domenica 17 marzo 2024

l’attività vulcanica sulla penisola di Reykjanes dal 2019 ad oggi: panoramica e pericoli associati


E siamo a 4 eruzioni da dicembre scorso più una mancata di poco. La penisola di Reykjanes ci sta abituando in questi ultimi mesi a fasi di deformazione del terreno che precedono brevi episodi eruttivi se non eruzioni annunciate come prossime ma alla fine non avvenute, come nel pomeriggio del 2 marzo, quando il nuovo evento sembrava prossimo, ma poi tutto è rientrato. Comunque il magma ha continuato ad accumularsi sotto Svartsengi e la sera del 16 marzo un annuncio laconico del Servizio meteorologico islandese, competente anche per le questioni geologiche, ha segnalato alle 23.00 italiane circa che una eruzione è iniziata tra Skogfell e Hagafell dopo che alle 14.30 del giorno precedente l’evento era annunciata come prossimo. Faccio quindi un riepilofo della situazione, ricordando che il termine “dicco” e il termine “frattura” dicono più o meno la stessa cosa: il dicco è una lava basaltica che riempie una frattura. La frattura preesistente si può allargare grazie alla pressione del liquido magmatico.
Le prime notizie parlano di una eruzione lineare lungo un segmento lungo quasi 3 km.
Anche se le prime indicazoni parlano di volumi significativi non è detto comunque che il fenomeno continui a lungo.


Vulcani e limiti di placca in Islanda dallo Smithsonian Volcanism Program
PANORAMICA E CONTESTO. L’Islanda è un’area dove la dorsale medio – atlantica affiora in superficie a causa di un eccezionale afflusso di materiale dal mantello sottostante. 
Le dorsali medio - oceaniche costituiscono i limiti di placca divergenti dove si crea nuova crosta oceanica e non sono strutture continue ma vengono suddivise in vari segmenti da faglie perpendicolari ad esse, le cosiddette faglie trasformi. Il tratto in verde che passa per la parte orientale dell’isola rappresenta il limite divergente fra la placca euroasiatica e quella nordamericana, per cui è a tutti gli effetti un tratto emerso dell’asse della dorsale medio – atlantica, ed è contrassegnato da alcuni dei vulcani più importanti dell’isola (Bardarbunga, Katla, Grimsvotn etc etc). Inoltre nella sua parte più meridionale si colloca l’area del Laki, dove sono avvenute le due più grandi eruzioni effusive a livello mondiale dei tempi storici: celebre quella del 1783 (Thordarson et al 2003), di cui mi sono occupato svariate volte, ad esempio qui, ma quella del 934 EV fu anche peggiore (Thordarson et al 2001).
La penisola di Reykjanes rappresenta invece parte di un segmento trasforme trasversale all’andamento della dorsale (in rosso), che congiunge il tratto in terraferma della dorsale con il suo proseguimento a sud dell’Islanda, la dorsale di Reykjanes. Quindi anche nella parte meridionale dell’isola passa il limite fra le due placche: la capitale Reykjavik è nella placca americana, la costa meridionale dell’isola in quella europea.
Anche il tratto trasforme è contraddistinto da una fascia vulcanica a cui appartengono nella sua parte orientale diversi complessi come l’Eyjafjallayokull, l’Hekla; ad ovest nella penisola di Reykjanes non ci sono grandi apparati vulcanici: in genere si tratta di eruzioni lineari che avvengono lungo delle faglie dirette SW – NE molto ben visibili dal satellite a causa della scarsa copertura del suolo. Lungo queste faglie troviamo i principali centri vulcanici e l’attività vulcanica si accompagna alla presenza di numerose aree geotermiche.

l'attività vulcanica dal 2021 (Parks et al, 2024)
LA NUOVA FASE DI ATTIVITÀ VULCANICA NELLA PENISOLA DI REYKJANES. L’area presenta fasi di attività vulcanica molto frequente per alcuni decenni, seguita da un intervallo medio tra le attività eruttive di circa 800-1000 anni. Siccome il precedente periodo di attività eruttiva è durato dal 950 al 1240, una riattivazione dell'attività vulcanica dell’area non è giunta inaspettata, essendo passati giusto poco meno di 800 anni.
I primi sintomi di quello che ormai appare chiaro potrebbe diventare un nuovo ciclo di attività sono iniziati nel dicembre 2019 e finora si sono verificati diverse intrusioni di filoni basaltici, che a parte un paio hanno tutte raggiunto la superficie provocando una eruzione. All’inizio a Fagradalsfjall sono stati rilevati terremoti a una profondità compresa tra 3 e 7 km, mentre il primo chiaro segno dell’arrivo di magma è stato rilevato il 21 gennaio 2020, associato a un forte aumento della sismicità e un primo periodo di sollevamento nell’area di Svartsengi. Questa prima intruzione magmatica però non è riuscito ad arrivare in superficie. Ci ha pensato a Fagradalsfjall un anno dopo una seconda intrusione che ha provocato una eruzione a partire dal 19 marzo 2021, con un chimismo piuttosto interessante (ne ho parlato qui). La deformazione del suolo e la sismicità si annidano generalmente in prossimità delle intrusioni (Sigmundsson et al, 2022). I dati geodetici e la modellizzazione indicano che i cinque episodi di inflazione in quest’area verificatisi tra il 21 gennaio 2020 e il 10 novembre 2023 sono centrate sotto al sistema vulcanico di Svartsengi, ma si estendono anhe su una regione molto ampia, fino all’allineameno dei crateri di Sundhúkur a est e si trova sotto la Laguna Blu e la centrale elettrica di Svartsengi). 
L'attività negli ultimi 3 anni si è spostata tra Svartsengi e Fagradalsfjall. Durante la precedente fase di attività vulcanica sulla penisola, terminata circa 800 anni fa, l'attività ha interessato anche altri sistemi vulcanici vicini. Sebbene le eruzioni vulcaniche degli ultimi anni siano state finora relativamente piccole, l’attività storica suggerisce un potenziale di maggiori volumi di lava negli anni a venire. Ma come disse Niels Bohr è difficile fare previsioni, specialmente per il futuro. Diciamo che in passato è successo così. 

schema della dinamica delle eruzioni nella penisola di Reykjanes
(Parks et al, 2024)

INTERPRETAZIONE DEI DATI E VALUTAZIONE DEL PERICOLO. A Svartsengi durante l’iniezione magmatica del 10 novembre (quella che ha inaugurato la serie di eruzioni attuale), la velocità di picco di afflusso di magma è stata di oltre 7000 m3/s (Sigmundsson et al., 2024), due ordini di grandezza maggiore rispetto ai tassi di afflusso massimi dedotti nei dicchi di Fagradalsfjall. Queste informazioni, combinate con la conferma delle misurazioni geodetiche e dei dati sismici che il magma si era stata effettivamente intruso sotto Grindavík, hanno reso necessaria il 10 novembre 2023 la rapida evacuazione degli abitanti della città. Il 18 dicembre, il dominio magmatico di Svartsengi ha nuovamente raggiunto la pressione critica e questa volta è avvenuta l'eruzione, preceduta appena 90 minuti prima da uno sciame sismico precursore. Il picco di afflusso di magma era di circa 800 m3/s. Eventi simili si sono verificati a gennaio e febbraio 2024: in particolare il dicco superficiale responsabile dell’eruzione del gennaio 2024 si è propagato anche sotto Grindavík; da notare che a proposito dell'eruzione iniziata l’8 febbraio l'allarme alla Protezione Civile é stato lanciato appena 35 minuti prima dell’evento, perché solo in quel momento è iniziato lo sciame sismico precursore. Il preavviso dell’eruzione così breve è dovuto soprattutto alle dimensioni del percorso di deflusso del magma di Svartsengi, molto ampie che consentono quindi una portata molto ampia da una profondità molto ridotta. Anche per l’eruzione del 16 marzo i primi sintomi sismici si sono verificati solo a partire da 40 minuti prima dell'evento.
Uno schema che delinea le fonti che alimentano l'attività più recente e i processi coinvolti è visualizzato qui accanto.
Oltre al livello molto più elevato di afflusso di magma e di velocità di estrusione della lava, l’attività attuale a Svartsengi presenta maggiori rischi di quella di Fagradaslfjall, a causa della presenza di beni antropici importanti come la città di Grindavík, la Laguna Blu, la centrale elettrica di Svartsengi e altre infrastrutture critiche. 
È stato possibile fornire la tempistica degli eventi di gennaio e febbraio 2024 modellando il segnale di nuovo sollevamento e assumendo che il volume perso dal dominio magmatico di Svartsengi durante l'evento precedente debba essere reintegrato prima della nuova intrusione/eruzione. 

la linea rossa indica la frattura da cui sta fuoriuscendo il magma
I PERICOLI ASSOCIATI ALL’ATTIVITÀ VULCANICA. Ce ne sono diversi. Quelli più logici sono colate laviche e fontane di lava che pososno raggiungere altezze di qualche decina di metri. Si possono inoltre registrare cadute di lapilli, ma con lave di questo tipo, molto liquide, non si raggiungono spessori importanti come in vulcani dai magmi più acidi.
Un altro aspetto importante sono le emissioni di gas. Magmi così primitivi, cioè arrivati dal mantello senza un periodo prolungato di residenza nella crosta sono carichi di gas come CO2, SO2, HF e quant’altro. La carestia seguita alla grande eruzione del Laki del 1783 è stata scatenata proprio dai composti derivati dalla ossidazione di questi gas. È assolutamente improbabile che si arrivi a livelli del genere, ma le concentrazioni di gas nell’aria potrebbero essere lo stesso piuttosto elevate, implicando pericoli per la popolazione.
Particolarmente importante è il rischio associato alla aperture di fessure eruttive, che come si vede possono verivficarsi con un preavviso minimo. È quindi importante modellizzare con la massima precisione possibile. A difesa di Grindavik sono stati erette delle dighe di materiale ma in gennaio la lava è sgorgata tra queste e la città. Le fratture comportano anche il rischio di crolli e di sviluppo di doline ed essendo l’area vicina al mare e non elevata c’è un forte rischio che il mare possa inondare qualche zona che si abbassa un po' troppo.
Da ultimo i terremoti, che possono raggiungere M 5: essendo estremamente superficiali comportano un rischio importante per gli edifici e la caduta di massi nei pendii.
C'è poi la possibilità, se l'eruzione continuasse per parecchi giorni (cosa tutt'altro che certa), che la lava arrivi in mare. In questo caso l'interazione tra il magma e l'acqua può provocare la formazione di nebbie contenenti acido solforico ed acido fluoridrico in percentuali basse ma pur sempre potenzialmente dannose per la salute (Kullmann et al (1994)

BIBLIOGRAFIA

Kullmann et al (1994) Characterization of air contaminants formed by the interaction of lava and sea water. Environmental Health Perspectives 102/5, 478-482

Parks et al (2024) Parks et al, 2024 Volcano-tectonic activity on the Reykjanes Peninsula since 2019: Overview and associated hazards. Disponibile a questo link

Sigmundsson et al (2022) Deformation and seismicity decline before the 2021 Fagradalsfjall eruption Nature 609, 523-528

Sigmundsson et al (2024) Fracturing and tectonic stress drive ultrarapid magma flow into dikes. Science 383, 1228-1235

Thordarson et al (2001) New estimates of sulfur degassing and atmospheric mass-loading by the 934 AD Eldgja eruption, Iceland Journal of Volcanology and Geothermal Research 108, 33-54

Thordarson et al (2003) The Laki and Grimsvotn eruptions in 1783 - 1785: a review and a re-assessment J. Geophys. Res. - Atmos. 108 (33 - 54)



mercoledì 13 marzo 2024

Del ciclo del carbonio come driver principale dell’evoluzione di atmosfera, ambiente e temperature nei pianeti interni del sistema solare e delle condizioni "non astronomiche" necessarie per avere la vita in un pianeta extrasolare

Quest’anno l’Associazione Caffè-Scienza Firenze e Prato APS ha deciso di presentare come strenna natalizia un libro “Aspetti poco noti di Astronomia, Astrofisica e Astronautica - Tutto quello che avreste voluto sapere sul cielo ( ma non avete mai osato chiedervelo)". In questo libro abbiamo parlato di tante cose, come da indice che vedete qui accanto. Personalmente io ho parlate dell’influenza del ciclo del Carbonio sulle differenti traiettorie termiche di Venere, Terra e Marte e quindi del fatto che un pianeta extrasolare per ospitare la vita oltre ad essere nella zona "giusta" di un sistema stellare, deve anche avere il giusto termostato del carbonio.  In questo post riassumo quanto ho scritto al proposito.

Il libro è disponibile in PDF a questo link.


4 miliardi di anni fa Venere, Terra e Marte condividevano la presenza di acqua liquida in superficie e una atmosfera formata da almeno il 95% di CO2. Venere e Marte presentano ancora atmosfere dalla composizione simile: quella di Venere è ancora estremamente densa, mentre l’atmosfera marziana è diventata molto tenue e non è ancora chiaro quanto sia stata pesante all’inizio della storia del pianeta. L’atmosfera terrestre attuale è molto diversa, ma chiare prove stratigrafiche e geochimiche indicano che anche questa fosse composta, fino a 2 miliardi e 400 milioni di anni fa, al 95% di CO2, priva di ossigeno, e con una pressione inferiore a quella odierna (Som et al, 2015). 
Il motivo fondamentale di queste storie differenti è la dinamica di un solo elemento, il carbonio. Solo il giusto mix fra carbonio atmosferico e insolazione è in grado di mantenere queste condizioni ideali: troppo carbonio nell'atmosfera può rendere il pianeta troppo caldo per poter avere acqua liquida sulla sua superficie, come troppo poco carbonio può rendere il pianeta una palla di ghiaccio. Per mantenere la temperatura in un range adatto occorre quindi che il termostato del carbonio funzioni nella maniera giusta, togliendone l’eccesso e integrandolo se è in difetto. Nel caso del sistema solare questi due fattori si sono appunto combinati per disegnare traiettorie climatiche molto diverse nel tempo fra i tre pianeti.

VENERE E IL SUO GIGANTESCO EFFETTO SERRA. Venere oggi è un pianeta estremamente caldo e secco e non è chiaro per quanto tempo abbia ospitato acqua liquida sulla superficie, a causa del suo ambiente ostile, un ostacolo quasi insuperabile per le osservazioni dirette: temperature maggiori di 460 °C, e una pressione di 92 bar, come nei mari terrestri ad oltre 900 metri di profondità; le poche missioni, tutte dell'era sovietica, che hanno raggiunto la superficie di Venere sono sopravvissute solo pochi minuti al caldo e all’atmosfera acida ma prima di andare fuori uso sono riuscite comunque a scattare ed inviare a Terra alcune foto che rivelarono una superficie rocciosa arida e senza vita. Ci sono varie evidenze indicanti una perdita di acqua superficiale relativamente precoce, prima di 3 miliardi di anni fa. Poi, a causa dell’aumento dell’irraggimento solare, la temperatura e il vento solare hanno avuto effetti devastanti, perché sono mancati i processi in grado di asportare il CO2 dall’atmosfera, come invece è successo sulla Terra. Inoltre è diminuita l’attività tettonica e di conseguenza è crollato il campo magnetico. Tutto questo ha letteralmente spazzato via dall’atmosfera l’acqua: man mano che il vapore acqueo veniva perso verso lo spazio, più acqua evaporava dagli oceani venusiani per sostituirlo, solo per essere nuovamente portata via dai venti solari (Ingersoll, 1969). Alla fine, continuando questo processo, il pianeta ha perso gli oceani e la loro capacità di sequestrare CO2 atmosferico. Quando è stato raggiunto il punto di non ritorno Venere è diventato il pianeta caldo, secco e senza vita che vediamo oggi.

una delle poche immagini che ha scattato una delle sonde sovietiche Venera nel 1975 prima di smettere di funzionare
e una foto panoramica di Marte riprersa dal rover americano Perseverance

PER QUANTO MARTE È STATO UN PIANETA UMIDO? I satelliti hanno osservato ghiaccio nelle zone polari e aree le cui caratteristiche lasciano presagire la presenza nei primi strati del terreno di acqua, che occasionalmente risale in superficie. Purtroppo se il ghiaccio si scoglie l’acqua non può restare a lungo liquida a causa dell'atmosfera secca e sottile e quindi passa direttamente dallo stato solido a quello gassoso. Alcune tracce di flussi liquidi stagionali come quelle osservate nel 2019 potrebbero essere invece dovute a delle brine salate (Chevrier e Rivera-Valentin, 2012). La presenza nel sottosuolo di falde acquifere salmastre è stata certificata dai dati presentati da Orosei et al (2019), ma sulla superficie marziana di acqua oggi ce n’è davvero poca
Le prove sulla sua presenza nel passato sono invece ampie e circostanziate, suggerendo che un tempo l’atmosfera marziana fosse molto più densa di quanto lo sia oggi, anche se per qualcuno gli episodi umidi potrebbero essere avvenuti solo durante eventi di forte degassamento vulcanico (Scherf et al 2021), sul tipo delle Grandi Province Magmatiche terrestri (immensi volumi di magmi, dell’ordine delle centinaia di migliaia – se non milioni – di km cubi, eruttati in poche migliaia di anni e che nell’immediato hanno sempre innalzato, e non di poco, il tenore di CO2 dell’atmosfera terrestre). In queste condizioni il CO2 emesso dal vulcanismo sarebbe stato sufficiente per fornire la pressione – e con l’effetto-serra la temperatura – per consentire una temporanea presenza di acqua liquida, ma poi la fuga del CO2 nello spazio e il suo sequestro nel terreno avrebbero ripristinato rapidamente le condizioni preesistenti. 
Se ne stima comunque per il Noachiano (4.1 ÷ 3.5 miliardi di anni fa) quando le acque potevano coprire circa il 20% della superficie ma con profondtà non particolarmente elevate, un quantitativo almeno 6,5 volte superiore a quello odierno (Jakosky et al 2015). 
Durante l’Esperiano (il periodo della storia marziana compreso fra 3.5 e 3.0 miliardi di anni fa) sono esistiti gli ultimi grandi corpi liquidi superficiali in alcuni dei grandi crateri da impatto nella regione equatoriale, ma la quantità di acqua era rapidamente scesa a 2 volte quella presente oggi. 
3 miliardi di anni fa inizia l’Amazzoniano, che arriva fino ai nostri tempi e nel quale l’acqua ha continuato a diminuire, probabilmente in modo continuo.
Il rover Curiosity ha trovato e campionato nel cratere Gale strati di sedimenti, confermando la presenza di minerali argillosi che si formano solo in presenza di acqua liquida. Si deve anche notare come le immagini scattate dal rover siano praticamente indistinguibili da quelle scattate in qualche ambiente terrestre ora arido e privo di vegetali, ma un tempo molto umido. Curiosity ha anche portato alla luce prove di massicci eventi di inondazioni, forse il risultato di impatti meteoritici o cometari su una superficie all’epoca per lo più ghiacciata che hanno rilasciato calore e innescato un rapido scioglimento del ghiaccio superficiale (Rickman et al., 2019).

MA PERCHÈ MARTE HA PERSO QUASI TUTTA LA SUA ACQUA, ALMENO QUELLA SUPERFICIALE? È probabile che all’inizio della sua storia Marte avesse una attività tettonica sufficiente per rifornire di CO2 l’atmosfera attraverso il vulcanismo e assicurare con il suo campo magnetico protezione dal vento solare e dalla radiazione ultravioletta. Però, a causa delle ridotte dimensioni del pianeta, questa attività tettonica si è attenuata molto presto, indebolendo il campo magnetico, in un contesto nel quale la diminuzione dell’attività vulcanica non riusciva a fornirne un quantitativo pari a quello sfuggito nello spazio a causa della bassa gravità e del vento solare. La diminuzione del CO2 atmosferico indebolì a sua volta l’effetto – serra, raffreddando ulteriormente la superficie del pianeta

l'evoluzione delle temperature in una Terra con la nostra atmosfera
e senza atmosfera: si nota come l'effetto serra sia stato determinante
per conservare acqua liquida nel passato più profondo
(Sagan e Mullen, 1972)
LA TERRA: IL PIANETA AZZURRO E IL SUO CICLO DEL CARBONIO. Nella storia del nostro pianeta le temperature hanno consentito la presenza di acqua liquida sulla sua superficie tranne che durante i cosiddetti episodi di “Terra Palla di neve” (Snownball Earth), quando tutta la superficie del pianeta, mari compresi, era quasi totalmente ghiacciata. I parametri orbitali, la copertura nuvolosa, la posizione dei continenti e la rete delle correnti marine hanno una influenza nel determinare le temperature globali, ma il carbonio è il più importante sistema di regolazione delle temperature insieme all’irraggiamento solare. 
Nel 1972 Sagan e Mullen evidenziarono come con l'atmosfera attuale a causa della radiazione stellare più debole, la Terra sarebbe rimasta irrimediabilmente ricoperta dai ghiacci fino a circa 1,5 miliardi di anni fa. È il cosiddetto “paradosso del Sole debole” (Sagan e Mullen, 1972). Solo un’atmosfera caratterizzata da un alto contenuto di gas serra (oltre il 95% di CO2) avrebbe consentito la presenza di acqua liquida sulla Terra in questo primo periodo.
Ma dove è finito tutto quel CO2? È forse volato via nello spazio? No, perché gravità e campo magnetico terrestre ne hanno impedito la fuga a causa del vento solare. In realtà il basso tenore atmosferico attuale (< 0,05%) dimostra che il “Sistema-Terra” richiede più CO2 di quello che viene continuamente emesso in atmosfera dalla attività vulcanica. 

MECCANISMI TERRESTRI DI SEQUESTRO DEL CO2 EMESSO DAI VULCANI. Il primo meccanismo di sequestro del CO2 da parte del Sistema – Terra è stato l’assorbimento da parte degli oceani, sia nelle acque che nei sedimenti
L’avvento della tettonica a placche ne fece nascere di nuovi: lungo le dorsali oceaniche si crea nuova crosta sulla quale si depositano sempre nuovi sedimenti nei quali viene sequestrato ulteriore CO2, mentre dove le placche convergono la vecchia crosta oceanica si immerge nel mantello con i sedimenti e il loro carico di CO2, di cui in seguito risale in superficie solo soltanto quella parte che viene coinvolta nella formazione e nella risalita di magmi mantellici (Chen et al, 2023). Inoltre la tettonica a placche ha prodotto magmi con tenore di silicio maggiore di quelli precedentemente diffusi e che richiedono molta più CO2 per la loro alterazione e ha formato le piattaforme continentali, in cui si depositano sedimenti carbonatici che contengono abbondante CO2.
Anche l’evoluzione della vita ha dato il suo contributo fondamentale, perché la materia organica sequestra CO2. La vita sulla Terra è iniziata almeno 3.8 miliardi di anni fa in condizioni anossiche, quando gli organismi metabolizzavano zolfo ed emettevano metano, stabile nell’atmosfera riducente dell’epoca e in qualche modo provvidenziale, perché contribuva all’effetto-serra che mantenne acqua liquida sulla Terra durante quel periodo in cui il Sole era debole, ma la comparsa della fotosintesi clorofilliana, collocabile fra 2.8 e 2.7 miliardi di anni fa ha introdotto un nuovo, formidabile, processo di sequestro del CO2 atmosferico.

2,4 MILIARDI DI ANNI FA: L'ATMOSFERA TERRESTRE DIVENTA OSSIDANTE. Con tutti questi processi la richiesta di CO2 da parte del sistema – Terra ha superato il quantitativo del composto immesso ogni anno dai vulcani. All’inizio l’ossigeno prodotto dalla fotosintesi non rimaneva nell’atmosfera, che era ancora riducente e lo richiedeva per l’ossidazione della superficie, ma in un tempo inferiore ai 400 milioni di anni la superficie ormai ossidata non ne richiedeva più. Di conseguenza la fotosintesi ha prodotto più ossigeno di quello richiesto, in un regime di consumo di CO2 maggiore rispetto agli apporti e l’atmosfera è così diventata ossidante, come parte delle acque oceaniche: è il Grande Evento Ossidativo di 2.4 miliardi di anni fa (ne ho parlato qui).
Dal punto di vista climatico la diminuzione del tenore di CO2 e la scomparsa del metano (che nelle nuove condizioni ossidanti non poteva certo rimanere stabile), hanno portato ad una drastica diminuzione dell’effetto serra, e la Terra fu interessata per diverse centinaia di milioni di anni da una glaciazione globale, la glaciazione huroniana, che si interruppe solo quando il Sole un po' più energetico e un aumento del CO2 atmosferico riportarono un po' di calore.
Anche la seconda diminuzione del CO2 atmosferico, avvenuta circa 700 milioni di anni fa, è stata accompagnata da due glaciazioni globali lunghe poche decine di milioni di anni ciascuna (gli episodi di Terra palla di neve dello Sturtiano e del Marinoano), durante un periodo significativamente noto come Criogeniano
In seguito l’influenza della biosfera era aumentata: in genere alla morte un corpo viene distrutto, ossidandosi, oppure viene mangiato, ma in alcuni casi i corpi vengono seppelliti: succede sulla terraferma originando torbe, carboni e idrocarburi oppure sul fondo di bacini marini chiusi dove non c’è ossigeno, formando i depositi all’origine di importanti giacimenti di petrolio e gas.
Ed è questo il carbonio che noi ora stiamo tragicamente reimmettendo in atmosfera.

Una storia sommaria del tenore atmosferico di CO2 
dal Devonianio ad oggi
UNA ATMOSFERA IN CUI IL TENORE DI CO2 TENDE A DIMINUIRE. La tendenza generale di diminuzione del tenore atmosferico di CO2 viene bruscamente interrotta solo quando si mettono in posto le Large Igneous Provinces (Grandi Province Magmatiche, da qui in poi indicato con l’acronimo LIP): immense eruzioni basaltiche che in poche migliaia di anni eruttano centinaia di migliaia di chilometri cubi di lave ed emettono incredibili quantità di CO2, il cui tenore atmosferico si innalza bruscamente generando un aumento delle temperature e delle estinzioni di massa.
La conclusione fondamentale è che il termostato del carbonio della Terra ha funzionato efficacemente per miliardi di anni e che i fattori di compensazione continuano ancora oggi ad apportare al sistema-Terra il giusto mix fra radiazione solare e capacità – serra dell’atmosfera, anche se fra qualche centinaio di milioni di anni l’aumento della radiazione solare provocherà anche sulla Terra l’evaporazione degli oceani e un ambiente simile a quello attuale di Venere.

CONSEGUENZE PER LA VITA NEI PIANETI EXTRASOLARI. Con il termine “Zona Goldilocks” gli astrobiologi individuano la fascia intorno ad una stella nella quale è possibile sulla superficie di un eventuale pianeta la presenza di acqua liquida, considerata generalmente la conditio sine qua non per la vita. 
La Zona Goldilock varia in base all’energia emessa dalla stella, ma l’appartenenza alla Zona Goldilocks è una condizione necessaria ma non sufficiente perché:
  1. noi vediamo quel determinato sistema stellare in questo momento, ma come succede per il Sole e per le altre stelle della sequenza principale la zona Goldlock può variare durante la storia del sistema stellare: agli albori della storia del sistema solare la nostra stella era più fioca ed emetteva circa il 25% in meno di energia termica di oggi e in futuro ne emetterà molta di più 
  2. in base alla composizione l’atmosfera di un pianeta può essere più o meno in grado di intrappolare il calore
Da tutto questo discende un appunto fondamentale per la ricerca della vita su altri mondi: non bastano la posizione all’interno della Zona Goldilocks, una atmosfera “interessante” e la presenza di una serie di elementi chimici. Ma per lo sviluppo della vita occorre un termostato a carbonio capace di mantenere temperature adatte alla presenza di acqua liquida per un tempo sufficientemente lungo. 


BIBLIOGRAFIA


Chen et al. (2023). Carbonate-rich crust subduction drives the deep carbon and chlorine cycles. Nature 620, 576–581 (2023)

Chevrier e Rivera-Valentin (2012). Formation of recurring slope lineae by liquid brines on present-day Mars. Geophysical Research Letters, Vol. 39, L21202

Ingersoll (1969) the runaway greenhouse: a history of water on Venus. Journal of Atmospheric Sciences, vol. 26, Issue 6, pp.1191-1198

Jakosky et al (2015). The Mars Atmosphere and Volatile Evolution (MAVEN) Mission. Space Sci Rev195, 3–48 

Orosei et al (2018). Radar evidence of subglacial liquid water on Mars. Science 
361, 490-493

Rickman et al (2019). Water in the history of Mars: An assessment. Planetary and Space Science 166, 70-89

Sagan e Mullen (1972). Earth and Mars: Evolution of Atmospheres and Surface Temperatures. Science 177, 52-56

Scherf et al (2021). Did Mars Possess a Dense Atmosphere During the First ∼400Million Years? Space Sci Rev 217, 2 

Som et al (2015). Earth’s air pressure 2.7 billion years ago constrained to less than half of modern levels. Nature Geoscience 9 (6)