martedì 30 gennaio 2018

AGM2015: la carta del flusso di geneutrino e lo spessore della crosta continentale



Nel 2015 è stata pubblicata AGM2015, la carta del flusso globale di antineutrini sulla superficie terrestre. Si tratta di un documento interessante perché il flusso di antineutrini è correlato con lo spessore crustale ed evidenzia quindi le zone dove questa è più spessa. La carta evidenzia anche le emissioni antropiche di antineutrini, che si collocano chiaramente sulle centrali nucleari.



La carta generale da[2]: si notano gli impianti nucleari
in Europa, Stati Uniti e Asia Orientale
LA TERRA E I NEUTRINI. Le fonti di neutrini rilevate includono i reattori nucleari, il Sole, gli acceleratori di particelle, l'atmosfera, il collasso del nucleo di supernove e, più recentemente, il cosmo. Ma anche la Terra stessa brilla come una debole stella a neutrini, tantochè nel 1966 Gernot Eder (1929-2000), fisico teorico dell'Università tedesca di Gessen, propose l'uso dell'emissione di neutrini (anzi, di geoneutrini) per misurare l'abbondanza di alcuni elementi chimici selezionati [1]. Un confronto con le meteoriti condritiche ha consentito di affermare che i geoneutrini sono prodotti soltanto nella “Terra a silicato” e cioè nel mantello e nella crosta, mentre il nucleo non ha una sufficiente concentrazione di elementi che producono geoneutrini durante le reazioni di fissione. Il flusso di geoneutrino è quindi prodotto dal decadimento di radioisotopi presenti nel mantello e, soprattutto, nella crosta, dove si sono accumulati negli ultimi 4 miliardi di anni, perché quando il mantello si fonde parzialmente questi elementi entrano preferenzialmente nei fusi magmatici; i principali sono Uranio 238 e 235, Torio 232, Potassio 40, Rubidio 87, Cadmio 113, Indio 115, Lantanio 138, Lutezio 176 e Renio 187. 50 anni dopo la proposta di Eder lo sviluppo di rivelatori di antineutrini di nuova generazione ha consentito nel 2015 la produzione della Antineutrino Global Map 2015 (AGM2015) [2], risultato della modellizzazione del flusso di antineutrini attraverso la superficie terrestre sullo spettro energetico da 0 a 11 MeV, insieme a una valutazione degli errori sistematici. 
Si misurano gli antineutrini perché la metodologia usata riesce a misurare solo loro e non le altre particelle della famiglia. AGM2015 modella la Terra come una nuvola di punti 3D composta da circa 1 milione di punti, considerando però fra gli isotopi neutrinogeni solo Uranio 238 e Torio 232, poiché l’energia cinetica prodotta da tutti gli altri isotopi è considerevolmente al di sotto della soglia di rilevazione di energia, che è di 1,8 MeV. Gli antineutrini che provengono dall'interno del nostro pianeta vincolano i modelli geochimici sulla distribuzione degli elementi radiogenici della Terra. 


La carta depurata delle emissioni artificiali
delle emissioni di antineutrini di U238 e Th 232 
EMISSIONI NATURALI E ANTROPICHE DI NEUTRINI. Lasciamo perdere i complicati (per me) calcoli su come è stata fatta questa mappa e vediamo la mappa stessa con alcune considerazioni. Devo solo ricordare che, come italiani, dobbiamo essere orgogliosi perché uno dei siti nodali che hanno permetsso di realizzare questa ricerca è il laboratorio del Gran Sasso, con l'esperimento Borexino. La prima mappa mostra sia le emissioni di neutrini naturali che quelle provocate dall'uomo. Queste ultime sono pesanti e puntuali: provengono chiaramente da centrali nucleari e AGM2015 comprende tutti i reattori "operativi" o "temporaneamente fermi". Nel 2015 molti reattori in Giappone erano offline dopo il disastro di Fukushima: sono classificati in "arresto temporaneo" piuttosto che in "arresto permanente" (di fatto a mano a mano stanno riprendendo la loro attività). 
Nella seconda mappa vediamo solo le emissioni naturali e notiamo come la prima caratteristica che balza agli occhi sia l'enorme differenza tra continenti e oceani: la crosta continentale ha quindi una funzione preminente nel flusso di geoneutrini. Nell'Oceano Atlantico e Indiano il valore minimo delle emissioni è allineato con le dorsali medio oceaniche, mentre nel Pacifico del Sud il limite non è così allineato. Probabilmente la distanza dalla crosta continentale è la discriminante principale nella quantità di flusso di neutrini, mentre le diverse età della crosta oceanica non sono importanti.

Carta della profondità della Moho
dal progetto CRUST 2.0 [3]
Nella crosta continentale si evidenzia in primo luogo un forte legame tra flusso di geoneutrini e spessore crustale (visibile in questa mappa del progetto Crust 2.0 [3]; inoltre le emissioni sono maggiori lungo alcuni degli orogeni creati da collisioni continente - continente, come Urali, Alpi - sistema dell'Himalaya dal Mar Mediterraneo alla Cina, e Trans-Huroniano. 
La Moho, la discontinuità alla base della crosta, identificata da Andrjia Mohorovičić nel 1910, separa la più leggera crosta continentale e la crosta oceanica basaltica dal più denso mantello superiore, a composizione peridotitica. Poiché la discontinuità di Moho è il limite crosta-mantello, i termini "profondità della Moho" e "spessore crustale" sono sinonimi. Anche se la mappa è a scala molto elevata, è possibile vedere facilmente alcune caratteristiche crustali a scala continentale. 


FLUSSO DI GEONEUTRINI E CROSTA CONTINENTALE DELL'EURASIA. Iniziamo dall'Europa, dove il flusso di neutrini mostra una discontinuità proprio dove cambia la profondità della Moho lungo la zona di sutura transeuropea (TESZ), la linea che definisce il limite tra gli orogeni paleozoici e più recenti e il cratone stabile dell'Europa orientale, dove dopo la fine del precambiano è successo davvero poco [4]: le aree soggette nel Paleozoico all’orogenesi varisica e a quella caledoniana hanno una crosta di spessore abbastanza sottile, inferiore a 35 km, perché, in particolare nel Permiano dopo l’orogenesi varisica e nel terziario con la formazione del sistema di fosse del Reno – Rodano, l’area interessata a questa collisione è stata soggetta a forti eventi distensivi. Invece sotto il cratone est europeo lo spessore crustale è in genere superiore ai 45 km.

La crosta più spessa di alcuni recenti orogeni (Alpi, Dinaridi e Carpazi) è caratterizzata da un maggiore flusso di neutrini, mentre negli Appennini e nei Pirenei il basso valore del flusso è compatibile con il non elevato spessore crustale sotto queste montagne. Si nota anche che tra Dinaridi e Carpazi una zona di valore inferiore caratterizza Ungheria ed aree adiacenti: si tratta del bacino pannonico, dove la crosta è molto assottigliata (fino a soli 25 km di spessore). 




In AGM2015 Alpi e Dinaridi sono gli estremi occidentali di una cintura ad alto flusso di geoneutrini che dall’Europa Meridionale arriva all’Asia centrale, passando per l'altopiano anatolico e i monti Zagros (dove la Moho è profonda fino a 50 e 65 km) e per il complesso Pamir – Hindu-Kush. La fascia termina con il Tibet, sotto il qualee la crosta può raggiungere i 70-85 km di spessore e il flusso di geoneutrini è ai massimi. Dobbiamo questo spessore particolarmente elevato alle radici profonde dell'intero orogene alpino-himalayano e alle sue caratteristiche litosferiche. 

A nord del Tibet, una zona a spessore crustale molto elevato (e alto flusso di neutrini) corrisponde, sotto i monti Altai alla parte centrale del grande Orogene dell'Asia Centrale, grazie al quale nel Paleozoico si è amalgamato il nucleo principale del continente asiatico.
La topografia della Moho in Siberia è piuttosto complessa [5]; in questo caso la bassa densità dei dati del reticolo di AGM2015 la “semplifica” un po': si vedono abbastanza bene gli Urali e la zona rimasta quasi immutata dal Precambriano, dove la profondità della Moho è generalmente compresa tra i 40 e i 45 km, mentre in mezzo il bacino della Siberia occidentale, caratterizzato da crosta un po' più sottile, ha valori di flusso un po' più bassi. Ad est, dai monti Verhojansk in poi, la crosta è molto meno spessa, risultante da una complessa storia geologica paleozoica e mesozoica. 


Strutture dell'Eurasia e flusso di geoneutrini
In Cina l’orogene mesozoico di Dabie, formatosi quando la Cina del Sud si unì a quella settentrionale, nonostante la sua origine da una collisione continentale ha radici poco profonde e nella mappa non è facilmente identificabile; si vede benissimo invece come il flusso di geoneutrini sia in armonia con la divisione fra la sottile crosta sotto la Cina costiera e la spessa crosta della Cina più interna. Il passaggio avviene al limite tra il Tibet orientale e il bacino del Sichuan, dove si ha una caduta di circa 20 km nella profondità di Moho, in corrispondenza del brusco cambiamento di altitudine [6].

L'AFRICA, UN CONTINENTE MATURO.  In questo continente non ci sono in corso eventi orogenici tranne nel suo margine NE, dove l'orogene Maghrebino, come la sua continuazione settentrionale, l'Appennino, non produce un significativo ispessimento della crosta e quindi non mostra un particolare aumento del flusso di geoneutrini. La maggior parte dell'Africa è posta sopra una litosfera precambriana, con profondità della Moho normalmente compresa tra 35 e 40 km, anche se possiamo osservare una crosta più sottile nell'Africa equatoriale rispetto al nord e al sud del continente [7]. I massimi spessori crustali, oltre 45 km, che troviamo in una piccola fascia nell'Angola del nord (traccia dell'orogene di Damara, formatosi a cavallo di neoproterozoico e cambriano quando si scontrarono i continenti del Kalahari e del Congo) e nell'estemo sud del continente (la ancora non ben chiarita fascia orogenica del Capo del Permiano), non danno un grande segnale, forse per le loro ridotte dimensioni. 


Il flusso di geoneutrini in America Settentrionale e la profondità della Moho da [8]  
AMERICHE, AUSTRALIA E ANTARTIDE. In Nord America la correlazione fra geoneutrini ed eventi orogenici che hanno ispessito la crosta è evidente: le Montagne Rocciose hanno un alto flusso in sintonia con una Moho profonda più di 50 km. Un'altra fascia ad alta emissione caratterizza l'orogene Trans-Hudsoniano: si tratta di un evento tettonico molto vecchio (1.8 miliardi di anni) in cui alcuni piccoli cratone hanno costruito il primo nucleo del continente nordamericano. Anche lungo questo lineamento troviamo più di 40 km di spessore crustale, fino al bordo SW della baia di Hudson. Parallelamente a questo massimo, un'altra fascia di flusso elevato termina sul bordo SE della baia di Hudson: corrisponde al Rift del Lago Superiore (noto anche come Midcontinental rift), che iniziò ad aprirsi dentro Laurentia poco più di un miliardo di anni fa. Sembra strano che una zona di rift abbia una crosta spessa, ma questo aspetto è una conseguenza degli eventi successivi: l'area è stata coinvolta in un evento di compressione e così tutto il sistema di rift si è ristretto, ma anche ispessito; il risultato è una crosta di oltre 45 km di spessore sotto il lago Superiore. Dobbiamo invece notare che il legame tra la profondità di Moho e il flusso di neutrini non è perfetto lungo la costa orientale del Nord America: sembra che il flusso più alto sia posto sotto la catena degli Appalachi, ma questa non è una crosta più spessa che immdiatamente all'interno, perché, come in Cina, la Moho si approfondisce dalla costa verso l'interno.
Le aree dove la crosta è più sottile di 30 km, come la Florida e la California, invece, mostrano un flusso di neutrini molto basso. 


Anche l'America Centrale ha una crosta sottile: solo sotto la catena vulcanica lungo la costa pacifica lo spessore supera i 30 km e lungo la costa orientale è inferiore a 25 km. 
Per questo motivo il flusso di geoneutrini è basso e aumenta improvvisamente al confine tra la placca caraibica e quella del Sud America, caratterizzata da una crosta più spessa. Come prevedibile, il massimo valore del flusso è posto nell'Altiplano boliviano, in corrispondenza dello spessore massimo della crosta continentale attuale (più di 70 km [9]) se non si considera il Tibet. In qualche modo è visibile una caduta del flusso sul canale di crosta più sottile che si trova immediatamente sotto la Cordigliera. In Brasile, il Minas Gerais corrisponde a un'area di crosta relativamente più spessa (40 km) che fornisce un piccolo segnale di maggiore flusso di geoneutrini. Nel margine meridionale del continente la larghezza minore del continente e lo spessore della crosta che non raggiunge i 40 km sono la chiave per comprendere il basso flusso di geoneutrini, con valori che costituiscono il minimo per un'area continentale  di dimensioni "ampie". 


Per quanto riguarda l'Australia esiste un'eccellente correlazione tra il flusso di neutrini e le regioni dove la Moho si trova più in profondità [10], poste al centro del continente sotto gli altipiani centrali e sotto le Alpi australiane. La regione di basso flusso geoneutrinico in mezzo a queste aree corrisponde alle pianure interne di bassa quota dei bacini di Eyre e Murray. 



In Antartide la situazione è meno chiara, anche se la differenza tra una crosta più sottile (più di 25 km) nell'Antartide occidentale e una crosta più spessa dell'Antartide orientale è rilevabile anche dal flusso di geoneutrini. Ma anche nell'Antartide orientale il continente ha generalmente una crosta sottile, tipicamente inferiore a 40 km, con l'eccezione di due aree che hanno anche una maggiore elevazione: la catena montuosa dell'Antartide orientale nella terra della regina Maud e dalle montagne Gamburtseev, dove lo spessore della crosta può oltrepassare i 50 km. Queste due catene montuose possono rappresentare la sutura di collisione del Gondwana orientale con l'Indo-Antartide e il Gondwana occidentale durante l'orogenesi panafricana [11]. Invece il graben di Lambert, un'area con una crosta molto sottile, è troppo piccolo per essere ben rilevato nella mappa AGM2015. Non capisco, invece, perché la mappa del Neutrino mostra un valore elevato lungo il sistema orientale dell'Antartide: solo nella costa orientale del Mar Rosso c'è una sottile cintura di Moho più profonda. 



Quindi, il valore del flusso di neutrini sulla superficie terrestre può essere facilmente correlato allo spessore della crosta continentale, confermando che proviene essenzialmente da elementi che sono più diffusi nella crosta a causa dei processi che fondendo il mantello, li trasportano verso l’alto in quanto passano preferenzialmente nella fase liquida anziché rimanere nel residuo refrattario mantellico. 




Bibliografia

[1] Eder (1966) Terrestrial neutrinos. Nuclear Physics. 78, 657–662
[2] Usman et al (2015). AGM2015: Antineutrino Global Map 2015. Sci. Rep. 5, 13945; doi: 10.1038/srep13945
[3] Tenzer et al (2009) A global correlation of the step-wise consolidated crust-stripped gravity field quantities with the topography, bathymetry, and the CRUST 2.0 Moho boundary Contributions to Geophysics and Geodesy Vol. 39/2, 2009 (133–147)
[4] Artemieva e Thybo (2013) UNAseis: A seismic model for Moho and crustal structure in Europe,Greenland, and the North Atlantic region Tectonophysics 609, 97–153
[5] Cherepanova et al (2013) Crustal structure of the Siberian craton and the West Siberian basin: An appraisal of existing seismic data Tectonophysics 609, 154–183 
[6] Zhang et al (2010) Seismic signature of the collision between the east Tibetan escape flow and the Sichuan Basin. Earth and Planetary Science Letters 292, 254–264
[7] Tedla et al (2011) A crustal thickness map of Africa derived from a global gravity field model using Euler deconvolution Geophys. J. Int. 187, 1–9
[8] Keller (2013) The Moho of North America: A brief review focused on recent studies Tectonophysics 609, 45–55 
[9] Zandt et al 1994 Composition and thickness of the southern Altiplano crust, Bolivia Geology 22, p. 1003-1006
[10] Kennett et al (2011) AusMoho: the variation of Moho depth in Australia Geophys. J. Int. 187, 946–958
[11] An et al (2015), S-velocity model and inferred Moho topography beneath the Antarctic Plate from Rayleigh waves, J. Geophys. Res. Solid Earth, 120, 359–383,

giovedì 11 gennaio 2018

La sequenza sismica del Matese a cavallo fra 2013 e 2014 e i magmi dell'Appennino meridionale


Il lavoro appena uscito su Science Advances sulla sequenza sismica del Matese è davvero importante, soprattutto perché identifica una nuova classe di terremoti nelle fasce orogeniche attive. Purtroppo il solito can can mediatico di un giornalismo italiano che non sa di Scienza, ma ne parla in maniera sballata ha spostato l’asse della discussione nell’opinione pubblica su cose inesistenti come il rischio sismico associato alla questione. Si è trattato in effetti di una sequenza strana, per cui è stato fondamentale effettuare uno studio multidisciplinare per precisarne i termini e le cause. 
Vediamo quindi un po' in dettaglio la sequenza, e quali sono i risultati che hanno portato a queste considerazioni nell’articolo [1], che significativamente è intitolato Seismic signature of active intrusions in mountain chains. 

La sequenza sismica tra dicembre 2013 e febbraio 2014:
si nota la suddivisione degli epicentri in due lobi
LE CARATTERISTICHE DELLA SEQUENZA SISMICA TRA 2013 E 2014 NEL MATESE. Il 29 dicembre 2013 alle 17:08 UTC, un terremoto Mw 5 si è verificato sotto le montagne del Matese tra Campania e Molise (zona cara ai dinosaurofili: a Pietraroja è stato scoperto Ciro!). Nei successivi 50 giorni sono state registrate 350 repliche. A gennaio, dopo una settimana circa di calma piatta, si è verificata una ripresa dell'attività con il secondo evento Mw 4.2 del 20 gennaio 2014. Lo studio delle onde sismiche ha ricavato un meccanismo distensivo lungo una faglia orientata NW-SE, con una piccola componente orizzontale che si aggiunge alla preponderante componente verticale. Diciamo che sarebbe un “classico” per l’Appennino Centrale, senonché la sequenza presentava delle cose un po' anomale:  
  • la sismicità era concentrata a profondità tra 10 e 25 km nel basamento cristallino della catena, quando la "normale" sismicità della catena è generalmente meno profonda e interessa la spessa coltre dei sedimenti mesozoici e terziari
  • l'evoluzione della sequenza mostra che gli ipocentri delle repliche sono migrati verso l'alto e si sono diffusi verso sud-est in pochi minuti
  • gli ipocentri raffigurano due ammassi simili a dita che circondano una zona asismica lunga circa 1,5, larga e spessa 2,5 km, che presenta una forma simile a una diga (come da carta qui a fianco)
  • l'andamento della profondità ipocentrale con il tempo nei primi 28 giorni dopo il mainshock indica un processo di rottura simile a quello osservato nella sismicità indotta dall'iniezione di fluidi
  • la sismicità dopo il secondo shock principale rimase confinato nel secondo lobo

Una sequenza del genere è quindi più simile ad una tipica di aree vulcaniche, dove la sismicità è generalmente associata a fessure piene di fluidi e quindi meritava davvero uno studio a 360°. Inoltre questo evento nonostante la sua profondità ha innescato alcuni fenomeni che di solito spetterebbero ad eventi più importanti, come delle frane, delle variazioni nella portata ed analisi delle sorgenti e persino una rottura cosmica lungo la faglia cordiera di un bacino. Alcuni testimoni riferiscono addirittura di aver pure visto una fiammata (sono più di uno): una disamina di tutti questi accadimenti si trova in [2]

Il mix di acque meteoriche e profonde, da [1] 
GLI STUDI SUSSEGUENTIUna prima ricerca ha riguardato il contenuto di CO2 riscontrabile nell'acquifero del Matese, dato che il biossido di carbonio è relativamente solubile nelle acque meteoriche e tra quello atmosferico e quello di origine vulcanica ci sono differenze nella composizione isotopica. Quindi è stata eseguita una vasta serie di analisi per capire meglio se e come questa sequenza abbia influenzato la falda acquifera del Matese, in quanto se davvero c'era stata della attività magmatica lì sotto, nelle sue acque si doveva essere sciolta la maggior parte del gas.
L'analisi isotopica del contenuto di carbonio ha rivelato che nelle acque che sgorgano dal massiccio c’è una forte componente di CO2 magmatica profonda, facilmente distinguibile dall'acqua meteorica; non solo, ma le sorgenti con un contenuto più elevato di CO2 magmatico sono chiaramente raggruppate attorno all'area della sequenza sismica 2013-2014.

Questo è un primo indizio sul fatto che l’alto contenuto di CO2 magmatico può essere riferito  a una riserva magmatica; ma si tratta di una riserva "morta" o una riserva giovane e calda? Lo studio termico ha confermato la seconda ipotesi, poiché la temperatura alla sorgente delle acque è circa 2°C superiore a quella prevista per l'acqua che si infiltra a 1300-1400 m di altitudine, quindi il CO2 profonda è legata alla risalita di fluidi caldi.
Un altro indizio della presenza di magma caldo sono la presenza stessa e la forma a “diga” della zona asismica interna: se si fosse trattato solo di gas non avrebbe senso questa zona senza terremoti, che invece denota la presenza di un settore caratterizzato da una certa plasticità, tipico della presenza di una roccia fusa o, quantomeno, molto calda, circondata da rocce incassanti rigide.

Sequenze simili sono state segnalate in California e Giappone a distanze superiori a 50 km dai vulcani e sono state attribuite alla ridistribuzione della pressione del fluido nella crosta [3].
Pertanto, le caratteristiche sismologiche, le analisi geochimiche e i risultati della modellazione del flusso di calore dimostrano che la sequenza del Matese a cavallo fra 2013 e 2014 si è verificata in un'area caratterizzata da un'anomalia geotermica importante, molto probabilmente associata ad un nuovo "impulso" di magma che alimenta un'intrusione già presente e ancora non del tutto solidificata.

Le località dove affiorano prodotti dell'attività
magmatica dell'appennino centrale, da [4] 
LA GEOLOGIA DELL’APPENNINO CENTRALE E MERIDIONALE E LE SUE PARTICOLARI MANIFESTAZIONI MAGMATICHE.
Utilizzando le onde sismiche per realizzare una tomografia della Terra, è stato visto che nella crosta superiore e nella crosta media dell’Appennino si trovano dal confine abruzzese-molisano al promontorio del Gargano delle piccole zone caratterizzate da una velocità delle onde sismiche anomalmente alta. Siamo nel basamento cristallino sotto i sedimenti e quindi queste anomalie potrebbero essere cose “vecchie”, e cioè tracce di eterogeneità del vecchio basamento cristallino paleozoico oppure essere geologicamente recenti e quindi derivate da intrusioni magmatiche tardo terziarie se non attuali. I dati geologici fanno decisamente propendere per la seconda ipotesi.

Una sparpagliata attività vulcanica si trova nel versante tirrenico dell’Appennino Centrale tra la catena e i magmi recenti della costa fra il Lazio e la Campania, nei monti di Umbria, Abruzzo e Lazio che consiste di qualche colata lavica o coni di scorie abbastanza isolati. Sono magmi dall'analisi particolare e dall'origine molto dibattuta: sodio e soprattutto potassio molto alti (oltre il 5%) e con un contenuto di Calcio superiore a quello di alluminio. Il chimismo per certi versi ricorda quello della Provincia Romana a cui sono spesso associati [5]. La parte più a sud dove troviamo prodotti vulcanici di questo tipo è l’apparato di Montecchio, sulle pendici del Vulture. Il ciclo di Montecchio si è messo in posto quando il Vulture aveva già finito la sua attività e condivide con i tufi e le lave di San Venanzio (queste ultime datate a 265.000 anni fa), Cupaiello etc etc molte caratteristiche geochimiche e petrografiche, che sono estremamente diverse da quelle dei prodotti classici del Vulture precedenti. 
Il chimismo e i frammenti di rocce portati via durante la risalita che si trovano in questi magmi dimostrano l’origine molto profonda di questi magmi. 
La somiglianza fra i prodotti dell'Appennino centrale e quelli di Montecchio hanno fatto ipotizzare la presenza di altri episodi magmatici ancora nascosti sotto l'Appennino ed in effetti rocce ignee recenti (intrusive o effusive) sono state trovate in molti pozzi perforati per prospezioni di idrocarburi. 
Quindi nell'intero Appennino centrale e meridionale sia in profondità che in superficie troviamo le tracce, sia pure sporadiche, della presenza di liquidi provenienti dalla fusione (molto) parziale del mantello sottostante.
Quanto al case del Matese, siamo chiaramente all’interno della zona appenninica e quindi in cui potenzialmente possiamo trovare questi prodotti, però è anche vicino all’area napoletana, in particolare accanto al Roccamonfina, vulcano rimasto attivo fino a non molto tempo fa che però non è strettamente legato al Vesuvio come magma)

UN APPENNINO IN ESTENSIONE. Oggi l’intero asse appenninico centrale e meridionale è sottoposto a distensione perché il settore occidentale si muove verso NW, mentre quello orientale a SE [6], ne ho parlato spesso, per esempio qui: ne risulta dunque un allontanamento fra le due parti di qualche mm/anno e ciò origina la forte sismicità dell’area, compresa quella a cui stiamo assistendo dal 1997 (ne ho parlato per esempio qui). Comunque, per mettere le mani avanti, tra un allontanamento del genere e dire che l’Italia si spaccherà in mezzo ce ne passa di distanza: il complesso formato da Sardegna, Corsica e Italia peninsulare ha potuto 40 milioni di anni fa staccarsi dalle coste francesi e spagnole formando il bacino ligure – provenzale, ma si sono mosse quando non c’era nulla che si opponeva al loro moto; in seguito andando verso est 6 milioni di anni fa l’Italia centro – meridionale ha trovato il blocco balcanico per cui ora muoversi dell’altro è piuttosto difficile… la Calabria invece ha continuato ad andare verso SE, staccandosi dalla Sardegna, formando il Tirreno meridionale e fermandosi, o quasi, solo 700.000 anni fa. Ad ogni modo che questa fase attuale dell’Appennino centrale che se non è di “apertura” è sempre di “distensione” possa essere accompagnata da qualche risalita di magmi dal mantello non è certo impossibile dal punto di vista teorico.

RISCHI E PERICOLI RIVELATI DA QUESTA SCOPERTA. Naturalmente negli ultimi giorni la stampa ha dato molta attenzione alla notizia, ovviamente in termini più o meno apocalittici. Si va dal rischio di eruzioni vulcaniche a quello di terremoti (naturalmente “disastrosi”).
Vediamo di fare il punto della situazione. C’è un certo “rischio vulcanico”? Teoricamente sì, ma non per “oggi o domani”: questa intrusione (o una sua simile) potrebbe prima o poi arrivare in superficie, come è successo appunto al Vulture o nelle aree dell’Appennino caratterizzate da queste piccole manifestazioni vulcaniche. Ma non è certo l’apporto di lave che c’è stato alla fine del 2013 quello in grado di modificare il quadro. La cosa avviene “qualche volta ogni milione di anni”, quindi ...  insomma… è un rischio più teorico che reale. 
Anche il rischio sismico è abbastanza inesistente. In Appennino centrale e meridionale, come nel resto d’Italia, i terremoti principali fanno grossi danni e tante vittime soprattutto a causa della pessima edilizia ma, come ho spiegato svariate volte, anche perché si generano molto vicini alla superficie (spesso anche a meno di 10 km di profondità). Inoltre la M dipende molto dalla lunghezza del tratto di faglia che si rompe: è proprio grazie alla lunghezza ipotizzata della sorgente sismica che già anni prima era stata attribuita la potenzialità di un evento a M 6.5 lungo la faglia del Vettore [7]. 
Queste intrusioni interessano invece zone più profonde (mediamente sui 20 km): già questo farebbe diminuire gli effetti di un eventuale terremoto in superficie. Ma soprattutto è difficile che si possano attivare superfici di faglia così estese da dare terremoti molto forti, anche se con lo stato dell’edilizia che c’è in Italia il rischio che eventi di questa entità e profondità possano provocare dei danni purtroppo esiste eccome… 
Insomma, l’aggiunta del rischio sismico dovuto a questa nuova classe di terremoti risulta assolutamente risibile rispetto al rischio sismico già certificato nell’Appennino Centrale dovuto alle grandi faglie che lo interessano e che hanno già dato in epoca storica ampie manifestazioni di quello che sono in grado di fare.

PROSPETTIVE SCIENTIFICHE. Come ho scritto, le prospettive scientifiche di questo lavoro sono estremamente interessanti, non solo a livello appenninico, dove potrebbero gettare maggiore luce sulla formazione di questi enigmatici magmi, ma anche a livello mondiale.
Perché dimostrnao come l’intrusione di corpi magmatici possa provocare eventi sismici legati ai movimenti dei fluidi, esattamente come succede nei vulcani. Quindi se fino ad oggi la sismicità delle catene montuose viene interpretata come legata a cambiamenti legati alle forze che le deformano e/o a cambiamenti nella pressione dei fluidi lungo le superfici di faglia (questa ultima cosa, fra l’altro, è alla base della sismicità indotta di origine antropica), oggi le prospettive cambiano e non di poco, specialmente in aree con un rischio sismico “tradizionale” poco elevato (non certo, appunto, nell’Appennino centrale, dove viene aggiunto in questo modo ben poco ad un carico purtroppo già piuttosto importante di suo).
Parlo soprattutto di catene mature, cioè catene in cui la maggior parte della compressione è finita (e l’Appennino centrale lo è) e che però non sono sede di particolare sismicità. Ma c'è da guardare anche alla ricerca sui magmi stessi: in tutti gli orogeni fossili derivati da scontro continente – continente troviamo delle rocce magmatiche (soprattutto intrusioni raffreddate a pochi km di profondità e oggi affioranti per l’erosione di quanto ci stava sopra) classificate come “tardo” o, meglio ancora “post” orogeniche. Le vediamo sia nell’antichità del Precambriano, ma tornando a tempi più recenti, nell’orogene mesozoico di Dabie in Cina e in molte parti dell’Asia centrale interessate da collisioni nel Paleozoico e nel Triassico, in Iran nella fascia orogenica del Lut, e nelle stesse Alpi sia nel Permiano dopo l’orogenesi varisica che dopo la fase parossistica del ciclo alpino (il granito dell’Adamello è l’esempio noto più vicino).
È dunque possibile che alla fine dell’attività tettonica questa attività vulcanica possa diventare protagonista e quindi possa innescare eventi sismici importanti.

Un ‘ultima nota sulla sequenza sismica che oggi si sta svolgendo, sempre in Molise, ma un po' a nord di Isernia, centrata nella zona di Vastogirardi. Non appare legata allo stesso motivo, almeno dal punto di vista sismico, perché:

  • gli epicentri sono diffusi senza particolari discontinuità
  • si tratta di una sismicità molto superficiale e quindi se ci fosse una risalita di magmi le temperature delle sorgenti sarebbero aumentate vistosamente, in modo visibile, anche senza strumentazione

[1] Di Luccio et al. (2018),Seismic signature of active intrusions in mountain chains Sci. Adv. 2018; 4 : e1701825
[2] Valente et al (2017) Do moderate magnitude earthquakes generate seismically induced ground effects? The case study of the Mw = 5.16, 29th December 2013 Matese earthquake (southern Apennines, Italy) Int J Earth Sci (Geol Rundsch) DOI 10.1007/s00531-017-1506-5
[3] Vidale et al (2006) Crustal earthquake bursts in California and Japan: Their patterns and relation to volcanoes. Geophys. Res. Lett. 33, L20313 (2006)
[4] Peccerillo 2005 Plio-Quaternary Volcanism in Italy - Springer
[5] Conticelli et al (2004) Petrologic, geochemical and isotopic characteristics of potassic and ultrapotassic magmatism in central-southern Italy: inferences on its genesis and on the nature of mantle sources Per. Mineral.  73, 135-164 
[6] Farolfi & Delventisette (2016). Contemporary crustal velocity field in Alpine Mediterranean area of Italy from new geodetic data GPS Solutions DOI 10.1007/s10291-015-0481-1
[7] Galli et al 2008 Twenty years of paleoseismology in Italy. Earth-Science Reviews 88, 89 – 117