martedì 19 febbraio 2019

aspetti particolari della geodinamica italiana scoperti con l'uso dei dati satellitari InSAR (stavolta parlo di cose che ho fatto io stesso)



Gli studi sui movimenti di blocchi crustali più o meno ampi e delle placche usando i dati degli spostamenti delle stazioni GPS sono estremamente comuni. Lo abbiamo fatto anche noi del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze nell’ambito di una collaborazione con l’Istituto Geografico Militare (Farolfi e Delventisette 2015). Questa collaborazione ha subìto una importante evoluzione di cui un po' di merito spetta pure al sottoscritto: le stazioni GNSS (in questo caso del sistema GPS) sono poche e cercavo qualcosa di più fitto (in particolare per alcune zone); allora il buon Gregorio Farolfi ha avuto una ideona: ma perché non usare i dati dei radar interferometrici? I dati InSAR sono stati spesso usati a livello locale anche per considerazioni tettoniche, ma è la prima volta (o, almeno, a me risulta esserlo) che l’analisi venga elaborata a scala geologica ampia come tutta la regione italiana, perché c’è una difficoltà di base: se il moto relativo tra i punti di riferimento terrestri può essere assunto costante all'interno di un'area ristretta, questa ipotesi non è adatta per aree più ampie, a scala regionale, continentale o mondiale. Allora per poter usare i dati InSAR Gregorio li ha confrontati e armonizzati con il campo di velocità geodetica GNSS. Così ho potuto usare questi dati a livello nazionale, con risultati addirittura ben superiori alle attese: il campo di velocità ottenuto ha evidenziato aspetti estremamente interessanti che i soli dati GNSS non potevano dare semplicemente perché sono, fatalmente, molto meno distribuiti e così noi abbiamo potuto guardare le cose a scala moto più fine. 


L’articolo Gregorio Farolfi, Aldo Piombino and Filippo Catani  Fusion of GNSS and Satellite Radar Interferometry: Determination of 3D Fine-Scale Map of Present-Day Surface Displacements in Italy as Expressions of Geodynamic Processes Remote Sens. 2019, 11, 394; doi:10.3390/rs11040394 si trova a questo indirizzo

GNSS (GPS) E INSAR: DIFFERENZE, VANTAGGI E SVANTAGGI. I ricevitori GNSS (Global Navigation Satellite System, da noi conosciuti più semplicemente come GPS che è uno di questi sistemi, quello militare americano; altri GNSS sono il russo GLONASS e l’europeo Galileo) sono strumenti utili e versatili per realizzare sistemi di riferimento globali e raccogliere dati per l'interpretazione geodinamica. I ricevitori GPS forniscono un dato continuo delle misure in tutte e tre le componenti spaziali (NS, EW e verticale), ma hanno un grosso difetto: devono essere installati uno ad uno e quindi hanno il difetto di essere poco distribuiti sul territorio (nel nostro lavoro ne sono stati considerati 379, tra temporanei e permanenti).
Il confronto fra le immagini radar successive è stato utilizzato fin dagli anni ‘90 per verificare gli spostamenti dopo un terremoto e grazie ad una intuizione del nostro prof. Canuti anche per lo studio delle frane (Tofani et al, 2013). Da quando è stata ideata la tecnica dei PS (persistent scatters, bersagli permanenti, Ferretti et al, 2001) le immagini radar sono diventate una risorsa ancora più potente, perché le immagini distinguono dei punti di cui viene registrata la posizione ad ogni passaggio di un satellite: si tratta di edifici, altri manufatti, speroni rocciosi e quindi si ha l’immenso vantaggio di avere a disposizione una grande quantità di dati senza dover installare specificamente delle stazioni di ricevimento (stazioni che fungono da PS possono comunque essere realizzate al bisogno per punti dove non si può avere riferimenti, come le superfici boscate; è comunque ovvio che se con le immagini con bersagli già individuati dal sistema si può andare indietro nel tempo fino ai primi sorvoli disponibili, queste stazioni invece, come quelle GPS, forniscono dati solo da quando sono installate). 
InSAR ha però alcuni problemi non trascurabili: 

Le orbite di Sentinel sono lungo i meridiani
  • le orbite dei satelliti sono lungo i meridiani, e quindi misurano molto bene la componente verticale e quella EW, ma la misura della componente NS è impossibile
  • la misurazione non è continua, ma risulta in una successione di immagini prese a qualche giorno di distanza (tipicamente tra 6 e 12 per ogni satellite di una determinata costellazione)
  • la tecnica InSAR è stata usata fino ad oggi solo in aree ristrette perché il moto relativo tra i punti di riferimento terrestri può essere assunto costante solo all'interno di queste: per aree più ampie (ad esempio, su scala regionale, continentale o mondiale) le velocità assolute derivate dallo spostamento delle placche (o quantomeno di blocchi diversi nella stessa regione, cosa estremamente comune specialmente in aree geologicamente attive come l’Italia) non permettono di considerare costante il moto relativo tra i punti di riferimento terrestri a scala maggiore. Per cui i dati InSAR sono sempre stati usati in aree ristrette per osservare soprattutto i movimenti relativi fra i bersagli e l’applicazione ideale fino ad oggi è stata lo studio delle frane; già per lo studio della subsidenza, nella quale i PS sono l’unica tecnica con cui si ottiene una buona messe di dati in poco tempo, è necessaria una correzione dei dati InSAR con quelli GPS, anche considerando un’area non particolarmente grande come la piana tra Firenze e Pistoia (Rosi et al 2016). Per questo motivo studi che hanno investigato con questo metodo le caratteristiche tettoniche in Italia (Morelli et al, 2011) come all’estero (per esempio Burgmann et al 2006) sono stati fino ad oggi limitati ad aree ristrette

Per applicare InSAR ad un’area vasta come quella italiana, è stato necessario quindi rendere coerenti fra loro i dati provenienti da milioni di punti e Gregorio lo ha fatto armonizzandoli con il campo di velocità geodetica fornito dalle stazioni GNSS. Quindi nella prima parte del lavoro il buon Farolfi ha presentato il metodo per creare una unica mappa del movimento di superficie unendo diversi dataset di cui evito di parlare non essendo particolarmente ferrato in questo campo. 

ZONE E LIMITI CINEMATICI. Seguendo Morelli et al (2011) che avevano proposto in Piemonte per i confini fra le aree a movimenti diversi il termine Iso Kinematic Borders (IKB), noi abbiamo adottato questa denominazione e abbiamo ulteriormente definito le zone a cinematica verso ovest come West-directed Kinematic Zones (WKB) e quelle a cinematica verso est come East-directed Kinematic zones (EKB).


Vediamo ora quello che più interessa la Geologia e cioè cosa di nuovo è venuto fuori in questo lavoro, in cui il buon Farolfi ha preso i dati GNSS dal 1997 al 2014, e li ha accoppiati con quelli InSAR PS ottenuti tra il 2003 e il 2012. 

Il MARGINE PADANO DELLE ALPI è l’area che ci ha sorpreso maggiormente, perché se in generale nella pianura padana la componente EW è diretta generalmente in direzione est (era nelle aspettative, essendo quello il movimento “generale” della placca adriatica). Ma lungo il margine della catena alpina, tra Verona e Biella, si susseguono zone cinematiche con una velocità “normale” verso est (EKZ) e zone cinematiche con componente EW diretta verso W (WKZ). I limiti cinematici corrispondono anche a diverso comportamento nella componente verticale ma questa è una cosa che dobbiamo ancora affrontare, come anche la complessa situazione in Veneto.
La cosa più interessante però è che la sismicità sembra annidarsi nelle WKZ o addirittura ai loro bordi: la maggior parte degli epicentri proposti del terremoto di Verona del 1177 si annidano in una  WKZ (Guidoboni e Comastri, 2005), ma il caso più clamoroso è quello di Brescia*, dove gli epicentri dei terremoti bresciani del 1065 e del 1222 e quello di Rovato del 1802 si collocano intorno lungo il bordo di una WKZ. Questo succede anche nel biellese. Da notare che anche nel resto del Piemonte e Lombardia (compreso il lato appenninico della Valpadana dell’alessandrino), la sismicità sembra addensarsi di prevalenza nelle WKZ e persino, all’interno della catena alpina, anche la WKZ di Egna-Neumarkt tra Trento e Bolzano, mostra evidenti tracce di un evento sismico di M 6.5 nel III secolo d.C. e di un evento precedente, risalente a circa la metà del III millennio aC (Galli et al 2008).
Purtroppo l’andamento NS delle Alpi occidentali non consente di utilizzare i dati interferometrici come per il tratto centrale del margine padano che ha invece una orientazione estremamente favorevole per usare questa tecnica.
Anche la componente verticale è interessante. Nelle zone alpine i nostri dati confermano che, in un quadro generale di sollevamento, le zone ad altezza maggiore (Pennine, Retiche e Argentera) mostrano tassi di sollevamento molto maggiori del resto della catena. Da notare che proprio i movimenti verticali differenziati spiegano l’anomalia del lago d’Orta, l’unico lago glaciale il cui emissario va verso la catena alpina e non verso la piana: un sollevamento molto pronunciato a sud del lago ha provocato l’interruzione del flusso verso il vecchio emissario, l’Agogna, dirigendolo a nord nord, verso il Toce tramite il Nigoglia. 
La componente orizzontale con evidenziate le aree a maggior innalzamento
(di origine tettonica) e a massima subsidenza (che tranne
il fianco orientale dell'etna sono chiaramente di origine antropica)


La componente Est - Ovest del movimento evidenzia nell'italia centro-meridionale
la corrispondenza del limite cinematico con l'asse di massima sismicità distensiva
PARTE PENINSULARE. I dati confermano, come ci si aspettavam che dal punto di vista del movimento rispetto all’Europa Stabile la penisola è divisa in due parti nella componente EW delle velocità, con la parte orientale, grossomodo il versante adriatico, che si muove verso est mentre il versante tirrenico si muove verso ovest. Questo limite è abbastanza coerente con la variazione della componente nord della rete GNSS, nonostante questa sia, appunto, estremamente  meno fitta. Però la scala più particolareggiata a cui siamo arrivati con InSAR ci consente di vedere nei movimenti EW come questo limite abbia diverse eccezioni: 

  • la linea Ortona – Roccamonfina, che divide l’Appennino centrale da quello meridionale, si conferma essere una fascia (come da Di Bucci et al, 2002) e non un semplice lineamento, fascia dove le velocità contrastano rispetto a quelle delle aree adiacenti 
  • nel Lazio meridionale si vede un IKB piuttosto accentuato che dimostra come la linea Ancona – Anzio (oggi più nota come Olevano – Antrodoco) continui a svolgere una funzione tettonica e che anziché ad Anzio finisce a Gaeta, dividendo i monti Lepini in un’area NW a cinematica verso W in una SE a cinematica verso Est.
  • anche l’Appennino settentrionale risulta avere velocità verso E, con l’eccezione del Casentino, caratterizzato da una WKZ

Dettaglio dell'area abruzzese in sollevamento
Per quanto riguarda la componente verticale, al bordo fra pianura padana e penisola, tutta la fascia posta grossolanamente tra il Po e il crinale appenninico è in forte innalzamento, ad eccezione della fascia lungo la Via Emilia tra la costa e Reggio Emilia, dove è particolarmente evidente la subsidenza antropica. Nel versante toscano il sollevamento diminuisce, per tornare a valori più alti a sud dell’Arno e nell’Umbria meridionale.
Abbiamo inoltre un forte sollevamento che coincide con quello che abbiamo chiamato il “Duomo Abruzzese”,  l'area in cui sono raggruppate le vette più alte della catena appenninica e dove la topografia è in armonia con il chiaro sollevamento mostrato dalle velocità verticali. Preciso che la zona in subsidenza all'interno del duomo è ancora oggetto di analisi. È anche interessante notare che il duomo abruzzese corrisponde all’incirca anche ad una EKZ, con l'eccezione della sua parte nord-occidentale, che appartiene a un WKZ e che è limitato da importanti caratteristiche geologiche: 
  • il limite SE corrisponde al bordo del canale rappresentato dal sistema Ortona-Roccamonfina
  • il limite W alla faglia transtensive del Velino ad ovest e alla discontinuità nella profondità della Moho, che segna il limite fra la crosta di tipo “tirrenico” e quella di tipo “adriatico” di Chiarabba e Chiodini (2013)
  • il sovrascorrimento dei Monti Sibillini a nord
  • il confine tra la fascia appenninica mesozoica e i flysh terziari a Est formati depositi dell'Adriatico a nord

Tra la zona in moderato sollevamento di Toscana Meridionale e Umbria e il duomo abruzzese una fascia in leggera controtendenza corrisponde all’arco disegnato dalla vecchia linea Ancona – Anzio.
Un’altra cosa interessante che emerge dai risultati è che la linea Ancona – Anzio “funziona” ancora o, almeno, influenza ancora in qualche modo la geodinamica. È possibile che, senza aver euno scopo geodinamico preciso attuale, agisca come una cicatrice lungo la quale sono più facili i movimenti.

Il netto limite nella componente EW
che divide in Sicilia di NE l'arco calabro-peloritano
dal resto dell'isola e l'Etna che vi si trova sopra
SICILIA: IL LIMITE FRA ARCO CALABRO – PELORITANO E CATENA SICULO – MAGHREBIDE E IL VULCANISMO ETNEO. Nella Sicilia di NE il limite fra l’arco Calabro – Peloritano e la catena siculo – maghrebide, che corrisponde al limite occidentale dello slab litosferico ionico che scende sotto il mar Tirreno, è fra i problemi più importanti ancora aperti nella geodinamica italiana. La complessità geodinamica che caratterizza questa area è dimostrata dai terremoti: transpressivi a ovest, distensivi a est mentre lungo la linea sono trascorrenti con una leggera componente estensionale. 
Il radar interferometrico è particolarmente utile in questo caso perché rispetto all’Europa stabile l’Arco Calabro Peloritano si muove verso NE, mentre il resto della Sicilia verso NW, quindi le due aree sono caratterizzate da componenti EW divergenti.
I dati ci mostrano un limite abbastanza netto che da Tonnarella, sulla costa tirrenica, arriva nella valle dell’Alcantara e fino a Castiglione di Sicilia. Poi il segnale si perde perché viene obliterato dai movimenti del corpo dell’Etna. Per cui noi escludiamo che il limite pieghi a SSE verso Taormina e prosegua lungo il lineamento Ionico come suppongono molti Autori e invece pensiamo che corrisponda, più a sud, alla Scarpata Ibleo – Maltese, cioè al limite mesozoico fra la crosta oceanica dello Ionio e la crosta della Sicilia.
Da Lipari agli iblei il vulcanismo è allineato
con la discontinuità fra la litosfera ionica
e quella sotto la Sicilia 
E qui viene il bello: l’Etna si troverebbe, secondo questa ricostruzione, esattamente su questa linea. Un indizio molto interessante che indirettamente conferma i nostri dati è la presenza, a nord del grande vulcano e a meno di 10 km di distanza dal limite che abbiamo ricavato, del monte Moio, un cono di cenere di poco meno di 30.000 anni fa, con un magma dalla genesi simile a quella dell’Etna, ma differenziatosi in profondità e quindi non direttamente collegato al grande vulcano siciliano (Del Carlo et al, 2012). Quindi il monte Moio e l’Etna sarebbero direttamente sovrastanti questo limite. Non solo: l’Etna si trova nella nostra ricostruzione all’intersezione fra questa linea transtensiva e la Kumeta – Alcantara, che è un’altra linea transtensiva che ha giocato un ruolo importante in passato ma il cui ruolo attuale ci sembra piuttosto sottostimato. Per cui secondo noi la presenza dell’Etna è essenzialmente dovuta alla circostanza di essere all’incrocio fra queste due linee tettoniche con componente transtensiva, grazie alle quali si creano le condizioni ottimali per la risalita di magma prodotto al lato dello slab in subduzione, un processo noto in diverse parti del modo (Argnani 2009)

* dove non specificato altrimenti, le coordinate epicentrali sono ricavate dal Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani di INGV, che si trova a questo indirizzo


  • Argnani (2009) Evolution of the southern Tyrrhenian slab tear and active tectonics along the western edge of the Tyrrhenian subducted slab. Geological Society, London, Special Publications  311, 193–212 
  • Burgmann et al (2006) Resolving vertical tectonics in the San Francisco Bay Area from permanent scatterer InSAR and GPS analysis Geology 34/3, 221–224 
  • Chiarabba and Giovanni Chiodini (2013) Continental delamination and mantle dynamics drive topography, extension and fluid discharge in the Apennines Geology  41/6, 715–718
  • Del Carlo et al (2012) The Mt. Moio eruption (Etna): Stratigraphy, petrochemistry and 40Ar/39Ar age determination with inferences on the relationship between structural setting and magma intrusion. J. Volcanol. Geotherm. Res. 241–242, 49–60. 
  • Di Bucci et al (2002) Active faults at the boundary between Central and Southern Apennines (Isernia, Italy). Tectonophysics 359, 47–63 
  • Farolfi e Del Ventisette (2015) Contemporary crustal velocity field in Alpine Mediterranean area of Italy from new geodetic data. GPS Solut. 2015, 20, 715–722 
  • Ferretti et al (2001) Permanent Scatterers in SAR Interferometry. IEEE Trans. Geosci. Remote Sens. 39, 8–20
  • Galli et ali (2008) Twenty years of paleoseismology in Italy. Earth-Sci. Rev. 2008, 88, 89–117
  • Govers e Wortel (2005) Lithosphere tearing at STEP faults: response to edges of subduction zones. Earth planetary science letters 236, 505–523
  • Guidoboni e Comastri (2005) The “exceptional” earthquake of 3 January 1117 in the Verona area (northern Italy): A critical time review and detection of two lost earthquakes (lower Germany and Tuscany). J. Geophys. Res. 110, B12309 
  • Morelli et al (2011) Iso-Kinematic Maps from statistical analysis of PS-InSAR data of Piemonte, NW Italy. Comparison with geological kinematic trends. Remote Sens. Environ. 115, 1188–1201 
  • Rosi et al (2016) Subsidence mapping at regional scale using persistent scatters interferometry (psi): The case of Tuscany region (Italy). Int. J. Appl. Earth Obs. Geoinf.52, 328–337.
  • Tofani et al (2013) Persistent Scatterer Interferometry (PSI) technique for landslide characterization and monitoring. Remote Sens. 5, 1045–1065. 



giovedì 7 febbraio 2019

La frana di Pomarico: quando i pirati saraceni facevano più paura delle frane


A seguito di piogge intense, una parte delle case dell’abitato di Pomarico, in Basilicata, è stato coinvolta in un fenomeno franoso che ne ha distrutte diverse decine. Pomarico, posto su una cresta letteralmente crivellata da calanchi, non è nuovo ai dissesti, tutt’altro. È comunque un caso un po' diverso dai “normali” borghi che in Italia presentano forti dissesti, in genere abitati da minoranze linguistiche: si è trattato invece di una delocalizzazione volontaria di un luogo che era abitato da oltre 1000 anni, una fuga dai pirati saraceni. Le frane in quella zona sono estremamente frequenti, anzi costituiscono il più importante fenomeno di modificazione del paesaggio e di spostamento di materiali, più di erosione e risedimentazione. Ed evidentemente all’epoca hanno fatto meno paura dei saraceni...

INQUADRAMENTO GEOLOGICO. L’abitato di Pomarico (provincia di Matera) è posto su uno sperone ad oltre 400 metri di quota a circa 30 km dalla costa ionica. Le colline di quest’area sono composte dai sedimenti deposti nella avanfossa bradanica, una depressione che si trovava fra la catena appenninica e la piattaforma apula e che è stata soggetta a sedimentazione argillosa e sabbiosa fino a poche centinaia di migliaia di anni fa. Dal Pleistocene inferiore il cambio di regime tettonico che è avvenuto nell’area italiana (Rosembaum e Lister, 2004) ha coinvolto nel prisma accrezionale dell’Appennino meridionale anche l’avanfossa bradanica (Roure et al, 1991). La nuova situazione ha provocato un sollevamento che non solo ha interrotto la sedimentazione, ma ha portato sedimenti marini non disturbati da deformazioni importanti a quote ben superiori a quella del livello del mare degli ultimi 500.000 anni. I dati attuali confermano che il sollevamento è tutt’ora in atto (Amato e Cinque, 2000). Nella Basilicata ionica attualmente le frane sono un agente modificatore del paesaggio più importante dell’erosione, come abbiamo potuto evidenziare grazie ad una tesi di laurea che ho seguito come correlatore (Capalbo, 2018).
I depositi più recenti (Pleistocene inferiore-medio) consistono principalmente in 3 formazioni (Balduzzi et al., 1982): le argille subappennine grigio-blu, nelle quali a poco a poco aumenta la frequenza di intercalazioni limose e sabbiose, fino a quando le sabbie diventano nettamente prevalenti e si entra nelle sovrastanti sabbie di monte Marano; sopra alle sabbie troviamo i conglomerati di Irsina, con cui finisce il ciclo sedimentario dell’avanfossa Bradanica. È un evidente quadro di serie sedimentaria caratterizzata da una granulometria via via più grossolana in un regime di regressione marina dovuta, appunto, all’inizio del sollevamento.
La dorsale di Pomarico, che divide le valli del Bradano e del Basento, è caratterizzata dalla classica serie dell’avanfossa bradanica (De Marco e Di Pierro, 1981): dal basso verso l’alto le argille appenniniche grigio-blu, le sabbie di Monte Marano e, solo nella punta più alta della dorsale, quella dove è posto il nucleo dell’abitato odierno, affiorano i conglomerati di Irsina. In questi sedimenti troviamo anche dei livelli di tufi derivati dall’attività vulcanica del Vulture, con spessori anche importanti, fino ad un metro. 
Inoltre le pendici che circondano la collina di Pomarico sono coperte da estesi affioramenti di detriti e di corpi di frana, come scrivono Bozzano et al (2002), occupandosi in particolare della frana della Salsa, sul versane NE del paese. Ovviamente detriti e corpi di frana continuano ad essere instabili. Da notare, per finire, che i fianchi della collina sono profondamente incisi, fin quasi all'altezza delle case, da solchi calanchivi e nicchie di distacco di masse franate. 
Insomma, una situazione davvero difficile dal punto di vista geologico.

LA FONDAZIONE DI POMARICO NUOVO. La domanda che ci si chiede è perché qualcuno ha deciso di vivere in una situazione geologicamente così difficile? Vi è forse stato costretto? Questa ipotesi va presentata perché, notoriamente, i dissesti nel Bel Paese avvengono di più in paesi abitati da minoranze etniche e linguistiche che in qualche modo sono arrivate su quei colli come profughi o deportati: nell’Italia che fu c’era molto meno bisogno di suolo per edifici e agricoltura, per cui i luoghi poco sicuri dal punto di vista geologico per scarsezza d’acqua, frane, alluvioni o terremoti erano in genere scartati a prescindere. Però erano – alla fin fine – gli unici liberi e così gli ultimi arrivati non potevano che occupare questi posti un po' disagiati: ad esempio è successo ai Cimbri sfuggiti ai Romani e nascostisi nelle valli alpine, ai Liguri deportati dai Romani, ai Longobardi deportati dai Normanni, e agli Albanesi fuggiti dall'invasione turca e rifugiati nel sud Italia. 
In questi casi l'instabilità degli insediamenti ha ragioni “punitive” perché l'accoglienza verso i “diversi” in Italia è sempre stata più o meno quella di oggi. 
In effetti a Pomarico non è andata del tutto così anche se una costrizione c’è stata. 
Ma andiamo con ordine.
Pomarico nuovo è una eccezione, essendo stato fondato deliberatamente dai suoi abitanti: l’abitato antico fu abbandonato in favore della nuova localizzazione sulla cresta dove si trova attualmente nel IX secolo per questioni difensive. In quel momento il clima stava cambiando, e dal freddo e umido dei secoli bui (simile a quello della successiva Piccola Era Glaciale) si stava passando al più caldo e più secco optimum climatico medievale (Ljungqvist, 2010), gettando le premesse per la ripresa della civiltà, i cui primi segnali sono dati dalla incoronazione di Carlo Magno nell’800.
La densità di popolazione, retaggio dei tristi secoli precedenti, all’epoca era molto bassa: di fatto il primo millennio è stato l’unico in cui non si registra, a livello mondiale, un aumento della popolazione e l’area mediterranea non sfugge a questa regola. Questo perchè l’Italia (e il mondo occidentale tutto) dal IV secolo in poi erano sprofondati in un periodo di decadenza. Circostanze storiche come la fine dell’Impero Romano d’Occidente, le invasioni barbariche e il vuoto politico che ne è seguito hanno giocato un ruolo fondamentale ma è possibile che il tutto sia stato innescato da cambiamenti climatici (o, almeno, che il raffreddamento che segue al Periodo Caldo Romano sia una concausa del problema). In tutto questo si inquadra anche un evento eccezionale, la catastrofe del 536 d.C., descritta da Procopio, nella Storia delle guerre di Giustiniano. Lo storico bizantino scrisse che “il Sole irradiò la sua luce con una brillantezza simile a quella della Luna per un anno” e che “dal momento in cui questo è avvenuto, gli uomini non furono più liberi da guerre, pestilenze e da eventi mortiferi”. Una Cronaca Siriaca posteriore indica che il fenomeno durò dal 24 Marzo 536 al 24 Giugno 537. In quel periodo il mare sarebbe stato perennemente in tempesta. Ne ho parlato diverse volte, per esempio qui

Un avvenimento gigantesco, eppure totalmente sconosciuto ai più. Evidentemente non ha interessato gli storici, come è noto legati a guerre, regnanti, vicende politiche e cose del genere, ma che hanno sempre e completamente ignorato i fatti naturali. Questo disastro e le carestie che ne seguirono resero particolarmente drammatica la peste di Giustiniano, che falcidiò la popolazione europea. Si può dire che l’evento del 536 sia la più classica applicazione del concetto di “goccia che fa traboccare il vaso”, aumentando drasticamente i problemi di una situazione economica e sociale già abbondantemente devastata. La crisi, la cui coda diretta si è trascinata fino almeno al 550, ha lasciato un’Europa con una popolazione provata da povertà, malattie e carestie e solo la ripresa delle temperature consentì qualche secolo dopo un miglioramento della situazione.
Dalla metà del VII secolo inoltre inizia l’espansione araba, dividendo seccamente le due sponde del Mediterraneo che fino ad allora avevano agito come un tutt’uno o quasi. In realtà la dominazione araba all’inizio occupò anche parte delle coste settentrionali del Mediterraneo, in particolare la penisola Iberica (con tentativi di arrivare ben oltre i Pirenei) e, un po' più tardi, la Sicilia: la battaglia di Poitiers con cui Carlo Martello sconfisse l’esercito arabo – berbero è del 732, mentre lo sbarco a Mazara del Vallo, con cui inizia la conquista della Sicilia, è dell’827.  
Nel IX secolo i pirati saraceni rappresentavano un grosso problema per la sicurezza del Mediterraneo, anche a causa della perdurante debolezza del potere politico nelle sponde settentrionali dell’ex Mare Nostrum. Avevano occupato diverse basi in Italia (città come Bari e Taranto) e in Francia (Frassineto nella Costa Azzurra). Dopo aver subìto diversi attacchi gli abitanti di Pomarico, la cui distanza dal mare, circa 30 km, e la posizione rilevata su un terrazzo della valle del Bradano non erano evidentemente sufficienti per essere al riparo da queste scorrerie, decisero, dopo oltre oltre 1000 anni di storia del sito, di rifugiarsi in cima ad un colle vicino che formava appunto un piccolo sperone facilmente difendibile qualche km più a nord.
La scelta non era casuale: in una zona deve – appunto – il paesaggio è dominato dagli effetti di erosione e franosità diffuse, quella punta formata dai conglomerati di Irsina è la parte più alta della cresta che separa le valli del Bradano e del Basento, perchè sono una litologia particolarmente resistente all’erosione, e per di più perfetta dal punto di vista geotecnico per fondarvi degli edifici (anche se probabilmente all’epoca la maggior parrte degli edifici erano capanne in legno o poco più). Lo sperone conglomeratico era sicuro per le esigenze della piccola Pomarico della spopolata ed economicamente debole Italia del IX secolo, ma appena fuori da questo sabbie, argilla e copertura detritica lo erano moto meno. E quando il borgo ha iniziato ad espandersi, ha dovuto fare i conti con le pessime qualità di questi terreni.

Insomma, nel IX secolo gli abitanti di Pomarico erano più terrorizzati dai Saraceni che dalle frane: mentre la vecchia posizione era su un pianoro sicuro da questo punto di vista, probabilmente un terrazzo (bastava non costruire sul suo lato), è probabile che se quell’area così ben difendibile non fosse mai stata abitata in precedenza proprio per la sua instabilità. Anche il nome Pomarico sembra derivare da Pomarium, significando che nel vecchio sito ci fossero diversi alberi da frutto (e quindi un terreno abbastanza stabile…) Fattostà che Pomarico nuovo ha una lunga storia di frane, frane che possono avvenire in diverse circostanze: 
  • la prima, ovvia (e fra l’altro causa dell’ultimo evento disastroso), sono le piogge intense che fiaccano la resistenza del terreno
  • la seconda è, al contrario, la perdita di acqua in una falda collinare, per esempio durante un periodo siccitoso; casi del genere sono ben documentati in tutta l’area ricoperta dai sedimenti della Avanfossa Bradanica (Gostelov et al, 1997)
  • la terza sono i terremoti. Nella cartografia vigente (OPCM 2006) il territorio di Pomarico è a bassa pericolosità sismica, essendo classificato in zona 3. Però è interessante notare che una frana importante (in quanto riportata dalle cronache) è avvenuta in corrispondenza del terremoto del Sannio del 1688, il cui epicentro si trova a oltre 130 km di distanza (Serva et al, 2007)

A complicare ulteriormente la situazione, è possibile che i livelli tufacei si comportino da orizzonti proni allo scivolamento; questo non perché, derivando dal Vulture, siano piuttosto recenti, geologicamente parlando: è semplicemente insito nelle caratteristiche di questi tufi: questi fenomeni di scivolamento sono comuni anche in Inghilterra (ne ho parlato qui) a causa di intercalazioni tufacee nei sedimenti mesozoici e terziari (Bromhead, 2013)
Ai nostri tempi il rischio-frane negli abitati in collina registra una ulteriore fonte di pericolo a causa di eventuali rotture delle tubazioni di acqua potabile e fognature.

LE FRANE DELLA FINE DI GENNAIO. Per fortuna eventi come quanto accaduto a Pomarico alla fine di Gennaio vengono anticipati da una serie di segnali, per cui se i danni materiali sono ingenti, non si registrano vittime. La frana (anzi, le frane) questa volta riguarda la parte a NE dell’abitato, lungo la strada che, impostata sulla sommità del costone, porta verso la via Appia (significativo che, a causa della pendenza del lato sinistro della valle del Basento non ci sia un collegamento diretto con il fondovalle).
L’evento, peraltro in una zona già attenzionata da tempo per il rischio – frana (e che se non ho capito male, era già stata oggetto di lavori di consolidamento) si è svolto in più fasi ed è stato innescato dalle forti piogge dei giorni precedenti: i primi segnali si sono evidenziati martedì 23 gennaio e sono stati così chiari e preoccupanti da consigliare lo sgombero di alcune abitazioni e l’istituzione di una “zona rossa” in cui era vietato l’ingresso. Un primo movimento è avvenuto venerdì 25 gennaio; alcune di queste abitazioni sono crollate successivamente, nella frana principale del primo pomeriggio del 29 gennaio. Il fronte di scivolamento è largo circa cento metri e oltre alle case sono state danneggiate anche strade e muri di protezione
È evidente che la situazione sia piuttosto delicata che i monitoraggi e i lavori di stabilizzazione si presentino piuttosto complessi

Amato e Cinque (2000) - Erosional landsurfaces of the Campano-Lucano Apennines (S. Italy): genesis, evolution, and tectonic implications - Tectonophysics, 315, 251-267. 
Balduzzi et al 1982. Il Plio-Pleistocene del sottosuolo del bacino lucano (avanfossa appenninica). Geologica Romana 21, 89–111.
Bozzano et al 2002 Landslide phenomena in the area of Pomarico (Basilicata–Italy): methods for modelling and monitoring Physics and Chemistry of the Earth 27 (2002) 1601–1607
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