venerdì 30 gennaio 2009

Breaking news dal Chaiten

Non era nei miei piani continuare a parlare di Americhe per il quarto post consecutivo, ma ci sono delle “breaking news” dal Cile.
Qualche lettore ricorderà l'attenzione che ho avuto per l'eruzione del Chaiten, il vulcano cileno che ha costretto all'abbandono della città omonima. Personalmente ho continuato a monitorare la situazione ma siccome non c'era niente di nuovo (o, meglio, l'eruzione continuava tra alti e bassi senza novità di rilievo) mi sembrava inutile intervenire in materia.
Dopo 8 mesi l'eruzione continua. Sul vecchio duomo di lava che aveva riempito la caldera 9.300 anni fa il nuovo duomo, che ha continuato ad aumentare di dimensioni giorno per giorno, assomiglia ad un bubbone. Ci sono stati dei massimi di attività come un paio di settimane fa in cui il rischio del collasso del duomo era diventato elevatissimo. La situazione adesso si è di nuovo stabilizzata, nel senso che l'eruzione continua ad un livello costante.
Ormai tutta la pianura a valle del vulcano è inesorabilmente coperta da ceneri e fanghi e a questo punto dal governo è arrivata una notizia temuta fin dall'inizio di questa vicenda: il governo cileno, per bocca del ministro degli interni Edmundo Pérez Yoma il 28 gennaio ha comunicato ufficialmente che la città di Chaiten deve essere abbandonata. La situazione attuale è quella nella foto, tratta dalla fototeca dell'Hearth Observatory della NASA
Per adesso la capitale della provincia di Palena viene spostata a Futalefù. I profughi di Chaiten verranno rilocati in un altro sito che verrà scelto nei prossimi mesi e verranno fissate le entità delle compensazioni per le perdite subite dagli abitanti in termini di beni mobili e immobili.
Non saranno più investite risorse per lavori nella città invasa da metri di fanghi e ceneri, dove ancora adesso qualche centinaio di persone è tornato a vivere nella parte più alta, meno danneggiata: stanno cercando di ripristinare i servizi essenziali come corrente e acqua potabile
Ovviamente gli abitanti (o almeno una parte di essi) non sono della stessa idea e vorrebbe ricostruire Chaiten dov'era, spalleggiata da una parte della classe politica.
Umanamente li capisco. E non è detto che, finita l'eruzione, il Chaiten non si calmi per qualche altro migliaio di anni e gli altri vulcani che la minaccino si comportino allo stesso modo. E vorrebbero che alla ricostruzione della città venissero affiancati dei lavori per contenere le piene.
Una cosa che mi lascia perplesso è la presunta frase attribuita al ministro, che suona più o meno così: “non investiremo risorse in una città collocata in un posto dove non doveva essere costruita”. Sul rischio vulcanico nelle Ande avevo già pubblicato un articolo, quando il Chaiten si svegliò.
Scrive Gonzales – Ferran, del dipartimento di Geologia e Geografia dell'Università del Cile: la regione andina è caratterizzata dalla presenza di centinaia di vulcani attivi che hanno provocato un gran numero di vittime e gravissimi danni alle infrastrutture (tanto per citarne alcuni Armero, El Chicon, Lonquimay, Hudson etc etc). D'altra parte, l'espansione demografica delle ultime decadi ha contribuito ad aumentare la vulnerabilità di cose e persone al rischio vulcanico. Gonzales -Ferran conclude dicendo che una mappa del rischio vulcanico in Cile è fra le priorità del XXI secolo
Senza discutere di una situazione specifica che conosco soltanto superficialmente, vogliamo vedere quante città del Cile sono a rischio vulcanico?

giovedì 29 gennaio 2009

Alla ricerca di megaterremoti del passato: 2. la costa pacifica tra California e Alaska


Un altra zona della costa pacifica americana in cui sono state trovate tracce evidenti di terremoti violentissimi con lo stesso meccanismo di quello di Sumatra del 2004 (terremoti di thrust, provocati da una faglia suborizzontale) è in Nordamerica, in un'area precedentemente ritenuta quasi sicura.
Gli abitanti della Cascadia, una regione che comprende California Settentrionale, Oregon, lo stato di Washington e la Columbia Britannica si sentivano tranquilli. In effetti nell'area esiste un “buco” sismico, una zona in cui non si sono registrati terremoti molto intensi da quando queste zone sono state colonizzate dagli europei.
Dal 1964 in Alaska continentale ci sono stati oltre 15 terremoti con M maggiore di 7.0 (e fra questi il sisma di Anchorage del 1964, che appartiene proprio alla categoria dei terremoti di thrust e provocò uno tsunami), in California ce ne sono stati almeno una ventina e nessuno lungo la costa della Cascadia. Se scendiamo di magnitudo a 6.5, di eventi nell'area ne vediamo una dozzina, ma nulla in confronto alle parecchie decine che hanno scosso nel periodo California e Alaska. L'idea che città come Vancouver, Seattle e Portland fossero in una zona sismicamente tranquilla (o meglio, in cui i terremoti, sebbene forti, non raggiungano energie disastrose) era quindi ben radicata nella popolazione, nelle autorità e nella comunità scientifica.
La costa pacifica delle Americhe è contraddistinta da placche oceaniche che scendono sotto a quelle continentali, una situazione che teoricamente consente lo scatenarsi di devastanti “terremoti di thrust”. La sismicità della California centromeridionale è una eccezione, legata a un margine di zolla trascorrente, in cui le due zolle scorrono lateralmente lungo la famosa faglia di San Andreas. Per questo la California non può avere terremoti fortissimi come quello di Anchorage, ma essendo il sistema molto superficiale (e sulla terraferma) una scossa di intensità molto minore (un valore di magnitudo attorno a 7) può rivelarsi tremendamente devastante come una scossa più forte ma più profonda e soprattutto con un epicentro localizzato in mare, qualche decina di kilometri a largo della costa.
Purtroppo anni fa fu dimostrato che il buco della Caascadia è dovuto esclusivamente alla mancanza di eventi durante gli ultimi 2 secoli e anche in questa zona si sono verificati dei fortissimi terremoti accompagnati pure da tsunami.
I primi sospetti sono venuti, negli anni 90, dallo studio delle tradizioni delle popolazioni locali. A causa dell'età molto recente dell'avvenimento, una parte dei racconti erano ancora abbastanza precisi quando furono registrati (i primi attorno al 1860). Narrano di una grande scossa: la terra incominciò a tremare e a saltare, poi la grande acqua (l'oceano Pacifico) rotolò sulla terra. Una descrizione estremamente precisa, condita nelle varie zone da racconti su canoe e villaggi spazzati via.
Altre leggende, più elaborate, parlarono di una Balena, un essere terribile che stava uccidendo i suoi simili e quindi per gli indigeni c'erano poca carne e poco olio. Ma poi in loro soccorso venne il Thunderbird che lottò contro la balena spingendola sulla terraferma dove ci fu una seconda lotta, probabilmente un ricordo delle frane collegate al sisma. Il Thunderbird è l'uccello del tuono, un animale delle leggende nordamericane, ma forse più
Le informazioni erano troppo lineari per non essere prese sul serio ed allora qualcuno incominciò a indagare a fondo.
Dopo aver selezionato decine di racconti, è stato facile collegare questo terremoto con uno tsunami “orfano” (cioè senza un corrispondente terremoto) che colpì il Giappone nella notte del 26 gennaio 1700, che quindi rimane la data più probabile per l'ultimo terremoto significativo che ha colpito la Cascadia. Si stima che il sisma abbia avuto una magnitudo tra 9.0 e 9.3 e abbia provocato una rottura di ben 600 kilometri di lunghezza tra la California settentrionale e la Columbia Britannica, provocando l'annientamento di molti villaggi dei nativi americani lungo la costa.
Questo evento rientra pienamente fra i terremoti di thrust e risolve l'enigma della presunta mancanza in zona di forti terremoti, nonostante la subduzione attiva. Sembra che la faglia sia “bloccata” a causa dell'attrito. Ma siccome la zolla di Juan de Fuca continua a scivolare sotto quella nordamericana, gli sforzi continuano ad accumularsi e prima o poi vinceranno l'attrito lungo la faglia e ci sarà un terremoto di intensità estremamente alta.
Non è detto che le tante tradizioni locali si riferiscano tutte allo stesso episodio (in particolare quelle con le leggende più elaborate), ma possono riferirsi anche ad eventi più antichi
Per capirci di più furono cercate delle tracce e ne fu trovata una piuttosto semplice: le morie di alberi. Quest'area infatti ospita delle grandi foreste. L'effetto fondamentale di un terremoto come questo è di abbassare di colpo il suolo, dopo una lunga fase in cui il terreno si rigonfiava. Sugli alberi lungo le coste queste oscillazioni hanno delle conseguenze piuttosto pesanti: al rigonfiamento è connesso un riempimento del terreno da parte di acque dolci, che ne favorisce la crescita. L'abbassamento repentino provocato dal sisma, invece, porta le radici degli alberi a contatto con delle falde acquifere salate per cui molti alberi muoiono. Scavando delle trincee e vedendo e datando le morie di alberi è stato visto che l'area negli ultimi 10.000 anni ha subìto delle scosse simili a quella del gennaio 1700 ad intervalli irregolari compresi fra un minimo di 300 fino ad un massimo di 600 (1.000 secondo altre fonti) anni.
Questa scala temporale non è molto tranquillizzante, visto che sono appena passati i 300 anni dalla scossa precedente. Dopo il terribile evento del dicembre 2004, così bene documentato grazie alle tante telecamere che la gente si porta appresso, soprattutto in vacanza, nessuno può dire di non poter rendersi conto di cosa sia uno tsunami. Infatti le autorità locali sono molto preoccupate e stanno studiando le mosse che dovranno essere fatte nel caso di un nuovo terremoto disastroso nell'area.

martedì 27 gennaio 2009

Alla ricerca di megaterremoti del passato: 1. la civiltà di Caral tra mito e realtà

C'è la fondata possibilità che un terremoto molto forte sia stato la causa della fine di una delle più antiche civiltà della storia, non solo americana.
Nel 1904 lungo le coste del Perù settentrionale gli archeologi scoprirono delle rovine, ma siccome sembravano modeste e prive di oggetti significativi, il tutto cadde nel dimenticatoio. Solo nel 1994 un archeologa peruviano, Ruth Shady, tornò a studiare in quella zona e capì che quelli erano i resti di una civiltà che fioriva nella valle del Supe oltre 4.000 anni fa, ben più anticamente di quanto si potesse supporre. Siccome le prime tracce della presenza umana in quella zona sono molto più antiche, di quasi 11.000 anni fa, si può presumere che questa civiltà sia nata da elementi autoctoni.
Caral, il centro principale e la più antica testimonianza urbana delle Americhe, era una città di discrete dimensioni (3.000 abitanti circa per 65 ettari), ma soprattutto era dotata di un tessuto urbano piuttosto ordinato, con piazze circolari, palazzi residenziali, 6 piramidi e perfino un anfiteatro. Nei dintorni si contano un'altra ventina di centri minori, ciascuno con almeno una piramide. Le stime sul numero complessivo degli abitanti vanno tra le 20.000 e le 50.000 unità, a seconda degli Autori. Anche se la più grande è alta solo 18 metri, queste piramidi sono comunque ben più antiche di quelle centroamericane e sembrano costruite ai primordi della storia di Caral. A causa della loro scarsa altezza e del pessimo stato di conservazione erano state prese per collinette naturali.
Gli abitanti di Caral non conoscevano ancora la ceramica, però tutto intorno alle città una fitta rete di canali forniva l'irrigazione per una variegata serie di coltivazioni, dai fagioli al cotone. Oltre che dei frutti della terra, vivevano di pesca, effettuata nel vicino oceano con l'ausilio di reti.
Un sistema come questo non poteva essere realizzato senza un'organizzazione sociale di un certo livello e una interazione fra i vari centri urbani, così come è molto significativa la diversificazione delle fonti di cibo. Che ci fossero grandi differenze sociali lo si vede dalla varietà di tipi di case e soprattutto delle loro dimensioni. Il tutto ha funzionato senza un vero sistema di scrittura se si eccettuano dei quipu, degli insiemi di fili annodati che potrebbero essere dei sistemi di calcolo. L'uso dei quipu è perdurato fino alla civiltà inca e quindi fino alla conquista spagnola. Spagnoli che, peraltro, li distrussero quasi tutti (ormai ne restano solo poche centinaia di esemplari), senza preoccuparsi di sapere cosa fossero (o di tramandarlo ai posteri). I quipu di Caral sono più primitivi di quelli Inca, e quindi se ne può notare una certa evoluzione.
La civiltà della valle di Supe, le cui tracce più antiche datano a circa 2800 AC, scomparve improvvisamente verso il 1600 AC.
La contemporaneità con gli Egizi, la presenza di piramidi e la sua repentina scomparsa hanno ovviamente scatenato la solita ridda di voci idiote di misteri e cose simili, ovviamente collegandola pure con Atlantide e indicando gli alieni come costruttori delle piramidi... Al proposito io continuo a non capire quali connessioni possano esserci fra le piramidi egizie e quelle Maya, costruite migliaia di anni dopo, ma tant'è...
Veniamo allora al dunque. Cosa è veramente successo nel Perù Settentrionale 3600 anni fa? Perchè la civiltà della valle del Supe è scomparsa così repentinamente?
Geologi e archeologi hanno cominciato a studiare la situazione. La prima cosa evidente è che difficilmente si può pensare a una azione violenta da parte di nemici: nei siti non appaiono segni di distruzione, nè ossa e inoltre non c'erano nei dintorni civiltà in grado di distruggere gli insediamenti della valle del Supe. Qualcosa però si nota, spiega Mike Moseley, un archeologo dell'Università della Florida: il periodo dell'abbandono è contrassegnato da una serie di frane e da livelli di silt che testimoniano una o più grandi inondazioni.
Per Moseley e il suo team la spiegazione migliore di questo fatto è in un forte terremoto, e che questo evento e/o le numerose forti repliche che sono ovviamente seguite, abbiano provocato le frane. Al terremoto è seguito un persistente episodio di “el nino” che ha provocato le alluvioni e trascinato i detriti delle frane, per cui le canalizzazioni sono state distrutte. Secondo questa ipotesi gli abitanti avrebbero abbandonato il sito per cause naturali. Aggiungo la possibilità che le alluvioni siano state effetti collaterali del terremoto: e cioè rl'effetto dei cedimenti di corpi di frana che ostruendo delle valli, sono diventati delle vere e proprie dighe, come è successo nel tragico terremoto cinese del 2008.
Se è stato un terremoto a provocare tutti questi danni, decisamente è stato molto, molto forte. Si può pensare ad un terremoto di thrust, come quello di Sumatra del dicembre 2004: li margine andino dell'America Meridionale è una delle poche aree in cui la situazione tettonica consente questi fenomeni: l'enorme forza di questi eventi è dovuta alla presenza di faglie suborizzontali sulle quali l'attrito della roccia sovrastante è talmente forte che quando viene vinto si sprigiona una energia devastante. Un sisma del genere ha colpito il Cile nel 1962 ed è possibile che anche in Perù siano avvenuti terremoti del genere.

domenica 25 gennaio 2009

I propositi della presidenza Obama su ricerca scientifica e cambiamenti climatici: luci ed ombre

Non entro nel merito delle scelte del nuovo presidente americano negli altri campi, dalla questione Guantanamo in poi. Voglio solo soffermarmi sugli argomenti da “Scienzeedintorni”.
Cominciamo dal discorso di insediamento. Televideo riporta questi due passaggi: (1) “ridaremo alla scienza la sua giusta collocazione” e (2) “Combatteremo lo spettro del riscaldamento climatico”.
Sono due passaggi fondamentali dal mio punto di vista.
Sul ridare alla scienza la sua giusta collocazione un passo importante è già stato fatto: a capo del DOE, il “department of Energy”, è stato messo Steven Chu, premio Nobel per la fisica e insigne ricercatore. La notizia è ovviamente stata accolta con entusiasmo dalla comunità scientifica, non solo americana. Ma, come precisa il “Discovery Magazine”, la precedente amministrazione aveva lasciato la Scienza in grandi difficoltà e ripartire non sarà facile. Non ci sarà una bacchetta magica che produrrà un nuovo bonanza per il settore, ma la cosa importante è che a capo della ricerca sia stato messo un personaggio che sa cosa la ricerca sia.
Il quale capo, nella sua nuova carica di "ministro" del DOE, ha per prima cosa inviato un messaggio a tutti i dipendenti e collaboratori dei laboratori di ricerca nazionali e subito dopo ha avuto una riunione in videoconferenza con i direttori di tutti questi laboratori.
I presupposti per una nuova primavera scientifica ci sono e spero anche che gli anni della presidenza Obama vengano ricordati per l'impegno contro il creazionismo e l'Intelligent Design. A questo proposito temo molto che i Repubblicani, arroccati come sono nelle campagne e nella “Bible Belt” la mettano in politica, sostenendo ancora di più questi punti di vista antiscientifici per motivi puramente elettorali.

Veniamo alla seconda affermazione: anche qui i buoni propositi si sprecano e c'è persino una pagina dedicata ai cambiamenti climatici sul sito della Casa Bianca.

Però non è tutto oro quello che luccica e si vede come nel programma ci siano degli obbiettivi su cui il mondo ambientalista e quello scientifico impegnato nel dibattito sul clima non saranno molto d'accordo e/o che hanno una valenza strategica o economica funzionale ad altro che il problema del clima.
La nuova amministrazione vuole che gli stati Uniti diventino la nazione leader nella lotta contro i cambiamenti climatici. Per questo vogliono investire in energie alternative e arrivare al 10% di energia ricavato da fonti rinnovabili entro il 2012 e al 25% nel 2025 (questi valori dimostrano quanto l'Europa, o almeno una parte di essa, sia sostanzialmente messa molto meglio degli Usa nel settore). C'è poi l'obbiettivo assolutamente ambizioso e forse improponibile di una riduzione dei gas-serra dell'80% entro il 2050, anche mediante tecniche di segregazione della CO2.
Il programma prospetta delle ricadute economiche non da poco: fra i vantaggi delle energie alternative c'è chiaramente indicata la riduzione della dipendenza energetica degli Usa dall'estero, in particolare da Venezuela e Medio Oriente. E' significativa l'inversione di tendenza rispetto alla presidenza Bush, anche se – purtroppo – il petrolio artico, sia pure “responsabilmente sfruttato”, continuerà ad essere un obbiettivo importante, e quindi viene ancora una volta confermato il “sì” all'oleodotto dell'Alaska.
Ma c'è di più: si possono creare 5 milioni di “posti di lavoro verdi” ed esportare brevetti e tecnologia, come quella di automobili ibride che riescano a fare 50 km con un litro di carburante (usando quindi il motore a combustione interna il meno possibile) e sistemi per il miglioramento energetico degli edifici. Da questo punto di vista la possibilità di una leva fiscale per l'acquisto di autovetture più efficienti può essere vista come un regalo alle grandi dell'auto, come è noto in condizioni molto difficili. Noto che non si accenna minimamente ad un'altra soluzione per la diminuzione delle emissioni di gas-serra dovute alla mobilità delle persone e delle cose: il trasporto pubblico, su gomma e su rotaia, per le persone e quello su rotaia per le merci.
Questo propositi dimostrano un punto di vista importante: i rischi connessi ai cambiamenti climatici da un “problema” diventano una “occasione di sviluppo” che crea nuovi posti di lavoro, migliora la bilancia commerciale dello stato e lo rende meno vulnerabile alla situazione politica mondiale.
Un buon insegnamento per tutti. Vedremo poi se alle parole seguiranno i fatti.

domenica 18 gennaio 2009

L'estinzione di Homo Neanderthalensis e la conquista dell'Europa da parte dell'uomo Moderno

Quando l'uomo anatomicamente moderno (per semplicità definito con la sigla UAM) uscì dal corno d'Africa occupò brevemente il Medio Oriente, per poi esserne scacciato da un cugino molto più atleticamente prestante, l'uomo di Neanderthal, che viveva in Europa e Nordafrica. Proprio a causa di questa ingombrante presenza l'UAM ha rinunciato al Mediterraneo e si è diretto verso Asia e Australia. Vi è ritornato molte decine di migliaia di anni dopo e stavolta per i Neanderthaliani non c'è stato scampo: gli ultimi si estinsero nella zona di Gibilterra circa 30.000 anni fa (ma qualcuno sostiene che sono sopravvissuti ancora per qualche migliaio di anni).
Negli europei moderni non c'è traccia di ibridazione fra le due popolazioni, per cui è evidente che la scomparsa dei Neanderthaliani sia dovuta a estinzione e non a assimilazione. Come mai l'UAM perse il primo scontro per poi vincere successivamente la guerra?
Non si sa ancora molto sull'origine dei Neanderthaliani. L'ipotesi più probabile è che derivino da Homo Erectus come Homo Sapiens, ma passando per Homo Heidelbergensis. La cosa appare plausibile anche su basi genetiche: si stima che l'ultimo antenato comune fra noi e loro sia vissuto tra 500 e 700 mila anni fa e questo fa pensare che non ci possa essere stata ibridazione perchè le due popolazioni erano troppo distanti geneticamente per accoppiarsi e quindi erano ormai due specie diverse.
Tradizionalmente si ritiene che i Neanderthaliani fossero specializzati per un clima più freddo e che il riscaldamento avvenuto 40.000 anni fa fu loro letale. Quindi l'UAM avrebbe occupato passivamente territori in cui era sparito o era in fortissime diffilcoltà il suo competitore. In realtà le ultime ricerche portano a modificare questo punto di vista: Banks ed altri in un bellissimo contributo su PlosOne hanno dimostrato che i Neanderthaliani avrebbero potuto benissimo sopravvivere nelle condizioni ecologiche dell'Europa e del Mediterraneo, pur se caratterizzate da una eccezionale variabilità in tempi brevissimi: questa storia si colloca nell'intervallo MIS3 (durato da 60 a 30 mila anni fa), un periodo di veloci cambi climatici ed ecologici con un rapido e continuo (geologicamente parlando....) avvicendarsi fra foreste e praterie che non poteva non riflettersi nelle attività umane dell'epoca.
Allora, quali potrebbero essere le cause della estinzone dei Neanderthaliani? L'arrivo dell'UAM è un ottimo candidato per questo: sull'ultimo numero di Le Scienze (gennao 2009) Wynn e Coolidge scrivono che probabilmente la chiave della vittoria dell'UAM sta nel cervello e nella capacità di ragionamento: i Neanderthaliani sono rimasti per 200.000 anni con gli stessi attrezzi, comunque adatti per la caccia a mammiferi erbivori anche di grandi dimensioni come elefanti, giraffe e rinoceronti ma non sono stati capaci di “andare oltre” ed erano privi di “memoria di lavoro” e “capacità di programmazione”: se è sicuro che aiutavano membri del clan in difficoltà per incidenti di caccia o vecchiaia, i loro accampamenti sono molto primitivi, privi della minima organizzazione che distingueva già all'epoca gli accampamenti di UAM.
Ci sono poche varianti e solo in Italia centrale e vicino a Gibilterra sono stati trovati dei Neanderthaliani che erano passati a una dieta marina. Ma non si sa bene se questo sia stato un caso fortuito: accanto a conchiglie e ossa di foche e delfini ci sono anche tutte le comuni prede, cervi e altro. Per cui queste catture potevano far parte del comportamento di un predatore “generalista” che approfittava di cetacei spiaggiati o di animali come le foche, catture molto facili per un uomo sulla terraferma.
Una possibile prova delle affermazioni di Wynn e Coolidge è che qualcosa nella tecnologia neandertaliana sembra sia cambiato proprio al contatto con i Sapiens: è ormai accettato che la cultura Musteriana sia tipica di H.Neanderthalensis mentre la Aurignaziana di H.Sapiens. In prossimità della sostituzione di Homo Neanderthalensis con Homo Sapiens ci sono due culture, la Chatelperroniana e la Bohuniciana di attribuzione incerta, ma che la maggior parte degli studiosi attribuisce a tardive evoluzioni della cultura musteriana dovute all'imitazione da parte dei Neanderthaliani di manufatti e attrezzature tipiche degli UAM.
La sostituzione, anche se progressiva, è stata complessa: in alcuni siti già occupati dai Neanderthaliani, si nota un ingresso degli UAM che poi vengono di nuovo rimpiazzati dai precedenti, ma alla fine la realtà della situazione è questa: dopo 200.000 anni di dominio incontrastato in Europa e nel Mediterraneo, sono bastati meno di 10.000 anni agli UAM, non atleticamente ma tecnicamente e mentalmente superiori per conquistare tutta l'Europa. Prima li hanno respinti dall'Europa Centrale, poi dalla Francia e alla fine gli ultimi Neanderthaliani sono scomparsi dal loro ultimo rifugio, nella zona di Gibilterra.
Da ultimo annotiamo che, purtroppo, anche su Homo Neanderthalensis siano fioccate delle leggende assurde. Quella che va più di moda adesso è che dei neanderthaliani regrediti siano ancora vivi e non siano altro che l'Almas e lo Yeti. Purtroppo parla di questo un sito che tutto sommato in altre cose si è rivelato utile ed attendibile come www.criptozoo.com. Faccio solo notare, oltre alla totale assurdità dell'ipotesi, una incongruenza geografica: gli ultimi discendenti dei neanderthaliani vivrebbero in zone in cui i loro progenitori non erano mai stati (e addirittura dalla parte opposta a quella dove sono sopravvissuti gli ultimi eredi di questa stirpe).

 EDIT: devo delle scuse a Lorenzo Rossi: l'areale dei Neandertal comprendeva anche 'lAsia settentrionale. Continuo a ritenere impossibile che esistano ancora esseri viventi così grandi che non sono ancora conosciuti alla scienza (almeno per quanto riguarda le terre emerse, nei mari tutto è possibile)  ma mi sento in dovere di precisare un mio macroscopico errore



Da ultimo, credo di fare una cosa utile riepilogando una cronologia di base degli avvenimenti:

100.000: i primi UAM colonizzano il Medio Oriente. Poi si dirigono verso l'Asia sudoccidentale, rinunciando a penetrare in Africa Settentrionale, occupata dai Neanderthal
80.000: i Neanderthaliani sostituiscono gli UAM in Medio Oriente
60.000: inizio del MIS3
41.000: prime industrie aurignaziane in Europa Occidentale
40.500: ultime industrie litiche musteriane in Francia e comparsa delle culture chatelperroniane e bohuniciane
39.000: fine della cultura Chatelperroniana in Francia e della Bohuniciana in Europa Centrale
32.000 anni: gli ultimi Neanderthaliani si estinguono in Spagna meridionale
30.000 fine del MIS3


venerdì 9 gennaio 2009

La Commissione Europea adotta Il codice etico per le nanotecnologie

I mass media, non solo italiani ma i nostri in particolare, danno spesso molto più spazio a bufale, superstizioni e leggende metropolitane che alla parola di scienziati e ricercatori, per cui si stanno diffondendo, oltre all'astrologia, una serie di altri atteggiamenti antiscientifici, che considerano pericolose tante ricerche, a cominciare da quelle del CERN a Ginevra. Internet è un ottimo veicolo di diffusione di queste baggianate.
Una delle categorie più osteggiate e bersagliate è quella delle nanotecnologie.
Le nanotecnologie non sono una cosa riservata a chissà quali utilizzi specialistici: nel futuro (e in parte già nel presente) sono destinate ad affermarsi nella vita di tutti i giorni. Il concetto è che alcuni materiali, se composti di particelle inferiori al decimo di micron, presentano, oltre a quelle “classiche”, delle proprietà particolari. Per esempio, il biossido di Titanio in nanoparticelle fornisce a una vernice un maggior potere sanificante. Un anno fa mostrai come le nanoparticelle potrebbero diventare molto utili anche in medicina nella lotta contro il cancro
Fra i progetti europei in materia importante è il Nanoker: si punta a trovare nuovi nanocomposti ceramici con caratteristiche superiori in molti campi, dai pannelli solari a protesi ossee, a materiali più resistenti per il taglio dei metalli etc etc...
Con l'intenzione di mettere dei severi paletti etici nel settore (e soprattutto di tranquillizzare l'opinione pubblica), la Commissione Europea ha adottato un codice etico per una ricerca responsabile nell'ambito della nanoscienza e delle nanotecnologie.
Riporto sinteticamente i principi e le azioni che sono stati indicati.

1. SCOPO: la ricerca su nanoscienze e nanotecnologie deve essere comprensibile all'opinione pubblica. Deve rispettare i diritti fondamentali e deve essere condotta nell'nteresse del benessere degli individui e della società, nel progetto, nell'implementazione, nella diffusione e nell'uso
2. SOSTENIBILITA': la ricerca su nanoslcienze e nanotecnologie deve essere sicura, etica e contribuire allo sviluppo sostenibile. Non devono essere danneggiat o minacciate persone, animali, piante o ambiente, né ora né in futuro.
3. PRECAUZIONE: a ricerca su nanoscienze e nanotecnologie deve essere condotta in base al “principio di precauzione” prevedendo impatti potenziali su ambiente, salute e sicurezza. E prendendo le dovute precauzioni perchè non avvengano. Anzi, i benefici ambientali e sociali devono essere un obbiettivo – guida.
4. NON ESCLUSIVITA': il governo della ricerca su nanoscienze e nanotecnologie deve essere aperta al principio dell'apertura verso tutti i concorrenti, trasparenza e il rispetto per i legittimi diritti di accesso all'informazione. Deve essere permessa la partecipazione alle scelte di tutti i concorrenti coinvolti nelle attività di ricerca su nanoscienze e nanotecnologie
5. ECCELLENZA: la ricerca su nanoscienze e nanotecnologie deve essere svolta con i migliori standard scientifici possibili, includendo in questo le “buone pratiche di laboratorio”
6. INNOVAZIONE: il governo delle attività di ricerca su nanoscienze e nanotecnologie deve incoraggiare al massimo creatività, flessibilità e l'abilità di pianificazione per l'innovazione e la crescita.
7. RESPONSABILITA': ricercatori e enti di ricerca devono essere responsabili degli eventuali impatti ambientali, sociali e umani delle loro ricerche.

Come dichiarazione d'intenti è buona. Non mette difficoltà ai ricercatori, ma solo paletti di comportamento.Il principio di precauzione può essere discutibile, specialmente se è applicato demagogicamente, però spero possa essere sufficente a tacitare i catastrofisti. Una particolare considerazione deve essere messa nella questione della sostenibilita ambientale: il livello della ricerca nelle nanoparticelle è troppo elevato per non tenere conto di questo.
Importanti sono anche i punti su “benessere”e “salute”, come quello della responsabilità di chi ricerca.
Vediamo se davvero con le nanotecnologie si riuscirà ad ottenere una migliore efficienza unita a standard più elevati di tutela ambientale.

giovedì 8 gennaio 2009

L'autorità centrale per la cartografia: un ente inutile che proprio inutile non era e gli sforzi per ricrearlo: firmate il manifesto on-line

Tutti abbiamo prima o poi avuto in mano una “cartina”, in cui si vedono delle strade. Oggi chi ha il navigatore satellitare ha sullo schermo una carta della zona che sta attraversando. Ma la cartografia è qualcosa di più profondo: la rappresentazione su carta del territorio è la condizione fondamentale per poterlo gestire decentemente.
L'Italia nel settore vanta una lunga tradizione: già nel XIX secolo l'Istituto Geografico Militare era in grado di fornire delle carte topografiche a livelli decisamente di eccellenza, rilevate totalmente a mano, battendo il territorio palmo a palmo. I rilevatori segnavano tutto, dico tutto: sentieri nei boschi, sorgenti, i più piccoli casotti... Disegnare una carta era un'impresa titanica e da affrontare con cura certosina. Anche oggi, passati alle foto aeree e da satellite, lo stesso istituto continua a fare il suo lavoro e non solo per l'Italia. In appoggio alle missioni militari all'estero, cartografi italiani hanno prodotto ottime carte dell'Afghanistan e della ex-jugoslavia.
L'informatizzazione della geografia – attraverso i cosiddetti GIS - “geographic information systems”, consente dei risultati eccezionali, dalla protezione civile (sapere con una data portata di un fiume quali zone saranno alluvionate) all'economia (vedere in quale città può essere più conveniente aprire una nuova filiale di un'azienda). I siti internet di molte amministrazioni locali contengono un SIT (sistema informativo territoriale), che permette di vedere bene certe caratteristiche del territorio.
Purtroppo tutti questi sforzi hanno un grave difetto: la totale mancanza di coordinamento: la legislazione tratta i problemi del rilevamento e della rappresentazione del territorio con una miriade di leggi che affidano competenze ad enti e strutture nazionali e locali, senza una logica unitaria di efficienza e di utilità collettiva. In compenso brilla l'assenza di essenziali norme quadro che definiscano i ruoli e le risorse destinate ai diversi organismi centrali e locali, per una razionale utilizzazione delle informazioni territoriali da parte di tutti gli utenti interessati.
In Italia, caso forse unico al mondo, vi sono cinque organi cartografici dello Stato, (qualcuno ipotizza di portarli a sei....), quattro servizi tecnici nazionali in “costante ristrutturazione”, venti organi cartografici regionali e poi una sequela infinita di ministeri, enti, agenzie, istituti etc etc che raccolgono e producono dati territoriali in un contesto di norme e di regole spesso tra loro contrastanti, con conseguenti duplicazioni, sovrapposizioni e sprechi di risorse pubbliche, talvolta origine di conflitti paralizzanti.
Da dove viene questa confusione? Da molto lontano. Nel 1945 era stata istituita la Commissione Geodetica Italiana, un organo che operava per armonizzare i dati degli Enti Cartografici di Stato (notare che la legge che la istituì formalmente arrivò solo nel 1960). Nel 1975 fu abrogata come “ente inutile”, ma la sua utilità era grande: da allora le funzioni di raccolta, gestione e coordinamento delle informazioni e dei dati relativi al territorio italiano sono state prese in carico dalle Regioni che, a loro volta, hanno delegato il lavoro a vari enti, agenzie ed organi amministrativi diversi. Questo ha difatti creato una confusione nel coordinamento dei dati stessi, tanto da minarne dettaglio e accuratezza: è come se il censimento generale dello Stato, che si effettua ogni 10 anni, venisse fatto con criteri non confrontabili fra regione e regione. A cosa servirebbe?
Questo non è successa a liivello internazionale: al contrario gli altri paesi hanno proseguito nel lavoro di coordinamento delle proprie informazioni territoriali per adeguarle agli standard (europei ed internazionali), soprattutto in termini di condivisione dei dati. E noi siamo rimasti a guardare, impantanati nella palude dei mille organismi cartografici.
Siamo il Paese del dissesto idrogeologico, in cui poche ore di pioggia un po' intensa provocano quasi sempre dei danni da qualche parte: oltre alla nostra incoscienza, tra le varie cause bisogna certamente annoverare l’inadeguata conoscenza del territorio. Adesso, dopo decenni di scempi, finalmente ci si rende conto della necessità di avere dei vincoli severi nell'uso del territorio, per combattere l’inquinamento e il degrado ambientale e si sta rafforzando la tutela delle risorse naturali. C'è un particolare: per vincolare occorre una base cartografica attendibile, aggiornata, dettagliata e omogenea, su cui identificare e riconoscere l’oggetto del vincolo. Mi chiedo come ci si possa riempire la bocca di parole come “Sviluppo sostenibile” senza conoscere perfettamente tutti gli aspetti di un territorio e come si possa progettare una qualsiasi infrastruttura, dimensionare un impianto della filiera dei rifiuti, senza capirne l'impatto reale sulla popolazione e sul territorio e i potenziali rischi naturali che corre.
La situazione versa in condizioni che - con un eufemismo - potremmo definire critiche: al 31 dicembre 2007 la cartografia ufficiale dello Stato in scala 1:50.000 era aggiornata almeno a 10 anni fa soltanto nel 24% dei casi. Quindi occorre la più importante e meno costosa di tutte le opere pubbliche: un nuovo rilevamento generale del territorio all’altezza delle esigenze e in sintonia con quanto si va facendo nel resto d’Europa; un rilevamento che costituisca la base di un moderno catasto multifunzionale, in sostituzione dell’attuale sistema informativo territoriale catastale.
Alcuni personaggi molto importanti del panorama cartografico italiano, a seguito di un convegno tenuto a Roma un paio di anni fa, sono riusciti a presentare nel 2007 una proposta di legge (la 1766/2007) sulla costituzione della Agenzia Geodetica Cartografica Nazionale, che purtroppo si è impantanata prima per la fine della legislatura e poi perchè c'è chi sostiene che nei periodi di crisi economica preoccuparsi del territorio diventa un lusso troppo costoso, contrapposto a temi quali disoccupazione, immigrazione, insicurezza ecc
Secondo me le cose non stanno così: questa agenzia mi pare necessaria e che non sia una cosa di destra o di sinistra, ma debba essere un patrimono condiviso dalla intera comunità nazionale
La sua istituzione purtroppo è ostacolata da burocrati che temono di perdere dei privilegi e dalla cultura politica italiana, che non capisce il valore di tutto questo. Si badi bene: tanto per sgombrare il campo da equivoci "centalistici", nessuno vuole sostituirsi alle agenzie locali, ma far sì che, almeno, forniscano dati compatibili e confrontabili fra loro...
Sembra che qualcosa si stia muovendo (anche se, forse, non nella maniera desiderata dagli estensori). Anche per questo, invito tutti coloro che mi leggono a firmare il “manifesto per la authority geodetica italiana", all'indirizzo http://www.commissionegeodetica.it

domenica 4 gennaio 2009

Spirit e Opportunity: 5 anni di esplorazione su Marte


La foto, disponibile nel “padre di tutti i siti” e cioè www.nasa.gov, è stata scattata dal rover Opportunity durante la sua esplorazione del cratere Vittoria. Mostra rocce stratificate e piegate e tutto un insieme di fratture. Se non sapessi che è stata scattata sulla superficie di Marte, non penserei neanche un istante che non sia stata scattata sulla Terra.
Giacchè siamo in spirito di anniversari, dopo un anniversario così triste come quello del terremoto di Messina, ne osserviamo un altro, molto più allegro. Un buon auspicio per il 2009, dichiarato “anno dell'astronomia”, dopo che il 2008 denominato “anno del Pianeta Terra” è stato uno dei peggiori dal punto di vista dei disastri naturali.
Sono passati 5 anni (era il 3 gennaio 2004) quando Spirit, trasportato dalla sua sonda, è atterrato su Marte. Alla fine dello stesso mese sul pianeta rosso atterrò il suo gemello, Opportunity.
I due rover hanno fatto di tutto, scalato pendii, esplorato pianure e crateri, fotografato e campionato rocce del suolo marziano, nonostante grossi inconvenienti: Opportunity si insabbiò e per tirarlo fuori dalla trappola ci sono voluti dei mesi, Spirit si è trovato in crisi un anno fa perchè il sole dell'inverno marziano non riusciva a dare energia sufficiente alle sue batterie.
Partiti per una missione di 3 mesi, stanno arrivando al sessantesimo. Un successo davvero straordinario! Il “miracolo” sta soprattutto in due chiavi: una ottima tecnologia e un alleato inaspettato: il vento che è riuscito a pulire i pannelli solari dalla polvere che vi si era depositata, preservandone l'efficenza.
Le due sonde, per raccontarci come Marte, all'inizio della sua storia, era un pianeta umido (Spirit ha trovato silice pura) e dalle manifestazioni naturali violente (le varie rocce sedimentarie e vulcaniche che i rover hanno visionato), complessivamente hanno percorso fino ad oggi 21 kilometri, inviando a terra tramite il satellite Mars Odissey - che li sorveglia dall'alto – oltre 250.000 fotografie e una quantità sterminata di dati metereologici e chimici, un bilancio al di sopra di ogni più rosea aspettativa.
Adesso Spirit, dopo aver passato una buona parte del 2008 ad aspettare tranquillo che finisse l'inverno marziano e il sole potesse ridare energia alle sue depresse batterie, continuerà l'esplorazione di Home Plate, per capire meglio l'evoluzione di questa fascia di rocce vulcaniche, probabilmente i resti di una esplosione. Ci sono in vicinanza delle rocce molto interessanti per capire cosa veramente è successo, in particolare c'è una struttura, Goddart, che non sembra essere un cratere da impatto. Il rover non può andare molto lontano: ha una ruota bloccata (sono in tutto 6) e quindi la sua mobilità è ridotta. Invece la meccanica del gemello Opportunity è ancora pienamente efficiente e questo consentirà una bella passeggiata: dopo essere andato a zonzo per il cratere Vittoria, scendendo e risalendolo poi per uscirne, ha un obbiettivo ambizioso: raggiungere un altro cratere da impatto, Endeavour, il cui bordo dista ben 12 kilometri dal Vittoria. La distanza da compiere sarà ancora più lunga perchè il rover deve evitare i numerosi ostacoli (rocce, banchi di sabbia e altro) che si frappongono fra questi due crateri e fermarsi per curiosare attorno a varie rocce affioranti. Per fortuna la folta schiera di satelliti che ruotano intorno a Marte ha consentito di pianificare al meglio l'itinerario, pur se un po' di prudenza non guasta.
Spirit e Opportunity sono le icone moderne dell'esplorazione. I ricercatori sanno benissimo che ormai la “garanzia” è abbondantemente scaduta e anche il minimo inconveniente potrà decretare la fine della missione. Ma sono molto soddisfatti: nessuno avrebbe immaginato che dopo 5 anni passati su Marte i due rover fossero ancora lì, pimpanti e pronti a nuove scoperte.
Un ultima osservazione, di sapore civile e politico. Ed Weiler, uno degli amministratori della Nasa, ha detto che “ai contribuenti americani era stata annunciata una missione di 3 mesi. Ora siamo a 20 volte tanto. E' un ritorno straordinario dell'investimento in un periodo così difficile per il budget”.
Vedete come in USA la “cosa pubblica” è davvero una cosa di tutti? Il messagio è “voi avete pagato e questi sono i risultati”. Ma l'accento principale è sul “voi avete pagato”!
Un altro pianeta....