giovedì 25 maggio 2017

Competitività dell'Italia e sistema di Ricerca & Sviluppo


Il parlamento sta discutendo una legge sulla inclusione sociale per la quel è stato messo a disposizione oltre un miliardo di euro a favore di famiglie economicamente in difficoltà. Ma se in Italia ci fossero meno disoccupazione e meno lavori malpagati, avremmo avuto ben altro da spendere e meno popolazione interessata a questo provvedimento, perché nel nostro Paese il problema della disoccupazione e della sottooccupazione è decisamente grave, specialmente nelle fasce giovanili ma non solo. Secondo me la questione non è trattata nel modo giusto: sono convinto che non viene centrato il problema e cioè che l’Italia ha una grossa debolezza che consiste nella sottovalutazione del ruolo del settore ricerca & sviluppo. Una sottovalutazione che ha precise connotazioni culturali ed economiche, e che a m io parere va combattuta per ogni dove.

LE DIFFICOLTÀ DEL MERCATO DEL LAVORO IN ITALIA. Siamo alle solite... Il mondo politico continua a parlare dell’aumento delle disuguaglianze e della crisi di un Paese che sta diventando sempre più disuguale e dove le difficoltà di trovare un lavoro decentemente remunerato (se non addirittura semplicemente un lavoro) sono gigantesche. E la società italiana se n'è accorta benissimo.
La crisi ha diversi motivi, che partono da questioni economiche, come la cronica sottocapitalizzazione delle aziende, le difficoltà di accesso al credito e la scarsa remunerazione delle imprese, spesso costrette a vendere a prezzi bassi.

Ma perché in Italia c’è poco lavoro (e per di più spesso mal pagato o con contratti assurdi?)
Le tasse? È vero, le tasse che gravano sul lavoro (e non solo) sono alte. Ma lo sono anche in Germania o Francia, per esempio..
Poi la questione delle tasse è anche da riferirsi ad un rapporto qualità – prezzo: bisogna anche vedere quanto “rendono” in termini di servizi le tasse: magari hai poche tasse ma poi ti tocca pagare di più o del tutto una serie di servizi e quindi alla fine ci rimetti. Il problema è che noi abbiamo alte tasse e riceviamo in cambio servizi scadenti: pare ad esempio che in Germania e Francia la “qualità” del ricavato delle tasse sia maggiore, ad esempio in termini di welfare...
La burocrazia? In parte è vero: adempimenti burocratici spesso assurdi, con l'incrocio di competenze fra enti locali, agenzie e ministeri e la mania di normare le cose con una precisione spesso demenziale ingessa le procedure (l’università registra al proposito delle vette incredibili), che durano tempi lunghissimi.
La certezza del diritto? è noto che in Italia la legge, fra lentezze e cavilli, favorisce chi fa dei torti e non chi li riceve. Inoltre i condoni di ogni ordine e grado sono sempre un metodo che premia i soliti furbetti, i quali parecchie volte riescono a pagare "meno" e "dopo" rispetto alla gente onesta.
Insomma, fossi il rappresentante di un'azienda straniera prima di investire in Italia farei qualche conto in più che per investire in altre nazioni...

Quando l’Italia è stata meno diseguale? Nel dopoguerra. Pensate, venivamo dalle ceneri del fascismo e da una guerra che aveva distrutto il Paese, rimasto senza vie di comunicazione, con le fabbriche bombardate e con danni immensi al patrimonio edilizio. Ma ci siamo salvati grazie all’innovazione: il miracolo economico è stato anche un momento di balzo tecnologico che ha come punta dell’iceberg il progetto San Marco: pensate, quella nazione sconfitta dalla guerra e in totale rovina del 1945 è riuscita 15 anni dopo ad essere il primo Paese dopo URSS e USA a mandare un veicolo nello spazio! Ma dietro questa punta c’era una Italia della manifattura capace di fare cose egregie e di esportarle in tutto il mondo.
È quindi necessaria una serie di interventi strutturali per il lavoro ma quali? 

LAVORO ED OCCUPAZIONE IN ITALIA IN UN MONDO GLOBALIZZATO. Per descrivere la situazione, faccio un esempio per me doloroso: l’industria ferroviaria. Per un bel pezzo abbiamo vissuto nella bambagia di una nazione in cui le ferrovie, considerate un residuo del passato (il radioso futuro era per la gomma), più che per spostare uomini e merci servivano per collocare personale e far lavorare l’industria con le commesse (Andreotti soleva dire: ci sono due tipi di pazzi, quelli che si credono Napoleone e quelli che credono di poter risanare le ferrovie). 
Inoltre il mercato che riforniva di mezzi e materiali le ferrovie era un mercato chiuso, autarchico e assistenzialista, in cui addirittura alcune gare per le forniture erano divise in tre sezioni, per il Nord, per il Centro e per il Sud. Soprattutto mancava una spinta a migliorare la produzione, che è rimasta, a parte qualche eccezione, mediocre. L’unica vera invenzione, l’assetto variabile della FIAT Ferroviaria, giacque per 15 anni inutilizzata, con un solo esemplare, l’ETR 401. Poi quando questa tecnologia fu ripresa negli anni ‘90 iniziarono le commesse anche dall’estero, persino dalle leggendarie ferrovie tedesche! Oggi l’assetto variabile, venduta alla Alstom la FIAT Ferroviaria, si chiama ancora Pendolino e fa guadagnare i francesi. 
La mediocrità di un mercato chiuso ha avuto conseguenze drammatiche dopo l'introduzione del mercato unico del 1992 e cioè la chiusura di quasi tutte le aziende del settore (o la vendita a grossi gruppi stranieri delle poche rimaste). Per cui oggi Trenitalia e le altre imprese ferroviarie acquistano treni in Polonia, Germania, Svizzera e Francia. E meno male che la decotta Ansaldo – Breda è in salvataggio (o meglio, la parte “buona” è in salvataggio) grazie alla Hitachi. Restano solo la Alstom (ex FIAT ferroviaria) a Savigliano e la Bombardier a Vado Ligure (l’ex TIBB, ma fino a quando?), più poco altro, non in grado di incidere significativamente a livello europeo.


La storia dell'industria ferroviaria dimostra che per essere competitivi in una economia globale occorre avere prodotti da vendere in grado di battere la concorrenza straniera. Quindi abbiamo tre possibilità:
  1. creare nuovi prodotti
  2. migliorare i prodotti esistenti
  3. rendere più economica la produzione di quello che c’è 

Ritornando all'esempio dell’industria ferroviaria, se le nostre aziende ferroviarie avessero fatto ricerca e prodotto mezzi migliori o innovativi (e se le Ferrovie dello Stato lo avessero chiesto…) non ci sarebbe la crisi del settore e sarebbero le altre nazioni a ricevere i treni italiani e non viceversa. Come ha dimostrato l'avventura del Pendolino. 

Per tutto questo occorre la ricerca scientifica e tecnologica: 
  • la ricerca “di base” che cerca cammini sconosciuti (e che spesso per farlo necessita dello sviluppo di nuove tecnologie che potranno avere in seguito ampie ricadute)
  • la ricerca applicata che sfrutta le ricerche di base

È semplicemente inutile pensare di dare lavoro con la semplice leva fiscale, come continua a chiedere Confindustria anche oggi, se non hai niente da produrre… In pratica questo sarebbe solo un palliativo: si abbasserebbe solo il costo del lavoro ma a notevoli costi sociali e nei conti statati.

ITALIA E RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA. E qui casca l’asino: in Italia si fa poca ricerca scientifica e tecnologica e gli addetti del settore sono spesso pagati meno dei loro omologhi in altre nazioni (aspetto questo qualche mese fa addirittura esaltato da qualche esponente del governo...). 
Il confronto nella UE fra le percentuali del PIL assegnate al settore R&S lo dimostra chiaramente. Nel 2015 l’Italia ha usato per questo l’1,33% del PIL. Siamo a metà classifica ma osservando chi sta davanti e chi sta dietro la questione è drammatica: tutti i Paesi più evoluti ci stanno davanti (a parte il Lussemburgo, dove comunque il tenore di vita è molto alto per vari motivi). Il confronto è impietoso non solo con le nazioni più piccole che comandano la classifica (e quindi meno temibili dal punto di vista della quantità degli investimenti) come Svezia (3,26 – 2 volte e mezzo in più), Austria (3,07), Danimarca (3,03) e Finlandia (2,90); lo è anche con giganti come Germania (2,87) e Francia (2,23), che spendono più o quasi il doppio di noi in termini percentuali e visto il loro PIL molto di più di noi anche in termini assoluti.

Questo ci fa capire anche perché in Italia una buona parte dei laureati in materie scientifiche non trova un lavoro in cui la sua laurea serva a qualche cosa o lo trova sottopagato, mentre molti continuano ad andare all’estero. e questo - si badi bene - nonostante che siamo fra i Paesi che ne sfornano meno in percentuale sulla popolazione.

Da ciò segue che la terza possibilità (tenere prezzi bassi) è l’unica che possiamo perseguire normalmente, e lo facciamo esclusivamente rivalendosi sui lavoratori (con stipendi sempre più bassi e contratti sempre più atipici), sui fornitori (dilazioni di pagamento o riduzioni nei prezzi) e sul bilancio dello Stato (incentivi di ogni ordine e grado).
Tutto ciò dimostra una cosa: o facciamo ricerca scientifica e tecnologica o il futuro ci riserva solo una possibilità: continuare a scendere drammaticamente la china. 
Certo, possiamo continuare a sfruttare quello che abbiamo in casa (ci sono nazioni che vivono esportando materie prime. Noi una materia prima la abbiamo: i paesaggi naturali e antropici (insomma, il turismo) e dobbiamo continuare a sfruttarlo sempre meglio. Ma non potremo mai vivere di solo turismo. Un’altra ricchezza naturale è la posizione geografica, che può favorire la portualità.

Quindi occorrerebbe un grosso sforzo per arrivare almeno al livello di Germania e Francia come percentuale di spesa nella ricerca. E se si considera quanto di buono fanno i nostri ricercatori in Italia e all’estero, questo vuol dire che le potenzialità le avremmo.
A proposito della ricerca di base, che per qualcuno è inutile, ricordo che persino l’elettricità, quando comparse, fu ritenuta una cosa inutile senza fini pratici.




Il microscopio a ioni di elio Zeiss del GRINT a Empoli:
il consorzio mette a disposizione di tutte le aziende
una tecnologia troppo costosa per una singola realtà
I PROBLEMI STRUTTURALI DEL SETTORE R&S. Aziende con un alto tasso di occupati ed investimenti in ricerca & sviluppo ci sono e i risultati si vedono: ad esempio recentemente abbiamo organizzato come “Caffè-Scienza Firenze e Prato” un incontro sul motore a due tempi con la Betamotor di Rignano: una piccola realtà ma in campi come Trial e Motocross compete con le migliori aziende motociclistiche mondiali (anzi, è anche campione in carica in una specialità di Enduro). Il suo segreto: oltre il 10% degli addetti si occupa di R&D...  
Ma oltre ai problemi italiani generali, il settore R&S ne presenta alcuni specifici. 

1. le aziende italiane sono generalmente di piccole o medie dimensioni. E quindi anche se destinassero, con tutte le agevolazioni possibili, una certa percentuale del loro fatturato per il settore R&D, sarebbe in termini assoluti poca cosa. Questo comporta problemi non tanto per il costo sostenuto per gli addetti, quanto per quello delle attrezzature. 
Per ovviare al problema sono anche nati dei consorzi che possono supplire in proposito. Un esempio è il Consorzio GRINT di Empoli: si occupa di nanotecnologie e fornisce l’assistenza in materia a qualsiasi azienda anche di piccole dimensioni, fornendo per esempio il know-how per colori ceramici innovativi; ma ha anche un laboratorio di analisi chimiche dotato di strumenti di difficile accesso per aziende di una certa dimensione: attrezzature molto costose e il cui impiego nella singola azienda non sarebbe giustificato dal numero di occasioni per l'utilizzo.

2. la ricerca non dà certezze di ritorno, né nei costi, né nei tempi (in particolare quella di base).
Per supplire a questo secondo aspetto, bisogna fare due considerazioni:
- occorre un serio aiuto al settore, in termini di incentivi economici e fiscali, considerando questi investimenti come "strutturali"
- anche iniziando ora le procedure per il “grande balzo in avanti verso l’innovazione”, se gli effetti sull’occupazione nel settore R&S si verificheranno subito, affinché la cosa abbia dei riflessi generali occorrerà aspettare degli anni

MA LA QUESTIONE DEL LAVORO È URGENTE! E invece noi abbiamo una certa urgenza di creare lavoro. Da dove cominciare?
Per esempio dalle opere che mettono in sicurezza il territorio, ricordando che prevenire i disastri naturali costa molto meno che ripararne i danni; dalle opere per il risparmio energetico e la produzione di energia a costi più bassi. Già questo abbasserebbe i costi per le aziende e creerebbe lavoro 

LE INFRASTRUTTURE: PREGI E DIFETTI. Meno male che a grandi opere non siamo messi malissimo, anche se senza il terzo valico a Genova e una ristrutturazione del nodo ferroviario milanese sarebbero in questo momento urgenti specialmente per la portualità. 
Però è necessaria una postilla: risparmio energetico, messa in sicurezza del territorio e cavi per trasportare informazioni hanno conseguenze sempre positive, le grandi infrastrutture di comunicazione contengono un pericolo: strade e ferrovie trasportano persone e prodotti. Ma se i nostri prodotti sono inferiori a quelli esteri, allora il loro effetto diventerebbe invece negativo, rendendoli ancora meno competitivi.
I nuovi trafori ferroviari di base del Lotschberg (che ha completato la direttrice del Sempione), del Gottardo e del Monte Ceneri tra Zurigo e il Ticino, del Brennero, del Frejus e in Austria, quello del Semmering miglioreranno tantissimo i movimenti delle merci attraverso le Alpi e potrebbero essere una splendida occasione per i nostri prodotti e per i nostri porti. Ma se i prodotti italiani non saranno competitivi in qualità e prezzo e se non riorganizziamo le infrastrutture a servizio dei porti, le nostre industrie e i nostri porti perderanno ulteriori punti nei confronti di quelli del Nordeuropa. In altre parole, queste nuove infrastrutture ci leverebbero lavoro anziché crearlo.
Notare che in Svizzera e Austria (e neanche in Trentino e in alto Adige) ci sono gli assurdi schiamazzi NOTAV che troviamo in Liguria, in Piemonte e in qualsiasi città italiana.

Al proposito Matteo Gasparato presidente dell'Interporto Verona Quadrante Europa in una intervista a Euromerci dice che "Per evitare che le grandi opere infrastrutturali si trasformino in uno strumento che consenta ai porti del nord Europa di far pervenire più velocemente le merci in Italia, anziché nel senso opposto, dobbiamo fare in modo che i grandi nodi infrastrutturali del nord Italia non restino isolati, bensì vengano messi in un più efficiente collegamento con il resto della rete ferroviaria nazionale. Questa rete deve comprendere in modo efficiente tutti i nodi, quali interporti e autorità portuali. Se invece la rete rimane efficiente solo fino a Verona, o a Novara o Milano, i nostri scali appariranno sempre più come hub di secondo piano rispetto ai porti del nord Europa e dal punto di vista logistico avremo un ruolo marginale nel Continente."

IL RAPPORTO IN ITALIA FRA POLITICA, CULTURA E RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA. E ora veniamo alla politica italiana, o, meglio, a quello che fanno i partiti. 
A destra, spalleggiati anche da un certo bocconismo, si dice che “è inutile la ricerca scientifica e tecnologica, quando facciamo le scarpe più belle del mondo” (come se per fare le scarpe non ci volesse tecnologia). Fra i Grillini e la Scienza la lotta è quotidiana, a base di bufale su energia, vaccini e quant’altro (compreso INGV che diminuisce l’intensità dei terremoti).
A sinistra il PD negli Stati Generali della Scuola parla di “rilancio della cultura umanistica” e nella “scuola di partito” affronta millemila argomenti tranne la ricerca scientifica e tecnologica.
È chiaro che non si possa andare avanti così (e infatti si va indietro).

Ma qual’è il problema? Semplice: la cultura scientifica in Italia continua a non godere dello status che le si addirebbe, per vari motivi, tra cui quello di un persistente pregiudizio sul carattere veramente formativo delle sole discipline umanistiche, rispetto alle quali la scienza ricoprirebbe un ruolo subordinato
Un giudizio che permea, da Croce e Gentile in poi, tutta la cultura umanistica italiana, non importa se seguaci o no di quei due signori, che sono stati tanto applauditi quanto deleteri per lo sviluppo del Paese. Non è un caso infatti che l’Italia abbia imboccato il declino tecnologico da quando sono andate al potere le generazioni che hanno studiato dopo il 1923, anno in cui sono state promulgate le disgraziate riforme scolastiche che hanno segnato un depotenziamento dello studio delle discipline scientifiche e tecniche a scuola, al termine di una lunga lotta contro gli scienziati, accusati dai due mentecatti di cui sopra di essere “menti minute”. 
Il risultato è stato che abbiamo scoperto la penicillina, inventato il radar, le plastiche e, da ultimo, il peronal cpmputer, ma queste invenzioni non sono state capite.
In più continua anche l'equazione "edilizia = sviluppo" in un Paese in cui ci sarebbe più da restituire alla Natura aree sigillate attualmente inutilizzate piuttostochè sigillarne di nuove.

Per questo occorrebbe anche uno sforzo da parte del mondo scientifico e tecnologico che spesso si dimostra chiuso alla comunicazione. Ma di questo parlerò in seguito.

domenica 21 maggio 2017

L'origine di Homo floresensis: gli hobbit dell'Indonesia appartenevano ad un lignaggio molto antico


Quello di Homo floresensis, di cui mi sono occupato spesso su Scienzeedintorni, è un argomento che mi ha sempre appassionato da quando nel 2004 è stata annunciata la scoperta dei resti di una popolazione umana nana nella remota isola di Flores. Remota non solo per un europeo, ma anche nel senso che non essendo mai stata in epoche geologicamente recenti (diciamo negli ultimi 2 milioni di anni) raggiungibile via terra anche nei momenti di basso livello marino durante i massimi glaciali, c’era anche il mistero di come gli Hobbit (così sono affettuosamente chiamati questi esseri) fossero potuti arrivare da quelle parti.
Un altro argomento piuttosto dibattuto è stato (ed è ancora) “chi” fossero questi uomini: dei Sapiens affetti da gravi patologie? Degli Erectus diventati così bassi a causa di nanimo insulare? O, addirittura, una popolazione ancora più antica (ipotesi in qualche modo ancora più affascinante?). Di anni dal 2004 ne sono passati tanti e la bibliografia scientifica in materia è davvero ingente. Anche la datazione degli scheletri di Liang Bua è cambiata: è stato dimostrato che di anni ne hanno 60.000 e non 12.000. Oggi finalmente un nuovo lavoro, anche grazie al rinvenimento in Sudafrica di Homo naledi, confrontando le caratteristiche scheletriche di tutti gli Homo conosciuti ha stabilito che gli Hobbit di Flores rappresentano una popolazione molto antica. Il che dimostra una migrazione fuori dall’Africa antichissima e fino ad oggi sconosciuta.   

Quando nel 2004 fu annunciata, in un lavoro che resterà fra i capisaldi della letteratura paleoantropologica, la scoperta dei reperti di Liang Bua (in particolare il famoso scheletro LB1) la cosa fece parecchio scalpore, anche per la datazione estremamente recente, attribuita su basi stratigrafiche in quanto non fu possibile effettuare una datazione radiometrica dei reperti stessi. 
Gli furono subito attribuiti un nome (Homo floresensis) e un soprannome (Hobbit), in riferimento alla saga del Signore degli Anelli, all’epoca imperante [1]. 

In questo post di quasi 2 anni fa ho descritto lo stato dell’arte della ricerca, in particolare da che parte dell’Asia e in che modo questi esseri potessero essere arrivati sull’isola 
Purtroppo il clima caldo e umido dell’Indonesia ha reso impossibile ricavare da quelle ossa il DNA, cosa che invece ha permesso le affascinanti scoperte sui Denisoviani grazie al freddo secco dei monti Altai, ed in particolare il loro contributo alla genetica attuale dell’Asia sudorientale.

Restava un grande interrogativo: qual’è la collocazione all’interno di Homo degli Hobbit di Flores e se siano più vicini a noi o ad altri nostri simili.
Questo aspetto ha generato una bibliografia scientifica immensa, che segue tre filoni principali:
1. Homo floresiensis è una forma distinta derivante da una linea piuttosto antica di Homo (a livello di H. habilis), se non addirittura di australopitecine 
2. Homo floresensis è un derivato recente di Homo erectus, la forma tipica dell’Asia prima dell’affermazione di H. sapiens
3. gli scheletri di Homo floresensis appartengono in realtà dei sapiens con delle patologie gravi
 
Faccio una precisazione: parlo di “forma” e non di “specie” perché, come ho spiegato qui nella discussione fra chi fa “di (quasi) ogni scheletro una specie distinta” e chi tende ad istituire il numero minore possibile di specie io sono schierato nell’ala estrema del secondo schieramento, in cui c’è una unica “specie” da Australopithecus in poi che si è modificata nel tempo, cioè una cronospecie. Aggiungo che le tante classificazioni che abbiamo si reggono solo sulla scarsezza di fossili:  se ne avessimo 100 volte tanti (e ben distribuiti nel tempo invece di mostrare ampie lacune come quella tra gli austalopitechi “classici” e Homo habilis), si vedrebbero talmente tante forme intermedie che per stabilire un limite occorrerebbe usare delle convenzioni, anche se la transizione potrebbe essere stata molto più veloce di quello che si poteva supporre, innescata da violenti ed improvvisi cambiamenti climatici che hanno provocato un "collo di bottiglia" nella popolazione.

Considero però lo stesso importante tutte la la varia nomenclatura esistente, usandola, come si dice tecnicamente come “denominazioni tassonomiche informali” che rappresentano popolazioni di caratteristiche via via diverse e sono molto di aiuto per classificare i vari reperti e per capire in modo abbastanza intuitivo la loro collocazione nello spazio e nel tempo, in particolare il “grado” di “umanizzazione” intesa come varie caratteristiche anatomiche fra le quali soprattutto la capacità cranica e il modo di camminare, le cose che ci distinguono maggiormente dagli altri appartenenti ai Primati.

Dicevo appunto che tutte e tre queste posizioni su chi fossero in realtà i piccoli abitanti di Flores hanno i loro sostenitori.
L’unica fra quelle teoricamente possibili che è stata scartata a priori è quella di una forma di nanismo insulare di Homo sapiens: qualcuno per spiegare la diversità degli Hobbit ha invocato l’effetto del fondatore, cioè lo sviluppo di una popolazione a partire da pochi antenati che portano con sé solo una parte della variabilità genetica (e morfologica) della popolazione originale a cui sarebbe seguita una importante deriva genetica. Ma come è stato riportato anche di recente, varie popolazioni moderne di Homo hanno sviluppato nanismo insulare, ma oltre a non essere così piccole di statura, nessuna anche se lontanamente, mostra le proporzioni anatomiche tipiche di Flores [2]

L’idea che si tratti di forme di Homo sapiens affette da gravi patologie metaboliche o genetiche è minoritaria (ma come è noto nella Scienza non ha ragione “la maggioranza”, bensì chi ha i dati più verosimili). Sono state indicate diverse patologie al proposito, l’ultima delle quali è la sindrome di Down.
L’ampia gamma di patologie proposte era già di suo una dimostrazione  della difficoltà di collocare in H. sapiens questi reperti e nel 2016 due lavori hanno definitivamente respinto questa idea: 
1. un nuovo esame della stratigrafia della grotta di Liang Bua ha portato indietro a 60.000 anni fa l’età di LB1. Ciò implicherebbe un arrivo molto precoce in zona (forse troppo) di Homo sapiens [3]. Ne ho parlato qui
2. sempre a Flores sono stati scoperti altri fossili umani insieme a quelli, draghi di Komodo, coccodrilli, del proboscidato Stegodon e di altri piccoli mammiferi. Si tratta di una mandibola e di alcuni denti, di dimensioni e forma estremamente simili a quelle a Mata Menge [4]. Questo  insieme di fossili è stato datato a circa 700.000 anni fa grazie alla datazione radiometrica dei tufi del sito, che come nella rift – valley africana sono utilissimi a questo scopo. È evidente che 700.000 anni fa non potessero proprio esserci dei Sapiens

Quindi rimanevano in piedi due ipotesi, il nanismo da Homo erectus (che cronologicamente è possibile ma anatomicamente continua a dare qualche problema) o una popolazione ancora più antica. E, in questo caso, “quanto” antica?

Un lavoro appena uscito sul Journal of Human Evolution getta finalmente luce su questo aspetto [5]. Prima firmataria è Debbie Argue, che studia la questione da diversi anni e già nel 2009 aveva proposto una origine molto antica di Homo floresensis [6]. Il nuovo lavoro confronta due serie di reperti diversi sia con un’analisi Bayesiana che con il criterio della massima parsimonia diverse caratteristiche anatomiche di Homo floresensis e di molti altri ominini, sia appartenenti al lignaggio di Homo, che Australopitecine e le altre scimmie antropomorfe, compreso il Homo naledi, la più sensazionale scoperta in campo paleoantropologico degli ultimi anni.  

Questa analisi, divisa in due raggruppamenti di reperti, ha fornito 6 alberi diversi.
Ci sono 4 raggruppamenti stabili e cioè:
  1. altre scimmie antropomorfe: Pan (Scimpanzè), Gorilla e Pongo (Orango)
  2. Australopitecine: tutte le forme appartenenti a Australopithecus
  3. Homo antichi: H. georgicus (i fossili di Dmanisi, in Georgia), H. naledi, H. habilis e H. floresensis
  4. Homo moderni: H. erectus, H. ergaster e H. sapiens
 
La posizione di H. floresensis è sostanzialmente simile in tutte e cioè è annidata negli “Homo antichi”, anche se rimane ancora controverso il rapporto con il clade rappresentato dagli altri Homo antichi, H. naledi e H. georgicus, che in alcuni casi hanno una divergenza più antica dalla nostra linea, mentre in altre la loro divergenza è più recente.

Il risultato quindi è che gli Hobbit rappresentano una popolazione estremamente antica, differenziatasi dal resto del cespuglio umano attualmente conosciuto in tempi molto precoci, e che: 
  • o condivide un antenato comune con Homo habilis dopo che entrambi si sono staccati dal nostro ramo 
  • o che si è staccata dal nostro ramo poco prima che lo facessero gli Habilis.

In entrambi i casi quindi si tratta di una linea da un bel pezzo estranea a quella che ha portato a noi, a Neanderhtalensis e a Erectus.
Una conseguenza affascinante è che H. Floresensis dimostra una uscita dall’Africa di forme umane avvenuta più di 2 milioni di anni fa e che, insieme a quelle più recente di Homo naledi e della grotta di Denisova in Siberia porta a pensare come il “cespuglio umano” possa essere ben più folto di quanto si poteva supporre anche solo pochi anni fa.
 
[1] Brown, et al 2004.. A new small-bodied hominin from the Late Pleistocene of Flores, Indonesia. Nature 431, 1055–1061. 
[2] Jungers, et al 2016. The evolution of body size and shape in the human career. Phil. Trans. R. Soc. B 371, 21050247. 
[3] Sutikna et al (2016). Revised stratigraphy and chronology for Homo floresiensis at Liang Bua in Indonesia. Nature, 532, 366-368
[4] Brumm et al, 2016. Age and context of the oldest known hominin fossils from Flores. Nature 534, 249-253. 
[5] Argue et al 2017 The affinities of Homo floresiensis based on phylogenetic analyses of cranial, dental, and postcranial characters Journal of Human Evolution 107 (2017) 107e133 
[6] Argue et al 2009 Homo floresiensis: a cladistic analysis Journal of Human Evolution 57, 623–639