sabato 17 novembre 2018

I Campi Flegrei e la possibile eruzione distruttiva: il solito allarme giornalistico


No. L'eruzione epocale dei Campi Flegrei non è imminente. O, meglio, É praticamente certo che prima o poi avverrà ma non è detto che arrivi "a breve" dal punto di vista umano (e Dante's Peak in confronto sarebbe una passeggiata...). Lo si deduce in primis dalla storia geologica (i vulcani che formano caldere hanno spesso il vizio di farlo più volte..) e da una analisi sulle lave degli ultimi 60.000 anni, che ha rivelato come i prodotti dell'eruzione più recente, quella del Monte Nuovo del 1538, possiedano le caratteristiche tipiche delle eruzioni che precedono (ripeto: non necessariamente a breve) i collassi calderici. Insomma, tutte le volte che si parla di Vesuvio o Campi Flegrei, qualsiasi articolo scientifico che esce viene successivamente infarcito sulla stampa e su internet da fantasie su catastrofi imminenti. Vediamo dunque, dopo un breve riassunto della storia del vulcano, cosa dice questo interessante lavoro.

Rispetto ad un terremoto, una eruzione vulcanica in genere viene prevista: questo grazie ai suoi precursori, in particolare il tremore sismico (una serie continua di terremoti normalmente di piccola intensità provocati dal magma che si apre la strada sotto il vulcano) e alcune variazioni nella temperatura e nella composizione delle fumarole. Rilevare questi fenomeni vuol dire alzare il livello di sorveglianza prima che il tutto accada. Nessun vulcano monitorato è mai andato in eruzione senza questi precursori, anche se in qualche caso tra la certezza dell’eruzione e il suo arrivo il tempo è stato inferiore al previsto.

Il Vesuvio e Campi Flegrei sono vulcani attivi: anche se attualmente dormono sono in grado di produre i possibili precursori di una eruzione “da un momento all’altro” e, nel loro specifico, sono caratterizzati da due importanti fattori di rischio che ne aumentano la pericolosità:

  • appartengono al tipo più “cazzuto” che esiste di vulcani, quelli a magmi potassici: nonostante siano abbastanza rari, fra questi troviamo ad esempio Tambora, Rabaul e Yellowstone, cioè gli autori, insieme ai Campi Flegrei, di alcune delle più violente eruzioni degli ultimi 100.000 anni. Insomma, se i vulcani potassici costituiscono un numero quasi irrilevante nelle statistiche sui vulcani dal punto di vista del numero, in quelle delle eruzioni catastrofiche sono molto ben piazzati
  • sono all’interno di un’area intensamente popolata e che conserva beni culturali di importanza assoluta (fatto questo comunque “normale” per un’area in territorio italiano...)

In più i Campi Flegrei suonano un po' differente dal concetto normale di vulcano, che prevede - come ad esempio il vicino Vesuvio - una montagna che si erge da quanto la circonda: infatti si tratta di un insieme di crateri di varie dimensioni che si intersecano fra loro, con una altezza risibile rispetto ad un vulcano normale; questo perché la loro storia, almeno negli ultimi 60.000 anni consiste in una serie di eruzioni più o meno “normali” punteggiate da due eventi che hanno provocato la formazione di una caldera, cioè di una vasta depressione provocata dallo svuotamento improvviso di una camera magmatica e deposto spessori importanti rappresentati dall’Ignimbrite Campana e dal Tufo giallo Napoletano.
La stratigrafia dei Campi Flegrei è stata ricavata da un sondaggio che ha perforato il sottosuolo della caldera per 501 metri, il Campi Flegrei Deep Drilling Project (CFDDP) (quello che aveva suscitato forti e assurde preoccupazioni da parte di catastrofisti, i quali sostenevano che avrebbe potuto provocare una eruzione…..) ed è illustrata in Di Natale et al (2016).

Come si produce una caldera
I CICLI DEI VULCANI CHE PRODUCONO CALDERE. Un vulcano caratterizzato da una caldera, come anche Yellowstone, spesso ha una attività ciclica di calderizzazione che si ripete nel tempo. Ogni ciclo è caratterizzato non solo da una diversa frequenza delle eruzioni "normali" (quelle non distruttive), ma anche da significative differenze nel chimismo dei magmi:

  1. il ciclo comincia quando i magmi silicici si accumulano in un serbatoio a bassa profondità nella crosta; la risposta superficiale consiste in eruzioni non frequenti tra lunghe fasi di quiescenza; i magmi sono molto evoluti, cioè hanno subìto importanti processi di differenziazione, per cui mostrano un contenuto di silice piuttosto alto, mentre contengono poco Fe e Mg e pochi cristalli dentro una pasta vetrosa (nei magmi si può grossolanamente dividere una pasta vetrosa da cristalli solidi che vi “nuotano” come rami dentro un fiume in piena)
  2. nell’eruzione principale viene emessa una quantità enorme di magmi che letteralmente svuota in gran parte la camera magmatica: lo svuotamento provoca il collasso della crosta sovrastante e si forma un enorme cratere largo anche parecchi km. Nonostante che questa fase duri molto poco c'è una enorme differenza fra i magmi all'inizio a alla fine dell'eruzione, con gli ultimi molto meno differenziati e contenenti una significativa percentuale di cristalli (nei Campi Flegrei si va da magmi vetrosi al 96% sino a magmi con meno del 70% di vetro). Questo aspetto dimostra la presenza di un notevole afflusso di materiale “nuovo” dalle profondità della crosta
  3. nella fase post-collasso si assiste ad una progressiva ricarica della riserva che si era svuotata. I magmi post-collasso sono meno differenziati quindi hanno più Fe e Mg e sono meno ricchi in silice, mentre le eruzioni sono più frequenti

Il passaggio dalla fase che segue l’evento principale a quella che ne precede il successivo è quindi marcato da un cambio sia nella frequenza degli eventi, che diventano più rari e nel chimismo dei prodotti, che si evolve verso termini più differenziati in cui ad esempio scompaiono minerali come i pirosseni, ricchi in Fe e Mg, al contrario frequenti nei primi magmi seguiti al collasso calderico e in cui aumenta significativamente la percentuale di vetro rispetto a quella dei cristalli. 
Un'altra caratteristica importante è rappresentata dalla temperatura di equilibrio e dal contenuto in acqua dei magmi: 
  • dopo la formazione della caldera i magmi sono più caldi e con un contenuto di acqua minore; con il tempo la loro temperatura di equilibrio (cioè, approssimativamente, quella alla quale fonderebbe) diminuisce
  • al contrario, il contenuto di acqua aumenta. 
  • il collasso calderico è segnato da un aumento della temperatura di equilibrio e da una diminuzione del contenuto di acqua. entrambii trend si invertono bruscamente in corrispondenza del collasso calderico, in cui aumenta la temperatura di equilibrio e diminuisce il contenuto di acqua

L'inversione durante il collasso di questi parametri e di quelli precedenti è la spia del fatto che il collasso calderico sia connesso ad un massicico arrivo di nuovo magma dal basso che perturba la camera magmatica. 

L'ATTIVITÀ ERUTTIVA DEI CAMPI FLEGREI TRA 60.000 E 16.000 ANNI FA. La storia del vulcano è ben ricavabile dall’Osservatorio Vesuviano (sito internet). Se le caratteristiche dell’attività vulcanica sono state nel passato simili a quello che è successo negli ultimi 16.000 anni, i Campi Flegrei hanno alternato fasi di qualche migliaio di anni di attività frequente a fasi di riposo sempre nell’ordine delle migliaia di anni. Inoltre abbiamo due episodi fondamentali in cui quanto c’era è stato praticamente distrutto da collassi calderici che hanno emesso delle ingenti quantità di materiali in atmosfera e lasciato grandi tracce sul terreno e cioè:

  1. circa 39.000 anni fa l’eruzione dell’Ignimbrite Campana, uno degli eventi più violenti degli ultimi 100.000 anni al mondo
  2. circa 15.000 anni fa l’eruzione del Tufo Giallo Napoletano

ATTIVITÀ ERUTTIVA DEGLI ULTIMI 15.000 ANNI. I dati degli ultimi 15.000 anni, cioè del dopo - Tufo Giallo, sono, come è logico, molto più frequenti perché non è intervenuta da allora nessuna eruzione distruttiva. La prima cosa che si nota bene è la divisioni in più fasi di attività, delimitate da pause più o mneo lunghe:

  • tra 15.000 e 9.500 anni fa hanno avuto luogo 34 eruzioni esplosive, con una media di una eruzione ogni 70 anni
  • tra 8.600 e 8.200 anni fa, dopo un periodo di quescenza di meno di 1000 anni, si verificava in media una eruzione ogni 65 anni,  6 delle quali sono state fortemente esplosive
  • dopo altri 3000 anni di silenzio, tra 4.800 e 3.800 anni fa ci sono state 16 eruzioni esplosive e 4 eruzioni effusive, che si sono succedute con una frequenza media di una eruzione ogni 50 anni
  • poi il silenzio, che dura quindi da quasi 4000 anni, rotto esclusivamente dalla piccola eruzione del Monte Nuovo nel 1538

Questo ovviamente escludendo quello che è successo sia al Vesuvio, sia soprattutto a Ischia, dove fra il 2000 a.C. e il 1302 si contano oltre 15 eruzioni. Ma Ischia, come il Vesuvio, sono considerati apparati a se stante, anche se per alcuni Autori la camera magmatica principale è la stessa.

LE VARIAZIONI NEL TEMPO DEI MAGMI FLEGREI. Nel lavoro appena uscito (Forni et al, 2018) i ricercatori combinano varie informazioni petrografiche e geochimiche ricavate da campioni di roccia, minerali e vetri di grandi dimensioni provenienti da 23 eruzioni diverse degli ultimi 60.000 anni di storia dei Campi Flegrei, inclusi i due eventi che hanno formato le caldere  39000 e 15000 anni fa e le unità chiave rappresentative di attività che ha preceduto e seguito le due eruzioni catastrofiche.
I dati “buoni” sulle fasi intermedie che hanno preceduto gli episodi principali sono scarsi; penso che ciò sia duvuto al fatto che i collassi calderici abbiano distrutto buona parte della storia eruttiva immediatamente precedente. Guardiamo in particolare i dati sulla cristallizzazione e sul contenuto in cristalli:

  • i pochi dati pre-ignimbrite campana mostrano un contenuto in cristalli estremamente basso e una differenziazione molto spinta, talvolta più spinta deill’evento principale, in linea con quello che dovrebbe succedere teoricamente
  • i primi magmi del periodo fra i due eventi principali sono poco evoluti e poi presentano un graduale aumento della differenziazione 
  • il grado di differenziazione dopo un massimo  scende di poco prima di arrivare al collasso di 16 mila anni fa. Sono prodotti con scarso contenuto di cristalli tranne il caso di Trentaremi, che appartiene presumibilmente alla fase post-Ignimbrite Campana e non alla successiva pre-tufo giallo

Le tre fasi successive all’evento del Tufo Giallo di 15.000 anni fa hanno caratteristiche petrologiche interessanti:

  1. la prima è un tipico esempio di attività post – collasso, con magmi poco differenziati e ricchi in cristalli
  2. la seconda è rappresentata in questo lavoro da un dato singolo, molto evoluto e con pochi cristalli
  3. nella terza i magmi sono piuttosto evoluti, ma il contenuto in cristalli è particolarmente alto

Le variazioni nel temo di temperatura di equlibrio
e contenuto di acqua nei magmi flegrei - Forni et al, 2018)
CARATTERISTICHE DELL'ERUZIONE DEL 1538. Venendo all’ultima eruzione del Monte Nuovo del 1538, il magma è particolarmente omogeneo ed evoluto (anzi, è il più differenziato di sempre!) e il più povero di sempre di cristalli; insomma, per questi parametri ed altri, per esempio:

  • la temperatura teorica del liquido che ha generato il magma, molto bassa come che è minima prima della formazione della caldera e massima nelle sue fasi finali
  • il contenuto in acqua

Questa eruzione ricorda moltissimo i prodotti che hanno preceduto le fasi iniziali degli eventi di formazione delle caldere, non solo quella dei Campi Flegrei.
Quindi questa ultima eruzione indica l’inizio di una nuova fase che potrebbe potenzialmente essere il segnale che in un momento imprecisato del futuro, in una grande eruzione che culminerà nella formazione di una nuova caldera
Quando? Potenzialmente “presto” in termini geologici. Ma è estremamente probabile che non la vedrà nessuno di coloro che attualmente vivono sulla Terra. Inoltre i segnali dell'arrivo di un nuovo e massiccio afflsso di magma, necessario per disturbare la camera magmatica attuale e indurre l'eruzione catastrofica, sarebbero ben evidenti, probabilmente anche mesi prima dell'evento.
Con questo, ritengo lo stesso che nell'area a rischio viva un pò troppa gente...


Di Natale et al (2016) The Campi Flegrei Deep Drilling Project (CFDDP): New insight on caldera structure, evolution and hazard implications for the Naples area (Southern Italy), Geochem. Geophys. Geosyst., 17, 4836–4847, doi:10.1002/ 2015GC006183.
Forni et al (2018) Long-term magmatic evolution reveals the beginning of a new caldera cycle at Campi Flegrei. Sci. Adv. 4, eaat9401
Osservatorio Vesuviano http://www.ov.ingv.it/ov/it/campi-flegrei/storia-eruttiva.html - consultato il 16 novembre 2018


venerdì 9 novembre 2018

Riflessioni sull'assetto del territorio dopo gli ultimi eventi atmosferici





Ho già avuto qualche screzio con un paio di detentori di case abusive (dei quali uno potrebbe essere graziato – a nostre spese – dal nuovo condono strisciante ischitano) e continuo a non capire come sia possibile che una costruzione abusiva possa essere venduta, affittata, servita da utenze e segnalata con un numero civico… Continuo anche a chiedermi se l’abusivismo edilizio in zone a rischio sia una questione di irresponsabilità o di ignoranza: la differenza non è di poco conto perchè un irresponsabile sa di stare facendo una cosa sbagliata e/o pericolosa, mentre un ignorante non si rende conto di attuare un comportamento a rischio. D’altro canto è evidente l’atteggiamento quantomeno passivo nei confronti dell’abusivismo di alcune macchine comunali (dai sindaci in giù): visto che una casa non si costruisce in una notte, spiegatemi come sia possibile fare operazioni edilizie così evidenti senza che nessuno le noti…. Quando poi sento il sindaco di Agrigento (non so e non mi interessa il partito in cui milita) dire che i regolamenti urbanistici devono mettere al centro il cittadino, anziché, come sarebbe più logico, le esigenze dell’assetto del territorio e specialmente quelle dei fiumi, capisco che c’è poco da fare: bisogna rassegnarsi al “disastro continuo”. Ma facciamo il punto sulla situazione.




IL PARAGONE FRA 1966 E 2018, IN PARTICOLARE A PROPOSITO DEL VENETO. Martedì 30 ottobre tramite amici che stanno da quelle parti avevo capito che la situazione nell’Alto Veneto era estremamente drammatica e che la grande copertura mediatica sugli yacht di Portofino non puntava alle cose più importanti che erano successe in quei giorni; purtroppo solo qualche giorno dopo anche i media si sono – finalmente – accorti del dramma. D’accordo, anche qui qualcuno avrà esagerato costruendo qualcosa in un posto non troppo sicuro, ma stiamo parlando in questo caso soprattutto di frane e danni a boschi, anche se qualche vittima c’è scappata lo stesso… ma non riesco ad immaginare neanche lontanamente cosa potrebbe essere accaduto se ci fosse stata una situazione edilizia come quella di Contrada Cavallaro...

Domenica 28 ottobre era chiaro che la faccenda si stava mettendo molto male e ne parlavo con l’amico Michele Cavallucci dell’Osservatorio meteo – sismico di Perugia (seguite anche la pagina FB dell’osservatorio… interessante…): le figure atmosferiche erano le stesse, però non volevo essere il primo ad agitare lo spettro del 1966 e ho aspettato che lo dicesse qualcun altro. Trovo significativo che a farlo sia stato il governatore del Veneto, Zaia: è importante che il Governatore di una Regione potenzialmente interessata da un grave evento atmosferico sia il primo ad annunciare il rischio. 
Già, il Veneto. Perché se l’evento del novembre 1966 è ricordato universalmente per i danni subìti da Firenze, io insisto a chiamarlo “evento alluvionale della Toscana e dell’Italia di nord-Est”, in quanto gli epicentri del problema sono stati due: oltre alla Toscana (una buona parte, non solo Firenze), anche per i monti del Triveneto è stato un avvenimento epocale.
La situazione dei primi di novembre del 1966
Ai primi di novembre del 1966 sulla Spagna c’era un’area depressionaria, il cui profondo minimo di 994 hPa provocò una massiccia evaporazione nel Mediterraneo occidentale. Purtroppo, contemporaneamente, sui Balcani insisteva un’alta pressione che ha bloccato la perturbazione nel suo movimento verso est, costringendola a scaricare quindi sulla nostra penisola tutta la sua acqua; in più la fortissima differenza di pressione fra il Mediterraneo e i Balcani innescò sull’Adriatico venti meridionali caldi ad oltre 100 km/h.
Ed è esattamente quello che è successo anche la settimana scorsa in Veneto: perché i danni oltre alle piogge che hanno gonfiato i fiumi e provocato tutte quelle frane sono stati causati dai venti meridionali incredibilmente forti innescati anche questa volta dalla differenza di pressione esistente fra il Mediterraneo occidentale e i Balcani; venti che, come nel 1966, hanno spinto le acque dell’Adriatico, provocando uno dei peggiori episodi di “acqua alta” degli ultimi 100 anni e questa volta hanno devastato, insieme alle piogge, la parte più elevata della catena alpina in Veneto.
La tempesta di vento è stata dunque eccezionale nella sua violenza e dovuta alle circostanze meteorologiche particolari. E che non sia un evento comune lo attestano proprio le devastazioni di alberi pluricentenari venuti giù come fuscelli. La differenza principale è che nell’ottobre 1966 il tempo freddo e umido aveva depositato anche a quote basse parecchia neve e il suo scioglimento dettato da piogge e riscaldamento dette un fattivo contributo alle piene. Stavolta – per fortuna – questo contributo è mancato, il che ha almeno salvato le pianure da larghe esondazioni.


Densità di frane in maglie di 2 km dal rapporto
sul dissesto idrofeologico di ISPRA 2018

PERCHÈ COSÌ TANTE FRANE ED ALLUVIONI IN ITALIA? Anche le piogge del 2018 sono state eccezionali, ma lo è stato soprattutto il vento che raramente procura nel nostro Paese danni così vasti; per il resto, frane ed alluvioni in caso di forti piogge sono una caratteristica “classica” del territorio italiano, in quanto dal punto di vista della difesa del suolo l'Italia è uno dei Paesi più difficili che si possano immaginare, offrendo delle specificità peggiorative rispetto alla situazione classica europea:

- un rilievo giovane, con due catene montuose in cui i processi tettonici sono ancora attivi, come dimostrano i frequenti terremoti ma anche le elevate differenze di altitudine in zone meno sismiche 
-  colline e monti bellissimi ma spesso composti da sedimenti vagamente consolidati più che da rocce litificate
- una idrografia che si sviluppa in tanti piccoli bacini anziché in pochi grandi bacini
- un territorio circondato da mari caldi che apportano piogge molto intense
- una densità di popolazione molto elevata, come il tasso di occupazione artificiale del suolo



Quindi è per la natura stessa del territorio che i processi dominanti nell’evoluzione naturale del paesaggio italiano siano frane, alluvioni (e anche terremoti). Il mix di queste circostanze è terribile, perché i bacini idrografici piccoli quando sono esposti a forti piogge sono molto più soggetti a piene improvvise di bacini grandi: andando nei casi estremi il Fereggiano a Genova nel 2014 e il Rio Maggiore a Livorno nel 2017 sono esondati quando ancora pioveva; invece nel 2000 le Ferrovie ebbero tutto il tempo di rialzare il ponte di Rovigo sulla Bologna – Padova prima che la piena del Pò causata dall’alluvione piemontese avvenuta giorni prima arrivasse nel basso Veneto; anche l'inondazione di Dresda del 2002 e quella di Parigi del 2015 furono preannunciate diversi giorni prima, dando il tempo di mettere in sicurezza diverse opere d'arte.

Una situazione del genere imporrebbe particolari precauzioni dal punto di vista dell'uso del territorio. E invece fra tutte le Nazioni europee la nostra è probabilmente quella in cui il rispetto per il territorio è minore, un Paese in cui sono state fatte molte cose che non dovevano essere fatte e ne sono state realizzate ben poche di quelle che dovevano essere fatte per un suo corretto uso.


l'alveo del Bientina (Pisa) tornato palude durante una alluvione

FIUMI, PALUDI E LAGUNE COME DOVREBBERO ESSERE E COME SONO. Vediamo i fiumi nascere, ricevere gli affluenti e sboccare in mare. È una configurazione quasi totalmente artificiale: in Natura un fiume, dopo una ripida discesa dal monte, arrivando nel piano si impaluda, si divide in più rami, ed è libero di modificare a suo piacimento il suo corso in lungo ed in largo per tutta la valle, dove zone asciutte si alternano ad acquitrini e laghi.

L’uomo invece ha confinato i fiumi in alvei sempre più stretti, spesso rettificati con una lunghezza ridotta anche a un terzo di quella originaria. Le rettifiche, ideate per aumentare lo spazio per l’agricoltura e diminuire le distanze agevolando i trasporti (prima delle ferrovie le merci viaggiavano quasi esclusivamente sui fiumi), ha comportato gravi effetti negativi: l’incremento della pendenza e l’eliminazione delle curve hanno aumentato la velocità della corrente, diminuendo il volume di acqua contenibile dall'alveo e la distanza fra gli affluenti, i quali ormai riversano le loro piene quasi contemporaneamente nel corso principale.
Le paludi sono praticamente inutili per l’Uomo (anzi, erano luoghi malsani ed inospitali, quindi fino alla scoperta della cura per la malaria erano anche estremamente pericolose) ed erano così sgradite che Dante ne parla così:


Qual dolor fora, se de li spedali

di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite membre
Inferno XXIX, 46 - 51

Siamo nella nona bolgia dell'ottavo cerchio, insomma il puzzzo delle paludi si trova quasi in fondo all'inferno...
Le bonifiche, che hanno fornito spazio per le attività umane (principalmente l'agricoltura) nel contempo hanno tolto aree di stoccaggio per le piene e pertanto i fiumi si ritrovano a dover gestire anche quella percentuale di acqua che si sarebbe fermata nelle paludi, mentre a causa del disboscamento i suoli montani trattengono meno le piogge e immettono più velocemente l’acqua nei fiumi.
Anche le coste lungo le pianure non sono naturali: la laguna veneta, che ci sembra una eccezione, in realtà è proprio quello che ci si dovrebbe aspettare per una costa lungo una pianura, dove al posto di una linea di costa precisa in condizioni naturali ci sarebbe una successione di stagni, dune, cordoni litorali - insomma.. una laguna - con un limite fra acque salmastre e quelle dolci delle paludi all’interno molto più sfumato di quello che vediamo oggi.
Insomma, in Italia buona parte delle aree pianeggianti sarebbe per natura coperta da specchi d’acqua e ciò che vediamo adesso, dalle pianure interne a quelle costiere, è il risultato di vaste operazioni di bonifica.
Per chi volesse qui ho scritto qualcosa sul problema delle bonifiche.


Nelle aree urbanizzate sparisce il reticolo superficiale delle bonificihe: il sistema fognario sarà adeguato?
Immagine dell'Autorità di bacino dell'Appennino Settentrionale di Prato, Campi Bisenzio e la parte occidentale di Firenze) 


I SUOLI SIGILLATI. Già i suoli agricoli non sono il massimo rispetto a quelli naturali quanto ad assorbimento dell'acqua (specialmente quelli in cui i filari o islchi sono paralleli alla massima pendenza), ma in quelli artificiali (intendendo con questo termine solo i suoli sigillati, cioè coperti da edifici, strade etc etc) diventa impossibile: la copertura artificiale toglie al suolo la possibilità di assorbire la pioggia e in città soltanto i giardini la drenano naturalmente; pertanto è necessario un sistema fognario efficiente (che – comunque – immette l’acqua piovana nei fiumi prima rispetto ad un suolo naturale).

Non ci si deve quindi stupire se a volte bastano poche ore di pioggia per esondare: se piove una certa quantità di acqua in qualche modo una certa percentuale di essa dovrà per forza defluire. Allora i fiumi escono dal loro alveo, o meglio da quel poco che gli abbiamo lasciato, sommergendo quanto incautamente gli abbiamo costruito intorno.

La costruzione delle casse di espansione, zone che possono essere allagate in caso di piena è finalizzata proprio a catturare l'acqua in eccesso, rilasciandola a piena finita. Il rischio alluvione zero non si può ottenere e le alluvioni in quanto tali non si potranno mai evitare, anche se è possibile evitarne alcune conseguenze trattando meglio i fiumi e costruendo in zone più sicure (o meno insicure). Ma l’attuale domanda umana di uso del territorio potrebbe consentire di vivere solo in zone a basso rischio idrogeologico?



SITUAZIONE ODIERNA. Specialmente dal dopoguerra abbiamo assistito ad una edificazione incontrollata (e spesso abusiva) nelle aree a rischio frana o alluvione e adesso ne paghiamo le logiche conseguenze, mentre la legislazione è stata – spesso consapevolmente – carente e/o farraginosa. A dimostrazione della nostra scarsa propensione ad un uso corretto del territorio in pochi anni abbiamo avuto diversi condoni edilizi, di cui quello del 1993 approvato mentre in Piemonte si stavano contando i danni della peggiore alluvione dopo quelle del 1966.

La farraginosità riguarda anche le procedure, complicate dalla dispersione delle competenze dal punto di vista burocratico fra i vari enti per cui spesso non si sa chi deve fare cosa.



A questo si aggiungono altre importanti concause antropiche: dopo bonifiche, rettifiche e restringimento (se non tombinature!) dei fiumi, circostanze quali il degrado del reticolo idrografico minore e l’abbandono delle montagne e delle fasce collinari hanno diminuito la capacità dei corpi d’acqua di assorbire le acque piovane, ridotto i tempi di concentrazione delle piene e favorito il dissesto del territorio.  Inoltre le operazioni di bonifica erano basate su un fitto reticolo di canali per il deflusso delle acque, che in molte zone è stato cancellato e in altre è oggetto di una manutenzione insufficiente come lo è quello di altre opere idrauliche di regimazione come le briglie.

Però bisogna ricordarsi che, come dicono ad Arezzo,  l’acqua affitta, ma non compra e quando un fiume ha bisogno di spazio… se lo riprende, punto e basta.
Non ci si può allora stupire che a fiumi e torrenti siano sufficienti pochi giorni (se non ore) di pioggia per esondare: quando piove una certa quantità di acqua (e non si può evitare che succeda ....) è perfettamente logico che in qualche modo una certa percentuale di essa dovrà pure defluire. Allora i fiumi escono dal loro alveo, o meglio da quel poco che gli abbiamo lasciato, sommergendo quanto incautamente gli abbiamo costruito intorno e i versanti franano.

  
Malguzzi et al (2006) The 1966 ‘‘century’’ flood in Italy: A meteorological and hydrological revisitation. Journal of Geophysical Research 111, D24106, doi:10.1029/2006JD007111, 200