domenica 29 dicembre 2013

La storia delle principali opere idrauliche toscane 2: dagli Etruschi ai Longobardi, passando per i Romani


Il post precedente è stato il primo di una serie in cui parlerò della storia delle bonifiche e delle opere idrauliche in generale in Toscana. Rimando lì, in particolare per i non toscani, per una descrizione geografica sommaria dei luoghi interessati da questa vicenda. 
Volendo ovviamente tenere un filo logico, in questo secondo post parlerò della parte più antica di questa storia, quella che va dagli etruschi al basso medioevo. Un periodo lungo 1300 anni in cui cambiamenti di ogni ordine e grado (sociali, politici, economici, etnici, climatici etc etc) hanno influenzato il paesaggio e il reticolo fluviale in vario modo. 

LE PRIME OPERE IDRAULICHE: GLI ETRUSCH

La prima parte della storia etrusca, tra l'VIII e il IV secolo AC si svolse in una fase climatica fresca ed umida; nella seconda le condizioni si fecero decisamente più calde e più secche. La maggior parte delle principali città, tranne alcune eccezioni (curiosamente appartenenti al primo periodo, quello umido), erano ben arroccate su delle colline e non solo per una questione difensiva: le zone di fondovalle erano in generale paludose e malsane.
Popolo che viveva soprattutto esportando ciò che produceva, gli Etruschi disponevano di tecnologie molto avanzate per l'epoca, comprese quelle che hanno loro consentito le prime opere idrauliche sistematiche nel territorio toscano. Anzi, da questo punto di vista sono stati i “maestri” dei romani. E gli allievi hanno abbondantemente superato i maestri, dopo averne sfruttato le conoscenze, giungendo a eccellenti risultati anche perchè la loro organizzazione più centralista consentiva di sfruttare meglio manodopera e territorio: la frammentazione politica dell'epoca etrusca infatti non consentiva opere di “ampio respiro”.

Si sa poco della prima parte della storia etrusca, quella dall'VIII al V secolo AC: ci sono fondati sospetti che il baricentro dell’Etruria nella fascia toscana settentrionale fosse spostato ad ovest rispetto a quello dei tempi successivi. Anche lo stile abitativo doveva essere diverso: è possibile che la piana lucchese svolgesse un ruolo oggi dimenticato. Purtroppo i ritrovamenti archeologici sono scarsi e non siamo in grado di capire se in quel periodo gli Etruschi siano intervenuti (e, se sì, come) nel reticolo idrografico di quell'area. 
Nel 2004, in località Casa del Lupo (comune di Capannori), è venuto alla luce un pezzo di una strada etrusca che, a giudicare dalla sua struttura, doveva essere molto importante. Inoltre mi dicono che l'occupazione etrusca sia ricavabile pure dalla toponomastica.
In questa prima fase della civiltà etrusca si conoscono insediamenti molto grandi anche in pianura come Gonfienti (nella piana fra Firenze e Prato) e, dall'altro lato dell'Appennino, tra Emilia e Lombardia (Marzabotto, Casalecchio, Mantova e le altre città dell'Etruria padana). Anche Pisa e “Lucca” hanno avuto una storia etrusca (Lucca è fra virgolette perchè non è detto che questo primo nucleo fosse dove c'è la città odierna). 

Una particolarità è che il ritrovamento delle due maggiori città etrusche di pianura conosciute, Gonfienti e Marzabotto, è avvenuto in entrambi i casi totalmente inaspettato perchè non ne parlava nessuna fonte storica (questo appunto perchè il primo periodo etrusco è ancora pochissimo conosciuto). 
Abitare quelle città significava comunque effettuare degli interventi di sistemazione idraulica, sia per evitare continue alluvioni, sia perchè ci sono fondati sospetti che questi centri facessero da interscambio fra navigazione terrestre e fluviale: sistemazioni come bonifica e salvaguardia dalle inondazioni, quindi, ma anche per consentire la navigabilità delle aste fluviali di interesse trasportistico.


I TRASPORTI ALL'EPOCA ETRUSCA: NAVIGAZIONE FLUVIALE

Per i trasporti via terra in genere non venivano utilizzati mezzi con ruote come i carri, ma le tregge, una sorta di slitte ancora oggi usate nelle zone più montane, simili per concezione ai travois dei nativi americani ma più grandi. Le tregge non erano in grado di utilizzare guadi profondi più di mezzo metro e gli etruschi non sono rimasti famosi per la costruzione di ponti: anche questi aspetti ci dicono che questo popolo sfruttava per commerci le abbondanti vie d'acqua più che le strade (inoltre la portata delle imbarcazioni era sicuramente maggiore di quella delle tregge). 
Grazie a un periodo più piovoso di quello odierno, al ristagno delle acque e alla mancanza di bonifiche significative, infatti, i fiumi principali erano tutti navigabili e di portata più costante. 
In particolare lo era l'Arno, sicuramente fino all'altezza di Firenze ma secondo alcune fonti addirittura fino ad Arezzo, oltre ad alcuni suoi affluenti; inoltre le paludi e i laghi della piana toscana consentivano la navigazione dall'Arno fino all'altezza delle odierne Altopascio e Monsummano; forse le imbarcazioni erano le stesse che facevano cabotaggio lungo la costa. 
Diverse fonti storiche assicurano che era navigabile anche il Clanis, il fiume oggi perduto che scorreva nella Valdichiana: la concentrazione di insediamenti etruschi in quell'area (Arezzo, Chiusi, Cortona etc etc) comporta vie di comunicazione sostanzialmente comode e il fiume Clanis poteva essere benissimo una di queste.

A dimostrazione dell'importanza dei fiumi, Pisa era sorta sulla confluenza fra l'Arno e un vecchio percorso dell'Auserculus, il ramo all'epoca secondario del Serchio che da Lucca in poi si separava da quello principale diretto a Bientina, proseguendo per il corso attuale.

L'ARNO AD AREZZO: 
DEVIAZIONE NATURALE O DEVIAZIONE ARTIFICIALE?

In un passato geologicamente abbastanza recente il drenaggio nella Toscana nordorientale era completamente diverso da oggi: la parte più alta del corso dell'Arno odierno, quella casentinese, sfociava nella Valdichiana dove si scaricavano anche le acque provenienti dal Valdarno inferiore, in cui il verso della corrente era opposto a quello odierno (cioè, l'acqua scorreva da Pontassieve verso Arezzo). Poi, quando si è aperto il bacino di Firenze, il corso del fiume nel Valdarno superiore si è invertito.
Con i sollevamenti tettonici plio-quaternari gli alvei dei torrenti nella parte più alta del Valdarno superiore hanno eroso e demolito lo spartiacque a NW di Arezzo, “catturando” il fiume proveniente dal Casentino: quest’ultimo, dopo avere deviato il corso con un ampio gomito, è diventato la parte più alta dell'Arno, anziché proseguire come Clanis (o suo antenato) verso il Paglia ed il Tevere. 
Sono avvenimenti geologicamente molto recenti e per questo motivo non esiste nella zona uno spartiacque naturale ben definito: infatti fino al XVIII secolo, nonostante alcune operazioni, le acque della Valdichiana andavano in parte verso l'Arno e in parte verso il Tevere. Ne consegue la naturale soggezione all'impaludamento di quel settore di pianura.

Alcuni Autori addebitano invece agli etruschi questo evento finale, attraverso il taglio della “Goletta di Chiani. A prima vista sembra una ipotesi incompatibile con la storia geologica appena esposta. In realtà c'è una possibile spiegazione: come il Serchio allo sbocco nella piana lucchese si divideva in due rami che prendevano direzioni completamente differenti (ne parlerò proprio alla fine di questo post) anche qui il fiume che scendeva dal Casentino poteva dividersi in due rami, dei quali solo uno era stato soggetto alla cattura avvenuta nel Quaternario recente, mentre il secondo proseguiva con il vecchio tracciato verso la Valdichiana. Le fonti storiche quindi potrebbero riferirsi ad opere degli etruschi con le quali fu bloccato il secondo ramo per preservare l'agro intorno ad Arezzo, senza considerare l'esistenza di un altro percorso con cui le acque del Casentino si dirigevano già verso il Valdarno. 
Di certo la fascia tra Arezzo e Chiusi è stata uno dei cuori pulsanti della civiltà etrusca e la valle fu almeno in parte bonificata.

LE OPERE IDRAULICHE ETRUSCHE

Ogni insediamento principale etrusco era dotato di cisterne e molti anche di acquedotti (di cui le cisterne erano le terminazioni). Di tutte queste opere sopravvive solo qualche cisterna.
Gli Etruschi hanno inciso nella storia delle sistemazioni idrauliche in Toscana solo in Valdichiana e in alcune zone costiere, mentre fecero di più nella pianura padana.
Ad esempio la piana tra Pistoia e Firenze era un misto di paludi e laghi e così è rimasta fino alle bonifiche rinascimentali, nonostante i lavori in epoca romana e medioevale. Lo dimostra la posizione dei centri urbani etruschi principali, tutti ai piedi dei monti che delimitano il bacino: Pistoia, in posizione leggermente rialzata, Prato, sulla conoide del Bisenzio, Gonfienti poco distante (fino al V secolo a.C.), o direttamente sulle colline come Artimino e Fiesole. 

Nel periodo più antico della storia etrusca la presenza dell'Arno è stata fondamentale per gli insediamenti nella piana empolese allo sbocco della stretta della Gonfolina e sulle colline sovrastanti: oltre alla città di Artimino, all'epoca molto più estesa di oggi, sono stati trovate significative tracce etrusche in tutta l'area, anche nella piana vicino al fiume.

Poi i Galli invasero la Valpadana, nel V secolo AC e questo ne costò agli Etruschi il dominio. Il baricentro in Toscana si spostò all'interno e Fiesole sostituì Artimino; da allora la Toscana Occidentale perse importanza e nessuno cercò di modificare le condizioni paludose pre-etrusche.

L'attività etrusca più nota da un punto di vista delle sistemazioni idrauliche sono le “tagliate”: usate per vari scopi, come costruire in  mezzo alle rocce passaggi per uomini e mezzi, sono delle gole scavate nella roccia viva. In alcuni casi le tagliate sono state realizzate per far defluire le acque da un bacino. Era un sistema molto efficace se si pensa che, ad esempio, la tagliata di Ansedonia, a sud della laguna di Orbetello, assolve ancora il compito per cui era stata concepita.

Un altro settore in cui gli etruschi precedettero i romani fu quello delle terme. Sono noti gli insediamenti termali nell'area geotermica di Larderello, dove prima che fossero bloccati per ottenere energia geotermoelettrica esistevano diversi geyser. I resti sono ben visibili a Sasso Pisano in un'area dove fluidi caldi fuoriescono dal sottosuolo.

LE BONIFICHE DEL PERIODO ROMANO: 
EFFICIENZA ORGANIZZATIVA E CLIMA PIÙ FAVOREVOLE

I romani ebbero vita più facile per tutta una serie di motivi sul tema delle opere idrauliche: innanzitutto l'impero è esistito grazie al Periodo Caldo Romano, una fase più calda e meno umida che ha semplificato i processi di bonifica (la centuriazione è tutt'ora ben visibile nella piana a ovest di Firenze e in quella lucchese tra Altopascio e Lucca); a questo si devono aggiungere una ottima organizzazione logistica e un potere centrale molto forte.

Non so se per fondare Florentia siano state eseguite delle opere idrauliche, oltre a quelle della bonifica e della centuriazione: la posizione del castrum era compresa tra l'Arno (in corrispondenza di un guado permanente tranne che in caso di forti piene) e il Mugnone, che all'epoca uscendo dalla sua valle lambiva le mura occidentali e andava a sfociare dove ora ci sono via Tornabuoni e il ponte a Santa Trìnita (per i non fiorentini: Trìnita, non Trinità!). 
È interessante notare come la toponomastica ricorda gli acquitrini tipici di quella zona accanto alle mura occidentali sopravvissuti fino al medioevo: la strada che unisce la Stazione con il Duomo si chiama nel suo tratto iniziale “via Panzani” (cioè pantani). Probabilmente anche lungo il lato orientale del castrum c'era un altro fosso, corrispondente al “Fosso di Scherraggio” di epoca medievale, che percorreva l'odierna via del Proconsolo (recentemente nei sotterranei di un palazzo vicino a San Firenze è stato persino ritrovato un palo che serviva da ormeggio).

L'ACQUEDOTTO DI FLORENTIA

Nonostante che Florentia fosse stata fondata con evidenti speranze di successo, i fatti hanno poi dato ragione agli agrimensori di Cesare con un ritardo di parecchi secoli. 
Il motivo sta ancora una volta nell'acqua. Gli acquedotti costituiscono un aspetto importante della civiltà romana e come tutte le principali città dell'impero anche Florentia ne aveva uno: lungo 24 km proveniva dalla valle della Marinella di Legri, oggi in comune di Calenzano (per i non fiorentini una valle tributaria di quella che segue l'Autostrada del Sole tra Calenzano e il Passo delle Croci, subito prima del casello di Barberino). Lo afferma Giovanni Villani (circa 1280 – 1348) nelle Istorie Fiorentine: 
Macrino fece fare il condotto delle acque in docce ed in arcora, facendole venire da lungi alla città per sette miglia, acciocchè la città avesse abbondanza di buona acqua da bere e per lavare la città; e questo condotto si mosse infino dal fiume detto La Marina, a piè di Monte Morello, raccogliendo in sè tutte quelle fontane sopra Sesto, Quinto e Colonnata. Ed in Firenze faceano capo le dette fontane ad uno grande palagio che si chiamava Termine, Caput Aquae, ma che poi in volgare si chiamò Campaccio, che ancora oggi in termine si vede l'anticaglia"   
Quindi non solo l'acqua veniva dalla Val di Marina, ma anche da alcune delle sorgenti della zona di Monte Morello (quale fiorentino non ha mai bevuto nella sua vita almeno una volta l'acqua della “fonte dei Seppi”?). 

Una parte dell'acquedotto è stata ritrovata durante i lavori per la ferrovia AV in comune di Sesto Fiorentino. Una tesi di laurea di una studentessa di ingegneria, Nada Bianconi, ne fornisce in questa carta l'itinerario principale, lungo il fianco di Monte Morello. 
Ne consegue che da ogni sorgente di monte Morello un condotto scendeva verso valle ad unirsi alla condotta principale. Qualcuna di queste condotte accessorie era sicuramente in uso ancora in epoca granducale per rifornire la villa medicea di Castello.

L'acquedotto arrivava al vertice NW del castrum romano, nella zona della odierna chiesa di Santa Maria Maggiore, dove tutt'ora se non erro, c'è qualcosa che lo ricorda. 
La ricerca di tante fonti è la dimostrazione che la portata idrica dell'opera non era abbondante, specialmente d'estate; inoltre l'acqua era molto calcarea e quindi i condotti necessitavano di una manutenzione piuttosto continua e onerosa.
Posso confermare personalmente questo aspetto manutentivo perchè 20 anni fa ho abitato un annetto in una zona lì vicina e vi assicuro che era necessaria una continua manutenzione dei filtri dei rubinetti: bastavano meno di due mesi per vedere il flusso diminuito, e di parecchio.

La conseguenza fondamentale di un acquedotto di difficile manutenzione e portata non ottimale era che Firenze non poteva ospitare un complesso termale molto vasto e quindi una città sempre ben fornita di acqua come Lucca era sicuramente più appetibile dal punto di vista della “vita sociale”.

IL CLANIS, ROMA E FLORENTIA

Intanto a Roma veniva esaminata l'idea di invertire il corso del Clanis, fiume come si è visto abbastanza importante all'epoca
Il Clanis sfociava nel Paglia che a sua volta era un affluente del Tevere. E c'era a Roma la convinzione che il Clanis fosse uno dei problemi maggiori per le alluvioni del Tevere. Quindi il Senato romano decise di invertire il corso di questo fiume in direzione dell'Arno.

Siamo nel 17 DC e questa idea scatenò le apprensioni degli abitanti della giovane colonia in quanto c'era la paura che le acque della Valdichiana diventassero un grosso problema per l'Arno (che evidentemente già all'epoca era un caso delicato). Da notare che questa paura sussiste ancora oggi ma è certo che almeno per l'alluvione del 1966 il contributo dalla Valdichiana è stato molto scarso.

Questo fatto meriterebbe di essere approfondito: se non c'è memoria storica degli avvenimenti oggi, come potevano gli abitanti di una città giovanissima, fondata meno di un secolo prima, nel 59 AC, avere queste paure? C'era forse stata una alluvione in quegli anni?
Fattostà che una delegazione di fiorentini andò a Roma, riuscendo ad evitare quello che per loro poteva essere un gravissimo problema. 

Il successo della delegazione fiorentina è stato temporaneo perchè poco più di 50 anni dopo, nel 65 DC il Clanis fu fermato con una specie di diga nella zona di Fabro, il “Muro Grosso”, che dovrebbe fare anche parte di un sistema di chiuse citato da Plinio il Vecchio per consentire la navigabilità tra Tevere, Paglia e Chiana. I risultati di questa operazione furono pessimi: non è che Roma si salvò dalle alluvioni mentre a causa le difficoltà di deflusso delle acque la Valdichiana ridiventò una terra malsana e un grande lago fino alle bonifiche lorenesi del Settecentento. Inoltre ancora in epoca rinascimentale un po' di acque dell'Arno e della Val di Chiana continuavano a finire nel Tevere, come si nota in questa famosa carta del geografo tedesco Filippo Cluverio (1580 - 1622)  

NEI SECOLI BUI UN FATTO EPOCALE: 
SAN FREDIANO DEVIA IL SERCHIO

La paurosa crisi in cui si sono venute a trovare l'Italia e l'Europa occidentale tra V e IX secolo ha forti radici climatiche: finito il periodo caldo romano l'Impero di Occidente ha patito molto per questo intervallo freddo e umido, al partire dalla fine del II secolo DC. A tutto ciò si è sovrapposto l'evento del 535 DC (il Sole oscurato per 18 mesi nel Mediterraneo), provocato presumibilmente da una eruzione vulcanica molto forte in Nuova Guinea, che ha determinato un decennio terribile. 

Passata l'età romana e quindi anche quella delle terme, fino all'epoca di Matilde di Canossa (1046 – 1115) Lucca rimase la città principale della Toscana, profittando pure di essere lungo il principale asse viario fra Roma e il nord (la “Via Francigena”). 

E proprio la Lucca del decadente Alto Medioevo è stata il teatro di uno dei principali eventi della storia delle opere idrauliche nella Toscana, la deviazione del Serchio.
Come si vede nella carta qui accanto, il fiume, che nasce dalla Garfagnana, la zona più piovosa della Toscana, sbuca nella piana lucchese percorrendo la  media valle del Serchio, a Ponte a Moriano. E fino a quell'epoca si divideva in due rami:
- il ramo principale si dirigeva verso sud-est, passando ad est della città per sfociare nel lago di Bientina ed era chiamato Auser 
- il secondo, l'Auserculus (da cui l'odierno nome “Serchio”), piegava verso Montuolo e Pontasserchio dirigendosi verso Pisa;
- c'era poi un terzo ramo che di dipanava dal primo e si ricongiungeva al secondo a sud di Lucca. Lo vediamo ancora, in forma di un canale che sfocia nel Serchio a valle del ponte dell'autostrada A11, convogliandovi le acque dalla zona ancora oggi disabitata a sudest della città

Del ramo principale, che scendeva passando dalla zona di Marlia, non vi è più traccia, tranne forse in alcuni toponimi.

La leggenda narra che San Frediano, affinchè il fiume evitasse di continuare a fare ingenti danni alla città (è noto il detto applicato ad una cosa costosissima "è costato più che il fiume ai lucchesi"), decise di deviarne tutto il corso  nel ramo occidentale prima di arrivare a Lucca, e lo fece trascinando un rastrello per terra, pronunciando le parole "acque seguitemi".

Questo successe nel 575 DC durante la dominazione longobarda. Il fatto viene tramandato come il miracolo di una persona e quindi evidenzia che la chiusura del ramo bientinese del Serchio sia stata una vera sistemazione idraulica a protezione della città più importante della Toscana dell'epoca, ideata da un singolo personaggio, e non un fenomeno dovuto a normale evoluzione dinamica di un alveo fluviale in una piana. 

Registro che ci sono altre versioni, ad esempio una frana dalle pendici del Monte Pisano che avrebbe bloccato il corso verso Bientina. È una soluzione che lascia abbastanza perplessi soprattutto per un aspetto: questo avvenimento si posiziona nella zona a SW della città e quindi in questo quadro tutta l'acqua sarebbe passata da lì anche prima della deviazione di San Frediano; il tutto appare oggettivamente inverosimile, a meno di pensare che in un primo momento sia stato chiuso il corso occidentale mentre quello meridionale aveva una direzione del flusso opposta a quella odierna che si è successivamente invertita. Una soluzione un pò macchinosa. 

Nei successivi secoli, irti di difficoltà, non ci sono stati grandi lavori, anzi le paludi sono riavanzate:  durante il basso medioevo le guerre continue, l'aumento delle precipitazioni, il calo demografico, la decadenza socio-economica e culturale e la debolezza del potere politico hanno impedito l'esecuzione di opere idrauliche significative e consentito alle paludi di riprendersi territori precedentemente bonificati. 
La piana di Grosseto è un tipico esempio della riavanzata delle paludi, ma in Valdichiana andò anche perggio, e molto per colpa delle opere che avevano parzialmente bloccato lo sfogo delle acque verso il Tevere. 
La ripresa è stata lenta ed è avvenuta solo quando nel IX secolo risalirono le temperature.

La storia quindi prosegue nel prossimo post, partendo dalla ripresa della civiltà e da quella grande figura femminile che è stata Matilde di Canossa.

giovedì 26 dicembre 2013

La storia delle principali opere idrauliche toscane 1: introduzione


Il 13 dicembre ho assistito a Firenze presso la (ex) Facoltà di Ingegneria ad una bellissima Christmas Lecture da parte del professor Ignazio Becchi,Fatti e misfatti nelle opere idrauliche in Toscana: una storia senza fine. L'ho trovata estremamente interessante, anche perchè ha avuto il pregio di illustrare la storia delle opere idrauliche della regione in un continuum dall'epoca etrusca ad oggi; allora ho voluto subito approfittarne per scrivere un post, approfondendo i fatti, e anche contestualizzandoli, oltrechè nella storia umana in quella dei cambiamenti climatici che si sono succeduti nella storia. Eppoi c'è da considerare che nella questione sono intervenuti anche dei pezzi da 90 come Leonardo, Galileo (grazie al quel abbiamo ancora oggi il Bisenzio non rettificato!), Torricelli, o leader indiscussi delle bonifiche ai loro tempi come Fossombroni e tanti altri personaggi (di cui molti non citati, altrimenti scrivevo una enciclopedia...). Così l'argomento mi è scappato di mano, troppo lungo. Allora ho deciso di fare una storia in più puntate come fa spesso Marco Castiello nel suo eccellente blog di paleontologia “Paleostories”. 

La prima puntata è a carattere "generale", seguiranno post sui vari periodi storici.

FIUMI E COSTE NELL'ITALIA DI OGGI: 
UN PAESAGGIO ASSOLUTAMENTE ARTIFICIALE

Oggi in Italia i fiumi hanno una sorgente, ricevono gli affluenti e finiscono in mare o in un lago, a parte qualche eccezione, come i corsi d'acqua che si “perdono” scendendo dalle Alpi nella pianura padana, perchè la loro acqua a poco a poco si infila in uno dei sottosuoli più permeabili che ci sono. 
Ma in Natura non è così: il fiume quando dal monte scende in piano si può dividere in più rami o impaludarsi nella valle e l'acqua ci mette anni per arrivare al mare. 
A noi sembra una cosa strana ma è quello che farebbero i fiumi se l'uomo non fosse intervenuto; questa qui accanto è una carta di Leonardo da Vinci in cui si vede bene come l'Arno, una volta entrato nella pian di Firenze, si divideva in tre rami.

Inoltre il corso di un fiume che scorre in pianura senza un intervento umano è tutt'altro che rettilineo: la sua forma è molto irregolare,  meandriforme e per di più cambia molto spesso. Lo vediamo bene in questa foto della NASA che riprende i meandri del fiume Syr Darya in Kazakhstan: le didascalie spiegano come si è evoluta la forma del corso d'acqua nelle ultime centinaia di anni.
In Italia cose così non si vedono più o sono difficili da osservare: bonifiche e coltivazioni hanno mascherato le tracce degli eventi, ed inoltre da quando i fiumi sono stati arginati non possono cambiare più il corso. Ma se si osserva ad esempio il confine fra Lombardia ed Emilia – Romagna ad ovest dell'Oltrepò pavese è palese che sia stato tracciato quando l'itinerario percorso del Pò era diverso da quello di oggi.

Stesso discorso vale per le coste: la laguna veneta è considerata una eccezione ma in realtà è esattamente il tipo di costa che ci si deve aspettare lungo una pianura senza interventi antropici.

In Italia dunque (e specificamente in Toscana) senza le bonifiche il paesaggio costiero e delle pianure sarebbe completamente diverso da quello che è oggi: al posto di paesi e città, campi coltivati, frutteti e macchie con conifere, pioppi e rovi le aree pianeggianti ospiterebbero paludi e laghi mentre tra il mare e la terraferma ci sarebbe una ampia fascia in cui cordoni e zone emerse si alternano ad acquitrini.

Il territorio italiano come lo vediamo oggi è quindi il frutto di lunghi lavori avvenuti in varie fasi storiche, magari poi abbandonati e ripresi in seguito. Queste sistemazioni hanno avuto anche delle conseguenze notevoli su regime fluviale e rischio idrogeologico. Vediamo come si è evoluta la cosa in Toscana.

BREVE DESCRIZIONE DELLE PIANURE TOSCANE
ASSOGGETTATE ALLE BONIFICHE

Per chi non toscano volesse leggere questi post, consiglio di avere una carta a disposizione. Qui ho sintetizzato – maldestramente per le mie scadenti cognizioni in tema di computer graphics – le più importanti aree della Toscana di cui parlerò. Introduco comunque in modo sommario la geografia della regione, specificamente quella delle sue piane.

La Toscana occupa essenzialmente il versante tirrenico dell'Appennino Tosco – Emiliano e Tosco – Romagnolo, che è contrassegnato da una serie di bacini più o meno parallele alla catena. Internazionalmente nota da un punto di vista paesaggistico per le sue colline, ospita alcune pianure significative.

- La più grande è quella tra Montecatini, Empoli, Lucca, Pisa e Livorno (che si prolunga a nord fino alla Versilia e alla val di Magra). È percorsa dall'Arno nel fianco meridionale fino a Pontedera, dove poi si allarga verso sud fino a Collesalvetti e Guasticce: ospitava nella parte NE due dei principali laghi toscani, quello di Bientina e quello di Fucecchio, separati fra loro dalle colline delle Cerbaie: nella zona costiera di tutti i laghi e le lagune è rimasto il solo lago di Massaciuccoli, caro a Giacomo Puccini.
L'area fra Pisa, Collesalvetti e Livorno e la piana costiera che va dalla bassa val di Magra (estremità orientale della Liguria) alla zona apuo - versiliese erano ambienti lagunari, dove la presenza di tomboli e dune incrementava le difficoltà di movimento delle acque. Alcune dune si vedono ancora bene, ad esempio, lungo l'autostrada fra Pisa e Livorno. 

La piana di Grosseto si estende tra la porzione di costa compresa fra Castiglione della Pescaia e i monti dell'Uccellina e le colline maremmane. In parte, nella zona di Castiglione della Pescaia, ha resistito alle bonifiche ottocentesche perchè era difficilissimo realizzarle. Anche qui le lagune verso l'interno si trasformavano in paludi di acqua dolce
Ci sono inoltre alcune piane lungo la costa tra Cecina e Follonica. Anche qui le lagune la facevano da padrone. Il promontorio di Piombino in epoca pre – etrusca era probabilmente un'isola o, tuttalpiù, era unito alla terraferma come lo è oggi l'Argentario, da dei tomboli

Fra i bacini interni, solo in quello di Firenze – Prato e Pistoia (una valle che stranamente non ha un nome, eppure un po' di storia ce l'avrebbe....), e nella Val di Chiana le differenze di quota sono scarse e abbondavano in epoca storica paludi e laghi tipo l'attuale Trasimeno, estesi ma di profondità minima. Il lago di Chiusi e quello di Montepulciano sono gli ultimi esempi della serie.
Altri bacini intermontani (Casentino, Mugello e Valdarno superiore ad sempio), hanno avuto questo aspetto in tempi più antichi, prima che variazioni di livello marino e altre vicissitudini geologiche hanno sancito il loro passaggio da zone di sedimentazione e subsidenza a zone di erosione: i sedimenti lacustri sono oggi in erosione ma ancora ben visibili e studiati, anche per il loro ricco patrimonio fossilifero (e talvolta minerario come la lignite valdarnese).

PIANE TOSCANE: PER NATURA DELLE PALUDI

Queste piane da un punto di vista naturale sono estremamente portate all'impaludamento: basti pensare che Empoli è ad oltre 50 km dal mare ed ha un'altitudine di appena 28 metri. Bientina, ad una trentina di km dalla costa, è a 10 metri di quota e se si vede la profondità del fondo degli alvei fluviali tra Altopascio, Bientina e Pontedera, questi se non sono a livello del mare poco ci manca. Ancora oggi non è infrequente che in autunno o in primavera il padule di Bientina e la piana fra Pontedera, Pisa e Guasticce si trasformino nuovamente in laghi, sia pure temporanei, per le difficoltà di scorrimento delle acque, come nella foto qui sopra.

In questo caso percorrere la strada fra Altopascio e Bientina (opportunamente costruita su un argine e quindi abbondantemente rialzata) è una esperienza un po' particolare. A me è successo, una esperienza indimenticabile.
Oltretutto queste sono aree sono state soggette a forte subsidenza (il substrato roccioso si può trovare anche a parecchie centinaia di metri di profondità).

Quindi è evidente che senza l'intervento umano una buona parte delle pianure sarebbe rimasto un insieme di paludi e laghi, molto produttivo da un punto della biosfera ma sicuramente ostile tranne che per genti specificamente abituate a vivere in ambienti simili come i palafitticoli.
Per popolazioni come quelle etrusche, dedite alla produzione e alla esportazione di prodotti agricoli e manufatti, queste zone erano sostanzialmente ostili: le difficoltà di movimento e la malaria consigliavano agli uomini di stare lontani da questi ambienti che potevano al massimo servire per la caccia o fungere da ostacolo per i movimenti di eserciti nemici. 
Al proposito  chiedete pure una referenza ad Annibale, per il quale il passaggio fra Pistoia e l'attuale territorio fiorentino fu terribile: vi perse l'ultimo elefante e anche un occhio in una odissea durata parecchi giorni, avversata dalla piena dei fiumi e dalle malattie.
Però corsi d'acqua e laghi fornivano le principali vie di comunicazione.

La storia della Toscana è stata quindi molto influenzata dalle condizioni delle pianure e dagli interventi antropici che le hanno modificate in maniera massiccia.
La morale però è che se da un lato è stato guadagnato del territorio alle attività umane e lo si è reso decisamente più salubre, dall'altro c'è stata una enorme perdita di biodiversità e l'occupazione di aree che non si sono rivelate poi troppo sicure per gli insediamenti umani dal punto di vista del rischio idrogeologico.

Inoltre la subsidenza non compensata dall'afflusso di sedimenti (che a parte le alluvioni vengono direttamente incanalati verso il mare) sta ponendo da qualche parte dei problemi che con il passare degli anni e i forti emungimenti di acque dalle falde acquifere potrebbero diventare piuttosto seri. Sulla subsidenza delle aree costiere scrissi un post qualche tempo fa.
La serie continua con il secondo post: dagli etruschi ai longobardi passando dai romani

giovedì 28 novembre 2013

Mitigare i danni degli eventi naturali avversi: la proposta del consiglio Nazionale dei Geologi di istituire un "ufficio territoriale geologico di zona"


Il 27 novembre 2013 passerà alla storia del parlamento italiano per ben altre questioni e mi sa che in pochi presteranno attenzione ad un'altra vicenda, quella della presentazione ad opera del Consiglio Nazionale dei Geologi di un progetto di Legge che prevede la costituzione dell’Ufficio Geologico Territoriale nei comuni italiani. Proporre di istituire un'altra classe di uffici pubblici in seno alle Amministrazioni Locali potrebbe essere presa male dai sostenitori dello "Stato snello", ma le condizioni del territorio nazionale urgono una soluzione drastica che può essere compiuta solo se ci saranno persone competenti che vi si dedicano a tempo pieno e, ovviamente, con un cambiamento epocale nella mentalità degli italiani. Questo "costo" potrebbe portare a mitigare i rischi e a risparmiare parte delle risorse finanziarie che oggi vengono spese per riparare i danni delle calamità naturali.

Ho spesso battuto sul fatto che l'Italia sia un territorio difficile: un rilievo giovane governato da frane ed erosione, alta frequenza di aree collinari fatte di sedimenti sciolti e non di rocce dure, un susseguirsi di piccoli bacini idrografici, un territorio circondato da mari caldi e una elevata stagionalità nelle piogge costituirebbero un cocktail micidiale anche in assenza dell'Umanità. 
E invece bisogna considerare che l'Italia è pure un Paese molto popolato. 

Tutto questo imporrebbe una grande attenzione nell'uso del territorio per non pregiudicarne l'assetto idrogeologico. Ed invece si nota come specialmente dal dopoguerra ad oggi a proposito di assetto del territorio e di uso del suolo si sia fatto tanto di quello che non doveva essere fatto e pochissimo di quello che doveva essere fatto. 
Tale situazione ben si riflette su dei dati che ha ricordato il Presidente del C.N.G., il Consiglio Nazionale dei Geologi, Gian Vito Graziano, citando i dati del ministero dell'Ambiente: oggi le persone esposte ad un elevato rischio idrogeologico sono almeno 6 milioni e gli edifici a rischio sono circa 1,2 milioni. 
E purtroppo il rischio non è solo teorico se dal 1960 in poi, quindi in poco più di 50 anni, 541 inondazioni hanno colpito 451 località appartenenti a 388 comuni diversi, causando 1.760 vittime; nello stesso periodo 812 frane in 747 località distribuite in 536 comuni, hanno provocato la morte di 5.368 persone. Nessuna delle 20 regioni italiane si è rivelata immune da questo aspetto (sono esclusi da questo computo i morti del Vajont e di Stava, dovuti a cedimenti imputabili esclusivamente alla mano dell'Uomo).
Oltre alle vittime bisogna pensare anche ai danni materiali degli eventi naturali: case, infrastrutture e attività economiche distrutte o danneggiate. 

Le aree ad elevato rischio sismico sono ben oltre il 50% del territorio nazionale e interessano il 36% dei comuni; le persone esposte ad un elevato rischio sismico sono 22 milioni e gli edifici a rischio sono 5,5 milioni, fra i quali ovviamente scuole ed ospedali. E quindi come non pensare anche alle vittime e ai danni dei terremoti che nello stesso periodo hanno interessato il territorio (Irpinia 1962 e 1980, Belice 1967, Friuli 1976, Assisi 1997, Abruzzo 2009, Emilia 2012) insieme a tante altre scosse che hanno causato quantomeno dei discreti danni? 

L'aspetto principale della questione è la scarsa conoscenza del territorio. 
A questo proposito voglio citare un episodio riferitomi quando, subito dopo i tragici fatti sardi, lo stesso Gian Vito Graziano è andato ospite a Porta a Porta: Bruno Vespa ha posto una precisa domanda: "Quale è la soglia del livello di allerta per cui un sindaco deve intervenire?
La risposta è stata: "Al di là dei vari livelli di allarme dipende anche dalla situazione del suo territorio. La responsabilità di un amministratore è conoscere le problematicità del proprio territorio e quindi agire quando, dove e come necessario, perché ci possono essere situazioni critiche che si innescano anche in situazioni climatiche non estreme”. 

Quindi come ha fatto notare un geologo sul Geoforum, ci vuole “conoscenza del territorio e cultura della prevenzione, è su questo che da anni ci battiamo”. 
In effetti solo così si possono valutare gli scenari di vulnerabilità ed esposizione del territorio una volta che viene lanciato dalla Protezione Civile un allarme. In assenza di questi elementi (probabilmente anche perché non sono mai stati opportunamente definiti) non si ha la giusta valutazione del rischio. 
Il problema, molto pessimisticamente, è: ma gli amministratori locali hanno queste competenze o la voglia e le possibilità di averle?

Il presidio territoriale idrogeologico è previsto dalla direttiva della presidenza del Consiglio dei ministri del 27/02/2004, “indirizzi operativi per la gestione organizzativa e funzionale del sistema di allertamento nazionale e regionale per il rischio idrogeologico ed idraulico ai fini di protezione civile", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 59 del 11 marzo 2004. 
Questa struttura dovrebbe: 
- individuare le aree a pericolosità e a rischio idrogeologico
- effettuare il monitoraggio continuativo dei movimenti franosi e delle piene, attesi o in atto, attraverso un'adeguata attività di ricognizione del territorio di competenza 
- individuare ed organizzare in tempo reale i necessari servizi di contrasto, in particolare di pronto intervento e di prevenzione non strutturale
- compiere azioni di vigilanza sulla rete idrografica secondaria 
- supportare gli uffici tenici dei comuni di competenza nella programmazione di interventi di mitigazione preventiva delle aree a rischio

In linea teorica ogni comune dovrebbe avere un piano di emergenza fatto bene. Senza andare a vedere il modo con cui questi piani sono fatti e quindi senza capirne il grado di attendibilità, funzionalità etc etc, bisogna notare che in molti comuni questo piano non esiste nemmeno... 
E mi pare statisticamente improbabile che non ne siano dotati solo dei comuni “non a rischio” (ammesso che ci siano comuni in Italia che non presentino nessun rischio...) 
 
Il fatto è che, dopo 10 anni, si vede come queste strutture non hanno risolto la situazione. Quindi la proposta di “stabilizzare” il ruolo del geologo dandogli un posto preciso e caratterizzante può servire. Infatti il Geologo opera per definizione per il monitoraggio, la salvaguardi e la valutazione del territorio. 
Un maggior coinvolgimento dei geologi, quindi, consentirebbe una piu' attenta ed efficace pianificazione territoriale che, a propria volta, porterebbe a una riduzione degli eventi calamitosi che affliggono tutto il Paese.

Vediamo allora in cosa consiste la proposta di legge dei geologi italiani "monitoraggio e salvaguardia del territorio per la mitigazione del dissesto idrogeologico e la prevenzione delle catastrofi naturali?” 
Si prevede l’istituzione dell’Ufficio Geologico territoriale di zona in ogni comune italiano, con lo scopo di monitorare il territorio per valutare preventivamente e prevenire i rischi geologici e qualunque forma di calamita' naturale. 
I compiti di questo ufficio sono molteplici. Ad esempio:
- effettuare un lavoro di monitoraggio territoriale ai fini delle attività di valutazione (previsione) e prevenzione dei rischi geologici o qualsivoglia forma di calamità naturale 
- effettuare il presidio territoriale idrogeologico, con compiti di vigilanza sulla rete idrografica secondaria (quei piccoli torrenti e canali che non solo escono facvilmente dagli argini, ma che trasportano verso i corsi d'acqua principali ogni sorta di detriti che poi si bloccano in corrispondenza dei ponti 
- individuare le aree a pericolosità e rischio idrogeologico presenti nel territorio di competenza, specificando in dettaglio: ambiti territoriali, popolazione, infrastrutture e insediamenti esposti

Certo, c'è sempre, almeno in italia, il rischio che questa diventi una semplice e “normalmente inefficiente” struttura burocratica su cui scaricare problemi e colpe. Ma secondo me le Pubbliche Amministrazioni non possono continuare con la pratica attuale delle consulenze a gogò, e necessitano tutte di qualche geologo a tempo pieno impegnato nel settore. 
Ritengo anche che non si debba per forza andare obbligatoriamente a livello comunale ma che posano essere individuati dei consorzi fra comuni più piccoli a patto che ci sia una certa uniformità territoriale. 

Ovviamente rimane il problema di farsi capire da chi non è in grado di capire ma soprattutto da tutti quelli che non vogliono capire e, come ho già scritto, finchè il geologo viene chiamato per fare solo una valutazione finale di certi interventi (dai piani regolatori alla costruzione di un edificio) e non viene coinvolto in queste operazioni dall'inizio, sarà sempre percepito come un costo e un rompiscatole e non come una risorsa...

lunedì 25 novembre 2013

Scie chimiche, terremoti ed alluvioni: disinformazione a gogò. Quando la finiranno?


Il secolo che doveva essere quello dei nuovi lumi si sta rivelando quello in cui leggende e scemenze si diffondono ad una velocità terrificante. Con l'aggravante rispetto all'antichità che ora c'è una risposta scientifica ai fenomeni naturali che una volta, non avendo la minima idea del perchè succedevano, venivano attribuiti a dei e ad altre forze sconosciute. Anche a proposito della recente alluvione in Sardegna si sono scatenate le voci imbecilli dei soliti complottisti secondo i quali il tutto sarebbe stato un fenomeno artificiale dovuto ad un esperimento militare di quei perfidi soggetti che sono gli americani, ovviamente con il consenso del nostro governo, ridotto semplicemente a strumento in mano ai disegnatori del “nuovo ordine mondiale”. Ho però cercato di capire cosa aveva scatenato questi deliri e credo di esserci riuscito: gli esperimenti per la creazione di piogge artificiali, di cui però non sono riuscitodi capire lo “stato dell'arte”: non ho trovato lavori scientifici attendibili in materia, ma per lo più accenni su siti di cui non sono in grado di certificare l'attendibilità.

Prima di leggere questo post metto un piccolo glossario:
- NWO: nuovo ordine mondiale (New World Order) è secondo la teoria complottista, l'obbiettivo di un gruppo di potere oligarchico e segreto (ma neanche tanto per qualcuno perchè sarebbe il Bilderberg) che vuole conquistare il dominio su tutta la Terra con varie tecniche.
- i complottisti (o complottardi) sono i sostenitori di questa idea
- Gli sciacomici sono i sostenitori del complotto delle scie chimiche
A metà settembre Silvia Bencivelli, giornalista de “La Stampa” scrisse un articolo in cui ha ricostruito l'origine della bufala delle scie chimiche. L'articolo è disponibile qui.

Sostanzialmente sono d'accordo ma esiste la possibilità che ci sia stato davvero qualche tentativo dei militari di fare cose del genere (penso durante la guerra del Vietnam in particolare e in generale da tutte le Grandi Potenze durante la Guerra Fredda). Tornando alla Bencivelli, a seguito di quell'articolo i seguaci di Marcianò, Lannes e compagnia le inviarono in risposta delle offese personali spesso rivoltanti ma data la ovvia impossibilità di dimostrare tutte quelle sciocchezze l'unica arma che hanno i fanatici è questa. C'è poco da fare.

A Silvia Bencivelli continua ad andare la mia solidarietà.
 
I COMPLOTTISTI E I DISASTRI NATURALI

Vediamo oggi che dopo anni che i terremoti vengono addebitati ad un'arma segreta della NATO (le prime notizie mi sono arrivate dopo il terremoto di Haiti del 2010), anche per l'alluvione in Sardegna secondo i complottisti la colpa è della NATO (e secondo qualcuno persino di Israele).

Di sicuro la motivazione di questa alluvione sta in circostanze meteorologiche anomale, in particolare una depressione nel Mediterraneo Occidentale che guida il tempo in tutta l'Europa, ma non essendo un meteorologo mi astengo dal trattare l'argomento. E, come ho già detto, con una quantità di pioggia del genere era impossibile pensare che nessun fiume esondasse. Questa è una circostanza importante che dimostra come si debba convivere con la possibilità che ci siano delle alluvioni e che l'unica cosa da fare sia un uso del territorio tale da mitigare al massimo i danni.

Purtroppo a causa di chi non capisce o non vuole capire tutto ciò, registriamo a proposito del "caso Sardegna" una escalation di idiozie. E cioè che questo evento sia stato provocato da operazioni militari della NATO. Sapevo che sui social network qualcuno, con l'alluvione ancora in atto, aveva parlato di questo. Credevo fossero pazzi isolati ma avevo sottovalutato il problema perchè purtroppo si sono alzate le voci dei soliti complottisti, fra i quali naturalmente Lannes e Marcianò 

LANNES E MARCIANÒ, CASI CLINICI O SPECULATORI?

Su Gianni Lannes ho qualche dubbio: la trasformazione di un bravo e coraggioso giornalista d'inchiesta in un amplificatore di idiozie mi risulta che sia iniziata quando ha iniziato a studiare i terremoti dopo l'evento aquilano. Ora, è chiaro da cosa scrive che sulla geofisica non si è infornato su canali normali, ma ha dato retta a complottismi vari (curiosamente, sembra che ce l'abbia anche con Giuliani, il che è tutto dire...). Diciamo che è partito dai soliti siti alternativi e ne ha sposato le tesi. Tesi di chi filosofeggia o favoleggia, anziché lavorare sui dati.

Questo per dire che secondo me per qualche motivo Lannes sia impazzito ma nel contempo sia in buona fede quando spara quelle idiozie. Non so bene dove possa andare a curarsi né come fare a curarlo perchè ridiventi l'ottima persona di una volta.

Questo vale anche per alcuni gruppi di “sciacomici”, tipo “il cielo su Firenze”, tanto per nominarne uno. A proposito gli sciacomici hanno indetto una manifestazione a Modena prima di Natale. Mi spiace che quel giorno devo lavorare, altrimenti andavo davvero a vedere quanti erano, così, per farmi due risate a vedere dal vivo i loro cartelli...

Ma che Rosario Marcianò da Sanremo, il mitico Tanker Enemy, sia in buona fede per me è una eventualità molto remota e sono convinto che costui sia il tipico personaggio che cerchi di campare alle spalle dei gonzi. 

LANNES E I TERREMOTI, UN DELIRIO

Ad ogni buon conto, in estate Gianni Lannes si è eroicamente esposto al pubblico ludibrio (ad esclusione di quei 300 squinternati che lo seguono) a proposito del terremoto delle Apuane e degli altri eventi sismici che lo hanno seguito attribuendone la colpa ad una combinazione fra HAARP (che mi risulta non essere più in funzione), scie chimiche e manovre militari. Unire scie chimiche e terremoti provocati da HAARP, due delle principali bufale che scorrono in rete da un po', rappresenta una eccezionale teoria unificante del complottismo.

Gli ho risposto a proposito del terremoto delle Apuane su Scienzeedintorni; ho anche provato sul suo blog, non ricevendo risposta e, anzi, i miei commenti sono stati regolarmente censurati. Ho poi lasciato perdere quel tripudio di altre scemenze che si sono succedute nel suo blog.

E POI ANCHE SULLE ALLUVIONI, MA È IN COMPAGNIA...

Scemenze che ora riguardano un'altra questione, l'alluvione in Sardegna: oggi secondo lui le scie chimiche sono la causa della terribile alluvione. Non so se ha cominciato lui o gli è venuta l'ispirazione da quei pazzi che hanno blaterato in materia su Facebook.

Fattosta, citando testualmente il Nostro:
Dal loro punto di vista l'esperimento ha funzionato: morti, devastazioni del territorio, paura sociale e caos. Impulsi a microonde hanno preceduto la formazione del ciclone che ha sconquassato adesso la Sardegna. Qualche giorno prima del disastro pianificato a tavolino dagli alleati di Washington sotto l’ombrello Nato, l' attività di irrorazione chimica a bassa quota nel cielo con alluminio e bario ha reso l’aria estremamente elettroconduttiva.

I velivoli usati per la nebulizzazione in Sardegna sono decollati dall’aeroporto militare della Nato di Decimomannu a Cagliari.

Comunque stavolta l'aviazione civile non c'entra: la disamina dei tracciati radar (mese di novembre 2013) ha escluso il coinvolgimento di aerei di linea commerciali nell'attività di nebulizzazione dei centri abitati".
Dopo, in un raro momento di lucidità, Lannes dice una cosa di cui in molti, come sostengo anche io, fanno finta di non sapere:

E’ anche vero che ufficialmente almeno 6 milioni di persone in Italia vivono in aree sottoposte a dissesto idrogeologico

Poi però ritorna nella sua bischeraggine: ma proprio su questa fragilità geomorfologica sono stati innestati gli esperimenti bellici, proprio per avere una copertura, un utile paravento, poiché ci sarà sempre l'italidiota di turno che obietterà qualche precedente storico.

In pratica secondo lui oggi questi fenomeni possono solo essere provocati dall'Umanità.... Grandissimo. 

Il drammatico è che lo segue pure un ex senatore, Fernando Rossi che, fortunatamente per noi, ha concluso il suo mandato nel 2008 ed è fondatore della lista Per il Bene Comune che, altrettanto per fortuna, non pare accreditata fra le liste che prenderanno voti nel prossimo futuro.
Ecco cosa dice:
"Se i politici fossero in buona fede, dovrebbero anche dirci e/o richiedere ad aereonautica italiana, basi NATO e basi USA, Monsanto e Israele quante “inseminazioni” (scie chimiche) hanno fatto sulla Sardegna e sul resto d’Italia i loro aerei, e quante centinaia di tonnellate di metalli pesanti, sostanze tossiche e prodotti chimici “non meglio specificati” sono stati rilasciati in atmosfera, sotto il paravento del “controllo climatico". Se non lo fanno è perché sanno benissimo che sono quelle che hanno causato le straordinarie precipitazioni.

Forse qualcuno in alto ha dato ordini ben precisi perché non se ne parlasse? C’è un’attività criminale da parte di chi è in grado, attraverso le scie chimiche di, gestire l’inquinamento di acque, campi, animali e persone”.
Ora, posso capire l'antiamericanismo di un reduce del PCI (e, d'altro canto, anche a me non è che la politica USA mi sia sempre rimasta simpatica). Però a tutto c'è un limite... come tirare fuori la Monsanto, che sicuramente con i suoi metodi sta sulle scatole ad un mucchio di gente ma che non si capisce cosa c'entri qui. Ma è bello fare un calderone in cui infilate tutti gli odiati “nemici”…. 

Anche Marcianò, in una leggendaria intervista a La Zanzara su Radio24 si è espresso in tal senso, tra i frizzi e i lazzi dei giornalisti. Quando l'ho sentita in podcast (anzi, date le porcate che dice il personaggio quello è un porkast) stavo per soffocare perchè non respiravo più dalle risate. 
In pratica qualsiasi fatto climatico o sismico secondo loro è da addebitarsi ai carognoni della NATO.

SCIE CHIMICHE E ALLUVIONI:
POSSIBILI ORIGINI DI QUESTA GIGANTESCA BUFALA

Sono andato a cercare la questione: mi era noto che tentativi di provocare artificialmente la pioggia erano teorizzati almeno tra gli anni '50 e '60 in quel momento di delirio ottimistico sulle possibilità che l'Umanità potesse dominare la Natura crudele (qualcuno pensava persino che fosse possibile impedire i forti terremoti). E gli Israeliani ci hanno realmente provato a provocare la pioggia ma non credo abbiano avuto grandi risultati. Il principio sarebbe quello di inseminare le nuvole con delle polveri che fanno da nucleo di condensazione per il vapore acqueo che così si trasforma in pioggia. 

Guardando in rete ci sono diverse notizie al riguardo ma sono scettico sui risultati anche perchè in bibliografia scientifica non c'è molto al riguardo (e ricordo che quello che fa testo è la bibliografia scientifica in peer-review, Wikipedia e tutta un'altra serie di siti senza un controllo della comunità scientifica non fanno testo).

Un altro sito riporta che l'Unione Sarda avrebbe pubblicato nel 2002 un articolo secondo il quale sarebbe stato avviata una operazione per provocare pioggia artificiale in modo da rimediare alla cronica siccità nell'isola.

Oggettivamente non ne so nulla di questa storia e non ho il tempo di indagare. Immagino comunque che la citazione sia reale. Ed è probabile, se quanto riportato risponde a verità, che ci fosse stato un coinvolgimento di qualche ricercatore israeliano. 

Pertanto se la  connessione scie chimiche - terremoti è una totale idiozia, l'idea che siano un sistema per avvelenare l'Umanità e specialmente che servano a provocare pioggia sono le classiche leggende nate a partire da un minimo fondo di verità, come spesso è successo nelle mitologie dell'antichità. Da qui ad arrivare a farle diventare un'arma di distruzione di territori è chiaramente un passaggio demenziale.

Ora cerchiamo di capire il passaggio: ricordate Lannes che se la prendeva con la Protezione Civile perchè sono stati realizzati degli scenari di distruzione in caso di terremoto? Per lui questa era la dimostrazione che c'era un complotto per creare terremoti artificiali e sapendo i parametri di questi esperimenti venivano ipotizzati i danni. Una persona normale capisce che la situazione è molto diversa e che la Protezione Civile deve fare questi piani per avere un'idea di quello che può succedere in caso di forte terremoto (ovviamente naturale...)

Ma come per quella faccenda, anche in questo caso la logica vorrebbe che esperimenti del genere “pioggia artificiale” vengano (o, meglio, verrebbero?) svolti non per incrementare le precipitazioni in atto o previste ma in fasi di siccità durante le quali ogni goccia di acqua piovuta sarebbe da addebitare esclusivamente all'esperimento in atto. Anche perchè se vuoi aumentare le riserve idriche ti ci voglio delle piogge più continue e deboli, non un flash-flood....

Temo però che per i complottardi sia una esercitazione mentale impossibile.