sabato 24 giugno 2017

La formazione della prima crosta continentale 4 miliardi di anni fa



Più si va verso l'inizio della storia della Terra, meno dati abbiamo a disposizione: i fenomeni geologici hanno rielaborato le rocce più antiche e abbiamo davvero pochissime tracce di quanto è successo prima di 3 miliardi di anni fa. Se poi andiamo ancora oltre, i dati su qualcosa di anteriore a 4 miliardi di anni fa sono davvero pochissimi. Quindi capire come era la Terra prima della instaurazione della Tettonica delle Placche e su come e quando sono apparse le prime aree a crosta continentale silicea è veramente difficile. Però si può dire qualcosa sulle serie TTG (Tonalite - Trondhjemite - Granodiorite) che hanno costituito, tra 4 e 2.5 miliardi di anni fa, le principali aree a crosta continentale silicea.

LA PRIMA CROSTA CONTINENTALE A COMPOSIZIONE BASALTICA. I geologi dell’anno 4.700.000.000 dalla formazione della Terra conoscono benissimo la differenza fra crosta continentale, crosta oceanica, mantello, litosfera e astenosfera. Come conoscono la sterminata varietà delle rocce e dei minerali che possiamo trovare sulla superficie terreste, formatisi in svariati ambienti.
Ma, ovviamente, quando la Terra è nata, la situazione era un po' diversa. Dell’Adeano, il primo eone della storia della Terra, conclusosi circa 4 miliardi di anni fa, ci sono ben poche testimonianze. Quelle più antiche sono gli zirconi di 4.4 miliardi di anni fa trovati nelle australiane Jack Hills [1]: lo zircone è un minerale “duro a morire” e di fatto di zirconi del Precambriano ce ne sono tantissimi anche in rocce recenti (e sono utilissimi per tanti aspetti della Geologia). 
Comunque stando ai modelli più realistici la Terra dell’Adeano era una palla coperta interamente da un oceano sotto il quale c'era una primitiva crosta oceanica a composizione basaltica anche se un pò diversa dai basalti di oggi. 
Parlare di "crosta continentale" per quei tempi significa però tutta un'altra cosa, in quanto non c'era una crosta continentale simile a quella attuale. Per "crosta continentale" dell'epoca si può intendere, grossolanamente, un qualche cosa possibilmente al di sopra del livello del mare che, esposto all'alterazione e all'erosione, si qualificava per essere l'area di provenienza di sedimenti di origine continentale (fondamentalmente arenarie e argilliti). 

IL PASSAGGIO DA UNA CROSTA CONTINENTALE BASALTICA A UNA CROSTA DI COMPOSIZIONE FELSICA, A MAGGIOR TENORE DI SILICIO. Distinguendo fra minerali felsici (ad alto tenore di silicio) e mafici (ad alto tenore di Ferro e Magnesio) due lavori sono arrivati a concludere che fino a 4 miliardi di anni fa la (poca) crosta continentale era tutta basaltica e che solo da quel momento è iniziata la produzione in grande stile di magmi felsici della suite delle TTG (Tonaliti – Trondhjemiti – Granodioriti), partendo da due approcci diversi: 
  • un primo gruppo ha studiato la distribuzione e la composizione dei minerali femici [2] 
  • un secondo gruppo ha studiato la distribuzione e la composizione dei minerali felsici [3] 


La modifica nella composizione della crosta continentale
tra l'inizio e le fine dell'Archeano, da [2]
L’aspetto interessante è che entrambi i gruppi sono pervenuti alle stesse conclusioni e cioè che la prima crosta continentale felsica ha iniziato a formarsi all’inizio dell’Archeano, 4 miliardi di anni fa e che nell’eone precedente, l'Adeano c’era, appunto, quasi esclusivamente una crosta basaltica. Inoltre, durante tutto l’Archeano, cioè fra 4 e 2.5 miliardi di anni fa la quantità di crosta continentale felsica è aumentata sensibilmente da zero ad un valore sempre di parecchio inferiore all’attuale ma abbastanza rilevante rispetto a prima.
Nell’immagine tratta da [2], che è rovescia rispetto alla logica comune, in quanto la situazione più antica è a destra, si vedono le differenti percentuali di quanto in qualche modo sporgeva dalla crosta oceanica all’inizio e alla fine dell’Archeano. Nella legenda al posto di “Komaitiiti” come nell’originale ho preferito scrivere “Greenstone Belt”, perché le Komaitiiti fanno parte di queste. Le Greenstone belts rappresentano un assemblaggio tipico dell’Archeano e del paleoproterozoico: si tratta di ampie zone che nei cratoni dell'epoca si trovano interposte alle zone con TTG. Sono lunghe da poche decine a centinaia di km, e presentano serie vulcaniche mafiche e ultramafiche con associata copertura sedimentaria, metamorfosate in modo variabile. È facile vedere come durante l'Archeano nelle zone più elevate rispetto alla crosta oceanica (e quindi a crosta continentale in senso lato) siamo passati da una ampia maggioranza di rocce basaltiche a una crosta composta essenzialmente da rocce granitiche, formate da serie di tipo TTG.

Insomma, le serie TTG sono il primo esempio di vera crosta continentale nel senso "moderno" della storia della Terra: in pratica sono dei complessi granitici e granodioritici che però si distinguono per una composizione un po' diversa da quella dei complessi granitici successivi.

COME SI PRODUCE LA CROSTA CONTINENTALE FELSICA? Fondamentalmente, la crosta continentale felsica si forma partendo dai magmi che risalgono dal mantello. Siccome il mantello produce magmi femici, è ovvio che al momento della loro solidificazione nella crosta il liquido si è pesantemente modificato rispetto al magma originario, durante una evoluzione che si definisce come differenziazione magmatica e cristallizzazione frazionata: un magma è composto da una fase liquida (la lava propriamente detta), una fase solida (i cristalli che vi nuotano dentro) e una fase gassosa (i gas disciolti: acqua, CO2, NO2, SO2 , P2O 5 etc etc). Durante la risalita dal profondo l’assemblaggio si modifica per una serie di fenomeni: la temperatura e la pressione diminuiscono, mentre le tre fasi interagiscono continuamente fra loro e, spesso, pure con le pareti del condotto, assimilandone delle parti: così si modificano le composizioni di gas, cristalli e liquido e può variare anche il chimismo generale del sistema. Alle volte succede che al cambio di una o più di queste condizioni alcuni cristalli formatisi in precedenza possono dissolversi o essere in parte attaccati dalla nuova composizione del liquido. 

Crosta che si forma                      crosta che si forma

da un mantle plume    in un sistema di convergenza di placche
Ci sono diversi modi per creare nuova crosta che corrispondono a due modi diversi di risalita di magmi mantellici:
  • il primo è il classico Mantle Plume: alla base del mantello ci sono delle zone più calde con un certo grado di fusione parziale e dalle quali il materiale profondo risale. Alle volte ancora in epoca geologicamente recente sulla superficie arrivano dei veri e propri “goccioloni” di magma, che formano le Large Igneous Province, un insieme di lave essenzialmente basaltiche che si mette in posto sulla superficie terrestre (i “flood basalts", letteralmente alluvioni di basalto) come i trappi della Siberia o del Deccan, o sul fondo dell’oceano (i plateau oceanici in stile Kerguelen). In genere la risalita di questi magmi e la loro messa in posto superficiale sono molto veloci, per cui assomigliano abbastanza al fuso originale. 
  • il secondo è l’ambiente di collisione fra zolle, dove una zolla in subduzione a causa dell’aumento di pressione a cui è sottoposta perde i fluidi che percolano nel mantello sovrastante e ne provocano la fusione parziale. Si forma così il magmatismo di arco, come quello che adesso abbiamo in Giappone, Indonesia e Ande (ma non solo… anche nelle Eolie…). Sotto agli archi vulcanici si formano grandi corpi granitici come i grandi batoliti delle Ande o del Tibet e in genere il granito viene associato a un ambiente di collisione 


Annoto per dovere di cronaca che quando si pensa ai graniti si pensa intuitivamente a un ambiente di scontro di zolle. Ma ci sono anche i cosiddetti graniti tardo o post orogenici: magmi granitici che sono il risultato della differenziazione di liquidi formatisi nel mantello più superficiale per una semplice decompressione dovuta all’allontanamento fra due settori di crosta sovrastanti: ad esempio il grande batolite della Sardegna e della Corsica (con le appendici calabresi) e i massicci cristallini esterni delle Alpi si sono formati quando i fenomeni compressivi dell’orogenesi ercinica (o varisica come si dice oggi) si erano praticamente conclusi, in un ambiente di scorrimento laterale (tipo la faglia di San Andreas) con una leggera componente estensionale [5]. Di tratta fondamentalmente di un terzo modo di formazione di crosta continentale, che però, nonostante il fatto che sia estremamente interessante dal punto di vista geologico, dal punto di vista quantitativo fornisce un contributo quasi nullo.

COME SI SONO FORMATE LE SERIE TONALITE - TRONDHJEMITI - GRANODIORITI? Una differenza essenziale fra i due modi diversi di formazione della crosta continentale è che al primo non serve la tettonica a placche, mentre per il secondo senza tettonica a placche non se ne parla nemmeno. Appare abbastanza ragionevole un modello secondo il quale per i primi 700 / 900 milioni di anni di storia abbiamo avuto essenzialmente un mantello stagnante in progressivo raffreddamento, con qualche zona in cui materiali risalivano verso la superficie o scendevano verso il basso e che i primi segni di una vera tettonica a placche siano comparsi solo 3.8 miliardi di anni fa.
Quindi, visto il ritardo della instaurazione della tettonica a placche, è ragionevole pensare che la prima crosta continentale si sia formata per risalita di materiali dal mantello provenienti da un plume. Il problema è che di questa crosta non c’è più traccia diretta, un po' per l’erosione, un po' perché è stata successivamente coinvolta in processi deformativi.
Allora bisogna vedere se c'è un analogo attuale. Oggi la crosta continentale si forma essenzialmente nelle aree di scontro fra zolle e quindi non può essere presa a modello per la formazione delle TTG. I grandi plateau oceanici e i flood basalts possono condividere probabilmente con le serie TTG l’origine profonda dei magmi, ma la crosta sotto i plateau oceanici non ha uno spessore tale da definirsi “crosta continentale” di suo e i flood basalts si sono fatti spazio nella crosta continentale preesistente. Quindi non ci servono.
Un caso apparentemente simile sulla Terra attuale c’è, ed è l’Islanda.

Il sistema di alimentazione dei magmi dal profondo
in Islanda, da [4]
L'ISLANDA: FORMAZIONE ATTUALE DI CROSTA CONTINENTALE DA UN PLUME DEL MANTELLO. L’Islanda è più o meno sopra il punto in cui a causa di una ingente risalita di magmi dal mantello si è messa in posto la NAIP, Northern Atlantic Igneous Province, 55 milioni di anni fa (quella le cui emissioni sono responsabili del massimo termico al passaggio Paleocene – Eocene, ma non ditelo a Trump e a Pruitt…). La NAIP precede l’inizio dell’apertura dell’Atlantico settentrionale. 
L’isola è sulla dorsale medioatlantica e a causa dell’espansione dei fondi oceanici in direzione perpendicolare alla dorsale non possiede rocce più vecchie di 20 milioni di anni; i volumi di magma che risalgono sono molto ingenti a causa della concomitanza fra il plume del mantello e la dorsale; per questo si è formata una crosta il cui spessore varia tra 15 e 40 km. 
La tomografia sismica ha rilevato la presenza di un esteso sistema di alimentazione dei magmi tra il mantello e la superficie, quasi un cilindro verticale posto sotto i due sistemi vulcanici attualmente più attivi, l’Hekla e il Bárdarbunga-Grı́msvötn (non è un caso se i 16 km cubi della più imponente eruzione in età storica a livello mondiale, quella del Laki nel 1783, sia avvenuta proprio lì sopra). La crosta, oltre che nelle lave che emergono in superficie, si forma in profondità nelle camere magmatiche che si trovano tra 5 e 10 km [4]. Lo spessore crustale, la permanenza a debole profondità e il contatto con rocce alterate preesistenti influenzano la composizione del magma che poi, in parte, risale per eruttare sulla superficie. 
L’Islanda è stata considerata un possibile analogo del modo con cui si è messa in posto la prima crosta continentale. Il problema è che i conti non tornano dal punto di vista geochimico.
Il primo aspetto è che all’epoca il rapporto Ferro / Magnesio era diverso da quello attuale: c’era molto più magnesio di oggi, in quanto le temperature del mantello erano decisamente superiori a quelle attuali: i magmi basaltici dell’epoca possono addirittura sorpassare un tenore del 20% di MgO, contro il 5 – 12 % di quelli attuali
Il secondo è che la composizione chimica della suite di crosta continentale dell’epoca, le TTG (tonalite – trondhjemite – granodiorite), che iniziano a comparire giusto 4 miliardi di anni fa, differisce dalle vulcaniti islandesi in diversi “particolari essenziali” (fra i quali le percentuali di silice, allumina e l’abbondanza delle terre rare) e la cui formazione finisce circa 2 miliardi di anni fa, all’epoca della formazione del supercontinente Nuna (o Columbia). 
Uno gneiss in cui durante il metamorfismo i minerali
si sono spostati ciascuno verso i suoi simili,
formando bande di alternata composizione
Le TTG sono le più antiche fra le rocce ad alto tenore di silice. Si tratta di rocce magmatiche intrusive abbastanza ricche in silice di cui alcune sono rimaste abbastanza indisturbate, mentre altre sono state successivamente metamorfosate. Insomma, sono l’equivalente dei graniti e delle granodioriti dei tempi successivi. 

La domanda fondamentale sull’origine delle serie TTG è se rappresentano un prodotto della convergenza fra zolle o di una risalita sopra un mantle plume, e capite che si tratta di due possibili meccanismi completamente diversi! 
Purtroppo l’ambiente di solidificazione finale delle TTG ne rende spesso difficile lo studio: le possibilità che venga coinvolto successivamente in deformazioni o metamorfismi sono elevate per rocce come queste, formatesi nella crosta primordiale ad una certa profondità. Ne segue che le deformazioni e il metamorfismo successive alla loro formazione non solo ne hanno drasticamente mutato la mineralogia, ma come spesso succede in fasi di metamorfismo molto spinto composti simili si sono aggregati fra loro costituendo livelli omogenei alternati, come nella foto qui accanto: fare analisi generali della massa rocciosa diventa quindi estremamente difficile a causa della disomogeneità dei livelli.

Il confronto in [6] fra la geochimica delle Islanditi,
dello gneiss di Idiwhaa e delle classiche TTG
LA SOMIGLIANZA FRA UNA PARTICOLARE TTG E ALCUNE ROCCE ISLANDESI RISOLVE IL PROBLEMA. Nel 2014 un lavoro ha finalmente gettato luce su questo aspetto perché nel nordovest canadese, gli Gneiss di Acasta, una delle rocce più vecchie che esistono sulla Terra, presentano al loro interno uno gneiss tonalitico in cui sono contenuti zirconi vecchi di oltre 4 miliardi di anni e che, nonostante il successivo metamorfismo, si presenta sostanzialmente omogeneo, lo Gneiss Tonalitico Idiwhaa ("tempi antichi" nel linguaggio aborigeno locale) [6] 

L’Idiwhaa è rimasto quasi miracolosamente lontano da disturbi tettonici, ed è differente dalle “normali” TTG:  i suoi minerali e le caratteristiche geochimiche ci dicono che è stato prodotto a bassa profondità. Ma la cosa più sorprendente è che le sue caratteristiche combaciano con quelle delle Islanditi, un tipo di roccia contenente più silice rispetto ai tipici basalti islandesi e che si è formata a bassa profondità per una cristallizzazione frazionata molto spinta di un magma basaltico, l’ibridizzazone con un fuso a maggior tenore di silice) e anche delle reazioni con una crosta superiore alterata da attività idrotermale, fatti questi ben dimostrati dal rapporto degli isotopi dell’ossigeno contenuti negli zirconi

Come si è formato il magma dello Gneiss di Idiwaa, da [6]
Nella figura qui accanto vediamo un diagramma schematico che illustra come si è formato lo gneiss tonalitico di Idiwhaa, da  [6]: 
1. fusi a composizione basaltica subiscono un frazionamento a bassa profondità nella crosta, per produrre magmi a composizione un po' più silicea arricchiti in Fe
2. si formano zirconi con un rapporto isotopico dell’ossigeno (δ18O) tipico del mantello
3. nella camera magmatica e durante la ulteriore risalita il magma assimila rocce precedentemente alterate da fenomeni idrotermali in zone in ci era circolata acqua proveniente dalla superficie
4. questa assimilazione diminuisce il δ18O del magma, producendo degli zirconi con un δ18O inferiore a quello del mantello

Lo gneiss di Idiwhaa si è quindi formato in una situazione sostanzialmente simile a quella dell’Islanda attuale, dando la prima evidenza geologica di quello che in molti avevano pensato e cioè che tra 4 e 2.5 miliardi di anni fa la prima vera crosta continentale silicea si è formata per cause molto diverse da quelle grazie alle quali si è formata crosta continentale dal proterozoico medio in poi in zone di collisione fra zolle. Insomma, le differenze geochimiche e mineralogiche fra le suites TTG e le rocce felsiche successive dimostrano una netta diversità nei rispettivi processi di formazione.


[1] Harrison (2009) The Hadean crust: Evidence from >4 Ga zircons. Annu. Rev. Earth Planet. Sci. 37, 479–505 
[2] Tang et al (2016) Archean upper crust transition from mafic to felsic marks the onset of plate tectonics Science 351, 372 – 375
[3] Dhuime et al (2012) A Change in the Geodynamics of Continental Growth 3 Billion Years Ago Science 335, 1334 – 1336 [4] Allen et al (2002) Plume-driven plumbing and crustal formation in Iceland Journal Of Geophysical Research 107, B8, 2163, 10.1029/2001JB000584 
[5] Casini et al (2015) Evolution of the Corsica–Sardinia Batholith and late-orogenic shearing of the Variscides Tectonophysics 646, 65–78  
[6] Reyminck et al (2014)  Earth’s earliest evolved crust generated in an Iceland-like setting Nature Geoscience 7, 529 – 533 









martedì 20 giugno 2017

Le cause dello tsunami del 17 giugno lungo la coste occidentale groenlandese


Dopo una serie di incertezze, finalmente è chiaro cosa abbia provocato le onde anomale che hanno colpito alcuni villaggi di pescatori lungo la costa occidentale della Groenlandia: il motivo è stato una frana su un pendio a picco, sul mare a pochi km di distanza dal villaggio 

Domenica pomeriggio 18 giugno è arrivata la notizia che un villaggio in Groenlandia era stato colpito da una onda anomala che ha fatto 4 dispersi e distrutto almeno 11 case. Altri villaggi sono stati interessati più marginalmente dal fenomeno.
C’è stata un po' di confusione perché proprio la stessa domenica mattina un evento sismico di M 5.0 si è prodotto sulla Reykjianes Ridge, il segmento a sud dell’Islanda della dorsale medio – atlantica. E quindi avevo localizzato il problema sulla costa orientale, quella atlantica (non sono stato il solo a commettere questo errore, in diversi siamo stati traditi dalla presenza di questo terremoto..)
Quello però che destava qualche perplessità (qualche..) era la Magnitudo, manifestatamente troppo bassa per provocare uno tsunami di suo.
Era quindi stato ipotizzato che il terremoto avesse innescato una frana sul fondo marino della Reykjianes ridge: ci sono esempi anche molto recenti di tsunami associati ad eventi sismici non sono provocati direttamente dal movimento del fondo marino, ma da frane indotte dallo scuotimento, ad esempio in occasione del terremoto  M 7.2 del 2 settembre 1992 in Nicaragua e del terremoto M 7.0 del 17 luglio 1998 in Nuova Guinea, per non andare sul terremoto di Messina del 1908, di cui parlai a suo tempo qui
Il problema è che siamo sempre su magnitudo ben più importanti di questa ed era ancora più realistico pensare, quindi, che lo scuotimento provocato dal sisma avesse innescato il crollo sul limite di un ghiacciaio già pronto a generare iceberg di suo.

Poi è venuto fuori che il villaggio interessato dalle onde anomale era Nuugaatsiaq, nella baia di Baffin e quindi dalla parte opposta della Groenlandia. Pertanto il terremoto sulla Reykjanes non poteva avere niente a che fare con il fenomeno.

I dati dell’iris Earthquake Browser mostravano un evento sismico più o meno al centro della baia di Baffin, successivamente cnacellato. Purtroppo non ho conservato la schermata e quindi non ho testimonianza al riguardo (e non saprei se sia possibile recuperare la videata sulla cache del PC, io non lo so fare di sicuro). Negli appunti ho segnato una M di 4.6, il che, ovviamente, faceva lo stesso pensare ad un distacco di un iceberg che era già pronto a succedere, semplicemente innescato con leggero anticipo dalle onde sismiche di quell’evento.
Però anche in questo caso c’era qualcosa che non tornava: il distacco di un iceberg dovrebbe produrre un “terremoto glaciale”.

I TERREMOTI GLACIALI. Durante il distacco violento degli iceberg che mentre lo fanno si capovolgono, si producono delle onde sismiche con caratteristiche particolari, tali che è stata istituita una classe apposta di terremoti, i  “terremoti glaciali”: emissioni di onde sismiche a lungo periodo che risultano in eventi di M fino a 5 e che sono registrati da tutte le reti sismografiche mondiali. Un’altra caratteristica tipica di questi terremoti è la durata: l’emissione può persistere per parecchie decine di secondi (anche oltre il minuto), caso nettamente diverso da quello dei classici sismi tettonici di magnitudo paragonabile.

La Groenlandia non è molto abitata e le distanze sono enormi, per cui ci sono poche testimonianze dirette della formazione degli iceberg e della relativa generazione di terremoti. Un lavoro recente ha finalmente fatto luce sul fenomeno. I ricercatori hanno posto telecamere, sismografi e sensori  GPS sul fronte del ghiacciaio Hellheim, lungo la costa atlantica della Groenlandia meridionale [1].  È stata notata una precisa coincidenza fra terremoti glaciali e distacchi di iceberg, questi ultimi ampiamente documentati dai dati GPS. Le onde sismiche appaiono generate dal riassetto del ghiacciaio dopo la perdita dell’iceberg.
I rapidi cambiamenti nella dinamica dei ghiacciai groenlandesi sono associati all’aumento della produzione di iceberg e dei terremoti glaciali. Questi ultimi costituiscono le spie dell’avvenuto distacco degli iceberg e quindi non è un caso se negli ultimi 20 anni sono aumentati sette volte e la loro area di produzione si sta espandendo verso nord (un’altra ampia riprova del riscaldamento globale).
Un filmato mostra cosa può succedere anche per un distacco minimo di ghiaccio.

COSA È SUCCESSO A NUUGAATSIAQ? La cosa strana però che non è stato registrato nessun terremoto glaciale e questo avrebbe dovuto essersi prodotto indipendentemente dal fatto che il distacco dell’iceberg sia stato accelerato da quella scossa nella baia di Baffin o no, 
Successivamente però l’evento nella Baia di Baffin è stato cancellato ed è stato sostituito da un evento sismico di M 3.9 lungo le sue coste groenlandesi, che secondo USGS è direttamente dovuto ad una frana.
Il sisma è stato indicato come avvenuto alle 23.09 UTC del 17 giugno 2017 (le 21.09 ora locale), mentre la BBC riporta che la chiamata ai servizi di emergenza è arrivata alle 22.15 circa.

Fra domenica e lunedì molti commenti erano improntati ad incertezza sulle cause del fenomeno, poi finalmente si è capito effettivamente l'accaduto.

La rettifica dell’epicentro poteva far supporre di essere davvero davanti ad un terremoto glaciale e che la posizione indicata precedente fosse un errore dovuto al trattamento automatico delle caratteristiche delle onde sismiche. Anche la profondità dell’evento è segnata come “zero”. 
Ed in effetti si è trattato di una “semplice” frana che ha provocato uno tsunami, un po' come è avvenuto a Stromboli il 30 dicembre 2002.
La frana si vede molto bene nelle immagini e nel filmato riportati dal buon Petley nel suo Landslide blog. È avvenuta sulle coste del Karrat Fjord, come indicato nella carta qui accanto.



L’area è contraddistinta da un rilievo particolarmente energico, con vette alte fino a 2000 metri e dalla geologia particolarmente complessa [2], con rocce di vario tipo, fra le quali si segnalano argille, arenarie non completamente litificate e letti di carbone mesozoici, coperti da lave paleoceniche prodottesi durante l’apertura della baia di Baffin. Non è molto chiaro dalle immagini ma la frana sembrerebbe essersi prodotta proprio nelle arenarie 

il fronte della frana del Karrat Fjord, da un video postato da Dave Petlety


la frana del 2000 a Paatuut, da [3]
Una zona molto vicina era stata interessata da un evento analogo il 21 Novembre 2000, quando il villaggio di Saqqaq è stato colpito da onde anomale. La frana avvenne in località Paatuut, e dovrebbe essere stata causata dalle condizioni meteorologiche dei giorni precedenti, dove il freddo aveva ghiacciato dell’acqua in fratture preesistenti [3].

Quindi lo tsunami che ha colpito la costa groenlandese è stato innescato da una frana su una montagna praticamente a picco sul mare e non dal distacco di un iceberg come poteva essere ipotizzabile.


[1] Murray et al (2015) Reverse glacier motion during iceberg calving and the cause of
glacial earthquakes Science 349, 305 – 308
[2] Dam 2002 Sedimentology of magmatically and structurally controlled outburst valleys along rifted volcanic margins: examples from the Nuussuaq Basin, West Greenland Sedimentology 49, 505–532
[3]  Dahl-Jensen et al 2004 Landslide and Tsunami 21 November 2000 in Paatuut, West Greenland Natural Hazards 31, 277–287

domenica 18 giugno 2017

L'Uomo è arrivato nelle Americhe prima di quello che si riteneva qualche anno fa. Parecchio prima


Questi ultimi anni stanno rivoluzionando la storia umana, da quella più antica, con Homo naledi e le ultime scoperte di Hublin sull’età dei primi sapiens, a quella più recente del continente americano, dove alcuni lavori usciti qualche mese fa retrodatano l’arrivo di esseri umani nel continente americano ben prima (e parecchio prima), non poche migliaia di anni prima dei canonici 15.000 anni fa come alcuni darti facevano supporre, ma molto, moto tempo prima. Ho aspettato a parlarne di proposito: volevo farlo solo adesso perché voglio dedicare questo post ad una persona per me molto speciale e cioè il prof. Brunetto Chiarelli. Un grandissimo scienziato, uno dei più importanti antropologi del XX secolo e personaggio che si è speso per il superamento di quella barriera che principalmente nel nostro Paese il mondo umanistico, da Croce in poi, ha eretto nei confronti della Scienza, considerandola cosa minore, nonché uno dei miei maestri. Confesso che una delle più grandi soddisfazioni morali della mia attività scientifica è stata quando il prof. Chiarelli mi ha detto “a questo punto mi dai ancora del Lei?” Ieri sera gli è stato conferito il Premio Zangheri per la sua carriera e lo abbiamo festeggiato in occasione del suo ritiro definitivo dall’università. Non potevo quindi esimermi da scrivere un post su uno dei tanti argomenti su cui abbiamo discusso tanto insieme. Il popolamento delle Americhe è fra quelli più “gettonati” e ne parlo quindi volentieri in questa occasione, dopo comunque averne parlato già diverse volte su Scienzeedintorni. 

L'UOMO E LE AMERICHE. Per la maggior parte degli scienziati non ci sono dubbi: Homo sapiens è arrivato nelle Americhe meno di 20,000 anni fa provenendo dalla Siberia e prima di questa data nessun ominine aveva calcato il suolo del Nuovo Mondo. Ci sono delle proposte a proposito di un contributo genetico proveniente dalla Polinesia: alcuni genomi brasiliani derivano da DNA polinesiani [1], ma non è chiaro se questa ascendenza si sia verificata in età precolombiana, e quindi derivi da polinesiani che hanno raggiunto l’America meridionale durante la loro espansione nel pacifico, oppure se questi movimenti siano avvenuti a causa di spostamenti promossi da europei dopo il XVII secolo [2]. La scoperta di resti di galli tipicamente polinesiani lungo la costa del Cile centrale e la presenza di parata dolce e di una zucca tipiche dell’America meridionale nell’isola di Pasqua è un particolare intrigante che dimostra almeno dei rapporti commerciali fra pasquani e nativi del Sudamerica [3]  (ne avevo parlato a proposito del popolamento dell’isola di Pasqua). 
Questo convincimento è giustificato dalla mancanza di evidenze chiare della presenza umana prima di 15,000 anni fa nelle pianure dell’America settentrionale, sia dal punto di vista archeologico (mancanza di reperti) come dal punto di vista genetico: il DNA mitocondriale dei nativi americani mostra appena 5 linee fondatrici con una antenata comune vissuta fra 15 e 18.000 anni fa [4]. 
Ho detto per la maggior parte dei ricercatori, soprattutto per chi non si occupa specificamente della materia perché tracce anteriori (sia pure non di tantissimo) sono indicate da altri addetti ai lavori, pur senza una accettazione generalizzata della cosa.
Comunque sulla questione dell’origine dei nativi americani ci sono ancora molte questioni aperte: si tratta di una piccola popolazione fondativa da cui discendono tutti gli amerindi, ma al suo interno questa popolazione ancestrale doveva essere piuttosto complessa, con grandi scambi tra essa ed altre componenti euroasiatiche [5]. 

I ritrovamenti di ossa di proboscidati con tracce di macellazione
prima dell'ultimo massimo glaciale
PRIMA DELL'ULTIMO MASSIMO GLACIALE LA COLONIZZAZIONE DELLA SIBERIA (E DELL'ALASKA?). Il periodo caldo tra 70 e 30 mila anni fa ha permesso agli esseri umani la colonizzazione dell’Artico e ci sono tracce di insediamenti umani 45.000 anni fa nella Siberia nordorientale lungo le coste del mare di Laptev, esattamente un sito di uccisione e macellazione di mammut [6]. Appare un pò strano che nessuno sia riuscito ad arrivare nella vicina Alaska ed espandersi verso sud prima che la formazione dell'ultima calotta glaciale, da 25.000 anni fa in poi prevenisse qualsiasi sforzo in materia. Appare strano perché, in base a studi recenti, lo stretto di Bering in quel periodo non esisteva: oggi è largo circa 80 km (praticamente una distanza confrontabile con quella tra Toscana e Corsica) e proprio nel punto più stretto presenta un'isola in mezzo; la sua profondità attuale non supera mai i 50 metri e in certe condizioni sicuramente la sponda americana era visibile da quella asiatica. Ma proprio per la sua scarsa profondità attuale è evidente che in una fase a basso livello marino l’area sarebbe risultata sulla terraferma e ciò è successo in un intervallo che va da 73 a 25 mila anni fa [7]. Poi la formazione della calotta polare laurentide ha continuato a permettere eventualmente la vita in Alaska (rimasta libera dai ghiacci almeno in estate e caratterizzata da un ambiente di tundra) ma ha impedito ulteriori passaggi verso sud. 
Durante l’ultimo massimo glaciale era sicuramente abitata, anche se con una densità di popolazione non certo elevata, la Beringia, la parte del Mare di Bering prospiciente l'Alaska, a quell'epoca emersa a causa del basso livello marino e caratterizzata pure essa da un ambiente di tundra. 
Insomma, personalmente ritengo possibile che l’Umanità fosse già presente all’epoca in Alaska, e, parimenti, escludere che possa aver occupato anche una fetta del Nordamerica a latitudini più basse mi parrebbe abbastanza logico, anche se fino ad ora le testimonianze di questo sono scarse e quelle poche non accettate unanimamente (forse per il pardigma "no uomo prima dell'ultimo massimo glaciale"?) 

Il sito di Lovewell, al confine fra Kansas e Nebraska
con un mammut, come appariva nel 1969, da [9]
Ora, se per quanto riguarda animali e piante, ci si può basare solo sui loro fossili (tuttalpiù impronte e per le piante su pollini e spore), per gli esseri umani la cosa si fa un pò comoda: infatti ad ossa e impronte si affiancano utensili, focolari, tracce di insediamenti e ossa animali con I segni di macellazione. Ovviamente i dati devono soddisfare tutte le seguenti condizioni:
(1) l’evidenza archeologica deve essere al centro di un contesto geologico chiaro e definito 
(2) l’età deve essere determinata con evidenze statigrafiche e/o radiometriche incontrovertibili 
(3) possibilmente le evidenze devono venire da discipline diverse 
(4) gli utensili o quantomeno materiali artefatti devono essere trovati dove sono stati lasciati e non devono esservi stati trasportati da cause naturali


SEGNI DI UNA PRESENZA PIU' ANTICA. Ed ecco che finalmente un anno fa quello che mi pareva logico è stato confermato, nella fauna delle Bluefish Caves, situata nella parte settentrionale del confine fra Alaska e Canada, ossa che mostrano segni di macellazione, accompagnate dalla presenza di alcuni strumenti litici, sono state datate con il radiocarbonio a circa 24.000 anni fa.
Si tratta di caratteristiche condivise da meno dell’1% del totale dei resti trovati ed esaminati. Una percentuale che per qualcuno è un pò sospetta, ma secondo gli Autori il materiale considerato come trattato da esseri umani presenta caratteristiche che molto difficilmente potrebbero essere di origine naturale e soddisfa tutte le condizioni di cui sopra [8]. Questa bassa percentuale suggerisce altresì che il sito sia stato occupato solo sporadicamente, ma è usata anche dagli “ortodossi” per smentire la presenza umana in zona in tempi così antichi.

E ora arriviamo alle grandi pianure degli Stati Uniti.
I coniugi Holen, archeologi del Center for American Paleolithic Research di Hot Springs, nel South Dakota, sostengono l’evidenza della presenza umana nel Midwest almeno da 40.000 anni fa, ma molti scienziati sono piuttosto scettici al riguardo. La domanda, di nuovo, è se lo scetticismo sia dovuto al convincimento tradizionale dell’assenza di popolamento umano in America prima dell’ultimo massimo glaciale o perché i dati proposti dagli Holen siano sbagliati.
Secondo gli Holen nella zona di confine fra Nebraska, Colorado e Kansas sono frequenti resti ossei di mammut che presentano tracce di attività antropica (sia nelle fratture che nell’asportazione di denti), la cui età si colloca al tempo in cui la calotta laurentide impediva i contatti fra l’Alaska e questa zona, per cui gli antenati di questi uomini sono arrivati nelle pianure centrali degli States prima dell’evento glaciale e non dopo [10]. 

Tracce di percussione con strumenti litici su un osso, da [9]
La novità più clamorosa è però di quest’anno: in California è stato esaminate, sempre dagli Holen, un sito contentente delle ossa di mastodonte, il cosiddetto Mastodonte del sito di Cerutti [11]. Le considerazioni degli Autori sono che:
  • le ossa sono associate a percussori e incudini di pietra
  • le fratture delle ossa sono chiaramente avvenute quando le ossa erano ancora fresche, come anche quelle dei molari
  • alcuni reperti mostrano segni di percussione
  • l’analisi sedimentologica dimostra che le rotture sono avvenute esattamente dove le ossa sono state ritrovate
  • gli oggetti litici considerati come utensili sono incompatibili dal punto di vista sedimentologico con il sedimento che li contiene
  • le fratture delle ossa sono simili a quelle che prodotte dai cacciatori del paleolitico superiore di Africa, Europa centrale e Siberia

I ricercatori hanno anche eseguito studi sperimentali usando ciottoli di pietra per martellare grandi ossa di elefanti (visibili in un video che accompagna l’articolo) 

Bene, direte: non ci sono dubbi che questo mastodonte sia stato macellato da esseri umani, che o lo hanno ucciso o ne hanno sfruttato la carcassa.
Ok, ma c’è un problema: le datazioni radiometriche, suffragate da indagini stratigrafiche, indicano che la macellazione è avvenuta 130.700 ± 9.400 anni fa…
Sul numero di Nature in cui è presentata la ricerca parla, in un articolo introduttivo, anche Erella Hovers, l’archeologa israeliana che ha revisionato l’articolo, la quale, non inaspettatamente, racconta di essere rimasta di sasso a leggere la datazione (e probabilmente lì per lì ebbe la tentazione di rigettare l’articolo). Ma poi, durante la revisione e avuta la dimostrazione che solo percussioni artificiali con utensili di pietra sono capaci di produrre su ossa di elefanti attuali le fratture e le impronte simili a quelle trovate sul Mastodonte si è convinta che su quel preistorico proboscidato hanno lavorato degli ominini, dichiarando “è pazzesco… questo ritrovamento lascia una quantità incredibile di problemi: sappiamo che a quel tempo in California c’erano degli umani, ma sappiamo solo quello!”. 

CHI ERANO QUESTI PRIMI AMERICANI? Insomma, in America c’era già qualcuno prima dell’ultimo massimo glaciale  
Chi?
Per farlo occorre analizzare il livello marino in rapporto alla quota del fondo dello stretto di Bering e dividere il problema scindendo fra i ritrovamenti immediatamente precedenti alla ultima glaciazione e quello più antico. 
Nell’immagine accanto la linea a pallini identifica una quota del livello marino 50 metri sotto l’attuale e cioè quella alla quale lo stretto di Bering è prosciugato. Quindi si possono distinguere periodi in cui il suolo dello stretto di Bering era emerso e no e vediamo che tra 131 e 73.000 anni fa era una barriera insormontabile a meno di passaggi invernali sul ghiaccio (ma c’era ghiaccio sufficiente almeno in inverno?).
Un limite ben più difficile, anzi impossibile, da passare era la calotta laurentide, quindi si può escludere dei passaggi fra Alaska e pianure centrali tra 25 e 17 mila anni fa. 
Da questo discende la possibilità teorica che qualche gruppo di primi sapiens che cacciavano mammut in Siberia 40.000 anni fa sia riuscito prima che i ghiacci lo impedissero, a scendere negli USA.

Ma c’è una seconda possibilità: questi cacciatori immediatamente anteriori all’ultima glaciazione potrebbero essere stati i discendenti da quelli che hanno macellato il mastodonte del sito Cerutti, testimoniando la presenza in un ambiente remoto di umani non sapiens fino a poco tempo fa e che sarebbero stati completamente soppiantati dai sapiens scesi dopo la fine dell’era glaciale.

Come può essere successo questo? 100.00 anni fa nella Siberia vivevano denisoviani e neandertaliani. La datazione a 131.000 anni fa è compatibile con un passaggio terrestre attraverso l’area dello stretto di Bering, che era sopra il basso livello marino dello stadio isotopico 6, come si vede dal grafico. 
L'estensione delle ultime due calotte glaciali.
In America settentrionale è visibile il corridoio che si è aperto
17.000 anni fa lungo il quale gli antenati dei Nativi americani
penetrarono nel continente, alla separazione della calotta
della cordigliera dalla massa principale della calotta laurentide
Però c’è un problema di non trascurabile importanza: tra 130 e 200 mila anni fa il basso livello del mare ha coinciso con la glaciazione dell’illinois (il Riss della cronologia alpina). Quindi fra l’Alaska e le grandi pianure degli States si è estesa per parecchie decine di migliaia di anni una calotta glaciale simile a quella dell’ultimo massimo glaciale, il che impediva chiaramente spostamenti verso sud. La datazione del mastodonte a 131.000 anni si colloca sostanzialmente verso il limite della glaciazione.


Quindi i cacciatori californiani di 131.000 anni fa:
- o vi erano appena arrivati dal nord seguendo il ritiro dei ghiacci come gli antenati degli attuali nativi americani 15.000 anni fa e quindi erano Denisoviani o Neandertaliani provenienti dalla Siberia 
- oppure erano lì già da un pezzo e quindi si tratta di una popolazione più antica, allora potrebbe trattarsi di erectus o, vista la probabile origine di Homo floresensis, addirittura ominini appartenenti ad un lignaggio più antico.

Personalmente la vicinanza temporale fra la fine della glaciazione e il sito del mastodonte di Cerutti mi fa trovare più realistica la prima ipotesi: la popolazione responsabile della macellazione del mastodonte californiano era stanziata nella Beringia (anche durante quella fase emersa dalle acque del mare di Bering) o nell’Alaska settentrionale 150.000 anni fa dove c’era un ambiente di tundra ed è arrivata da quelle parti dopo aver seguito il ritirarsi della calotta della glaciazione dell’illinois come gli antenati dei Nativi americani hanno seguito, dopo l’ultima massimo glaciale del Wisconsin il ritiro dell’ultima calotta laurentide. Ma è chiaro che servirebbero dei dati sulla cronologia del ritiro dei ghiacci che non sono riuscito a trovare. 

Fantaantropologia? Speriamo di capirlo presto!
Avere dei dati sul ritiro della calotta della glaciazione dell'Illinois sarebbe molto importante per dirimere la questione: se ci fosse stato un corridoio libero dai ghiacci immediatamente prima di 131.000 anni fa è una ipotesi possibile


[1] Gonçalves et a 2013 Identification of Polynesian mtDNA haplogroups in remains of Botocudo Amerindians from Brazil PNAS 110, 6465–6469
[2] Malaspina et al 2014 Two ancient human genomes reveal Polynesian ancestry among the indigenous Botocudos of Brazil Current Biology 24, R1035–R1037
[3] Storey AA, et al. (2007) Radiocarbon and DNA evidence for a pre-Columbian introduction of Polynesian chickens to Chile. Proc Natl Acad Sci USA 104(25):10335–10339
[4] Wallace e Torroni 2009 American Indian Prehistory as Written in the Mitochondrial DNA: A Review Human Biology 81, 509–521  
[5] Skoglund and Reich 2016 A genomic view of the peopling of the Americas. Current Opinion in Genetics & Development 41, 27–35
[6] Pitulko et al 2016 Early human presence in the Arctic: Evidence from 45,000-year-old mammoth remains Science 351, 260-263
[7] Ovsepyan et al 2016 Paleoceanographic Conditions in the Western Bering Sea as a Response to Global Sea Level Changes and Remote Climatic Signals during the Last 180 Kyr Doklady Earth Sciences 468, 557–560
[8] Bourgeon et al 2016 Earliest Human Presence in North America Dated to the Last Glacial Maximum: New Radiocarbon Dates from Bluefish Caves, Canada PLoS ONE 12 (1): e0169486. doi:10.1371/journal.pone.0169486
[9] Holen 2006 Taphonomy of two last glacial maximum mammoth sites in the central Great Plains of North America: A preliminary report on La Sena and Lovewell Quaternary International 142–143, 30–43 
[10] Holen 2007 The age and taphonomy of mammoths at Lovewell Reservoir, Jewell County, Kansas, USA Quaternary International 169–170, 51–63 
[10] Holen et al 2017 A 130,000-year-old archaeological site in southern California, USA Nature 544, 479–483 




martedì 13 giugno 2017

I Geologi al voto per il rinnovo dei consigli degli Ordini Regionali: intervista con Riccardo Fanti


Qualche anno fa scrissi un post sul ruolo del geologo in Italia, sottolineando che quando i geologi chiedono più attenzione per la Geologia non spacciano per interesse generale del Paese il loro porco comodo di categoria, ma che una corretta utilizzazione del territorio è un primario interesse generale del Paese. Lo vediamo tutte le volte che la terra trema o piove un pò di più del “minimo sindacale”. In questi giorni si stanno rinnovando in tutta Italia i consigli regionali degli ordini dei geologi. Colgo quindi l’occasione per parlare della professione di Geologo oggi con Riccardo Fanti, che oltre ad essere professore di Idrogeologia e per anni rappresentante delle Scienze della Terra al Consiglio Universitario Nazionale e una delle anime della Cattedra Internazionale UNESCO per la gestione sostenibile del rischio geo – idrologico da questo anno accademico insediata all’Università di Firenze, è candidato per il Consiglio dell’Ordine della Toscana ed è una persona a me carissima per tutta una serie di motivi professionali.

Le Scienze della Terra sono una disciplina complessa e variegata, che presenta una divisione fondamentale fra chi fa ricerca sulla storia della Terra e sui meccanismi che l’hanno caratterizzata (i cosiddetti “geologi regionali”) e la Geologia applicata, con i suoi vari sottosettori come Geologia Tecnica e Idrogeologia, cioè chi ha a che fare con i problemi pratici che i fenomeni geologici arrecano all’umanità, segnatamente frane, alluvioni e terremoti e si occupa di caratterizzare il terreno in caso di interventi come costruzioni, infrastrutture e ripristino di zone disastrate.
Approfitto del termine “idrogeologia” per ricordare che il termine “dissesto idrogeologico” è sbagliato (accidenti al bischero che per primo lo ha introdotto!), perché l’idrogeologia si occupa delle falde acquifere e quindi delle acque sotterranee. Pertanto dissesto idrogeologico vorrebbe dire teoricamente che le falde acquifere sono dissestate… il che è anche spesso vero (purtroppo!) ma con frane ed alluvioni c’entra il giusto. Vorrei quindi che anche in Italia si incominciasse ad usare il termine internazionale di “dissesto geo – idrologico”.

E ora passo finalmente a parlare con Riccardo Fanti.

Riccardo, ogni volta che c’è un disastro naturale qualche geologo compare sui giornali e in televisione e i social network abbondano di dichiarazioni di geologi rimbalzate tra una conversazione ed un’altra. Purtroppo "passato lo disastro ... gabbato lo geologo", e le cose rimangono come prima fino al successivo disastro – fotocopia. Cosa possiamo fare per migliorare queste cose?

È un problema soprattutto di comunicazione: occorre far sì che l’opinione pubblica si interessi maggiormente ai problemi geologici. La nostra è una fra le migliori comunità scientifiche nel campo della previsione delle frane e delle alluvioni, con una grande tradizione accademica nel campo dell’idraulica e della geologia applicata, che si traduce in un eccellente sistema di telerilevamento e i migliori strumenti per il monitoraggio geologico del territorio. La conseguenza è un sistema di Protezione Civile che ha regolarmente previsto tutti i recenti eventi del genere. Bisogna essere orgogliosi di tutto questo e del fatto che siamo punto di riferimento mondiale in materia ed è nostro dovere farlo notare!
Gli ordini regionali e quello nazionale dovrebbero impegnarsi molto in questa direzione!

Si potrebbe dire che il nostro sia un mondo che si è mosso “malgrado l’opinione pubblica e le istituzioni”, ma qualcosa di recente è migliorato… penso alla  Legge 4/2017, che ha stabilito (finalmente!) alcuni provvedimenti economici a favore delle Scienze della Terra, e inoltre, abbassando a 20 per casi eccezionali come il nostro la soglia di 35 elementi introdotta nel 2010 dalla Legge Gelmini, ha permesso nuovamente la formazione dei dipartimenti di Scienze della Terra. Quella fu una cosa drammatica per le Scienze della Terra.

Già… all’epoca i geologi universitari furono costretti ad accorpamenti con altre discipline. Il che avvenne, nello spirito della massima autonomia, in maniera disordinata e incoerente: accorpamenti con ingegneria, architettura, biologia e quant’altro (persino psicologia…), che hanno messo a rischio la sopravvivenza dei corsi e della geologia italiana tout court.
La Legge 4 del 2017 per il sostegno della formazione e della ricerca nelle Scienze Geologiche rappresenta un risultato notevole, non solo in termini di impatto effettivo, ma anche per l’iter che è stato seguito: uno sforzo congiunto e condiviso di tutte le componenti della Geologia italiana (accademica, professionale, istituzionale). Ad oggi, purtroppo, mancano ancora i decreti attuativi e siamo in attesa di poter capire quando e come potranno essere utilizzate le risorse che la Legge mette a disposizione per progetti e iniziative, ma il punto di partenza, importante, è stato creato. 

Poi c’è il progetto “Italia Sicura” con cui finalmente l’assetto del territorio ha avuto una specifica attenzione da parte delle istituzioni.

Il Pacchetto Italia Sicura è un rilevante strumento operativo, soprattutto per la sua concezione di intervento di lungo periodo, di natura strutturale, incanalando in specifiche linee di finanziamento opere e interventi che troppo spesso in passato hanno avuto destini di inefficacia: lavori iniziati sull’onda e con risorse di emergenza, poi interrotti o completati in tempi largamente differiti, talora anche ad esigenze e logiche di intervento ormai mutate. Ovviamente il carattere di medio-lungo periodo della politica di attuazione di Italia Sicura richiede tempo, anche per maturare un giudizio sulla piena efficacia. Ma le premesse sono positive.

I geologi vogliono contare di più per mettersi a servizio del Paese, nella assoluta certezza che non tenendo di conto le Scienze della Terra e le loro istanze, l'Italia e il suo territorio rischino parecchio. E sul “Geoforum” c’è la sezione “per favore, chiamateci prima”: un appello “disperato” per cercare di evitare disastri annunciati. 

Certo! Ricordo la punta dell’iceberg: un comune importante (e noto per un territorio parecchio dissestato) qualche anno fa ha deciso di riguardare il suo assetto urbanistico: ha demandato la cosa a due urbanisti che hanno avuto due anni di tempo e solo alla fine si è passati attraverso il giudizio di un geologo. 
Non è un caso infrequente: quante volte il geologo interviene “a cose fatte” e cioè viene chiamato per ultimo a dare una approvazione “formale” ad un progetto? Occorre far capire a tutti che sarebbe molto più logico che il Geologo collabori già all’inizio della fase progettuale degli interventi; soprattutto, non può passare il concetto secondo il quale la firma del Geologo sia un mero atto formale,  l'ennesimo balzello dovuto e/o colui che mette “lacci e lacciuoli” all’economia e al povero italiano, da sempre alle prese con burocrazia e privilegi di caste varie… 

Mi ricordo una battuta semiseria della moglie di un mio compagno di università: quando conobbi mio marito pensai anche che era un buon partito perché studiava geologia… pensavo che di geologi ce ne fosse necessità. E invece da questo punto di vista non mi è andata benissimo

Il problema reale è la scarsa cultura di pianificazione e da questa discende la principale difficoltà dell’opera del Geologo. In questo senso occorre un cambio di paradigma e il mondo della Geologia deve continuare a divulgare ed educare nella direzione di affermare e consolidare il ruolo dello scienziato della Terra, a tutti i livelli, come una figura che contribuisce alla gestione del bene comune: la salvaguardia del territorio, inteso in senso ampio, dal paesaggio alle opere, dalle risorse al tessuto sociale. Credo che questo sia il principale ruolo del Geologo oggi e nel futuro ed è su questo che si deve lavorare.

Per quanto riguarda specificamente la professione di geologo, come sarebbe possibile secondo te bloccare l’emorragia di iscritti e creare lavoro per i giovani che scelgono di voler fare questa professione, naturalmente in maniera utile per il Paese?

La crisi della professione è innegabile, basta prendere atto del costante calo degli iscritti agli Ordini Regionali. Chiaramente il calo di immatricolazioni che si è registrato essenzialmente con il passaggio al sistema del 3+2 (a livello nazionale, siamo passati dai 3000 immatricolati di venti anni fa ai circa 1200 attuali) non poteva non riverberarsi sul numero di laureati e di professionisti. Io credo che i numeri attuali siano troppo bassi e che lo spazio professionale sia molto più ampio: ma il “mercato” non è mai una torta di grandezza fissa che si divide in porzioni, è un sistema di opportunità che può crescere e svilupparsi se ci sono le basi. Con i numeri attuali, non solo di studenti, ma anche di docenti universitari (l’Area delle Scienze della Terra è la più piccola degli ambiti disciplinari - con meno di 1000 docenti - ma il Corso di Laurea è comunque presente in 29 sedi in tutta Italia), la strategia deve essere quella della preparazione culturale, anche generalista e non solo quella della specializzazione verticale.

L’educazione e la divulgazione sono una delle chiavi per accelerare il processo….

Pienamente d’accordo! L’inclusione delle Scienze Geologiche nel Piano Lauree Scientifiche del Ministero va in questa direzione e ha, finalmente, sanato una situazione che da oltre un decennio la comunità geologica denunciava: si tratta di una questione non solo di finanziamenti, ma soprattutto di principio: riconoscere la Geologia come una “Scienza di base” e al contempo come una “disciplina strategica”. È il primo passo per creare una miglior percezione del ruolo delle Scienze della Terra e può condurre ad incrementare il numero di studenti nei nostri corsi di laurea, vere fabbriche dei Geologi di domani.

Come vedi il rapporto fra i geologi delle tre componenti (università, dipendenti pubblici e liberi professionisti)? In che modo farli interagire?

Il rapporto tra le varie componenti può essere notevolmente migliorato, creando condizioni di collaborazione e lavoro su progetti comuni. Uno dei tavoli attorno ai quali costruire una rinnovata sinergia è senza dubbio quello della formazione e dell’aggiornamento, dove ciascuna delle componenti può portare validi contributi e beneficiare di quelli apportati dalle altre. 
Anche il settore della divulgazione e della comunicazione potrebbe rappresentare un campo nel quale rinsaldare rapporti e lavorare su obiettivi condivisi: da accademico devo rilevare che la frammentazione corporativa che il mondo della ricerca e dell’università per primo ha al suo interno, non aiuta. Il Consiglio Nazionale in questo può avere un ruolo fondamentale, anche per la forza dei numeri: negli anni passati si sono provate iniziative di coordinamento, ma spesso i processi sono stati lenti e non efficaci.

Molti iscritti si lamentano dei costi della formazione permanente. Sappiamo che in una professione come il Geologo la formazione continua è importante, specialmente alla luce dei passi da gigante che stiamo facendo nell’uso di nuovi strumenti per il monitoraggio, ma non solo. Però, come conciliare la necessità di formazione permanente con i suoi costi, spesso elevati?
Il tema della formazione e dell’aggiornamento continuo è complesso e sicuramente c’è molto da lavorare per migliorare una situazione in cui troppo spesso gli eventi si risolvono in atti di presenza burocratica ad iniziative che forniscono informazioni di scarsa o nulla utilità per la professione. 
Non ci sono risposte semplici a problemi complessi, ma una delle linee sulle quali si potrebbe lavorare è l’idea di allargare molto la platea dei formatori, includendo gran parte di quelli che devono essere formati, creando meccanismi virtuosi per il mutuo scambio di esperienze che valga come attività formativa certificabile. In questo modo si potrebbe pensare a un sistema in cui anche il “sapere fare” è una “moneta di scambio” per aggiornarsi, alleggerendo l’onere per il singolo professionista, talora in difficoltà nell’assolvimento dei requisiti richiesti dalla normativa. La questione, peraltro, è comunque legata a uno schema e a vincoli di legge e quindi si tratta di un tema di notevole impegno.

Cosa ne pensi della questione del “bollino blu”?  

La certificazione di qualità è importante anche per il lavoro intellettuale, ma non ritengo che sia utile introdurre strumenti di questo tipo in un sistema di professioni regolamentate. L’esistenza di un Ordine Professionale e i requisiti, anche di formazione e aggiornamento, che sono sottesi dall’appartenenza all’Ordine stesso devono essere di per sé garanzia di qualità. Negli ultimi anni stiamo assistendo, in tutti i settori, alla ricerca continua dell’eccellenza e alla creazione di classifiche e criteri di valutazione, spesso del tutto inefficaci, peraltro. E’ un percorso che in altri paesi ha già dimostrato ampiamente non solo di essere del tutto inutile, ma perfino dannoso. 
Il discorso sarebbe lungo, ma in sostanza ritengo che proprio il concetto della corsa al primato e alla definizione di categorie elitarie porti ad una perdita di qualità complessiva. Inoltre, credo che i professionisti siano già in acque burocratiche spesso a livelli ampiamente superiori alla gola e introdurre ulteriori percorsi di attestazione o accreditamento possa in alcuni casi essere esiziale.

In conclusione, cosa possiamo dire?

La Geologia è una scienza giovane e vitale, di grandi prospettive. Quando mi capita di fare conferenze divulgative, cito spesso il fatto che solo 300 anni fa le attuali conoscenze geologiche erano in gran parte ignote e la maggioranza della popolazione mondiale riteneva valida la ricostruzione di Ussher che datava la creazione della Terra al 23 ottobre del 4004 a.C. Rispetto ad altre scienze la Geologia ha un passato breve, ma può avere un grande futuro, a tutti i livelli. Dobbiamo lavorare per rendere evidente questa immagine e far capire che il Geologo è una risorsa per la società.