimo, anche la riduzione del contenuto in ossigeno. È bene confrontare presente e passato, cosa che non viene fatta spesso, perché solo così possiamo capire la drammaticità della situazione attuale.

I FATTORI CHE GOVERNANO IL TENORE DI CO2 ATMOSFERICO. Il tenore di CO2 nell'atmosfera è governato da una vasta serie di fenomeni. Alcuni la immettono, altri la tolgono.
I vulcani ne costituiscono la principale fonte di provenienza, circa 100.000.000 di tonnellate annue.
Ci sono però dei processi che usano il CO2 e quindi si può dire che lo consumino:
  • fotosintesi 
  • alterazione delle rocce silicatiche (è molto alto dopo la formazione delle catene montuose)
  • formazione di rocce carbonatiche (calcari, dolomie)
  • assorbimento nelle acque marine
  • sequestro nella materia organica che non viene consumata (torbe, carboni, idrorcarburi)
  • sedimenti marini destinati a finire in zone di subduzione
  • stoccaggio di CO2 nelle aree glaciali: c'è una forte distinzione fra il tenore atmosferico di CO2 tra le fasi glaciali e quelle prive di calotte glaciali come il Mesozoico e l'inizio del Terziario


In realtà la questione dei ghiacci è un po' complessa: gas serra come CO2 e metano sono ampiamente stoccati nei ghiacci, nel permafrost e negli idrati delle aree polari. Ma siccome l’estensione di queste aree è variabile, ne consegue che assorbono o emettono CO2 a seconda che avanzino o si ritirino. Alcuni lavori recenti stanno per esempio cercando di capire i meccanismi di scambio di CO2 fra le calotte glaciali in ritiro e l’atmosfera negli ultimi 20.000 anni, cioè dalla fine dell’ultimo massimo glaciale ad oggi [1].

Questi meccanismi di stoccaggio sono molto efficienti. Anzi, richiedono più CO2 di quella che viene emessa dai vulcani. Ne consegue che una molecola di CO2 persiste in atmosfera mediamente 5 anni prima di essere riassorbita da qualcuno di questi processi.

LARGE IGNEOUS PROVINCES, CO2 ATMOSFERICO E PERTURBAZIONI NELLA VITA SULLA TERRA. Le emissioni dalle aree polari durante le loro fasi di ritiro possono aumentare il tenore atmosferico, ma c'è un processo straordinario che immette immense quantità di gas in atmosfera: le Large Igneous Provinces, che d'ora in poi spesso indicherò come LIP.
Questo termine è stata introdotto nel 1991 da Coffin e Eldholm [2] per definire una vasta serie di lave (in genere basalti e il loro corrispondente intrusivo, i gabbri), che rappresentano la messa in posto sopra e nella parte superiore della crosta di ingenti quantità di magmi provenienti dal mantello. Le dimensioni di una LIP sono immense, come si vede da questa carta dell'India in cui il giallo indica l'estensione attuale dei basalti del Deccan: centinaia di migliaia di km cubi di magma, se non milioni. 
L'attività di LIP non è continua nel tempo: si tratta di eruzioni di limitata durata: la fase parossistica in diversi casi ha avuto una durata di poche decine di migliaia di anni; anche la loro distribuzione nel tempo non è costante: le Grandi Province Magmatiche tendono a raggrupparsi nel tempo: per esempio ce ne sono state tante fra Giurassico e Cretaceo, mentre negli ultimi 55 milioni di anni l’attività di questo tipo è stata scarsissima. I periodi caratterizzati da intensa attività di LIP sono anche periodi in cui si innalza il tenore atmosferico di CO2, perché ne viene emesso un quantitativo che supera – e di gran lunga – le esigenze del “sistema – Terra”. 
Durante l'attività di una LIP l'atmosfera a livello globale è interessata da perturbazioni nel ciclo del carbonio, ma anche nell'acidità ed in altre caratteristiche, e di fatto c'è una corrispondenza fra l'attività di LIP e momenti caratterizzati da un alto tasso di estinzione, come vediamo in questa immagine.

L’ATMOSFERA TERRESTRE PRIMA E DOPO L’INTRODUZIONE DELL’OSSIGENO. Le emissioni gassose dei vulcani hanno sostituito la vecchia atmosfera ricca di idrogeno della Terra primordiale [3] con una composta per oltre il 95% da CO2. Non è invece più sicuro, come si riteneva prima, che fosse anche più pesante di oggi [4]. Questa composizione è stato un bene per la vita, perché il Sole all'epoca era molto più debole di oggi e con l’atmosfera attuale gli oceani si sarebbero irrimediabilmente ghiacciati.
L'acqua liquida è stata il brodo in cui è comparsa la vita ma fino a quando non sono apparse forme di vita fotosintetiche non ci sono state grosse modifiche nella composizione dell’atmosfera.
La fotosintesi clorofilliana è stata un meccanismo decisivo che ha permesso da un lato l'ossigenazione dell'atmosfera, dall'altro la riduzione del tenore di CO2 atmosferico.
Il passaggio non è stato semplice, come testimoniano le Banded Iron Formations, la cui deposizione è avvenuta fra 2.7 e 1.9 miliardi di anni fa: sia il loro aspetto, alternanze di selce e ossidi di ferro, che lo studio geochimico degli elementi in tracce dimostra alternanze fra fasi più e meno anossiche. Le BIF sono importanti dal punto di vista economico perché costituiscono i principali giacimenti di ferro odierni. 
La diminuzione del tenore di CO2 atmosferico ha avuto due ovvie conseguenze tra l'inizio e la fine della deposizione delle BIF:
  • il passaggio nell'ambiente subaereo da condizioni riducenti a condizioni ossidanti, cambiando drasticamente i minerali che possono resistere sulla superficie come dimostrano i pochi sedimenti dell'epoca oggi rimasti
  • una diminuzione delle temperature e dell'effetto – serra, talmente forte da provocare una grande glaciazione che probabilmente è arrivata anche a latitudini equatoriali (la Glaciazione Huroniana

Il clima è rimasto abbastanza fresco per buona parte del Neoproterozoico a causa del Sole ancora debole e circa 700 milioni di anni fa ci sono stati alcuni episodi di “Snowball Earth” (Terra palla di neve), in cui la Terra è stata coperta dai ghiacci fino a latitudini equatoriali. Sembra proprio che questi cicli siano stati innescati da forti diminuzioni di CO2 atmosferico [5], probabilmente dovuta a una forte sua forte richesta da parte della forte alterazione chimica delle rocce: la formazione del supercontinente Rodinia aveva provocato la formazione di grandi catene montuose lungo le zone di contatto fra le varie zolle continentali che si erano scontrate (come l’Himalaya odierna). Ovviamente la minore potenza della radiazione solare dell’epoca ha favorito questi episodi, che oggi invece non sarebbe possibile una glaciazione globale).
Per la brusca conclusione di questi eventi ci sono, al contrario, pesanti indizi su un aumento violento di CO2. Alla fine dell'ultima di queste fasi, il Marinoano (630 milioni di anni fa) ci sono anche tracce di attività vulcanica e di una anomalia dell'Iridio [6], per cui la mia idea è che la deglaciazione sia stata guidata dalla presenza di una attività di Large Igneous Province.

Il CO2 atmosferico degli ultimi
400 milioni di anni da [7]
L’ATMOSFERA DEL PALEOZOICO SUPERIORE. Facciamo un salto di qualche centinaio di milioni di anni, e arriviamo al Siluriano: 430 milioni di anni fa compaiono le prime piante terrestri. Da questo momento è relativamente semplice calcolare il tenore di CO2 dell'atmosfera, perché la densità dei fori degli apparati stomatici delle foglie è inversamente proporzionale a questo. Con questo metodo, controllato con altri parametri, è stato determinato il tenore di biossido di carbonio negli ultimi 400 milioni di anni [7], visibile in questa figura.
Vediamo che il tenore di CO2 aumenta nel Devoniano superiore, una fase caratterizzata da una forte attività vulcanica di LIP nell'attuale Europa Orientale e in Siberia, toccando il picco al passaggio Frasniano – Famenniano: è il momento di una delle più grandi estinzioni di massa della storia della Terra ed è “curiosamente” contemporaneo alla messa in posto della LIP della Yacuzia  (si calcola che siano stati messi in posto oltre 1 milione di km cubi di lave [8].

Poi inizia una discesa che si interrompe brevemente soltanto al passaggio Devoniano – Carbonifero: anche in questo caso le caratteristiche dei sedimenti del tempo dimostrano la presenza di un altro evento di LIP, di cui ancora non è conosciuta l'ubicazione.
La Terra nel Carbonifero 300 miliomi di anni fa, con le estese glaciazioni del Gondwana
Nel Carbonifero il tenore di CO2 in atmosfera diminuisce in maniera decisa, da oltre 1000 a 200 PPM in circa 50 milioni di anni a causa della concomitanza di una serie di fenomeni:
  • dopo il picco del Devoniano superiore, l'attività di LIP è praticamente assente nel Carbonifero e nel Permiano inferiore: la LIP ancora sconosciuta della fine del Devoniano si è messa in posto circa 360 milioni di anni fa e per averne una nuova bisogna aspettare i basalti dello Skagerrak, all'inizio del Permiano (un intervallo di circa 70 milioni di anni)
  • l'espansione delle piante vascolari aumenta il prelievo di CO2 per la fotosintesi
  • si formano ingenti giacimenti di carbone nelle aree equatoriali che sequestrano altro biosssido di carbonio
  • un'altra ingente quantità di gas – serra viene sequestrata nelle calotte glaciali con l'arrivo del supercontinente Gondwana ad alte latitudini meridionali e della Siberia (all'epoca continente isolato a se stante) in quelle settentrionali

Quindi da un lato in atmosfera arriva poco CO2, dall'altro il sistema – Terra ne consuma parecchia.
Le conseguenze a livello biologico sono state importanti: il collasso delle foreste pluviali di piante con spore (felci e licopodi) e la diffusione di ambienti più freddi e più secchi ha consentito la diffusione delle piante con semi (senza fiori) come conifere ed altre Gimnosperme e l'avanzata dei rettili a spese degli anfibi.

All'inizio del Permiano il tenore di CO2 comincia a risalire, per la ripresa dell'attività di LIP: Tarim, Skagerrak, Europa sudoccidentale ed altre. La forte attività di LIP del Permiano superiore lo riporta a livelli elevatissimi, ma è negli ultimi 10 milioni di anni del Permiano che i basalti dell'Emeishan e quelli della Siberia lo innalzano di nuovo fino a 2000 PPM, provocando anche due episodi di estinzione di massa, di cui il secondo, che conclude l'Era Paleozoica, è il più grave della storia: scomparve oltre il 90% dei generi di animali, in mare e in terra.
Per la fine del Permiano bisogna considerare anche che il riscaldamento globale promosso dalle emissioni delle LIP ha anche sciolto le ultime tracce delle calotte glaciali del Permo – Carbonifero, introducendo in atmosfera anche i gas – serra che erano stoccati nelle aree polari.

CO2 NELL’ERA MESOZOICA. L'inizio del Triassico è stato di fatto uno dei tempi più difficili per la vita sulla Terra, in cui probabilmente le aree equatoriali erano praticamente prive di forme di vita, a causa del forte effetto – serra dell’epoca.
La forte alterazione delle rocce silicatiche, la diminuzione dell'attività di LIP e il nuovo aumento della superficie coperta da boschi hanno consentito una diminuzione del CO2 atmosferico, che scende di nuovo fino a 400 PPM a metà del Triassico, per poi risalire di nuovo, in quanto inizia la forte attività di LIP connessa alla rottura della Pangea: la nuova separazione fra Laurasia e Gondwana è preceduta dalla messa in posto della LIP dell'Atlantico centrale alla fine del Trias, che generò una estinzione di massa di vasta portata, con la fine dei rettili mammaliani di tanti anfibi e arcoisauri, promuovendo la conquista dei continenti da parte dei dinosauri). In seguito abbiamo tra Giurassico e Cretaceo le emissioni delle varie LIP connesse alla fratturazione del Gondwana (le principali sono Karoo – Ferrar, Paranà – Etendeka, Madagascar, Kerguelen, Deccan) e alla formazione di alcuni grandi plateau basaltici nel Pacifico (Caraibico, oggi scomparso, Shatzk Rise e il mostruoso Ontong Java – Manihiki – hikurangi, oggi diviso in 3 parti lontane fra loro a causa dell'espansione dei fondi oceanici dell'area a N e ad E dell'Oceania).
Quindi tra Giurassico e Cretaceo medio – superiore il tenore atmosferico di CO2 risale ad oltre 1000 PPM. Il culmine di temperature e di tenore di CO2 lo abbiamo nel Turoniano, 90 milioni di anni fa.

TEMPERATURE E TENORE DI CO2 SI ABBASSANO DAL CRETACEO SUPERIORE A OGGI. Dal Turoniano ad oggi temperature e tenore di CO2 si abbassano. Anche in questo caso l'inizio del trend sembra dovuto all'alterazione delle rocce silicatiche che gli eventi tettonici del periodo hanno portato in superficie [9] All'inizio questo trend è stato ostacolato dalla messa in posto di alcune LIP, come i basalti del Deccan che alla fine dell'Era Mesozoica hanno provocato l'estinzione definitiva di dinosauri (a parte gli uccelli), ammoniti e tanti altri gruppi di animali. C'è ancora chi sostiene che il problema sia stato dovuto alla caduta del meteorite dello Yucatan, ma in realtà le cose stanno in maniera diversa, e la maggior parte dei geologi – anche se non tutti – ormai pensa che come tutte le altre estinzioni di massa, quella di fine Mesozoico sia stata provocata dalla messa in posto di quella LIP.
Significativo è anche il momentaneo incremento delle temperature e del CO2 atmosferico al passaggio Paleocene – Eocene, 55 milioni di anni fa, coevo con la messa in posto dei basalti dell'Atlantico Settentrionale, la LIP che precede l'apertura del segmento più settentrionale dell'Oceano. Secondo alcuni Autori la virulenza di questa LIP (che ha avuto parecchie influenze sull'evoluzione dei mammiferi) è dovuta anche al fatto che i primi magmi si sono introdotti in sedimenti pieni di idrocarburi (siamo nei dintorni del Mare del Nord!), che quindi sono stati bruciati [10].

Poi la curva di discesa del CO2 si accentua, perché, come nel Carbonifero, inizia la formazione delle calotte polari, che assorbono CO2 e l'attività di LIP diventa più sporadica.
Oggi purtroppo la situazione è difficile, perché in 200 anni siamo tornati al tenore di CO2 dell'atmosfera della fine dell'Eocene, una fase in cui ancora non era iniziata la formazione della calotta polare antartica.

I PROBLEMI ATTUALI SUL TAPPETO. Ci sono alcuni aspetti che fanno pensare al peggio, in particolare dei segnali che possono portare alle fasi totalmente prive o quasi di ossigeno nei mari concomitanti con le Large Igneous Provinces e con le estinzioni di massa:
  • acidificazione delle acque
  • aumento del fitoplancton
  • emissioni di gas serra dalle calotte polari in scioglimento
  • la possibilità che gli oceani non riescano ad assorbire più di tanto le future emissioni antropiche di CO2
  • la diminuzione del tenore di ossigeno delle acque (e questa è l'ultima appena uscita..) [11]

Tutto questo suggerirebbe di diminuire il più possibile l’uso dei combustibili fossili...

[1] Bauska et al (2016): Carbon isotopes characterize rapid changes in atmospheric carbon dioxide during the last deglaciation. PNAS 113, 3465–3470
[2] Coffin e Eldhom (1994): Large Igneous Provinces: crustal structure, dimensions, and external consequences. Reviews of Geophysics 32, 1-36
[3] Tian et al (2005): A Hydrogen-Rich Early Earth Atmosphere. Science 308, 1014-1017
[4] Som et al (2016): Earth's air pressure 2.7 billion years ago constrained to less than half of modern levels. Nature Geoscience doi:10.1038/ngeo2713
[5] Tziperman et al (2011): Biologically induced initiation of Neoproterozoic snowball-Earth events PNAS 108, 15091–15096
[6] Bodiselitsch et al (2005): Estimating Duration and Intensity of Neoproterozoic Snowball Glaciations from Ir Anomalies. Science 308, 239-242
[7]Franks et al (2014): New constraints on atmospheric CO2 concentration for the Phanerozoic. Geophysical Research Letters 41, 4685–4694
[8] Ricci et al (2013): New 40Ar/39Ar and K–Ar ages of the Viluy traps (Eastern Siberia): Further evidence for a relationship with the Frasnian–Famennian mass extinction. Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology 386, 531–540
[9] Jagoutz et al (2016): Low-latitude arc–continent collision as a driver for global cooling. PNAS 113, 4935–4940
[10] Svensen et al (2004): Release of methane from a volcanic basin as a mechanism for initial Eocene global warming. Nature 429, 542-545
[11] Long et al (2016): Finding forced trends in oceanic oxygen Global Biogeochemical Cycles DOI: 10.1002/2015GB005310

venerdì 6 maggio 2016

6 maggio 1976: 40 anni fa il terremoto del Friuli. Le deformazioni attuali nelle Alpi Orientali


Il 6 maggio 1976, esattamente 40 anni fa, il Friuli è stato scosso da uno dei più gravi terremoti avvenuti in Italia nel XX secolo, avvertito in tutta l’Italia settentrionale e anche più a sud. Questa ricorrenza mi spinge a spiegare brevemente cosa succede in questo settore geologico tra Italia nordorientale, Austria, Slovenia e Ungheria, dove la tettonica è molto attiva e, direi, anche abbastanza particolare.

ALPI OCCIDENTALI E ALPI ORIENTALI: 
DUE SITUAZIONI IERI SIMILI, OGGI BEN DIVERSE

Come dimostra la carta della sismicità italiana le Alpi occidentali sono, a parte la Sardegna, l’area più tranquilla in materia che abbiamo in Italia, nonostante l'apparente contraddizione di essere quella più elevata del Bel Paese. 
Invece nel settore orientale, dove la catena raggiunge altezze ben minori, sono ipotizzati scuotimenti molto forti. Anzi, come si vede, è la fascia sismica più importante al di fuori di quella che corre lungo l’asse appenninico. E purtroppo il 6 maggio 1976 abbiamo proprio avuto la tragica conferma delle osservazioni storiche su forti terremoti nell'area carnica.

Questa differenza fra i due settori della catena alpina  ha ragioni geologiche (e tettoniche) molto fondate.

Nelle Alpi Occidentali si vede chiaramente la collisione con la placca adriatica di quella europea che le è finita sotto. La collisione si è conclusa e il fronte tettonico attivo da quelle parti è oggi nell’Appennino settentrionale, la parte più settentrionale di quel sistema deformativo  che dal Piemonte arriva al Gibilterra passando per l’Appennino, i monti della Sicilia settentrionale e la catena dell’atlante: l’orogene appenninico - maghrebide.
Nelle Alpi orientali, durante la prima fase della collisione la placca europea è scesa sotto quella adriatica, finendo nel mantello terrestre, come nel resto della catena alpina (Carpazi compresi); in seguito le cose sono andate in maniera diversa: lo scontro è ancora attivola catena alpina è ancora oggetto di forti deformazioni, perchè la placca adriatica si incunea dentro quella europea, più o meno come l'India sta incuneandosi dentro l'Asia. Questo processo si chiama geologicamente indentazione.

La causa della indentazione della placca adriatica in quella europea è l’apertura del Mediterraneo occidentale iniziata nell’Oligocene con la formazione del bacino di Alboran e proseguita, a cascata, da quella del bacino delle Baleari, di quello Ligure – Provenzale e, per finire, del Mare Tirreno: in pratica le Baleari e la Sardegna si sono staccate insieme dall’Europa, poi la Sardegna dalle Baleari e alla fine i graniti calabresi da quello sardo. A seguito di questi movimenti la penisola italiana è ruotata in senso antiorario (per capirne l'entità basta ruotare la Sardegna e la Corsica fino a farle attaccare con le baleari e spingere il tutto verso la costa europea e considerare poi una ulteriore rotazione per aprire il Tirreno. Ne avevo parlato in questo vecchio post.

LE CONSEGUENZE DELLA INDENTAZIONE DELLA PLACCA ADRIATICA IN QUELLA EUROPEA

L’indentazione della placca adriatica dentro quella europea ha comportato due conseguenze:
1. la separazione del sistema dei Carpazi da quello alpino (in questo ha un ruolo anche l'apertura del bacino pannonico). Lo vediamo in questa figura, tratta da [1], dove si vede che l'allontanamento avviene lungo la zona di faglia trascorrente sinistra Mur–Mürz–Žilina (MMZ nella carta)


2. una inversione della subduzione nel settore friulano, dove attualmente è la placca adriatica che si immerge sotto quella europea (o, meglio sotto delle unità che le appartengono.
Secondo alcuni Autori questa inversione della subduzione sta iniziando anche nel settore lombardo (per esempio nel comasco). Ma non tutti sono d'accordo e per spiegare la cosa andrei fuori tema (e ora non avrei proprio il tempo di farlo).

Le due situazioni sono ben visibili in queste sezioni, prese da [2], ottenute tramite tomografia sismica: 
la prima sezione illustra la situazione nell’area occidentale, con la crosta europea che subduce sotto quella adriatica:


la seconda sezione illustra la situazione nell’area orientale: anche qui si vede benissimo lo slab della litosfera che scende sotto la zolla adiacente, solo che stavolta il cuneo va sotto l’Europa ed è rivolto verso nord:


A NORD DEL FRIULI: LE GRANDI FAGLIE TRASCORRENTI. Una buona parte della indentazione della placca adriatica consiste in una deformazione della stessa, che avviene grazie ad una serie di faglie trascorrenti delle quali le più importanti sono la faglia periadriatica, la Salzach – Puchberg e la già citata Mur–Mürz–Žilina. In pratica il blocco compreso tra queste faglie sta andando verso est.
La faglia periadriatica è una trascorrente destra, diretta praticamente EW e lunga almeno 700 km, che divide il dominio austroalpino a nord da quello sudalpino a sud. Essendo una faglia trascorrente il movimento è essenzialmente laterale (cito come sempre la faglia più conosciuta al mondo, quella di San Andreas in California); l'entità della dislocazione lungo questa faglia è ancora incerta: le stime vanno dai 100 ai 450 km.

Oltre al movimento orizzontale si sono registrati anche dei movimenti verticali: in particolare il lato nord della faglia si è sollevato di parecchi km: è per questo che grazie all'erosione di quanto c'era sopra troviamo in affioramento parti molto profonde della catena (la famosa “finestra tettonica dei Tauri”).
Ovviamente le altre due faglie, che bordano questo blocco verso nord, sono sempre trascorrenti, ma il loro movimento è sinistro.
Le vediamo in questa carta, dove è segnato anche il fronte di deformazione attuale nel Friuli: la stella indica il terremoto del 1976.


IL SETTORE FRIULANO: INVERSIONE DELLA DIREZIONE DI COMPRESSIONE. Se quindi a nord della faglia periadriatica oggi la deformazione è assorbita soprattutto da queste faglie trascorrenti, a sud di questo importante lineamento la situazione è completamente differente: le unità del sudalpino rappresentano un classico sistema di pieghe e sovrascorrimenti con vergenza verso sud, nato dallo scorrimento della placca europea sotto la placca adriatica, come nel blocco australpino e come generalmente succede nelle Alpi.
Però, a differenza di quello che è successo nel resto dell’orogene alpino – carpatico, oggi la deformazione in questo settore è di senso opposto: è la Carnia che sta scendendo sotto alla catena e quindi si stanno sovraimponendo sopra le strutture originatesi all’epoca della subduzione verso sud della placca europea sotto quella adriatica, strutture, soprattutto delle faglie inverse, i cui piani immergono verso nord. Una di queste faglie è la responsabile del terremoti del 6 maggio 1976 e altre dell'elevata sismicità dell'area: ricordo per esempio  i forti terremoti che hanno colpito il Friuli e le aree limitrofe in passato, come quello del 19 febbraio 1691 vicino a Lubiana e quello del 28 luglio 1700 a Tolmezzo, per non parlare del terribile disastro del 25 gennaio 1348
In pratica questa parte della placca adriatica scorre sotto le sue unità più settentrionali dopo che tutte insieme, sono state deformate nel terziario.

[1] Bada et al. (2007) Present-day stress field and tectonic inversion in the Pannonian basin Global and Planetary Change 58, 165–180

[2] Lippitsch et al (2003) Upper mantle structure beneath the Alpine orogen from high-resolution teleseismic tomography. Journal of Geophysical research, VOL. 108, NO. B8, 2376, doi:10.1029/2002JB002016, 2003