mercoledì 26 maggio 2010

Le dispute per l'acqua: 2. il Nilo

Lungo oltre 6500 kilometri, il Nilo nasce dalla confluenza fra il Nilo Bianco, proveniente dagli altipiani etiopici e il Nilo Azzurro, l'emissario del Lago Vittoria. Dalla regione dei grandi laghi africani al Mediterraneo attraversa molte nazioni ed è uno dei fiumi più carichi di storia. Le sue acque hanno fatto la fortuna e la sfortuna degli antichi Egizi e dei loro faraoni: con le sue alluvioni copriva il terreno di fertile limo, oltre a fornire l'acqua necessaria all'agricoltura. Molte fasi turbolente della storia dell'antico Egitto sono state recentemente correlate a fasi di instabilità climatica in cui il Nilo non faceva il suo “dovere”.

160 milioni di persone in 10 nazioni dipendono dalle acque del Nilo e dei suoi affluenti, quantità di cui ci si aspetta nei prossimi 25 anni un raddoppio. E oltre all'uso potabile ed irriguo, anche le prospettive di sviluppo industriale faranno aumentare il valore del prelievo idrico pro-capite.
Le ripercussioni sull'ambiente, persino sulla vita nel Mediterraneo, di un uso eccessivo delle risorse idriche potrebbero essere gravissime in un ecosistema che con la costruzione della diga di Assuan ha già subìto gravi danni, a partire dall'impoverimento dei suoli non più alluvionati agli squilibri nel delta, e una serie di altri inconvenienti, fra cui persino una variazione delle correnti marine (me lo ricordo bene perchè ne discussi nel corso di un esame di Geologia nel 1984 in cui dall'altra parte del tavolo avevo il compianto prof. Passerini).

Nel 1929 fu siglato il “Nile Water agreement”. Siamo in piena epoca coloniale. Oltre ad aver riservato alla grande nazione nordafricana un grande quantitativo di acque, l'accordo dava all'Egitto il diritto di veto su qualsiasi opera riguardasse lo sfruttamento del fiume, Questa intesa fu aggiornata nei quantitativi nel 1959.

Il problema fondamentale è che, esercitando il suo diritto di veto, l'Egitto si è sempre opposto a qualsiasi opera riguardasse il corso del Nilo nelle nazioni a monte, in particolare ad opere di deviazioni a scopi irrigui.
Adesso gli stati dell'Africa orientale sono arrivati alla conclusione che tale diritto è anacronistico e innaturale. Rappresentando anche la voce degli altri Paesi interessati, il primo ministro etiopico Meles Zenawi ha da poco notato come “in Egitto c'è chi continua ad avere idee fuori moda secondo le quali l'acqua del Nilo appartiene all'Egitto”; ma adesso “le circostanze storiche sono cambiate” e quindi il governo del Cairo deve capire che “non può tentare di fermare processi che non possono più essere fermati”, augurandosi “uno sforzo diplomatico” per sistemare la questione.

Lo sforzo però o non c'è stato o è stato vano: il 14 maggio a Entebbe, quattro di queste nazioni (Ruanda, Etiopia, Uganda e Tanzania) hanno stretto un accordo per lo sfruttamento e la condivisione dell'acqua del Nilo a scopi potabili, irrigui e per la produzione di energia elettrica. A questi paesi il Kenya (nazione periodicamente colpita da gravi siccità) ha dato pubblicamente il suo sostegno: già nel 2004 Nairobi aveva giudicato palesemente inadeguato il trattato del 1929. Secondo questo accordo, il potere di regolazione, formalmente adesso sempre in mano all'Egitto, andrebbe ad un organismo sovranazionale, la Nile Basin Commission, con sede ad Addis-Abeba, una trasformazione della attuale “Nile Basin Initiative

All'organismo attuale aderiscono Repubblica del Congo, Ruanda, Uganda, Burundi, Kenya, Tanzania, Etiopia, Sudan ed Egitto, mentre l'Eritrea ha solo lo status di osservatore. Nell'organismo futuro l'Egitto però perderebbe il diritto di veto, mantenendo comunque la facoltà di esprimere un parere autorevole, sia pure consultivo, visto che conta quasi la metà degli abitanti del bacino. Un contentino che non piace sicuramente al governo del Cairo.
La Nile Basin Initiative ufficialmente sta cercando uno sviluppo sostenibile per un'area caratterizzata da sete e povertà. Alcune ONG comunque lo contestano perchè i suoi progetti avrebbero un approccio molto dirigistico e non terrebbero molto in considerazione le reali esigenze delle popolazioni.
L'accordo di Entebbe sancisce il fallimento dei negoziati fra i paesi dell'Alto Nilo e quelli a valle

Sudan ed Egitto, che dipendono quasi esclusivamente dal Nilo quanto a risorse idriche, sono molto preoccupati, un po' perchè fino ad oggi hanno fatto la parte del leone quanto a sfruttamento del fiume, un po' perchè è chiaro ed evidente che il coltello dalla parte del manico ce l'hanno le nazioni che stanno a monte (di cui in questo caso alcune sono veramente assetate). L'Egitto, in cui la stragrande maggioranza degli abitanti vive in una ristretta fascia lungo il fiume, dipende dal Nilo in parte anche per l'energia elettrica, prodotta per oltre il 10% dagli impianti della diga di Assuan. Inoltre, se per adesso al Paese delle piramidi bastano 55 miliardi di metri cubi di acqua all'anno sugli 86 che passano, le previsioni parlano di un forte aumento di questo quantitativo (informazioni ottenute dal sito www.terradaily.com). 

In pratica potrebbero saltare i piani di sviluppo e di controllo delle risorse perchè c'è la fondata paura che i Paesi a monte deviino molta acqua per usi irrigui, al momento che l'Egitto non possa più disporre a piacimento della risorsa. Inoltre ci potrebbero essere delle ricadute negative sulla stessa qualità delle acque nel caso di una forte diminuzione della portata dovuta ai prelievi a monte e, nel caso di uno sviluppo industriale, anche a causa del possibile inquinamento. E' necessario inoltre mantenere la portata entro certi limiti minimi: dovesse diminuire eccessivamente non solo si abbasserebbero le falde acquifere nelle sue vicinanze, ma in tutta la zona del delta, già alle prese con fenomeni di subsidenza, si faciliterebbe la risalita delle falde contenti acqua marina, con esiti disastrosi per l'agricoltura.
In Egitto oltre al governo anche la popolazione è spaventata e c'è il timore di rigurgiti nazionalisti: l'accordo di Entebbe è visto quasi come una sentenza di morte per gli Egiziani, che continuano invece a considerare la propria terra un regalo del fiume. Ci sono anche delle critiche al governo, che negli ultimi decenni avrebbe avuto più una dimensione medioorientale anziché africana. Dal Sudan invece trapelano poche notizie.
D'altra parte mettiamoci nei panni di chi ha sete o deve irrigare i campi e ha davanti a se acqua che non può toccare.

Però nelle nazioni a monte questo potere dell'Egitto è ovviamente molto malvisto: i parlamentari ugandesi, per esempio, si chiedono perchè l'Egitto possa svilupparsi usando l'acqua del Nilo e loro no, chiedendo per questo, almeno, un rimborso in termini monetari. E che nei Paesi dell'Alto Nilo ci siano già dei progetti in corso non è un segreto: ad esempio la Tanzania ha in progetto un acquedotto che preleverebbe l'acqua dal lago Vittoria e anche se, ufficialmente, dichiara solo scopi domestici e per l'abbeveramento degli animali, c'è chi teme che le acque di fatto verranno impiegate anche per uso irriguo. Bisogna poi considerare l'eventualità che questi paesi costruiscano acquedotti per servire altri abitanti di quelle nazioni che abitano zone con grosse difficoltà nel reperimento di acqua ma esterne al bacino idrografico del Nilo:  il numero di queste persone è ragguardevole questo costituirebbe effettivamente un problema per le zone a valle,

Se gli stati dell'Africa orientale sfruttassero troppo la risorsa – Nilo provocando problemi a valle, ci sarebbero sicuramente venti di guerra nella regione, come già prospettato pochi anni fa da alcune autorità egiziane.
L'Unione Europea sta tentando una difficile (ma necessaria) mediazione. Purtroppo la situazione è complicata e alle motivazioni tecniche si sommano motivazioni politiche, compreso l'orgoglio di chi “non può” fare un passo indietro.
Comunque in questi giorni c'è un intenso via vai diplomatico ma chiaramente è richiesta agli egiziani una maggiore flessibilità sul problema ed è opinione comune che non possano resistere a lungo con la questione dei “diritti storici”. Il Kenya, che non ha firmato l'accordo, sta rispondendo agli inviti della UE, profilandosi come il negoziatore principale interno tra le due posizioni: il suo primo ministro Raila Odinga è appena stato al Cairo dove ha usato toni concilianti.

martedì 25 maggio 2010

Uno sguardo ai cetacei del Mediterraneo e in particolare all'Italia

Ormai non passa anno senza che nel Mediterraneo avvengano avvistamenti di cetacei poco comuni o generalmente non presenti nei nostri mari. L'anno scorso una megattera ha psasseggiato per l'adriatico mentre pochi giorni fa è stata avvistata a largo di Isralele una Balena Grigia, Fatto abbastanza clamoroso questo perchè le balene grigie scomparvero dalle acque atlantiche, decimate dalla caccia, già nel XVIII secolo: vedere quindi un esemplare nel Mediterraneo potrebbe essere il segno che dopo oltre 250 anni una popolazione di balene grigie dal Pacifico è tornata a vivere nell'Atlantico. Sono buone notizie perchè essendo sotanzialmente il Mediterraneo privo di sbocchi vuol dire che la qualità delle acque è migliorata sia dal punto di vista chimico che da quello biologico.

Venendo ai mari italiani, non tutti sanno che il Mar Ligure e le zone adiacenti sono state riconosciute come facenti parte del santuario dei cetacei. Istituito ufficialmente nel 1999 comprende tutte le acque comprese tra Tolone (costa francese), Capo Falcone (Sardegna occidentale), Capo Ferro (Sardegna orientale) e Fosso Chiarone (Toscana).
E' un'area molto delicata per il traffico navale, visto che come si può vedere vi sono compresi porti del calibro di Genova, Savona, La Spezia e Livorno e la presenza di tanti cetacei impone una certa attenzione agli equipaggi delle numerose navi che solcano queste acque.

L'Accademia del Leviatano ha una attività piuttosto singolare: tra maggio a fine settembre i suoi ricercatori effettuano un monitoraggio dei cetacei osservando il mare dai traghetti in servizio commerciale tra Liguria, Toscana, Lazio, Sardegna e Corsica per avvistare i cetacei, registrando tutti i dati ambientali e le diverse specie incontrate.
Dato che i monitoraggi sono iniziati alla fine degli anni '80 si può quindi ricostruire un quadro attendibile delle variazioni delle diverse specie di cetacei in termini di presenza, abbondanza e distribuzione. Queste variazioni vengono poi correlate a fattori naturali ed antropici.
Le attività vedono l'Accademia del Leviatano partner di istituti di ricerca italiani ed esteri sotto l'egida dell'ISPRA.
I risultati del confronto di lungo termine sono estremamente incoraggianti per la Balenottera di cui sembra accertato un forte aumento nel numero degli esemplari. Sembra che i centri di massima concentrazione di balenottera siano nel Golfo del Leone e in una zona a largo della Sardegna, mentre nel resto dell'area non sembra esserci un gran numero di esemplari. La concentrazione a largo della Sardegna impone una riflessione perchè siamo fuori dalla zona dichiarata Santuario dei cetacei, e quindi priva di strumenti di protezione. Inoltre all'aumentare del numero degli animali corrisponde una loro concentrazione maggiore verso l'isola rispetto agli anni '90

Nella campagna 2009 sono avvenuti 172 avvistamenti che hanno coinvolto oltre 500 animali. Per ben 78 volte sono state avvistate delle balenottere. Non sono stati avvistati capodogli, che invece sono comuni un po' più a sud, davanti a Napoli e nel canale di Sicilia
Una precisazione piuttosto importante è che la maggior parte degli avvistamenti sono avvenuti quando c'era poco traffico navale, segno che il passaggio frequente di imbarcazioni disturba i cetacei che nel caso preferiscono immergersi.

Più a sud un'altra base di studio dei cetacei è Ischia, dove l'associazione “Delphis” studia soprattutto Capodogli, e delfini (le acque dell'isola davanti a Napoli ospitano l'ultima colonia italiana di delfino comune). Le ricerche vengono effettuate soprattutto nella zona del canyon sottomarino di Cuma. Delphis è una associazione ben strutturata che lavora con due imbarcazioni proprie e per finanziarsi ospita settimanalmente a bordo delle sue imbarcazioni appassionati che vivono in tutto la vita di bordo sia dal punto di vista marinaresco che da quello scientifico.
Questa associazione ha all'attivo anche il salvataggio di alcuni capodogli che erano rimasti impigliati in spatare, le reti da posta alla deriva ed è una di quelle  che più si batte contro questa pratica illegale ma purtroppo comune. Sono reti lunghe chilometri e che causano la morte per annegamento di cetacei, tartarughe, e uccelli e il loro sito ci informa che proprio pochi mesi fa l'Italia è stata condannata per il mancato controllo di questo micidiale sistema di pesca. Pensate che non solo è una pratica purtroppo comune (addirittura nel 1994 Adriana Poli Bortone, all'epoca ministro competente, propose di poterle allungare a 10 km...) ma che fino al 2008 a chi veniva sorpreso ad usarle veniva poi lasciata la custodia dell'oggetto né era vietato averle a bordo (bastava forse impegnarsi a non usarle?????)
In numerose ispezioni condotte la Commissione Europea ha accertato che nessuno aveva mai praticamente sanzionato il loro uso e che sono state reintrodotte semplicemente cambiandone il nome in “ferretare”

Due appunti finali: il primo è che appena riprenderà la stagione della sorveglianza sul traghetto il blog “le ricerca del leviatano” darà le puntuali  informazioni sugli avvistamenti e contiamo anche su buone notizie da Ischia.

La seconda è che per fare whale-watching non occorre andare in Australia: basta appunto recarsi a Savona o ad Ischia....

venerdì 21 maggio 2010

Letto e consigliato: "I re del Sole" di Stuart Clark (di quello che succederà nel 2012 e della storia dell'astronomia solare con un piccolo appunto finale sui cambiamenti climatici)


Se volete sapere davvero cosa ci aspetta tra il 2012 e il 2013 dovreste leggere “I re del sole” di Stuart Clark, uscito con “Le Scienze” del febbraio 2010 ma disponibile anche nella versione originale italiana pubblicata da Einaudi a 25 euro.
Sarebbe un investimento ben speso per chi è interessato all'argomento e oltretutto dare di imbecilli ai profeti di sventure.

Il libro prima di tutto è una storia delle ricerche sul Sole, da quando, partendo da William Herschel, suo figlio John e Richard Carrington per arrivare a George Airy ed Edward Walter Maunder (giustificandomi per l'impossibilità di elencare tutti quelli scienziati di cui Clark parla più o meno diffusamente) l'astronomia da semplice ausilio per la navigazione è diventata una scienza a sé stante.
Scritto in maniera molto appassionante è proprio un vero racconto di quello che si svolse, comprese alcune turbolente riunioni delle società scientifiche londinesi.
Diciamo che dopo averlo letto chiunque può dire di conoscere a grandi linee questi fatti.

Ma leggere il libro di Clark è anche molto utile per smentire i catastrofisti di ogni ordine e grado: con la cronaca degli eventi del 1857 e del 2003, quando fortissime tempeste magnetiche investirono la Terra, l'autore ci spiega quali davvero possano essere i pericoli per il nostro pianeta (e, soprattutto, per la nostra ipertecnologizzata umanità) nascosti nel prossimo massimo solare.
Un appunto è d'obligo: quando il libro è stato scritto si temeva un massimo solare molto forte, ma le ultime ricerche tendono a ridimensionare l'allarme.

Clark inizia descrivendo introducendola come leit-motiv del libro, la vicenda dei brillamenti solari e delle tempeste magnetiche che avvennero nell'ottobre – novembre 2003 e le collega a quella che è stata la tempesta magnetica avvertita maggiormente sulla Terra, quella scatenatasi tra la fine di Agosto e i primi di Settembre del 1859, commentando adeguatamente una serie di fenomeni che le hanno accompagnate mentre racconta il modo con cui, dopo un lungo cammino di osservazioni e teorizzazioni, è stato riconosciuto il legame fra macchie solari, brillamenti e tempeste magnetiche.

L'unico appunto che mi sento di fare a Stuart Clark e a “i re del Sole” è un finale un po' frettoloso in cui si accenna un po' vagamente alle connessioni fra la nostra stella e il clima terrestre, a partire dalla piccola era glaciale (e al “minimo di Maunder”) fino alle oscillazioni nelle precipitazioni connesse al ciclo solare.  In sostanza in un periodo di forte attività solare il Sole diminuisce molto la distribuzione dei raggi cosmici: secondo una ipotesi lanciata dai danesi Svensmark e Friis-Christensen nel 1997 maggiore è la quantità di raggi cosmici, maggiori sono le probabilità che si formino nuvole.
Quindi i massimi di attività solare corrispondono a periodi più caldi perchè durante questi periodi il sole, con le sue potenti emissioni elettromagnetiche che seguono i brillamenti, fa da scudo alla Terra nei confronti dei raggi cosmici.

Per cui, e le ricerche tendono a confermarlo misurando la concentrazione del Berillio-10 (che si forma per l'effetto dei raggi cosmici), la piccola era glaciale corrisponde ad un minimo dell'attività solare in cui i raggi cosmici potettero colpire bene il nostro pianeta, provocando un raffreddamento semplicemente con l'aumento della copertura nuvolosa.

Allo stesso modo, pure l'optimum climatico medievale sembra connesso a un ciclo di grande attività del sole
Questo spiega molto bene anche le oscillazioni del prezzo del grano che John Herschel attribuì all'alternanza dei cicli solari (il grano costava meno perchè più abbondante durante un massimo solare)

Voglio comunque riprendere a questo proposito una importante frase del libro a proposito dei cambiamenti climatici: premettendo che “dato che l'intensità della radiazione solare sarebbe più che raddoppiata dal 1901, la più intensa attività elettromagnetica del Sole ha deviato una grande quantità di raggi cosmici” e quindi “si sono formate meno nuvole e il pianeta è diventato più caldo”, nota come “alcuni ritengono che questo argomento fornisca una prova più che convincente del fatto che il riscaldamento globale sia provocato dalla attuale attività del Sole”, mentre “altri sostengono che, mentre il Sole ha effettivamente esercitato un effetto sul fenomeno, questo effetto è stato superato, come importanza, dall'inquinamento dovuto all'uomo”.

Dopodichè, in un capolavoro di obbiettività, conclude osservando che “sfortunatamente le acque sono rese torbide dal peso politico che spesso viene dato alle interpretazioni delle ricerche sul clima. Non pochi industriali e vari governi si appropriano di qualsiasi accenno (sic) ad un riscaldamento imputato a cause naturali per evitare i controlli sull'inquinamento. Sull'altro fronte i gruppi ambientalisti sembrano talvolta essere contrari, quasi per coerenza filosofica, ad ammettere anche il più piccolo effetto del Sole sulle condizioni climatiche”.

Non ho mai letto una frase più deideologizzata di questa conclusione. Ed è sostanzialmente quello che penso anche io, come avevo sottolineato in uno dei primissimi post che ho scritto su Scienzeedintorni, 3 anni e mezzo fa: La disputa sui cambiamenti climatici era basata su un metodo assurdo: si voleva partire dal risultato e trovare le osservazioni che lo giustificassero. Mi spiego: a grandi linee c'erano due schieramenti: uno “pro-ambiente”, che partendo dall'assunto che le attività umane modificano il clima, cercavano dei dati per dimostrarlo. Il secondo, che definirei “pro-multinazionali”, cercava di dimostrare il contrario. Questo metodo è sbagliato: scientificamente devo osservare un fenomeno e capire come funziona, non pensare una cosa e arrampicarmi sugli specchi per trovare i dati che mi fanno comodo, scartando ovviamente gli altri.

mercoledì 19 maggio 2010

Eyjafjallajokull: nessun problema climatico, i possibili scenari futuri e le conseguenze sul traffico aereo

Sull'eruzione dell'Eyjafjallajokull continuo a sentirne di cotte e di crude.
Rimando di nuovo al simpatico e riuscito post su glaciology in cui David Bressan ha elencato alcune delle più colossali idiozie sull'argomento, a partire dalle macchie solari (come se fosse l'unico vulcano che si è svegliato nel periodo e come se non succedesse tutte le settimane che qualche vulcano lanci in aria un po' di roba.....).

Cominciamo dal clima, visto che sicuramente ne sentiremo delle belle per un bel pezzo da parte dei soliti (dis)informati: è innegabile che nella storia anche recente ci siano stati dei raffreddamenti che sono durati da pochi mesi a diversi anni a causa delle ceneri immesse in atmosfera per l'esplosione di un vulcano (es. Tambora o Krakatoa nel XIX secolo o al limite Pinatubo nel 1991). In casi del genere basta un giorno per avere guai per mesi se non anni, come per esempio quando esplose il Toba 75.000 anni fa.
Come ho già sottolineato, fra i vulcani islandesi il Laki e l'Hekla si sono distinti per aver provocato dei grossi problemi climatici in Europa.
Bjoern Oddsson, vulcanologo islandese, dichiara che questa è la peggiore eruzione da quella del Katla nel 1918, avendo emesso in atmosfera in questo primo mese oltre 250 miloni di metri cubi di materiali che, associati al vapore prodotto dallo scioglimento dei ghiacci nelle zone più calde, hanno provocato tutti questi guai al traffico aereo.
Però questa eruzione non può essere minimamente paragonata a due eruzioni particolarmente forti (di quella del Laki ne ho parlato anche al proposito delle 10 più violente eruzioni ricordate dalla storia umana), rispetto alle quali i gas e le ceneri emesse dall'Eyjafjallajokull sono bruscolini.
Per cui dare un allarme sul clima adesso è cosa senza il minimo senso....

Però veniamo poi ad un altro aspetto: Antonio Rungi, sacerdote e giornalista, con una espressione non proprio felice, afferma che “la nube vulcanica che da giorni ha bloccato il trasporto aereo in quasi tutta Europa se vogliamo interpretare alla luce dei testi del Vangelo e dell'Apocalisse e' certamente una prova di Dio'
Poi si riprende, sottolineando per negarlo che 'qualcuno interpreta questo fenomeno come castigo di Dio'. Lo cito per una osservazione molto sensata: "basta una esplosione vulcanica per mettere in crisi un sistema di vita, di relazioni umane, di economica, di scambio commerciali, di assicurazione dei servizi di base. Questo ci fa capire come siamo precari e come le nostre certezze si infrangono con la forza della natura".
A parte che non si può parlare di esplosione vulcanica, ognuno è libero di trarre da queste parole le proprie considerazioni religiose, filosofiche, morali, trasportistiche, scientifiche e tecniche. Però non si può negare la realtà di un sistema messo in crisi.

Sulla reale necessità di chiudere lo spazio aereo, come ho già detto, non mi esprimo. Ma se i VAAC ci sono un motivo ci sarà e non credo che quelle simulazioni possano essere sbagliate, nonostante le voci delle compagnie aeree
La realtà è che le ceneri vulcaniche in generale interessano aree a basso traffico aereo o, meglio, a bassa densità di aeroporti. Tutt'al più, nelle zone della cintura di fuoco attorno al Pacifico e in Indonesia costringono a variazioni di rotta, noiose (e anche costose)

Questa volta il problema ha investito l'Europa Occidentale e la questione si è ingigantita. Ma come mai non era ancora venuta fuori fino ad oggi?

Non è ovviamente la prima volta che le ceneri dall'Islanda si muovono verso l'Europa (dato le correnti prevalenti tutto ciò è assolutamente normale), ma siccome nubi come questa sono rilevabili solo dai radar e non certo ad occhio nudo, né hanno ricoperto il suolo europeo, nessuno si era mai accorto della loro esistenza (con la rilevante eccezione della eruzione del Laki nel 1783).

La spiegazione a tutto questo potrebbe essere molto semplice e sconfortante: un vulcanologo islandese che lavora all'università di Edimburgo, Thor Thordarson, ha esaminato da un punto di vista temporale 205 eruzioni di vulcani islandesi che coprono gli ultimi 1100 anni di storia e ha ricavato che l'attività vulcanica nell'isola non è “random”, ma segue un ciclo di circa 140 anni tra un massimo e l'altro. La seconda metà del XX secolo appartiene alla zona del minimo del ciclo e quindi in questo momento l'attività non può che aumentare. Non tutti gli studiosi sono d'accordo su questo: qualcuno ad esempio avanza l'idea di una analisi statistica un po' grossolana. Per Thordarson i cicli sono legati ad un tasso di deformazione costante che quindi giunge al momento critico più o meno sempre nello stesso lasso di tempo.

Premettendo che l'eruzione dell'Eyjafjallajokull potrà durare ancora da 6 mesi a un anno e mezzo (l'ultima, nel 1821, è durata 14 mesi) è quindi possibile secondo questo studio che a questo vulcano se ne assommino altri. 

Il candidato più idoneo è il suo grande vicino, il Katla, che è stato attivo in corrispondenza di 3 delle ultime 4 eruzioni dell'Eyjafjallajokull. 
E' fra i più importanti dei non meno di 35 vulcani attivi attualmente censiti nell'isola. Ne sono conosciute diverse eruzioni storiche (quasi tutte avvenute all'interno della caldera). Ho trovato qualche contraddizione a proposito della sua ultima eruzione: per la maggior parte delle fonti l'ultima eruzione risale al 1918 mentre altrove si accenna a qualcosa nel 1955 e 1999. E' probabile che in queste occasioni ci sia stata una certa attività che non sia però sfociata in un eruzione vera e propria
In effetti, secondo alcuni “rumours”, qualche sintomo di ripresa dell'attività del Katla c'è, ma per adesso su questo sono molto scettico, dato che le fonti ufficiali non ne fanno menzione e, anzi, dal Servizio meteorologico islandese è venuta tempo fa una secca ed esplicita smentita al riguardo, (anche se - ovviamente - non si può escludere a priori che da un momento all'altro possano presentarsi i primi sintomi di una prossima eruzione). Ciò che rende molto pericoloso il Katla presenta una caldera riempita dal ghiaccio lunga 14 km e larga 9, ghiaccio che in caso di eruzione si scioglierà di sicuro, con consegenze imprevedibili. E una sua eruzione potrebbe essere molto più devastante di quella dell'Eyjafjallajokull.

Ci sono altri 3 vulcani che secondo Thordarson sono candidati ideali per un risveglio: l'Hekla, il Grimsvot e l'Askya.

L'Hekla, oltre a provocare una crisi climatica nel XI secolo AC, ha eruttato oltre 20 volte dal IX secolo DC a oggi. Alto quasi 2000 metri la sua attività di solito comincia con una forte emissione di ceneri per poi dare luogo a colate laviche.
Il Grimsvotn ha eruttato l'ultima volta nel 1996, sciogliendo parte del ghiacciaio Vatnajokull, il più grande d'Europa) e provocando uno jokullaups (una alluvione) di grosse dimensioni. L'eruzione del Laki è più o meno collegata a questo vulcano, fra i più attivi dell'Islanda.Vediamo nella foto il "buco" nel Vatnajokull provocato dalla eruzione del 1996.
L'Askya è un altro grande edificio vulcanico. Sostanzialmente produce magmi a composizione basaltica, ma ci sono esempi di eruzioni esplosive a composizione riolitica di cui una particolarmente forte che risale a circa 10.000 anni fa.

Insomma, secondo l'analisi di Thordarson, l'espansione del traffico aereo sarebbe stata agevolata da una situazione molto favorevole in Europa dal punto di vista vulcanologico che adesso diventerebbe molto più complicata. Mi domando se la storia della aviazione civile potrebbe essere stata diversa se si fosse sviluppata in un periodo contraddistinto da una intensa attività vulcanica in Islanda.

lunedì 17 maggio 2010

La campagna giapponese di caccia alle balene di quest'anno e il nuovo meeting dell'IWC

Dal 21 al 25 giugno si svolgerà ad Agadir il 62esimo meeting dell'IWC, la International Whaling Commission, meeting che come al solito sarà preceduto da una serie di incontri preparatori, sperando che non sia fallimetare come il precedente.

I problemi sul tappeto continuano ad essere i soliti (quello che ho scritto l'anno scorso è tuttora valido) tra le 3 nazioni che praticano la pesca delle balene (Giappone, Islanda e Norvegia) e i protezionisti, capitanati dall'Australia e dalla nuova Zelanda. Fino ad oggi risultano catturati 30.000 esemplari circa da quando nel 1986 è ripresa la caccia.

Durante la stagione di pesca nell'estate antartica 2009 / 2010 il quantitativo non è stato eccezionale. Anzi, sembra che sia stata la peggiore campagna dal 1986: 507 esemplari contro i 680 della campagna precedente e gli 850 indicati come obbiettivo. Solo nel 2006 andò peggio, ma lì ci furono dei problemi tecnici. Questa volta sembra invece che la colpa sia stata dei militanti anti-whaling della Sea-Shepherd che con le loro imbarcazioni hanno ostacolato per ben 31 giorni le attività della flotta baleniera nei mari dell'antartico, in una zona in cui è stato istituito un “santuario delle balene” in cui tutto questo in teoria non sarebbe permesso.
Diciamo che è l'unica questione su cui governo giapponese e ONG contrarie concordano, solo che gli uni protestano per questo, le altre sono orgogliose del risultato...

Nella lunga battaglia sono stati impiegati cannoni ad acqua e altre “armi” e ci sono stati dei brutti episodi. Il 5 gennaio una nave giapponese ha speronato la Sea Shepherd's Ady Gil, una avveniristica imbarcazione che disturbava la flotta baleniera. Il resoconto lo trovate qui. Peter Bethune, il neozelandese capitano della Ady Gil, è poi sbarcato sulla Shonana Maru II, la nave speronatrice, per “arrestarne” il capitano Hiroyuki Komiya con l'accusa del tentato omicidio dei 6 marinai della Ady Gil che erano finiti in mare durante l'”incidente” (che, probabilmente, più che un incidente è stato un voluto speronamento). Arrestato a sua volta, Bethune è stato sbarcato a Tokyo il 13 marzo e mi risulta che sia ancora nelle carceri giapponesi. Rischia una lunga condanna. C'è anche, (e non poteva mancare!) un gruppo facebook sull'argomento.

Ribadisco che se Islanda e Norvegia praticano la caccia commerciale, in teoria il Giappone lo fa per scopi scientifici, cioè per monitorarne la salute e il numero. L'Australia che è il capofila dei contrari perchè il whale-watching sta diventando una attività economicamente molto interessante, ha comunque dimostrato che per una simile ricerca non occorrerebbe uccidere i cetacei, ma solo prenderne qualche campione di pelle.

Resta comunque un dubbio sul perchè il Sol Levante debba investire risorse per mantenere in vita questa attività, che credo proprio sia una perdita, economicamente parlando: teoricamente le carni non possono essere vendute. In realtà lo sono: carne di animali pescati a “scopi scientifici” è stata ritrovata in qualche ristorante o negozio giapponese.
C'è da considerare che in Giappone la caccia alle balene è propagandata soprattutto dai gruppi nazionalistici e questa probabilmente può essere una chiave di lettura,
Mi domando poi cosa ci sia di “tradizionale” in una caccia così tecnologica....

In febbraio è stato nuovamente proposto ai giapponesi di chiudere con la farsa degli “scopi scientifici” a patto di diminuire il numero delle catture e consentendone anche nei mari vicini a casa loro,
Proposta respinta sia dai giapponesi per la riduzione degli stock, sia dalle ONG che vedono nella legalizzazione un precedente pericoloso, soprattutto perchè verrebbe sancita l'attività commerciale nel Santuario Antartico.

In questi giorni è uscita ufficialmente la proposta di una regolamentazione ufficiale della caccia per i prossimi 10 anni ad opera di Cristian Maquieira e Anthony Liverpool, presidente e vicepresidente dell'IWC. Il piano, che porterebbe tutte le attività baleniere direttamente sotto il controllo dell'IWC stesso, "non può non essere un compromesso" a causa "del largo spettro nelle opinioni dei Paesi membri"; sicuramente cambiare o revisionare alcuni articoli della convenzione in senso restrittivo non è attualmente una opzione realistica

Secondo il piano, nessun altra nazione potrà iniziare questa attività. Invece i 3 paesi balenieri dovranno concordare con l'IWC il numero e il tipo delle catture anziché fissare autonomamente i propri obbiettivi. Le catture saranno un po' (se non molto) al di sotto di quello che è il livello considerato sostenibile per i vari stock. Da notare che nel documento si indica esplicitamente come tali livelli siano stati fissati da un gruppo di scienziati di cui facevano parte sia nazioni favorevoli che contrarie alla caccia e quindi non possono essere accusati di essere di parte.

Inoltre nelle navi baleniere e nelle basi a terra personale dell'IWC controllerà strettamente le operazioni, compresa la determinazione del DNA degli animali uccisi, onde evitare che sul mercato possa essere immessa carne ottenuta da abbattimenti non ufficiali

Di questo e di tanto altro si discuterà ad Agadir, in Marocco. Sarà sufficiente questo piano per evitare una ingloriosa fine dell'IWC?

mercoledì 12 maggio 2010

Parti del genoma di Homo neandertalensis compaiono in Homo sapiens: una ibridazione molto antica

Secondo il quadro attualmente accettato l'Uomo anatomicamente moderno (che  nel seguitoindicherò con la sigla UAM) è arrivato in Europa dopo un lungo cammino che lo ha visto uscire dall'Africa, colonizzare l'Asia e per arrivare finalmente in Europa, nelle Americhe, in Australia e in Oceania. C'è comunque chi continua a sostenere la nascita di Homo sapiens con una evoluzione locale in diverse aree, ma questa corrente di pensiero è in netta minoranza, specialmente dopo le evidenze genetiche, e sembra inoltre che la colonizzazione non abbia comportato nessun incrocio con le popolazioni locali.

Antropologi, biologi e archeologi si sono sempre chiesti se alla venuta dei primi Homo sapiens in Europa, questi si siano incrociati con la popolazione locale di Homo neandertalensis. Al proposito ci sono due correnti di pensiero e cioè 
1. i Sapiens hanno preso il posto dei Neandertal senza incrociarsi 
2. gli europei sono il frutto di un incrocio e i geni dei neandertaliani sono pervenuti fino ai nostri giorni.
Tra questi due estremi c'è anche la possibilità di una limitata mescolanza.
Anche se agli ultimi neandertaliani sono collegati degli utensili “nuovi” simili a quelli dei sapiens con cui erano in qualche modo venuti a contatto, e questo è avvenuto dopo centinaia di migliaia di anni in cui la loro cultura non avevano sostanzialmente prodotto nessuna novità, per il resto le due popolazioni appaiono molto diverse sul piano fisico e anche su quello genetico, per non parlare di quello comportamentale. Alcune pitture murali rinvenute sui Pirenei, in cui i neandertaliani sono ritratti diversamente dai Cro-Magnon e associati agli animali confermerebbe la cosa. 
In effetti l'unica testimonianza fossile che fornisce questa possibilità è lo scheletro di un bambino trovato in Portogallo che sembra avere dei tratti comuni ad entrambe le specie.
Per cui allo stato attuale si tende ad escludere  in Europa una ibridazione fra neandertaliani e colonizzatori provenienti dall'Africa via Asia

Il sequenziamento del genoma del Neandertal ha dato dei risultati piuttosto importanti che comunque si inquadrano piuttosto bene con lo sviluppo della colonizzazione ad opera dell'uomo anatomicamente moderno  come viene supposta al giorno d'oggi.
Ora giunge una novità piuttosto interessante e che, senza alcune precisazioni, potrebbe essere usata da maleinformati o disinformati in maniera molto scorretta per giungere a conclusioni sbagliate: nel genoma del Sapiens ci sono alcuni tratti neandertaliani.
Però questo non significa che l'ibridazione sia avvenuta in Europa: sorprendentemente questo fenomeno risale a tempi molto anteriori, praticamente subito dopo o quasi l'uscita dei primi UAM dall'Africa

I ricercatori del dipartimento di Antropologia Evoluzionistica del Max Planck Institute, diretti da Svante Pääbo, hanno comparato campioni di DNA di tre femmine neandertaliane trovate in Croazia, vecchie di circa 40.000 anni, con il DNA di persone viventi in Cina, Francia, Nuova Guinea, Africa Meridionale e Africa Occidentale.
Le analisi hanno evidenziato come il genoma neandertaliano è identico al nostro per il 99.7 %. Entrambi sono identici a quello dello scimpanzè per il 98.8 %. Ci sono però alcune sequenze differenti fra sapiens e neanderthal, ma uguali confrontando neanderthal e scimpanzè (immagino comunque che questo sia vero anche per i rapporti scimpanzè – Homo sapiens). Queste differenze servono a capire alcuni tratti tipici ed esclusivi del nostro genoma.
Non c'è ancora una data certa per la separazione fra Neandertal e i nostri diretti antenati, ma si suppone che sia avvenuta tra 270 e 440 mila anni fa. Le principali differenze fra neanderthal e UAM sono nei geni che sovrintendono alla sintesi delle proteine (più simili a quelle dello scimpanzè nei Neandertal), allo sviluppo cognitivo, alla struttura del cranio, al metabolismo, alla morfologia della pelle e alla guarigione delle ferite.

Le comparazioni dicono che almeno il 2% del genoma dell'UAM sia di origine neandertaliana. Una cosa degna di nota è che queste tracce sono visibili in svariati luoghi luoghi, persino dove i neandertaliani non ci sono mai stati, come la Nuova Guinea. Non esistono invece tali tracce nelle popolazioni africane.

Quindi il segnale genetico di questi incroci è successivo alla emigrazione dall'Africa dei primi UAM. Si suppone che queste inserzioni abbiano circa 60 /80.000 anni. Il luogo più idoneo pare essere ovviamente il Medio Oriente, dove le due popolazioni hanno convissuto e dove sono documentate frequentazioni alternate in alcuni siti.
Questa ricerca conferma un'altra volta alcune caratteristiche della colonizzazione umana e cioè che una piccola popolazione di UAM dall'Africa si è portata in Medio Oriente, per poi dirigersi in Asia lungo le coste meridionali del continante.
E' anche possibile che dopo alcuni tentativi abbiamo deciso di dirigersi verso l'Asia meridionale anziché verso il Mediterraneo proprio a causa della presenza dei neandertaliani: i nostri progenitori senza una tecnologia valida non sono riusciti per il momento a scalzare i loro rivali, la cui popolazione era fisicamente molto forte (sicuramente più forte dell'UAM) ed in ottima salute che occupava un vasto areale tra le coste mediterranee e la Siberia. Per poterli sconfiggere hanno dovuto aspettare di avere una tecnologia migliore e circostanze climatiche più favorevoli.

Perchè in Europa non ci sono state ibridazioni? Forse la deriva genetica in uno o in entrambi i gruppi ha così allontanato i genomi da impedire l'incrocio? Oppure i nati dagli incroci erano sterili?
Appare difficile infatti che sia stato un processo esclusivamente a carattere culturale.

domenica 9 maggio 2010

Il traffico aereo e i centri per il controllo delle ceneri vulcaniche: i VAAC (Volcanic Ash Advisor Center)

Visto che l'Eyjafjallajökull sta ricominciando a spargere cenere nell'atmosfera e ricominciano a cascata le chiusure degli spazi aerei vorrei far un pò di chiarezza sui pericoli che le ceneri vulcaniche possono arrecare ai motori degli aerei.

Questo perchè probabilmente i tanti politici e giornalisti che sparlano sulla assurdità dei limiti alla navigazione aerea provocati dalla eruzione del vulcano islandese, non hanno la minima idea che il problema sia talmente grosso da aver costretto le autorità mondiali a creare una serie di centri di studio sulle ceneri vulcaniche sparsi per il mondo.

Ricapitoliamo la cosa: le ceneri vulcaniche sono materiali piuttosto abrasivi che possono danneggiare seriamente le turbine dei reattori. Obbiettivamente di questo argomento non so praticamente niente ma se il problema sussiste per TUTTI gli apparecchi immagino che al momento o non esiste la possibilità di utilizzare per le turbine un materiale alternativo (per esempio il carburo di silicio) o perchè tale materiale sarebbe troppo pesante o poco efficiente o semplicemente perchè il costo sarebbe troppo elevato in rapporto agli inconvenienti che si dovrebbero risolvere.

Per questo la ICAO (international Civil Aviation Organiation, l'agenzia delle Nazioni Unite che specificamente si occupa del trasporto aereo), ha creato una rete di osservatori che studiano e modellizzano i movimenti delle ceneri vulcaniche, i VAAC (Vocanic Ash Advisor Center – centri di consulenza sulla cenere vulcanica). Nel mondo esistono 9 VAAC che si spartiscono la sorveglianza delle rispettive aree di competenza, visibili nella cartina qui accanto. Formalmente fanno parte dei servizi meteorologici delle nazioni in cui sono impiantati.

Il problema in Europa non è in generale molto sentito in quanto i vulcani potenzialmente pericolosi al riguardo sono pochi (praticamente solo in Islanda e in Italia), mentre attorno all'Oceano Pacifico il loro numero è talmente elevato che non esiste settimana senza che il VAAC di Tokjo o i suoi omologhi di Dawin, Wellington, Anchorage e Buenos Aires diano qualche allarme, anche se in generale tra un'eruzione e l'altra possono passare decine se non centinaia di anni (o migliaia, come per il Chaiten). Quindi chi è abituato a viaggiare in aereo tra Indonesia, Giappone e Nordamerica sa benissimo che le deviazioni a causa di ceneri disperse nell'atmosfera dai numerosissimi vulcani dell'area sono molto frequenti.
Inoltre la notevole quantità di voli in uno spazio molto ristretto rende l'Europa particolarmente vulnerabile nel caso di un evento del genere. Non oso pensare cosa potrebbe succedere in caso di una eruzione come quella del Laki del 1783 (ne ho parlato qui)

Ogni VAAC deve fornire alle autorità aeronautiche (in particolare ai centri di controllo del traffico aereo) gli avvisi sulla presenza di ceneri vulcaniche in atmosfera nella area a lui assegnata, sviluppando in tempo reale le modellizzazioni del loro andamento e prevedendone i movimenti futuri. Ovviamente i modelli sono tri e non bi dimensionali, essendo la distribuzione dei materiali non costante alle varie quote.

I VAAC prendono i dati essenzialmente da immagini satellitari, da appositi radar a terra e dalle testimonianze di piloti, oltrechè dalla sorvglianza dei vulcani attivi (uno stato di allerta in un vulcano è ovviamente fonte di estrema attenzione da parte del VAAc di competenza, che quindi si pone immediatamente in contatto con le Autorità Locali. Ovviamente la prima discriminante è distinguere le nubi vulcaniche da quelle normali atmosferiche

Sono dati preziosi perchè proprio grazie ai VAAC vengono segnalate eruzioni in zone un po' sperdute, dove non esiste una sorveglianza puntuale vulcano per vulcano.

Quindi quando un VAAC scopre un plume vulcanico emette un avviso di SIGMET (significant meteorological Information) di cui chiunque addetto alla programmazione delle rotte aeree deve tenere conto. I SIGMET sono ovviamente aggiornati in tempo reale a mano a mano che vengono aggiornati i modelli

Tutto questo per dire che non è che la decisione di chiudere lo spazio aereo sia stata una cosa un po' “naive” da parte delle autorità, ma che dietro a questa c'è una seria, precisa e puntuale attività scientifica a supporto della sicurezza dei voli. Che poi al solito qualcuno si metta a piangere per ottenere un po' di soldi è normale, tantopiù in un momento economicamente non favorevole...

L'importante sarebbe che i commentatori sapessero dell'esistenza dei VAAC, evitando quindi di non informare o, peggio,di disinformare i lettori e/o gli ascoltatori

martedì 4 maggio 2010

Proposte dei programmi per il primo biennio degli istituti tecnici: Darwin citato espressamente. Ma ci si può fidare?

Ringrazio un mio lettore che mi ha inviato un link piuttosto interessante sulla revisione dei programmi scolastici. Al ministero della Pubblica Istruzione è in corso la riformulazione delle indicazioni nazionali sui programmi del primo biennio degli Istituti Tecnici, tramite un gruppo di lavoro appositamente istituito.
E' uscita una indicazione di massima per il primo biennio che tutto sommato non mi dispiace,ma con un possibile inghippo. Cito una parte degli argomenti in ordine sparso e non come sono presentati (e nell'originale lo sono in maniera abbastanza logica).

Si comincia con le scienze della Terra: cenni su sistema solare e dinamica della Terra, i vari tipi di rocce, dinamica dell'atmosfera e le conseguenze delle modificazioni climatiche.

Molto importanti gli accenni alla crescita della popolazione umana e alle sue relative conseguenze sanitarie, alimentari ed economiche e alla fragilità intrinseca degli ecosistemi.
Spero che “dinamica della Terra” significhi tettonica a zolle, origine dei terremoti e connessioni fra attività tettonica e attività vulcanica.
Come mi sembra veramente di rilievo l'accento alla importanza della prevenzione nelle malattie, alla educazione alimentare, alle conseguenze del fumo e a quelle della dipendenze da sostanze stupefacenti. Ben fatto!
Per quanto riguarda le scienze della vita, noto una certa completezza in quanto si parla di procarioti ed eucarioti, differenze tra cellula animale e cellula vegetale, i cromosomi etc etc; e persino della nascita della genetica, degli studi di Mendel e della loro applicazione.

Prevedo delle scintille a proposito del capitolo "implicazioni pratiche e conseguenti questioni etiche delle biotecnologie" e non solo in sede di ideazione del programma. Trovo assolutamente giusto (e doveroso) parlarne, essendo un argomento di cui si parla spesso e sul quale l'italiano medio - che non ne sa niente - semplicemente si adegua alle posizioni di chi semplicemente è più vicino alle sue idee. Occorrerà veramente, oltre ad un estremo rigore dei testi, un loro forte equilibrio per trattare questi argomenti con una certa attenzione viste le diversità notevoli in materia: non oso pensare al putiferio che si potrebbe scatenare fra ultras laici, ultras cattolici e ultras ambientalisti.... Vi immaginate le alzate di scudi di genitori ambientalisti(o anche leghisti veneti) se ci saranno frasi tipo “gli OGM non fanno male” o di genitori cattolici contro la fecondazione artificiale vista come una risorsa o di laici che protestano per parole che appaiono direttamente ispirate dal Vaticano?
Direi che al proposito sarebbe molto importante indicare effettivamente cosa sia scienza e cosa no, come si fa un trial clinico e come si può decidere su validità e pericolosità di un prodotto.

E veniamo all'evoluzione: sembra tutto ok, a partire come ho sottolineato dalla attenzione particolare a Mendel e alla genetica. Si arriva a risultati inimmaginabili ai tempi della Moratti ministro della pubblica diseducazione scientifica quando si legge nella sezione “abilità” “spiegare il significato della classificazione, indicando i parametri più frequentemente utilizzati per classificare gli organismi” e soprattutto “Descrivere la storia evolutiva degli esseri umani mettendo in rilievo la complessità dell’albero filogenetico degli ominidi”.

Tiratemi uno schiaffo.... sto forse sognando?

Poi però c'è un capitolo che mi piace poco: " vita e opere di Darwin: teoria evolutiva, fissismo e creazionismo", messo subito dopo "origine della vita e comparsa delle prime cellule eucariote; organismi autotrofi ed eterotrofi".
Quello che non capisco è appunto l'accenno a fissismo e creazionismo. Vista l'impostazione generale del modulo (o come diavolo si chiama.... professori, illuminatemi) direi che si potrebbe interpretare come “Darwin con il suo pensiero ha definitivamente scardinato le credenze creazionistiche” ma non vorrei invece che si finisse per presentare la cosa come “ci sono queste due ipotesi e sono entrambe possibili”.

Devo dire che dopo un breve scambio di e-mail con alcune persone a cui ho inviato il link per commenti le impressioni sono molto discordanti e soprattutto ci sono due schieramenti piuttosto netti. Sintetizzo le posizioni con due esempi.
C'è chi dice: "si potrebbe leggere la notizia in positivo: parlando di Darwin si deve ovviamente tenere presente il clima culturale dell'epoca, ovvero creazionismo e l'idea che le specie siano fisse. Dato che sono (sperabilmente) concetti ormai sconosciuti tocca illustrarli..."

E questa può essere una chiave di lettura augurabile

Ma qualcuno non è della stessa opinione e trova la cosa "estremamente preoccupante: si cita il creazionismo accanto a Darwin, ma non altre teorie precedenti accanto alla cellula, al corpo umano o alla deriva dei continenti".

Spero in una mobilitazione degli insegnanti di scienze: queste sono “schede di lavoro”, già presentate a una rappresentanza di dirigenti e docenti degli istituti tecnici nel corso del seminario svoltosi a Roma il 26 e 27 Aprile 2010 presso l’istituto tecnico industriale “G. Galilei” e a quanto ho capito ci potranno essere delle modificazioni
Vedremo come andrà a finire...


Annotazione: la scuola ritratta non è un istituto tecnico ma il Liceo Ginnasio Dante dove ho conseguito nel 1979 la maturità

I vulcani nascosti sotto il Tirreno: stato delle conoscenze e rischio teorico

Il mare Tirreno e le sue coste pullulano di vulcani, attualmente attivi oppure come nella Sardegna sudoccidentale, che sono stati attivi fino a poco tempo fa (geologicamente parlando). Nell'immagine, tratta da un lavoro di Giancarlo Serri, si vede la situazione.

Dal punto di vista strettamente geologico il Tirreno a sud del 41°parallelo è definibile come un oceano più che un mare, nel senso che i “mari” sono aree a bassa profondità con le acque che ricoprono crosta continentale (come l'Adriatico o il mare del Nord); invece dal 41° parallelo fino a poche decine di km dalle coste il suo fondo, come in tutto il Mediterraneo occidentale e in buona parte di quello orientale, è impostato su crosta oceanica e raggiunge profondità di oltre 4.000 metri.

Non è facile in due parole dire come si è formato questo bacino, viste le complesse interazioni fra le zolle europea, adriatica e africana negli ultimi 100 milioni di anni che ne hanno fatto una delle regioni più complesse di tutta la Terra. Ci sono diverse ipotesi. Di quella più convincente ne ho parlato qui.

La complessità geologica si traduce in variazioni laterali di grande entità di composizione ed assetto della crosta,anche di quella profonda, pertanto non ci si può stupire se dentro ed intorno al Tirreno ci sono praticamente tutti o quasi i tipi di vulcano e di magmi conosciuti.

Un appunto importante è che non tutti i seamounts sono vulcani e non è detto che tutti i vulcani siano ancora attivi. Ad esempio a nord del 41° parallelo, ancora su crosta continentale o assottigliata, il monte Vercelli e qualche altro corpo sono gli elementi più meridionali del magmatismo della provincia toscana e sono dei corpi intrusivi granodioritici venuti alla luce, come il Giglio o il Monte Capanne. Tra il 41° parallelo e la piana del Vavilov, troviamo tutta una serie di rocce basaltiche diffuse che arrivano fino in Sardegna occidentale. Il seamount Etruschi ne è un esempio. Anche se hanno una età molto recente, è praticamente escluso che l'area sia ancora oggi soggetta a fenomeni vulcanici.

Nella piana abissale più nordoccidentale e più antica delle due in cui si può dividere la zona piùprofonda del bacino ci sono il Vavilov e il Magnaghi, in quella sudorientale il Marsili. In entrambe si nota come la litosfera oceanica sia caratterizzata da velocità basse delle onde sismiche, sintomo di una temperatura piuttosto alta

La piana abissale del Vavilov ha un pavimento di rocce basaltiche e ultramafiche formatesi fra i 6 e gli 8 milioni di anni fa, nel tortoniano (miocene superiore). Il Vavilov, lungo 30 km e largo 14, si eleva di 2800 metri dalla piana, di cui è molto più recente. E' caratterizzato da un profilo asimmetrico, con il versante occidentale molto più inclinato di quello orientale, segno che o è franato o è esploso. Anche le età hanno una distribuzione strana: le poche rocce dragate e le risultanze dei profili magnetici mostrano che l'attività è cominciata tra 3.0 e 2.6 Ma, con un picco fra 2.6 e 2.0 MA. Poi per trovare altri magmi si deve arrivare in tempi molto recenti, tra 0.37 e 0.12 Ma. Come spiegare questo intervallo? Può darsi che a causa del collasso manchi tutta la parte intermedia dell'attività? Se fosse così non è difficile pensare davvero che sia sempre stato attivo negli ultimi 3 milioni di anni. Nulla si sa sull'età del collasso. Pertanto è chiaro che il Vavilov necessita di studi più approfonditi per monitorarne la eventuale attività e capire come e perchè si è evoluta una morfologia del genere.

Quanto al Magnaghi, lo troviamo sul lato della piana adiacente alla piattaforma continentale a E della Sardegna ed è un altro elemento morfologicamente rispettabile. Alcune lave sono state datate a meno di 3 milioni di anni. Non ci sono comunque evidenze di una attività recente e questo è confermato dalla mancanza di una anomalia nel flusso di calore terrestre, particolarmente elevata al Marsili ma molto alta anche sotto il Vavilov.

Altri seamount come De Marchi, Cassini e Flavio Gioia non sono vulcani.

Per quanto riguarda il Marsili, ne ho parlato più volte e quindi rimando ai due post sull'argomento (2008 e 2010). Annoto soltanto che:
- gli ultimi lavori assegnano anche il Marsili ad un ambiente di arco magmatico e non ad un vulcanismo alcalino, ma queste sono considerazioni dei geochimici per le quali nutro una certa diffidenza, dato che nei bacini di retroarco è comune la vicinanza di magmi appartenenti a serie teoricamente molto diverse
- la piana che lo circonda è molto più giovane della prima, con età inferiori ai 2 milioni di anni (quindi in pieno quaternario)

E ora veniamo all'arco eolico. Tutte le isole dell'arcipelago delle Eolie sono vulcani, ma non tutti i vulcani delle Eolie arrivano in superficie. In realtà l'arco eolico circonda da tre lati la piana del Marsili, partendo dal Palinuro che è a largo del Cilento, a NE del Marsili, per finire al Glauco che invece si trova una cinquantina di Km ad ovest. In mezzo, Eolie comprese, c'è un'altra dozzina di vulcani. La cima del Palinuro arriva fino a meno di 100 metri dalla superficie marina. Sono conosciuti, da NE a W, i seguenti apparati: Palinuro, Alcione, Lamaetini a est delle Eolie, Eolo Enarete e Sisifo ad W. Si sa molto poco di tutti questi vulcani e anche in un recente volume dedicato al Tirreno nelle Memorie descrittive della carta geologica d'Italia se da un lato si parla delle analisi di queste vulcaniti, si glissa molto elegantemente sulle loro età, per cui mi pare che non ci sia la minima idea di quanti e quali di questi colossi possano essere oggi considerati attivi

I vulcani dell'arco eolico sono tipici esempi di un vulcanismo di arco magmatico sopra la crosta dello Jonio che scorre sotto la zolla europea, in una classica zona di subduzione (il disegno qui accanto spiega un po' la situazione). C'è però una complicazione: vediamo chiaramente come sono quasi tutti in una linea arcuata, tranne Lipari e Vulcano che guarda caso sono allineate con una serie di strutture che partono da lì e raggiungono lo Jonio: la linea Patti – Taormina che separa l'arco calabro – peloritano dalla catena appennincia della Sicilia settentrionale, il sistema delle Timpe catanesi, L'Etna e la scarpata Ibleo – Maltese, quest'ultima una componente essenziale della paleogeografia, essendo dal triassico il limite fra la crosta continentale e quella oceanica dello Jonio e del Mediterraneo orientale,

A ovest dell'arco eolico, emerso e sommerso, ci sono altri vulcani: Ustica (emerso e spento), Prometeo e Anchise. Questi complessi hanno una affinità alcalina e sono alimentati da sorgenti profonde nel mantello. La risalita dei loro magmi è dovuta probabilmente a fenomeni di distensione crustale.
La lista forse non è definitiva e sicuramente alcuni di questi vulcani non sono più attivi. Ma alcuni, Marsili in testa, lo sono.

Capisco benissimo che non a tutti può interessare la questione: non tutti vanno pazzi per la geologia (il mondo è bello perchè è vario...). Ma oltre alla parte squisitamente scientifica almeno sapere se ci sono dei rischi teorici dovrebbe interessare a tutti, almeno alle popolazioni rivierasche.

Le ultime dichiarazioni di Boschi prima e Bertolaso poi hanno quasi scatenato il panico negli italiani. Ho letto dei discorsi allucinanti, come quelli di chi pensa che Marsili stia per saltare come il Vesuvio o che ha sicuramente eruttato 200 anni fa etc etc. Continuo a dire da 30 anni, da quando studiavo il Tirreno all'università, che in ogni caso i vulcani del Tirreno VADANO MONITORATI, STUDIATI E CAPITI al di là della loro eventuale pericolosità: nel mondo occidentale, che dovrebbe essere scientificamente evoluto, il Tirreno è quasi poco più di un buco nero, una terra incognita di cui si sa veramente poco. Uno stato di cose che non si può più tollerare. Se questi allarmi serviranno per trovare le risorse adeguate allo studio dell'area, ben vengano. Mi domando se l'Italia avesse avuto lo stesso atteggiamento per le scienze di altre nazioni lo stato attuale della ricerca sul Tirreno sarebbe diverso. Non mi rispondo.

Credo che ci voglia uno sforzo coordinato (e ben finanziato) da parte di INGV da una parte, dipartimenti di Geologia Marina, Geofisica e vulcanologia delle varie università italiane dall'altro e che il punto di partenza essenziale sia la costruzione di altri sismografi specificamente ideati per lavorare sul fondo marino come quello, costruito interamente dall'INGV, che è stato calato sul Marsili

Entro solo in un dettaglio: visto che Bortolaso ha seguito Boschi nelle sparate sul Tirreno, tanto per darvi la concezione che ha la protezione civile della geologia marina vi segnalo il sito http://www.protezionecivile.it/cms/print.php?dir_pk=1337&cms_pk=17905 dove si legge: Il bacino tirrenico è la parte più profonda del Mediterraneo Occidentale: la Fossa del Tirreno raggiunge i 3800 metri di profondità.
Sono 30 anni che sapevo che era una piana abissale e non una fossa.... mah.... continuo ad esserne convinto...
E voi volete affidare alla protezione civile che non distingue una fossa da una piana la ricerca geologica?????