martedì 19 dicembre 2023

la nuova eruzione iniziata nella penisola di Reykjanes la sera del 18 dicembre 2023

Niels Bohr diceva che "è difficile fare delle previsioni, specialmente per il futuro". Quanto sta succedendo nei dintorni di Grindavik, nella penisola di Reykjanes è una applicazione pratica in senso vulcanologico di questo detto: dopo che nella seconda metà di novembre l’eruzione sembrava sempre più prossima, nella prima metà di dicembre le possibilità di un evento erano fortemente diminuite. Poi, all’improvviso, il 18 dicembre alle 22.17 il magma ha iniziato a fuoriuscire da una frattura lunga circa 4 km. L'eruzione si trova vicino a Sundhnúkagígar, circa quattro chilometri a nord-est di Grindavík. L'eruzione è stata preceduta da uno sciame sismico iniziato alle ore 21:00.

Secondo il comunicato delle ore 2.00 italiane di stanotte 19 dicembre del servizio meteorologico islandese (che svolge anche la funzione di sorveglianza sismica e vulcanica, dato che il servizio geologico nazionale si occupa soprattutto di geotermia e impatti ambientali) questa notte la sismicità e le misure GPS indicano che l'intensità dell'eruzione vulcanica, iniziata circa alle 22.00 in Italia della sera del 18 dicembre, sta diminuendo. Ma questo non indica una conclusione dell'eruzione, ma piuttosto che la fuoriuscita di magma sta raggiungendo uno stato di equilibrio. Questo sviluppo è stato osservato all'inizio di tutte le eruzioni nella penisola di Reykjanes negli ultimi anni. La fessura eruttiva è lunga circa 4 km, con l'estremità settentrionale appena ad est di Stóra-Skógfell e l'estremità meridionale appena ad est di Sundhnúk. La distanza dall'estremità meridionale fino all’estremità NE di Grindavík è di quasi 3 km. 

Avevo già descritto la situazione un mese fa (il 15 novembre) quando la deformazione era estremamente intensa ed il magma era a poche centinaia di metri dalla superficie: il servizio meteo islandese forniva tutti i giorni nuovi aggiornamenti indicando nella homepage che l’eruzione fosse estremamente probabile. Poi le cose si sono relativamente calmate e l’avvertimento è scomparso dalla sua homepage.


Il 6 dicembre venne comunicato che in base alla modellazione geodetica l’afflusso di magma era probabilmente cessato. Quindi la possibilità di un'eruzione era notevolmente diminuita ma tuttavia il futuro avrebbe potuto riservare evoluzioni improvvise. E difatti nella immagine a sinistra si vede la carta pubblicata contestualmente al comunicato, valida fino al 20 dicembre della probabilità di una eruzione, dove ho indicato in rosso l’area interessata da ieri sera dall’eruzione. In ogni caso l’avvertenza era che “le condizioni all'interno e all'esterno delle zone di pericolo delimitate possono cambiare con poco preavviso” (come dovevasi dimostrare...). Da quel momento comunque era scomparsa dallla homepage del servizio meteorologico l’avviso sulla probabilità di una eruzione. Nell’immagine a destra invece si vede la zona interessata effettivamente dall’eruzione.

E arriviamo dopo una settimana di silenzio al comunicato del 13 dicembre, in cui si riportava che che il sollevamento nell'area intorno a Svartsengi stava continuando, ritenendo che il luogo più probabile per una potenziale eruzione in queste condizioni fosse più o meno quello dove poi effettivamente è avvenuta. 

Il 15 dicembre nella zona interessata dall’intrusione magmatica continuava una sismicità generalmente debole, concentrata soprattutto nei pressi di Hagafell (contraddistinta da una stella rossa). Tra il 12 e il 15 sono stati registrati 460 terremoti, di cui 30 superiori a M 1.0. Il terremoto più forte in questo periodo è stato di magnitudo 2.8 vicino a Hagafell martedì mattina. Invece i dati provenienti dalle stazioni GPS e dalle immagini radar satellitari mostravano che il sollevamento intorno a Svartsengi stava comunque continuando (stella verde). Si segnalava inoltre che il magma continuava ad accumularsi e che continuava la possibilità di una eruzione o della formazione di nuove fratture che il magma avrebbe riempito.
Il 16 dicembre viene comunicato che negli ultimi giorni il tasso di deformazione era leggermente diminuito, ma anche che era troppo presto per dire che l’accumulo di magma si fosse fermato e che Il 20 (domani…) sarebbe stata emessa una nuova carta in sostituzione di quella del 6. 

Ovviamente gli eventi hanno superato questa notizia.



martedì 12 dicembre 2023

i probabili rapporti fra gli episodi di "Terra a Palla di neve" del Criogeniano e l'evoluzione della vita sulla Terra


La Terra nel Criogeniano: le glaciazioni 
erano presenti anche a latitudini tropicali (Li et al, 2008)
Il Criogeniano è un periodo fondamentale della storia della Terra, in quanto vi si trovano due episodi di Snowball-Earth (la Terra a palla di neve) che sono stati probabilmente innescati da un ulteriore calo del tenore di CO2 atmosferico. Se durante queste glaciazioni globali si è verificata una drammatica erosione dei continenti, che avrebbe provocato la "grande discordanza" (ne ho parlato qui), il post-glaciazione è stato teatro di una accelerazione dei processi biologici che ha portato alla ribalta Animalia. Tutto questo non si vede da tracce fossili convenzionali, ma da fossili molecolari, in particolare steroli e sterani e suggerisce pure un cambiamento fondamentale nel modo di nutrirsi alla base - appunto - della emersione di Animalia.

Gli episodi di Snowball Earth (Terra – Palla di neve) del criogeniano, il secondo periodo dell’era neoproterozoica, tra 720 e 635 milioni di anni fa sono più o meno contemporanei alla espansione delle prime forme di vita riferibili ad Animalia. Purtroppo non è che quel periodo abbondi di testimonianze fossili, ma per fortuna con le nuove tecnologie è possibile recuperare dai pochi sedimenti dell’epoca tracce chimiche di vita, i cosiddetti fossili molecolari.
Al giorno d'oggi, la maggior parte degli animali utilizza i colesterolo - steroli con 27 atomi di carbonio (C27) nelle loro membrane cellulari. Funghi e piante invece utilizzano fitosteroli (i funghi tipicamente steroli C28, mentre le piante e le alghe verdi steroli C29)
Il tutto ha portato ad ipotizzare che gli antichi sterani C27 abbiano avuto origine dal colesterolo, il principale sterolo prodotto dalle alghe rosse e dagli animali viventi, mentre gli sterani C28 e C29 deriverebbero dagli steroli di funghi preistorici, alghe verdi e altri eucarioti microbici.

I FOSSILI MOLECOLARI. I lipidi possono sopravvivere nelle rocce per centinaia di milioni di anni e quindi si possono definire fossili molecolari, ed è proprio grazie allo studi dei lipidi che i paleontologi riescono a ricavare degli indizi sulla vita di quei tempi lontanissimi, anche se – ovviamente – senza fossili reali è difficile dire molto sugli animali o sulle piante da cui provengono questi steroli. Le prime tracce di lipidi sterolici, che provengono dalle membrane cellulari, sono state trovate in rocce di 1,6 miliardi di anni fa, nella Barney Creek Formation, in Australia Settentrionale (Brooks et al, 2008). 
Sempre Brooks et al (2010) hanno evidenziato steroli C27, quindi quelli legati ad Animalia, in rocce di 850 milioni di anni (quindi nel Toniano, il primo periodo del Neoproterozoico), mentre tracce di C28 e C29 compaiono circa 200 milioni di anni dopo (il che per vari versi mi pare controintuitivo, in futuro cercherò di capire il perché). Si ritiene che ciò rifletta la crescente diversità della vita in tutto il Neoproterozoico. In seguito lo stesso gruppo (Brooks et al, 2017) attraverso lo studio di una documentazione fossile molecolare di steroidi eucariotici ha dimostrato che i batteri erano gli unici produttori primari degni di nota negli oceani prima del Criogeniano (720-635 milioni di anni fa). 
L’aumento della diversità e dell’abbondanza di steroidi segna il rapido aumento delle alghe planctoniche marine nello stretto intervallo di tempo tra le glaciazioni Sturtiana e Marinoana della “Terra palla di neve”, 659-645 milioni di anni fa. È interessante notare come questo evento sia contemporaneo ad un un picco nei rapporti fosforo-ferro nei sedimenti marini, indicante concentrazioni insolitamente elevate di fosfato (Planavsky et al 2010).
Quindi Brooks et al (2023) ipotizzano che una ondata di nutrienti forniti dalla deglaciazione dopo il primo degli episodi di snowball Earth (lo Sturtiano) abbia diminuito l'influenza dei cianobatteri e innescato un ’“aumento delle alghe”: in questo modo si sono formate delle reti alimentari con trasferimenti di nutrienti ed energia più efficienti, spingendo gli ecosistemi verso organismi più grandi e sempre più complessi. Di fatto è proprio dopo lo Sturtiano che compaiono biomarcatori per le spugne (Love et al 2007).

la storia dei fitosteroli nel Criogeniano (Brunoir et al 2023)
LA PRODUZIONE DI FITOSTEROLI. Brunoir et al (2023) combinando geologia e genetica, mostrando come i cambiamenti avvenuti nella Terra primordiale abbiano provocato un cambiamento nel modo in cui gli animali mangiano. La maggior parte degli animali non è in grado di produrre da sola i fitosteroli, ma può ottenerli mangiando piante o funghi. Pare logico visto quanto ho scritto qui sopra, ma recentemente è stato scoperto che negli anellidi come il comune lombrico, c'è un gene, il gene  smt, che produce steroli a catena più lunga. Osservando i geni smt di diversi animali Brunoir et l (2023) hanno creato un albero genealogico per il gene smt, prima all’interno degli anellidi, poi in Animalia: questo gene ha avuto origine molto indietro nel tempo, e poi ha subito rapidi cambiamenti nello stesso periodo in cui i fitosteroli sono apparsi nelle rocce. Successivamente, la maggior parte delle linee animali ha perso il gene smt. Da notare che questo albero della vita è riferibile a quello di Schultz et al (2023) di cui ho parlato proprio a proposito dell’origine di Animalia.

GLI ANIMALI HANNO PERSO LA CAPACITÀ DI PRODURRE FITOSTEROLI PERCHÈ È PIÙ FACILE MANGIARLI CHE PRODURLI? I fossili molecolari di fitosterolo registrano l'aumento delle alghe negli antichi oceani e a cascata la scomparsa del gene smt. L’ipotesi di Brunoir et al (2023) è che gli antenati di Animalia fossero in grado di produrre steroli C28+; però, in seguito, molte linee animali avrebbero abbandonato indipendentemente fra loro la produzione di fitosterolo intorno alla fine del Neoproterozoico, in coincidenza con l'aumento di abbondanti prede eucariotiche. 
Quindi la storia del gene smt potrebbe raccontare un cambiamento nelle strategie di alimentazione degli animali all'inizio della loro evoluzione. 

BIBLIOGRAFIA

Brocks et al (2008) A biomarker for purple sulfur bacteria (Chromatiaceae), and other new carotenoid derivatives from the 1640 Ma Barney Creek Formation. Geochim et. Cosmo- chim Acta 72, 1396–1414 (2008).

Brocks et al. (2017) The rise of algae in Cryogenian oceans and the emergence of animals. Nature 548, 578 (2017)

Brunoir et al (2023) Common origin of sterol biosynthesis points to a feeding strategy shift in Neoproterozoic animals. Nat Commun 14, 7941

Li et al (2008) Assembly, configuration, and break-up history of Rodinia: A synthesis Precambrian Res. 160, 179–210

Love et al. (2009)  Fossil steroids record the appearance of Demospongiae during the Cryogenian period. Nature 457, 718–721 

Planavsky et al. (2010) The evolution of the marine phosphate reservoir. Nature 467, 1088–1090 

Schultz et al (2023) Ancient gene linkages support ctenophores as sister to other animals Nature618, 110–117
 





mercoledì 6 dicembre 2023

L'erosione dell'alveo dell'Arno negli ultimi decenni nel Valdarno inferiore: l'esempio dell'isola presso il ponte tra San Donato e Santa Croce sull'Arno


Foto 1: l'Arno a valle del ponte. Si noti come l'isola si trovi
nella parte interna di un'ansa dove l'erosione è più difficile
Il ponte sull'Arno fra San Donato (frazione del comune di San Miniato) e Santa Croce sull'Arno, pur essendo attualmente monitorato e sicuro (lo preciso perché non voglio che qualcuno usi questo post come pretesto per lanciare allarmismi che non avrebbero il minimo senso: è attualmente un ponte sicuro!) rappresenta un caso classico di interferenza fra piloni ed alveo di un fiume e il corso dell'Arno è pieno di casi del genere, che sono molto comuni. È ovvio che la soluzione migliore oggi disponibile dal punto di vista idraulico sia il ponte a campata unica, ammesso che le sponde siano in grado di reggere la struttura ed infatti le ultime realizzazioni cercano di andare in quella direzione, ma questo di cui parliamo è un ponte concepito bene, senza piloni nell'area di massima corrente.

Dopo gli ultimi eventi alluvionali continuano ad imperversare quelli che “bisogna dragare i fiumi”, per non parlare di quelli che "basterebbe pulirre gli alvei che certe cose non succederebbero". Già anni fa avevo scritto un post per far notare come questa sia una fesseria solenne, al pari di quella di rialzare gli argini. No, per diminuire la pericolosità da alluvione l’unica strada è la realizzazione di invasi (utili sia per laminare le piene che laminare le magre) e di casse di espansione: non solo una escavazione artificiale degli alvei non ridurrebbe la pericolosità idraulica, ma oltre a non avere effetto in caso di piena, al contrario porterebbe una serie enorme di problemi alle pile dei ponti e agli argini.

In questo post mostro poi un classico esempio della serie “spesso non occorre scavare i fiumi per abbassarne il livello, perché ci pensano da soli”, osservando quello che sta succedendo in Arno in corrispondenza del ponte che collega San Miniato a Santa Croce sull’Arno, dove  Siamo in provincia di Pisa nel Valdarno inferiore, fra Empoli e Pisa, dove il fiume, ovviamente canalizzato anche se per fortuna non proprio rettilineo, scorre su una pianura bonificata in epoca medicea, grossolanamente diretta verso WSW e caratterizzata da una scarsissima inclinazione: a Empoli, a oltre 60 km dalla foce, lo zero idrometrico è posto a 20,32 metri sul livello del mare (dati del Centro funzionale Regionale della Regione Toscana), ma in periodi normali il livello delle acque è a una quota inferiore a 16 metri e quindi la pendenza sarebbe di meno di 30 cm al km.
Il ponte è stato inaugurato nel 1970 quindi suppongo che sia crollato o sia stato pesantemente danneggiato durante l'alluvione del 1966.

Foto 2: il pilone di sisistra evidenzia l'erosione in atto dell'alveo
A valle del ponte si nota un’isola, come dimostra la foto 1. Il commento che verrebbe spontaneo (e a parecchie persone è venuto) è: "quell’isola si è formata per colpa dei detriti e va tolta!".
Ma non è così! Lo dimostra una sommaria ispezione visiva del ponte stesso fatta semplicemente con la foto 2, che mostra il pilone in sinistra idrografica: si nota che dall’epoca della costruzione del ponte l’alveo si è approfondito, dato che si sta mettendo gradatamente a nudo la sua base. 
Nella foto 3 si vede nell'isola una densa stratificazione ed è evidente che non si tratti di sedimenti portati da piene recenti: anche solo dal semplice paragone con quanto si osserva sull'argine è evidente che i sedimenti che la compongono non si siano deposti per formarla, ma sono visibili a causa dell’erosione. Insomma, l’alveo si è abbassato di livello e la minore erosione ha consentito la formazione dell'isola perchè la corrente in quel punto della sezione del fiume è insufficiente per eroderla per due motivi:
  • il pilone di sinistra “fa ombra” e la rallenta a valle di esso
  • a valle del ponte il corso descrive una leggera ansa a sinistra e quindi la velocità è maggiore nel lato destro. 
Quindi la storia è molto diversa da quanto in molti pensano: l’isola non rappresenta un deposito recente che deve quindi essere eliminato perché ostacola la corrente, ma rappresenta più o meno la quota a cui era arrivato l’alveo del fiume pochi anni fa, decisamente superiore a quella attuale
Queste immagini non sono altro che la conferma di quanto evidenziato dalla letteratura scientifica già da parecchio tempo (Billi e Rinaldi, 1997). Fra l’altro ci sono altri ponti nei quali si evidenzia una erosione importante recente dell’alveo dell’Arno, per esempio a Signa.

Insomma: da quelle parti sarebbe inutile due volte pensare da quelle parti di dragare l’Arno per evitare il rischio alluvione, la prima perché se artificiale è sempre una operazione dannosa e la seconda perché il fiume si sta dragando da solo!

Foto 3: i sedimenti sotto l'isola dimostrano la loro "anzianità"
e l'isola non è una barra appena deposta
PROBLEMA "CULTURALE" SU ISOLE E BARRE FLUVIALI. Il problema è che molto spesso la gente comune confonde la presenza di barre o isole con sovralluvionamento, in quanto il loro modello di fiume “normale” è quello di un fiume dove scorre solo acqua, mentre il sedimento è visto come una sorta di "disfunzione". 
In realtà la presenza di barre o isole compare in determinate morfologie non solo in situazioni di accumulo, ma anche in condizioni di equilibrio dinamico o addirittura, come in questo caso, in fase di incisione. Se prendiamo ad esempio un caso dove nell’alveo ci sono tanti canali, un alveo ghiaioso a canali intrecciati, cambiando le condizioni durante la fase di incisione successiva a quella che aveva accumulato i materiali, la presenza di isole o barre è vista erroneamente come sovralluvionamento.

Un appunto finale: ribadisco di nuovo che questo post non rappresenta assolutamente un allarme sulla stabilità del ponte, che è continuamente osservato dai tecnici dell’ente competente (i quali conoscono benissimo la situazione), però se continua questo trend di erosione (e pare che continui, ma non ci sono dati certi o, almeno, non ne conosco), prima o poi dovranno essere prese delle misure per evitare conseguenze. 
Inoltre è stato ricostruito dopo il 1966 in modo intelligente: premettendo che il ponte più sicuro di tutti è quello realizzato senza pile in alveo, le due pile in alveo di questo ponte sono vicine alle sponde e dunque non ci sono piloni nell’area di massima corrente che potrebbero subire danni durante le piene.
A dimostrazione di tutto questo uno studio del 2017 ne ha verificato la struttura e quindi non esistono limiti di portata in relazione ai carichi previsti dal Codice Stradale per i ponti di prima categoria. 

Billi e Rinaldi 1997 Human impact on sediment yield and channel dynamics in the Arno River basin (central Italy) Human Impact on Erosion and Sedimentation (Proceedings of Rabat Symposium S6, April 1997). 1AHS Publ. no. 245, 1997


domenica 3 dicembre 2023

il terremoto M 7.6 del 2 dicembre 2023 e la complessa geodinamica delle Filippine


A causa del particolare contesto geodinamico, l'arcipelago delle Filippine è costantemente oggetto di terremoti e di eruzioni vulcaniche, con vulcani a carattere spiccatamente esplosivo. 
Il terremoto di magnitudo 7.6 del 2 dicembre 2023 al largo della costa sud-orientale dell'isola di Mindanao è una classica conseguenza di questa situazione e la sua energia non può certo sorprendere. Si è verificato lungo una faglia obliqua inversa a una profondità di circa 75 km. A causa dell'epicentro in mare e della profondità ipocentrale la mappa del risentimento evidenzia per fortuna una intensità massima non superiore alla parte centrale dell'VIII grado MCS. 
Ci sono notizie di uno tsunami di una quarantina di centimetri nel Mare delle Filippine, ma non sembrano esserci stati dei danni.
Siamo ad ovest della fossa delle Filippine, nella zona che più risente dello scontro fra la placca della Sonda e quella del mare delle Filippine che le scende sotto. E infatti il meccanismo focale indica che la rottura si è verificata come risultato di una faglia inversa coerente con la superficie dell'interfaccia di subduzione. 
Un terremoto come questo ha probabilmente coinvolto un’area all’incirca rettangolare lunga un centinaio di km e larga 35.

Nel luogo del terremoto, la placca del Mar delle Filippine si muove verso ovest-nord-ovest ad una velocità di circa 103 mm/anno rispetto alla placca della Sonda. 
Quella ad oriente delle Filippine è una delle subduzioni più “produttive” dal punto di vista dei terremoti, nel quadro di un’area in cui fra Indonesia, Nuova Guinea e Filippine l’attività sismica è incredibilmente frequente e importante: basta pensare che solo meno di 10 giorni fa, dalla parte opposta del Mar delle Filippine, un terremoto di M 6.9 ha colpito le isole Marianne settentrionali. Non solo, ma limitandosi all'area colpita da questo terremoto secondo l’USGS in un’area entro i 250 km dal terremoto del 2 dicembre 2023 negli ultimi 100 anni si sono verificati altri 127 terremoti di magnitudo 6 o superiore e 15 di questi erano M 7 o più. 
In più la sequenza delle repliche è impressionante. Il Geofon del Deutsches Geoforschungszentrum di Potsdam a 20 ore dall'evento (aggiornamento alle ore 10.00 italiane del 3 dicembre) segnala 6 repliche con M uguale o superiore a 6 e 38 (se ho contato bene) repliche con M compresa tra 5 e 6. 
Vediamo appunto qui sotto in questa carta elaborata con l’IRIS Earthquake Browser i terremoti intorno a Mare delle Filippine, Indonesia e Nuova Guinea con le varie subduzioni dell’area: 1300 eventi con M uguale o superiore a 6 in 20 anni!



La situazione nelle Filippine è molto complessa perché oltre a quella del Mar delle Filippine, l’arcipelago è interessato nel suo lato NW da una subduzione a polarità opposta, cioè verso est,  la cui traccia superficiale è data dalla fossa di Manila che prosegue a nord fino a Taiwan (ne ho parlato qui). In questo caso al contrario di quanto succede nel lato orientale, è la placca della Sonda a scendere sotto quella del Mare delle Filippine. Nonostante questa sia una collisione “matura”, cioè ormai una collisione continente – continente, anche qui le velocità non sono per niente basse, tra 65 e 85 mm/anno.

Per questo la sismicità della regione delle Filippine riflette movimenti tettonici molto complessi, e avviene sia all’interno delle isole, che come in questo caso ai suoi margini e a varie profondità. 
Nell'immagine sotto si vedono una carta e una sezione della parte settentrionale dell'arcipelago, che evidenzia le due subduzioni.

Una conseguenza importante di questa situazione tettonica è anche l'intenso vulcanismo di arco magmatico, che genera eruzioni significative. Considerando la posizione dell'arcipelago, poco sopra l'equatore, è facile che a causa della vicinanza della ITCZ, la Zona di Convergenza IntertTopicale, le maggiori esplosioni possano immettere i loro prodotti nell'alta atmosfera, e questo specialmente d'estate quando la ITCZ è alle basse latitudini settentrionali, provocando come per l'eruzione del Pinatubo, avvenuta nel 1991 e appunto in giugno, un leggero raffreddamento a livello globale.

  







mercoledì 22 novembre 2023

il concorso di cause naturali e cause antropiche alla base di frane e alluvioni in Italia




Prendo spunto dalla alluvione che ha colpito la Toscana il 2 novembre per una serie di riflessioni generali sulle alluvioni in Italia in questi ultimi tempi. Le cause di questa impressionante serie di disastri vengono dalla somma di diversi eventi di un lungo cammino storico, iniziato secoli fa, all’epoca logico ma che per l’appunto hanno tutti contribuito alle gravi perdite in vite umane e danni materiali. Da ultimo faccio alcune proposte sulla direzione verso la quale si dovrebbe andare per mitigare il gravissimo problema.

L'EVENTO DEL 2 NOVEMBRE IN BREVE. Il fenomeno ha interessato le aree di Prato-Pistoia e più in generale la fascia da sud-ovest a nord-est, da Livorno in direzione di Pistoia-Prato, Mugello fino a superare lo spartiacque appenninico.
La convergenza della corrente africana di scirocco con quella atlantica da NW ha sostanzialmente creato quello che si chiama un “cluster temporalesco stazionario autorigenerante” noto anche come V-Shaped per la forma che assume visto dal satellite. 
E quindi per diverse ore sul mare nei pressi dell'isola di Capraia si è creata una serie continua di celle temporalesche che le correnti in quota hanno spinto verso ENE senza spostare l'area interessata. La conseguenza è stata che le precipitazioni hanno insistito con continuità nelle stesse aree anche per 5 ore, con picchi di 200 mm nell’area di Pontedera e nei bacini idrografici di Ombrone Pistoiese e Bisenzio. Un quantitativo così elevato di pioggia ha mandato in crisi il reticolo idraulico dei due fiumi, creando allagamenti ed esondazioni, generalmente per sormonto di argine. Purtroppo i sormonti hanno anche eroso e rotto gli argini, peggiorando la situazione.


A. LE MOTIVAZIONI DELLA FREQUENZA DELLE ALLUVIONI IN ITALIA

Abitualmente sede di questi fenomeni, l'Italia lo è diventata ancora di più a causa di una politica e di azioni nei confronti dell' assetto del territorio non proprio corrette (eufemismo). Vediamole, premettendo che alcune di queste erano logiche per l'epoca in cui sono state realizzate.

1. CONDIZIONI NATURALI (GEOLOGICHE, GEOGRAFICHE E CLIMATOLOGICHE). L’Italia è un Paese geologicamente molto recente, interessato da due orogeni (Alpi e Appennini) con molte aree attualmente in sollevamento, e non poco. Basta vedere la Val d'Aosta, la Toscana Meridionale e ancora di più l'Appennino centrale, che appena 700.000 anni fa aveva un paesaggio quasi pianeggiante (ne ho parlato qui). E notiamo come al sud di pianure lungo le coste ce ne siano davvero poche.  Per cui dal punto di vista “originario” la civiltà umana è partita da queste condizioni: 

in verde e celeste le aree in sollevamento
nel territorio italiano
  • il rilievo è giovane 
  • molte delle colline e addirittura delle montagne sono costituite di materiali particolarmente erodibili o di sedimenti “vagamente consolidati” (questo è un termine non scientifico, ma l'ho coniato perché rende bene l'idea) 
  • l’Italia è circondata da mari caldi che quindi possono provocare precipitazioni intense e a cascata frane e alluvioni 
  • il dato brutale in mm segnala che piove più in Italia che in Belgio, solo che lì piove poco quasi tutti i giorni, da noi piove pochi giorni con forte intensità, da cui segue che i corsi d'acqua hanno un regime torrentizio
  • i suoi bacini fluviali sono molto piccoli e quindi rispondono molto velocemente ad intense precipitazioni 
Dai punti precedenti si ricava che in una buona fetta di territorio il motore principale di formazione del paesaggio siano le alluvioni e le frane (queste utime spesso generate o riattivate da alluvioni) e che tutte le pianure dalla più grande alla più piccola fossero un insieme di paludi, stagni e – lungo le coste – di lagune.

Ad aggravare le difficoltà naturali l’Italia ha una densità di popolazione molto elevata e per tutto questo il territorio italiano necessiterebbe di una attenzione maggiore che altrove. E invece da noi è stato fatto tanto di quello che non doveva essere fatto, ma quasi nulla di quello che avrebbe dovuto essere fatto per un corretto uso del territorio, come si nota nei punti successivi. 


a sinistra la pianura di Pisa. A destra le Everglades in Florida:
senza le bonifiche anche la piana pisana sarebbe un'alternanza di isolotti e specchi d'acqua
2. LA TRASFORMAZIONE DI PALUDI E LAGUNE IN AREE AGRICOLE. Come ho scritto in Italia qualsiasi pianura era una palude o - se lungo la costa - una laguna e le paludi fungevano da stoccaggi per l’acqua delle piene, come dimostra l’Arno, più largo a Firenze che a Pisa: prima delle bonifiche l’acqua in eccesso da Firenze finiva più nell’immenso sistema palustre del Valdarno inferiore che occupava tutta la vallata piuttosto che nell’alveo principale. Insomma, le pianure erano delle immense casse di espansione. 
Tale opere di bonifica, in corso addirittura nel periodo etrusco, sono proseguite a più riprese, e sono state completate a metà del secolo scorso ed hanno seguito la prassi progettuale classica creando un reticolo di drenaggio per le acque basse di pianura, i cui canali sfociano nei corsi principali che scendono dai rilievi limitrofi. Queste operazioni avevano una logica, rispondendo soprattutto a due azioni per rendere vivibili e utilizzabili queste aree: eradicare la malaria e rendere sfruttabili per l'agricoltura nuovi terreni.

Leonardo raffigurò l'Arno tra Firnze e Signa come un fiume meandriforme
Oggi è un canale rettilineo
3. LE DRAMMATICHE MODIFICHE AL RETICOLO FLUVIALE: in Natura i fiumi quando arrivavano nelle pianure sarebbero liberi di creare meandri e spostare il loro corso. Oltre ad averli arginati per prevenire le piene, i fiumi sono stati canalizzati, rettificati e ristretti. Di conseguenza:
  • la loro lunghezza è stata ridotta anche di un terzo, per cui si verifica una diminuzione del volume totale di acqua contenibile dall’alveo 
  • la velocità della corrente è aumentata per l’aumento della pendenza e per la mancanza di anse 
  • la diminuzione della distanza vale anche fra le foci degli affluenti e così le piene degli affluenti si riversano quasi contemporaneamente nell’asta principale 
  • per non parlare della massiccia opera di tombamenti che hanno coinvolto il reticolo minore (e talvolta non solo i fossi minori)
  • da ultimo l'urbanizzazione ha in genere cancellato il reticolo di canali creato durante le bonifichei

4. L’AUMENTO DELLA QUANTITÀ DI SUOLO SIGILLATO DAL DOPOGUERRA. Come non si stanca di ripetere ad ogni occasione il buon Nicola Casagli (parlavamo così nel 2012 e da allora non è che sia cambiato molto...) l'urbanizzazione selvaggia è avvenuta senza criterio, soprattutto senza rendersi conto di costruire su suolo di pertinenza fluviale e cancellando totalmente il reticolo di canalizzazioni realizzato al tempo delle bonifiche. Il sigillamento del terreno e la cancellazione del reticolo di canalizzazioni contribuiscono ad inviare più velocemente le acque piovane nei fiumi

Il risultato è che oggi il reticolo fluviale va in crisi anche con piogge inferiori a quelle che in un territorio meno denaturalizzato provocherebbero meno danni.
Da notare che se dopo le bonifiche, le alluvioni erano benedette per l’agricoltura perché ricoprivano i campi di limo fertile, oggi invece le alluvioni rappresentano un disastro totale per le aree colpite


B. I CAMBIAMENTI CLIMATICI 
E LA DRASTICA MODIFICA DEL REGIME DELLE PRECIPITAZIONI 

una supercella a V in Oklahoma
immagine dal sito del Luther College - Iowa
In buona sostanza nei prossimi anni pioverà la stessa quantità di acqua ma in meno giorni (un trend già presente adesso..) per questo sta cambiando la tipologia delle alluvioni: non eventi epocali in cui tutto un bacino come quello dell’Arno è interessato da giorni e giorni di piogge continue, ma episodi come quello del 2 novembre 2023, in cui si sono verificati violentissimi picchi di precipitazione in bacini più ristretti e per poche ore. 
In altre parole: a Firenze, per esempio, mi fan più paura il reticolo minore tipo Terzolle o Ema di quanto oggi me ne faccia l'Arno.
Evitando di fare un elenco partendo dal disastro della Versilia del 1995, un altro aspetto importante è che eventi come questo ultimo in Toscana o quello delle Marche del settembre scorso (di cui ho parlato qui) si sono originati da celle temporalesche autorigeneranti “V-Shape: il nome deriva dalla forma a V del temporale come è visibile dal satellite, mentre per autorigenerante si intende un temporale che continua ad autoalimentarsi rimanendo praticamente fermo per diverse ore, anziché muoversi come fanno la maggior parte dei temporali comuni. Vista l’area ristretta in cui si svolgono questi eventi, una loro previsione diventa praticamente impossibile: abbiamo visto appunto il 2 novembre come la cella sia rimasta ferma alimentandosi a largo di Livorno con l’evaporazione da un mare ben più caldo di quello che avrebbe dovuto essere in questo periodo. Questi fenomeni provocano i flash flood (termine ben più adatto rispetto a “bomba d’acqua”, quella che una volta si chiamava "nubifragio"...!).
Oltretutto se fino al settembre 2022 si poteva pensare che eventi del genere fossero localizzati solo sui rilievi vicino alle coste del Mar Ligure e nella pianura padana davanti all'Appennino ligure, l'evento delle Marche e quello del 2 novembre hanno evidenziato un "salto di qualità" in quanto hanno attraversato mezza o quasi tutta la penisola. 

C. PROPOSTE 

A questo punto mi permetto di esporre un ventaglio di proposte che secondo me potrebbero essere portate avanti per iniziare a parare i danni.

errare è umano, ma perseverare è diabolico:
Tortona: 60.000 mq di capannoni logistici in costruzione in riva allo Scrivia
1. COMUNICAZIONE ALLA POPOLAZIONE. Innanzitutto bisogna spiegare che cementificare gli argini, dragare gli alvei (ne ho parlato qui) e cose simili sono delle fesserie solenni (ma purtroppo persino vasta parte della classe politica propaganda queste iniziative che non sono inutili, ma, peggio, dannose). E se i corsi d’acqua andrebbero tenuti puliti, questa non è la soluzione “definitiva”… per alcuni soggetti sembra che se il Bisenzio fosse stato pulito sarebbe andata molto meglio (e non so neanche se non fosse stato pulito. Ma chi dice così mica si informa, ripete un mantra).
E basta anche con “ai tempi dei nonni si faceva così”, oppure "era meglio quando c’erano più analfabeti e meno studiosi", come se a quei tempi non ci fossero alluvioni.

2. POLITICA DI “SUPERFICIE ZERO. Si continua a costruire su aree vergini, piuttosto che recuperare aree abbandonate. Questo non è certo un corretto uso del territorio e quindi bisogna fermare, o ridurre a livelli ragionevoli, il consumo di suolo. Quindi occorrono almeno: 
  1. una politica di “superficie zero
  2. rendere più conveniente recuperare strutture e superfici laddove qualcuno in precedenza aveva già costruito. 

3. UN IMPEGNO PER MIGLIORARE LA SICUREZZA IDRAULICA, ma qui ci sono dei problemi “culturali”, che non viene vista come una priorità da popolazione e politica, e non esiste continuare a vedere situazioni in cui la popolazione addirittura ostacola la messa in sicurezza come nel caso delle lotte contro le casse di espansione del Seveso o del Misa

4. EVIDENZIAZIONE DEI VERSANTI CHE POSSONO RISULTARE PRONI A CELLE V-SHAPE, in base a modellizzazioni impostate soprattutto su topografia (orientazione e pendenza dei versanti) e direzione delle correnti che li possono alimentare. Occorre prioritariamente investire nella mitigazione del rischio su questi versanti (in particolare sui ponti e su opere di laminazione delle piene)

5. SUPERAMENTO DELLA NORMATIVA IDRAULICA BASATA SULLA PIENA DUECENTENNALE. Ne avevo già parlato in un post specifico. Le alluvioni degli ultimi anni sono spesso andate oltre questa soglia. Bisogna ripensare la normativa in base ad una modellistica basata su un certo evento possibile in un bacino. Come mi ha fatto notare un esponente molto importante del DPC, definire un “massimo evento possibile" è un po' difficile, e allora ho pensato di prendere come esempio la modellizzazione di un V-shape che persiste per un certo numero di ore


mercoledì 15 novembre 2023

La corrente situazione in Islanda (alla mattina del 15 novembre 2023)


La frattura dove si sta intrudendo il magma
(credit: Icelandic Met Office)
È sempre più probabile che la penisola di Reykjanes sia oggetto di una eruzione vulcanica piuttosto importante perché il dicco magmatico (che risale probabilmente da sotto la crosta) sta continuando a risalire lungo una frattura estesa per una quindicina di km fra Stóra-Skógsfell a nord-est e il mare a SW di Grindavík. Questa frattura ha una direzione coerente con le tante linee tettoniche dell’area lungo le quali in passato e negli ultimi anni si sono verificate diverse eruzioni. NB: la situazione può cambiare all'improvviso

SITUAZIONE ALLA SERA DEL 14 NOVEMBRE. Mentre le immagini della deformazione a Grindavik fanno ovviamente il giro del mondo, le probabilità di una nuova eruzione nella penisola di Reykjanes sono sempre maggiori. Ed è realisticamente possibile che sia un evento molto più importante rispetto a quelli precedenti. Ieri sera 14 novembre nel punto più vicino alla superficie il magma era a 400 metri di profondità. Non ho capito dove ma Jon Fremann di Iceland Geology ritiene sia appena a nord-est della città di Grindavík, dove ci sarebbero emissioni di SO2 dal terreno.
La risalita ha deformato la superficie in maniera estremamente vistosa: la stazione GPS appena a nord di Grindavík registra un abbassamento di 1400 mm da venerdì 10 novembre 2023. A est di questa fossa, parallela alla frattura, le stazioni si stanno alzando, alcune fino a 1 metro. L’abbassamento è tale da far temere addirittura che parte della costa a SW di Grindavik possa finire sotto il livello del mare.
L'ufficio meteorologico islandese continua a registrare dai 700 ai 3000 terremoti ogni giorno, per lo più lungo la frattura, la cui Magnitudo arriva per gli eventi più forti intorno a 3.
E qui c’è poi un dato che lascia un po' perplessi: sempre secondo Jon Fremann l’afflusso del magma nella frattura sarebbe di oltre 70 metri cubi al secondo, valore addirittura inferiore a quello dei giorni precedenti. Un quantitativo del genere è piuttosto importante ma anche la deformazione di questa che è la quarta intrusione dal 2020 (solo la prima della serie non è arrivata in superficie) pare molto superiore a quelle precedenti.
Insomma è possibile che questa sia per adesso la più importante eruzione di questo ciclo.

la deformazione fra 10 e l' 11 novemnre 2023. Si vedono chiaramente l'area in abbassamento e quella in sollevamento

le fasi di attività vulcanica nella penisola di Reykjanes
suddivise per segmento 

IL CONTESTO: LA NUOVA FASE DI ATTIVITÀ VULCANICA NELLA PENISOLA DI REYKJANES. Ho parlato di “ciclo di attività” non a caso. Come ho accennato all’inizio, nella penisola di Reykjanes il territorio è diviso in varie aree da una serie di segmenti circa SW-NE (e anche la frattura associata a questa per adesso ancora probabile eruzione segue lo stesso trend) e l’attività viene considerata a livello di queste aree e non per edificio singolo. Si deve notare inoltre come prima dell’iniezione di magma che non ha raggiunto la superficie nella primavera del 2020 nella zona non veniva registrata attività vulcanica negli ultimi 700 anni. Da allora se non erro siamo al quarto episodio del genere (di cui solo i magmi del primo non sono arrivati in superficie).
Di fatto, come si vede da questo diagramma preso da Sæmundsson et al 2020, i vari sistemi della penisola si mettono in attività più o meno in contemporanea e anche le fasi di quiescenza sono comuni.
Limitatamente agli ultimi 3500 anni abbiamo 3 cicli di attività tra 3.550 – 3050, tra 2550 – 1900 e tra 800 – 1300 anni fa separati da intervalli di quiescenza di circa 500 e 750 anni. Oggi sono giusto 750 anni dalla fine dell’ultima attività pregressa.
Siccome l’ultima fase di quiescenza è stata assoluta, in quanto dimostrabile dalle testimonianze storiche, si può presumere che anche durante le altre fasi simili non ci sia stata la benchè minima attività vulcanica.

La prima eruzione, quella del 2021 presentava magmi particolarmente carichi di gas e con una composizione che ne denotava una origine estremamente profonda. La conclusione a cui erano arrivati i vulcanologi nel 2021, era quindi che la sismicità così intensa registrata a partire dal 2019, il fatto di aver avuto due distinte iniezioni di magma a meno di 12 mesi di distanza l’una dall’altra, la composizione dei magmi facevano pensare che l’evento del 2021 fosse l’inizio di una nuova fase di attività dei sistemi vulcanici della Reykjanes che durerà qualche secolo

I fatti stanno dimostrando la correttezza di questa ipotesi

BIBLIOGRAFIA CITATA: Sæmundsson et al (2020) Geology and structure of the Reykjanes volcanic system, Iceland Journal of Volcanology and Geothermal Research 391 106501

domenica 12 novembre 2023

il crollo del ponte di Ozzanello (Appennino Parmense) del 30 ottobre 2023: come non costruire u attraversamento di un corso d'acqua


Fig.1: vista del ponte di Ozzanello da valle dopo il crollo
Un ponte può crollare per diversi motivi. Ma se crolla è probabile che qualcosa non abbia funzionato a dovere nella progettazione o nella dinamica dell’alveo. Qualche anno fa scrissi un post sui ponti “antichi” e su quelli moderni, facendo vedere che c’è negli ultimi decenni un po' di leggerezza nel costruirli (esempio classicissimo il nuovo ponte di Varese Ligure confrontato con il vecchio). È possibile che ci fosse più attenzione nel costruire i ponti durante la piccola era glaciale tra XIII e XVIII secolo perché le alluvioni a scala di bacino erano più frequenti e anche perché costruirne uno era una cosa difficile e costosa.
Per il crollo del ponte di Ozzanello, avvenuto il 30 ottobre 2023 durante una piena eccezionale sulla stampa è stato detto che il pilone ha ceduto perché l'onda d'acqua sovrastava il ponte nel momento di massima piena. Ma a vedere alcune immagini c’era qualcosa che mi sfuggiva. 

Fig.2: in celeste chiaro l'alveo di morbida,
in celeste scuro l'alveo di magra
Trovo giusto in prima battuta riepilogare alcune definizioni sugli alvei.
  1. Alveo di magra: la porzione dell'alveo che resta bagnata anche nei periodi più secchi, quando scorre poca acqua.
  2. Alveo di morbida: la porzione dell'alveo occupata dalle acque in condizioni di piena ordinaria nei periodi umidi, in cui scorre abbondante acqua.
  3. Alveo di piena: la porzione del letto fluviale occupata quando scorre una quantità eccezionale di acqua tale da inondare aree che normalmente sono asciutte.
Gli argini principali sono quelli che circondano l’alveo di piena e tutte le sistemazioni devono per forza fare riferimento all'alveo di piena (in particolare andrebbe evitato di infilarci dentro strutture come pilastri o, peggio, rilevati)

IL PONTE DOPO IL DISASTRO. Dati i miei dubbi ho fatto alcune ricerche in rete, e ho trovato la figura 1: si tratta probabilmente di una immagine da drone che mostra il ponte dopo il crollo, visto guardando verso monte. Si vedono chiaramente la campata destra ancora a posto, una campata al centro crollata e una lunga zona priva di struttura che potrebbe corrispondere ad una terza campata, appena caduta. Questa ricostruzione lascia parecchi dubbi per diversi motivi: 
(1) non si vedono minimamente tracce di questa terza campata (dove sarebbe finita?)
(2) ci sono dei tubi ancora sospesi (strano… se erano a lato della campata crollata o peggio contenuti all’interno come hanno fatto a salvarsi? Mah…)
ma soprattutto
(3) la campata crollata sembrerebbe più lunga delle altre due, circostanza costruttiva abbastanza insolita. 
La cosa – indubbiamente anomala – mi ha incuriosito ulteriormente e sono andato  a cercare di capirci qualcosa. 

fig.3: vista del ponte da monte lungo la riva sinistra

IL PONTE PRIMA DEL DISASTRO. Per ricostruire come fosse la situazione e quindi come era fatto il ponte, le immagini di Google sono state estremamente utili. La figura 3, presa da Street View di Google dalla strada provinciale 39 che scorre lungo la riva sinistra dello Sporzana, chiarisce le cose: il ponte consisteva in due campate, con in aggiunta un rilevato che collegava la stessa SP39 con l’estremo della campata sinistra del ponte. Questo rilevato partiva dall’argine sinistro di piena ed è la cosa che manca completamente dopo il disastro, come appunto si vede dalla figura 1.

figura 4: vista aerea con il tracciato dell'alveo di morbida e la parte in erosione della sponda

Figura 5: dal ponte, sulla sinistra idraulica dello Sporzana si vede bene che
in sinistra idraulica la corrente tende ad erodere l'alveo
LA DINAMICA DEL TORRENTE SPORZANA A MONTE DEL PONTE. Qui sopra nella figura 4 vediamo un aspetto particolarmente importante che emerge dall’immagine aerea di Google: il fiume sta creando subito a monte del ponte un meandro all’interno dell’alveo di morbida e per questo il rilevato della strada che dalla SP39 porta al ponte è diventato esso stesso nella sua parte più estrema l’argine dell’alveo di morbida.
Nella figura 5, qui accanto, che è presa dal ponte stesso al suo inizio in riva destra, si tova la conferma visiva della situazione: a causa della incipiente formazione del meandro la sponda sinistra dell’alveo di morbida a monte del ponte è chiaramente in erosione, essendo quella esterna del meandro in formazione. Quando è stato realizzato il ponte, il suo pilastro di sinistra si appoggiava sul rilevato, probabilmente in corrispondenza della sponda sinistra dell’alveo di morbida di allora. Ma l’erosione in riva sinistra ha provocato una regressione della riva, per cui il lato a monte del rilevato si è trovato a far parte della sponda dell’alveo di morbida.

figura 6: ricostruzione del disastro

LA PROBABILE DINAMICA DEI FATTI
. Quindi cosa è realmente successo al ponte di Ozzanello? Si vede dalla figura 6. 
Molto semplicemente a causa della piena la corrente del torrente Sporzana è andata sopra la sponda dell’alveo di morbida e ha demolito quella parte del rilevato che a seguito dell’erosone in riva sinistra era diventata la sponda. Lungo di esso la corrente particolarmente veloce essendo all'esterno della ansa è diventata estremamente erosiva, scavando il rilevato che alla fine è crollato. A questo punto la campata sinistra del ponte si è trovata senza l’appoggio sul rilevato, determinandone quindi il crollo.
La figura 6 riassume la situazione e soprattutto evidenzia il nuovo alveo dello Sporzana, che si trova al posto del rilevato ed è spostato a sinistra rispetto a quello precedente .

Perché succede questo? Perché un fiume lasciato libero tende a modificare il suo corso e all’interno dell’alveo di magra lo Sporzana era appunto libero di fare quello che farebbe naturalmente un fiume avendo spazi a disposizione, come si vede nel riquadro in basso a destra di della figura 6.

Direi quindi che l’errore fondamentale che ha portato al crollo è stato quello di costruirlo sostituendo parte della possibile travata in cemento armato con un rilevato all’interno dell’alveo di piena, usando come riferimento l'alveo di morbida: se il ponte fosse stato realizzato fino a comprendere tutta l’estesa fra le due rive dell’alveo di piena, probabilmente non sarebbe crollato.
La dinamica ricorda quella di un ponte crollato in Sardegna che si vede qui accanto: anche in questo caso l'attraversamento del corso d'acqua era parte in rilevato e parte in viadotto, con il rilevato che ha fatto da diga.



sabato 4 novembre 2023

le immagini della sonda europea Mars Express e i dati del lander della NASa InSight evidenziano attività tettonica attuale e attività vulcanica recente in una regione di Marte


La presenza di faglie è un aspetto diffuso e comune sulla superficie marziana, e fornisce le prove di deformazioni fragili nel corso della storia del pianeta. La loro abbondanza nei terreni di tutte le età è stata interpretata come il risultato della contrazione termica dovuta al raffreddamento secolare e del conseguente restringimento del pianeta. Ma le ultime ricerche portano alla ribalta un Marte ancora interessato da fenomeni vulcanici e di tettonica attiva, in particolare nei dintorni di Elysium Mons, un vulcano di dimensioni enormi per gli standard a cui siamo abituati sulla Terra, dove un sistema di fosse tettoniche, le Cerberus Fossae, mostra evidenti segni di attività vulcanica recente e dove attualmente viene rilasciata la metà dell’energia sismica del pianeta.

L'immagine, scattata il 27 gennaio 2018 durante l'orbita 17813 dalla telecamera stereo ad alta risoluzione (HRSC) sul Mars Express dell'ESA,
mostra una porzione del sistema Cerberus Fossae nell'Elysium Planitia vicino all'equatore marziano.
Si nota bene che queste fratture tagliano i crateri per cui passano e quindi sono più recenti di essi
Anche la zona in alto a destra dell'immagine, totalmente priva di crateri, è giovane ma la fossa lo è ancora di più

CERBERUS FOSSAE: ATTIVITÀ VULCANICA RECENTE SU MARTEQueste immagini sono state scattate dalla sonda dell’ESA Mars Express il 27 gennaio e mostrano parte del sistema Cerberus Fossae nella regione di Elysium Planitia vicino all’equatore marziano. Uno dei risultati più spettacolari dal punto di vista geologico delle osservazioni di Mars Express è proprio lo studio di questa zona. Come dice il nome le Fossae – termine latino per “fossati” o “trincee” – sono delle fratture; in questo caso si tratta di strutture larghe tra poche decine di metri e oltre un chilometro, che si estendono per più di 1000 chilometri da nord-ovest a sud-est. Si tratta di faglie e la cosa interessante è che lungo il loro percorso queste faglie attraversano crateri da impatto e colline, nonché pianure vulcaniche di età molto recente (10 milioni di anni) e quindi sono state attive in tempi ancora più recenti.
Mars Express è la prima missione europea su Marte: da ben 15 anni il satellite continua la sua indagine globale di grande successo orbitando intorno al pianeta (a parte la tristissima perdita iniziale del lander Beagle 2 che si è schiantato sulla superficie marziana anziché atterrare dolcemente). I suoi strumenti stanno analizzando Marte in modo completo, dalla parte più alta, la ionosfera, fino al suo sottosuolo con il radar. Oltre a varie altre cose ha acquisito oltre 40.000 immagini ad alta risoluzione del pianeta rosso e delle sue due lune, perché fra gli obiettivi principali della missione ci sono l’imaging ad alta risoluzione della sua intera superficie (10 metri/pixel), l'imaging di aree selezionate a altissima risoluzione (2 metri/pixel) e una mappa della composizione minerale della superficie con una risoluzione di 100 metri.

L’area delle Cerberus Fossae era già stata precedentemente identificata come un luogo con attività vulcanica recente su Marte, datata a meno di 10 milioni di anni (Taylor et al 2013), contemporanea alla deposizione di colate di lave basaltiche sulla parte orientale della Elysium Planitia (Berman & Hartmann, 2002). 
le Cerberus Fossae si trovano vicino al vulcano Elysium
a bass altitudine settentrionale
Il sistema di Cerberus Fossae è costituito da cinque principali strutture dirette NW-SE lunghe tra 250 e 600 km, ma ulteriormente segmentate (i segmenti più piccoli identificabili in superficie sono lunghi 5–10 km)
Le fosse più occidentali sono più mature (cioè con larghezza e estensione maggiori) e i loro segmenti meglio collegati rispetto a quelli delle fosse più orientali. Inoltre, è stato identificato un deposito tufaceo nella parte centrale (Horvath et al 2021), la Cerberus Mantling Unit, per la quale è stata ipotizzata una età di meno di 200.000 anni.
Il sistema di Cerberus Fossae è stato interpretato generalmente in due modi: un sistema di fosse tettoniche oppure un sistema di fessure vulcaniche collassate e allargate. In entrambi i casi potrebbe esserci un collegamento con l'indebolimento della crosta dovuto alla fusione parziale del mantello sotto Elysium Mons (un vulcano alto oltre 14.000 metri posto al di sopra di un grande rigonfiamento superficiale) e quindi ad un sistema di fratture riempite da lave (dicchi) che si estende a partire da lì (Hauber et al 2001)

LA SISMICITÀ DI CERBERUS FOSSAE. E qui viene in sinergia alle osservazioni di Mars Express la sonda della NASA Insight. Questo lander è atterrato a poco più di 1000 km di distanza dal sistema delle Cerberus Fossae il 26 novembre 2018 ed è rimasto operativo fra il dicembre 2018 e il 15 dicembre 2022, quando le tempeste di polvere hanno coperto i pannelli solari impedendone il funzionamento e lasciando la sonda senza corrente (le missioni dei rover durano di più rispetto a quelle dei semplici lander perché i rover nel loro movimento puliscono i pannelli solari, consentendo di continuarne il funzionamento e quindi l’afflusso di corrente alla sonda).
Uno degli strumenti fondamentali di Insight era un sismografo, i cui dati, esaminati da Stahler et al (2022) confermano che nella regione di Cerberus Fossae ci sia ancora attività tettonica: in particolare la sismicità a 15-50 km di profondità suggerisce un regime di stress estensionale situato in un ambiente più caldo delle zone adiacenti. Queste osservazioni forniscono un quadro coerente con la recente attività magmatica e con la presenza di una zona parzialmente fusa a una profondità di 30–50 km: il flusso di calore locale è particolarmente elevato, 36 ± 10 mW m−2 contro valori medi globali marziani che si collocano intorno a 21÷22 ± 7 mW m−2.
La sismicità è asimmetrica: non se ne osserva nella parte occidentale delle Fossae, dove invece la deformazione è maggiore. Il tutto suggerisce un processo dinamico, tramite una apertura rapida che però è diventata per lo più passiva dopo un breve periodo; si tratta di un trend comunemente osservato in situazioni simili sulla Terra: terminata la fase attiva si apre una nuova frattura più ad est. Inoltre non può essere un caso che la sismicità attuale sia correlata all’area di origine dei tufi più recenti. Usando una modellazione della sismicità provocata dalle fratturazioni indotte da dicchi magmatici simili sulla Terra, si ottiene un quadro coerente con la rapida apertura di una fessura avvenuta tra 53 e 210.000 anni fa

modello tettonico dei terremoti rilevati da InSight
nelle Cerberus Fossae da Strahler et al (2022)
CERBERUS FOSSAE E LA GEODINAMICA MARZIANA. Stahler et al (2022) confermano che Cerberus Fossae rappresenti su Marte un ambiente tettonico unico modellato dagli attuali processi magmatici e dal flusso di calore localmente elevato. Propongono quindi che la sismicità superficiale rilevata da InSight si inneschi lungo faglie a bassa profondità dovute alla struttura stessa della crosta, che possibilmente costituiscano la continuazione sotterranea dei fianchi delle fosse, anche perché il segnale sismico non è compatibile con fonti quali frane o altri processi distruttivi o impatti meteoritici
A livello globale marziano, la quantità di momento sismico rilasciato nella regione delle Cerberus Fossae è praticamente la metà di quella globale misurata da Insight, suggerendo che la contrazione termica globale e quindi la compressione litosferica non siano il motore dominante della tettonica contemporanea su Marte.
Inoltre la distribuzione e la natura dei martemoti mostrano come il campo di stress globale non possa spiegare l'origine di Cerberus Fossae, che invece si spiega bene con un meccanismo innescato dalla fusione parziale del mantello marziano al di sotto dell'Elysium Mons: questa indebolisce localmente la crosta e consente l'apertura dei graben.
Un flusso di calore così localizzato nell'Elysium Mons ha ulteriori implicazioni, di tipo geodinamico: esiste una fonte di calore dinamica, come un pennacchio simile ai plumes mantellici terresti? Oppure la fusione parziale risulta da una crosta localmente spessa? La prima ipotesi si adatta meglio alla situazione, perché su Marte la crosta più spessa è quella dell'emisfero meridionale, non di quello settentrionale e aumentare lo spessore con i dati attuali di gravimetria implicherebbe automaticamente una bassa densità crostale in quella zona, difficilmente spiegabile.

Inoltre la presenza di una ristretta zona più calda nel mantello e la sismicità rilevata su Marte da InSight si accordano con uno schema in cui nel sistema solare l’attuale tettonica dei pianeti terrestri più grandi, Marte, Venere e la Terra, è dominata da dinamiche interne, invece che da un raffreddamento e un restringimento puramente passivi, come si riscontra sui più piccoli Luna e Mercurio.

BIBLIOGRAFIA
 
Berman e Hartmann (2002). Recent fluvial, volcanic, and tectonic activity on the Cerberus Plains of Mars. Icarus 159, 1–17

Horvath et al (2021). Evidence for geologically recent explosive volcanism in Elysium Planitia, Mars. Icarus 365, 114499 (2021). 

Stahler et al (2022). Tectonics of Cerberus Fossae unveiled by marsquakes. Nature Astronomy, 6 /12, 1376–1386

Taylor et al (2013). Estimates of seismic activity in the Cerberus Fossae region of Mars. J. Geophys. Res. E Planets 118, 2570–2581