venerdì 28 settembre 2018

Alcune novità negli studi sull'origine dei mammiferi


Il passaggio fra i terapsidi cinodonti e i mammiferi è una delle pietre miliari nell’evoluzione dei vertebrati e ci riguarda molto da vicino. É avvenuto prima della fine del Triassico come testimoniano i fossili del genere Morganucodon, un mammaliforme basale. In questi giorni sono usciti praticamente in contemporanea tre lavori su alcune caratteristiche evolutive importanti ma meno evidenti a prima vista, che hanno dato un contributo importante alle conoscenze su questa transizione evidenziando alcuni aspetti per i quali mammiferi e terapsidi differiscono


Filogenesi semplificata dei vertebrati terrestri. Mancano gli anapsidi
(che non hanno finestre temporali) perchè questo clade è oggi parecchio in discussione
I mammiferi si distinguono immediatamente dagli altri vertebrati, in particolare dai rettili, per diverse caratteristiche molto appariscenti. Ad esempio:

  • il pelo al posto delle scaglie
  • la presenza delle vibrisse
  • la lattazione
  • femori e omeri in posizione verticale anziché orizzontale
  • una andatura al galoppo anziché a zig-zag come i pesci
  • una distinzione netta fra vari tipi di denti per forma e funzione

Ci sono poi delle caratteristiche che invece per essere osservate hanno avuto bisogno di studi più approfonditi, come la presenza di una sola finestra temporale per lato nel cranio (rettili e uccelli ne hanno due) ed altre. Tutte queste differenze vengono da molto lontano. Diciamo che i vertebrati terrestri (tetrapodi) si dividono in:

  • anfibi
  • sinapsidi (tetrapodi con una sola finestra temporale per lato, di cui i mammiferi sono gli unici superstiti)
  • diapsidi (che oltre a tante forme estinte includono gli attuali rettili e uccelli)  

Il termine sinapsidi è bene che sostituisca quello di “rettili mammaliani” perché i sinapsidi erano già ben differenziati dai rettili (i diapsidi dell’epoca) fino dal Carbonifero, poco dopo la comparsa dell'uovo amniotico. 

Diciamo che possiamo dividere la storia dei sinapsidi in quattro parti:

  1. i primi sinapsidi nel Carbonifero e all’inizio del Permiano (l’era in cui erano rappresentati soprattutto dai pelicosauri)
  2. l’affermazione dei terapsidi tra Permiano superiore e Triassico
  3. il periodo dell’oblio, fra Giurassico e Cretaceo, al seguito dell’estinzione di massa di fine Triassico, in cui dominano i diapsidi (in particolare gli arcosauri - dinosauri e simili) e in cui si evolvono i primi mammiferi “veri” del Giurassico, eredi di un gruppo di terapsidi, i cinodonti
  4. la ripresa del dominio sulla terraferma dopo l’estinzione di massa che ha cancellato la stragrande parte dei diapsidi arcosauri (dinosauri e simili) alla fine del Cretaceo

Gli odierni monotremi, l’ornitorinco e le echidna, rappresentano un gruppo di “quasi – mammiferi” se si intendono come “veri mammiferi” i marsupiali e – soprattutto – i placentati. Naturalmente non è che la mamma terapside abbia dato alla luce il primo mammifero… quindi il passaggio dai primi sinapsidi ai mammiferi propriamente detti è un passaggio complesso che coinvolge praticamente tutto il corpo. 

I pelicosauri: la vela (che non tutti possedevano!)
 è stata interpretata come un primo  sistema
per avviare la termoregolazione
DAI PRIMI TETRAPODI AI MAMMIFERI. I primi tetrapodi (vertebrati con 4 zampe) compaiono nel Devonano superiore, verso la fine del Frasniano, 375 Ma. Si trattava di creature ancora acquatiche, che vivevano in lagune nelle cui acque di ossigeno disciolto ce n’era ben poco: per cui le zampe e il collo facevano molto comodo per districarsi nei bassi fondali e per sporgersi meglio dalle acque per respirare aria (qui ho parlato della respirazione in acque con poco ossigeno). I primi veri animali terricoli li troviamo nel Carbonifero iniziale (Tournasiano) della Scozia (Smithson et al, 2012). Il successivo passaggio da ambienti acquatici o semi-acquatici ad un ambiente decisamente subaereo ha coinciso con la comparsa dell’uovo amniotico da cui nascono adulti in miniatura che non passano più dallo stato larvale e quindi non dipendono più strettamente dall’acqua: i primi amnioti sono vissuti a metà del Viseano (345-328 Ma); Gli amnioti esistevano quindi già 323 milioni di anni, in corrispondenza dell’evento di estinzione di massa piuttosto importante della fine del Serpukhoviano, di cui ho parlato qui), che ha comportato una evidente contrazione della biodiversità (Mc Ghee et al, 2012); la conseguente ripresa occupa tutti gli 8 milioni di anni del Baskhiriano e prioprio al passaggio Baskiriano – Moscoviano, 315 milioni di anni fa, si colloca la divergenza fra diapsidi e sinapsidi, con la comparsa dei sinapsidi più antichi, gli Ophiacodontidae (referenze in Brocklehurst et al 2013).
Tra Devoniano superiore e Carbonifero inferiore vivere non è stato semplice: ci sono stati diversi cicli glaciali e almeno 4 eventi di estinzione di massa importanti: 

  • nel Devoniano superiore Devoniano superiore al limite Frasnano – Famenniano
  • passaggio Devoniano – Carbonifero
  • nel Carbonifero inferiore al passaggio Viseano - Serpukhoviano
  • nel Carbonifero inferiore al passaggio Serpukoviano - Bashkiriano

Poi, ancora una volta, c’è una estinzione di massa, il cosiddetto “collasso delle foreste pluviali” del Carbonifero superiore, da cui escono molto bene i sinapsidi che da quel momento e per tutto il Permiano e il Triassico hanno rappresentato il gruppo dominante di vertebrati terrestri; solo tra Giurassico e Cretaceo i diapsidi, con dinosauri ed altri grandi arcosauri, hanno rappresentato il clade dominante ma l’estinzione di fine cretaceo ha restituito ai sinapsidi, rappresentati dai mammiferi, il ruolo di clade dominante fra i vertebrati terrestri
La storia è ovviamente un po' più complessa all’interno dei sinapsidi, dove succedono diverse cose: fino al Permiano inferiore la fauna è dominata dai sinapsidi pelicosauri, insieme a diapsidi Captorhinidae e vari anfibi; dal Permiano medio e superiore inizia il dominio dei terapsidi, i più diretti antenati dei mammiferi, i quali hanno pure ridotto l’importanza di altri cladi che si spartivano i principali ruoli insieme ai pelicosauri, diventando i più comuni fra gli animali di maggiori dimensioni, sia erbivori che carnivori, in un ecosistema che diventa più complesso di prima (Brocklehurst et al 2017).
La differenziazione della colonna vertebrale presacrale
in terapsidi fossili e in rettili e mammiferi viventi
ripresa da Jones et al, 2018


LA DIFFERENZIAZIONE NELLA COLONNA VERTEBRALE. Il primo dei lavori di cui parlo si occupa della colonna vertebrale, nella parte al di sopra della zona sacrale (Jones et al, 2018), che nei mammiferi mostra a seconda della zona anatomica delle morfologie diverse, per esempio fra la regione toracica e quella lombare. La transizione da una colonna presacrale "non regionalizzata" a una "regionalizzata" è un passo importante nell'evoluzione dei mammiferi ed è stata collegata all'origine di andature specializzate e al miglioramento della respirazione. In tutto ciò è probabile che un ruolo importante lo abbia giocato la maggiore mobilità delle spalle, che potrebbe avere non poco influenzato l’evoluzione del bacino. 

Nei rettili generalmente questa zona è più uniforme.
I ricercatori hanno esaminato le colonne vertebrali presacrale di 16 sinapsidi non mammiferi eccezionalmente conservati (inclusi pelicosauri, terapsidi basali e cinodonti), un gruppo di diapsidi paleozoici estinti e una vasta gamma di salamandre, rettili e mammiferi esistenti. Usando i dati morfometrici, hanno quantificato i modelli di regionalizzazione ed eterogeneità della colonna vertebrale  e confrontato la loro evoluzione per chiarire quando e come si è verificata la differenziazione della colonna vertebrale nei sinapsidi. 

Come era prevedibile nella maggior parte dei rettili e nei mammiferi monotremi la colonna vertebrale presenta 4 regioni, mentre in marsupiali e placentati ne presenta 5. 

la figura qui accanto confronta anfibi e diapsidi esistenti con alcuni sinapsidi permo – triassici e i loro discendenti mammiferi esistenti. Si vede che:

  • gli anfibi attuali, ad esempio le salamandre, hanno 2 sole regioni presacrali, torace e collo (come quelli fossili, non compresi nella tabella), per cui in questo gruppo non c’è stato un aumento della regionalizzazione della colonna vertebrale pre-sacrale da quando si è differenziato il collo nei primi tetrapodi 
  • l’aumento della regionalizzazione invece è una caratteristica comune negli amnioti,  indipendentemente in sinapsidi e diapsidi: gli amnioti basali, come gli anfibi, avevano anch’essi due sole regioni nelle vertebre pre-sacrali e se nei sinapsidi la differenziazione avviene a livello della schiena, nei anapsidi riguarda invece il collo
  • nei diapsidi attuali (rettili) la regionalizzazione, sia pure maggiore che nei non-amnioti anfibi, non è molto spinta, tranne che nei varani 
  • nei sinapsidi i pelicosauri hanno ancora solo 2 regioni presacrali e l’aumento della regionalizzaizone inizia dai terapsidi basali
  • fra i mammiferi, i monotremi hanno una regionalizzazione minore di marsupiali e placentati
  • nelle forme attuali ci sono casi isolati di bassa regionalizzazione, che quindi talvolta si è nuovamente ridotta nel tempo

Nella immagine, presa anche essa da Jones et al, 2018, si vede come la differenziazione
proceda nella schiena nei sinapsidi, mentre nei diapsidi riguarda il collo 
nei 3 crani di mammiferi molto diversi fra loro è
visibile il processo angolare della mandibola,
mentre la mandibola dei rettili è dritta


EVOLUZIONE DELLA MANDIBOLA MAMMALIANA E DELL’ORECCHIO INTERNO. Un altra questione interessante è quella della mandibola, la cui evoluzione rappresenta una delle più importanti innovazioni nella storia dei vertebrati, al passaggio fra i terapsidi più mammaliani, cinodonti, e i mammiferi:


  • l'osso che ospitava i denti inferiori si è ingrandito rispetto agli elementi postdenari, trasformando la mandibola a sette ossa dei cinodonti in un osso unico e massiccio;
  • alcuni elementi post-dentari sono stati integrati nell'orecchio medio e interno, migliorandone le prestazioni 
  • si è formata una articolazione secondaria delle mascelle 
  • la modifica della mascella è avvenuta indipendentemente, e in modo differente, in diversi gruppi di cinodonti e anche in tempi relativamente recenti visto che la mascella dell’ornitorinco non ha il processo angolare, la caratteristica curvatura di quella dei placentati e della maggior parte dei marsupiali (fra questi ultimi alcune forme che ne ne sono prive l’hanno successivamente persa durante l’evoluzione)

Questa evoluzione è ben documentata nei fossili, ma fino ad oggi c’è stato un paradosso: come potevano le ossa dell'articolazione mandibolare ancestrale funzionare sia come cerniera articolare per la masticazione che come orecchio? Di fatto molti lavori avevano evidenziato questo problema da parecchio tempo (ad esempio Bramble, 1978).


Lautenschlager et al (2018) hanno creato delle simulazioni al computer sui crani di diversi esemplari di cinodonti vicini ai mammiferi. È stato visto che il rapporto fra lunghezza della mascella da una parte e le sue prestazioni dall’altra (sforzi di trazione e compressione assoluti dell'articolazione mandibolare e forza del morso) non è lineare; insomma… nelle fauci le prestazoni diminuiscono meno delle dimensioni. Quindi la miniaturizzazione dell’animale ha fornito delle condizioni ideali per l'evoluzione dell'articolazione mascellare dei mammiferi, seguita dall'integrazione delle ossa postdentarie nell'orecchio medio.


Il quoziente di encefalizzazione in Cinodonti, mammiferi
basali (Mammaliformes), monotremi (prototheria).
marsupiali (metatheria) e placentati (eutheria)
da Kishida 2017 

PROLE E CERVELLO. Un terzo lavoro dimostra che due caratteristiche importanti dei mammiferi, basso numero di piccoli e espansione del cervello, non erano possedute da parecchi cinodonti. Nell’Arizona i sedimenti fluviali della formazione di Kayenta hanno fornito una grande quantità di nidiacei ben conservati del cinodonte Kayentatherium wellesi (segnalato nella figura della regionalizzazione della colonna vertebrale) con uno scheletro di un adulto che li ricopriva. La nidiata, evidentemente sepolto da una piena improvvisa, era composto da almeno 38 individui, un numero ben superiore a quello documentato nei mammiferi esistenti (Hoffman e Rowe al, 2018). Questa scoperta conferma che la produzione di una prole numerosa rappresenta la condizione ancestrale per gli amnioti, e inoltre fornisce un vincolo temporale per la riduzione del numero dei nati nella linea che ha portato ai mammiferi

Un altro aspetto interessante è nella morfologia dei piccoli: la forma del loro cranio è nel complesso simile a quella degli adulti, senza allungamento allometrico del viso tipico dello sviluppo fetale dei mammiferi. Lo svluppo maggiore del cervello è un tratto tipico dei primi mammiferi: nel genere Morganucodon, un mammaliforme basale – anzi “basalissimo”… –  aveva un indice di encefalizzazione molto più alto dei cinodonti (0.32 – praticamente il doppio) (Kishida, 2017).  Le uniche allometrie positive dei piccoli di Kayenatherium sono associate alle ossa che supportano la muscolatura masticatoria. Siamo già nel Sinemuriano, quindi nel Giurassico inferiore, quando esistevano già mammaliformi con caratteristiche più avanzate come Hadrocodium wui (Luo et al, 2001), con un indice di encefalizzazione di 0,49, superiore persino a quello di alcuni placentati odierni.
Quindi la divergenza fra gli antenati di Kayentatherium e quelli dei mammiferi è avvenuta prima della riduzione del numero della prole e della espansione del cervello che ha riorganizzato l'architettura cranica alla base di Mammaliaformes.
C'è l'ipotesi che il cervello si sia ingrandito per la necessità di migliorare l’olfatto dettata dalle abitudini notturne (e infatti in Morganucodon il bulbo olfattivo è molto grande), però è probabile che già molti pelicosauri avessero abitudini notturne 100 milioni di anni prima (Angielczyk e Schmitz 2014) e questo mette n pò in discussione questa idea

Angielczyk e Schmitz 2014 Nocturnality in synapsids predates
 the origin of mammals by over 100 million years. Proc. R. Soc. B 281: 20141642. http://dx.doi.org/10.1098/rspb.2014.1642 
Bramble, 1978 Origin of the mammalian feeding complex: models and mechanisms. Paleobiology 4, 271–301 (1978)
Brocklehurst et al 2013 The early evolution of synapsids, and the influence of sampling on their fossil record  Paleobiology, 39(3),. 470–490 
Brocklehurst et al 2017 Olson’s Extinction and the latitudinal biodiversity gradient of tetrapods in the Permian. Proc. R. Soc. B 284: 20170231. 
Hoffman e Rowe  2018 Jurassic stem-mammal perinates and the origin of mammalian reproduction and growth Nature 561, 104-10 8   
Kishida 2017   Evolution of the Mammalian Brain with a Focus on the Whale Olfactory Bulb in Shigeno et al (eds) Brain Evolution by Design - From Neural Origin to Cognitive Architecture Spinger 
Jones et al 2018 Fossils reveal the complex evolutionary history of the mammalian regionalized spine Science 361, 1249–1252 
Lautenschlager et al 2018 The role of miniaturization in the evolution of the  mammalian jaw and middle ear Nature, in press
Luo et al, 2001 A New Mammaliaform from the Early Jurassic and Evolution of Mammalian Characteristics Science, 292, 1535-1538
McGhee et al 2012 Ecological ranking of Phanerozoic biodiversity crises: The Serpukhovian (early Carboniferous) crisis had a greater ecological impact than the end-Ordovician Geology 40, 147-150
Smithson et al 2012 Earliest Carboniferous tetrapod and arthropod faunas from Scotland populate Romer’s Gap PNAS 109/12, 4532-4537



lunedì 24 settembre 2018

La subsidenza: un fenomeno il cui monitoraggio è stato particolarmente semplificato con i dati satellitari e il caso della piana fra Firenze, Prato e Pistoia



Torno dopo un po' di tempo a parlare della subsidenza delle aree di pianura, perché è appena uscito un lavoro che parla dei movimenti verticali del terreno nel bacino intermontano tra Firenze, Prato e Pistoia, dove gli effetti antropici, passati e presenti, sono una chiave importante per leggere alcune deformazioni del terreno. Questi lavori non avrebbero potuto essere svolti senza l’uso delle tecnologie satellitari, GNSS e InSAR, che permettono una sorveglianza veloce e abbastanza dettagliata del territorio, specialmente il secondo con il metodo dei persistent scatterers.


Subsidenza provocata dai prelievi di acqua dalle falde
Si può definire la subsidenza come un abbassamento della superficie terrestre leggero e graduale, che alle volte, comunque, può anche accelerare vistosamente (Galloway & Burbey, 2011). La subsidenza è nella natura stessa delle zone soggette a sedimentazione: senza l’abbassamento del terreno sarebbe impossibile la deposizione di qualsiasi serie sedimentaria, dalle più sottili alle grandi serie delle pianure o delle piattaforme continentali spesse molti km. 
La subsidenza è un geo-rischio decisamente meno conosciuto rispetto ad altri (diciamo soprattutto che per la sua lentezza all’occhio umano è molto meno evidente, ad esempio, di una frana), ma le sue conseguenze possono essere drammatiche: può provocare  deformazioni su edifici ed altre infrastrutture e quindi innescare situazioni di rischio, e assume livelli piuttosto allarmanti in alcune  pianure costiere, dove l’abbassamento del suolo e l’attuale trend di innalzamento del livello marino preoccupano specialmente per l’ingressione di acque salate nelle falde acquifere di acqua dolce. La subsidenza è stata anche invocata come causa di terremoti: per esempio quello estremamente superficiale M 5.1 del 11-05-2011 nei pressi di Lorca, c’è chi afferma che il cambiamento dello stato di sforzo nel sottosuolo dovuto all'estrazione delle acque sotterrane abbia innescato un evento sismico che comunque sarebbe avvenuto lo stesso in un prossimo futuro (per esempio Gonzales et al, 2012), ma questa ipotesi ha incontato lo scetticismo della maggior parte dei ricercatori, perché è avvenuto su una faglia notoriamente attiva (Vissers e Meijninger, 2011).


Falde acquifere e subsidenza delle aree costiere
La subsidenza può essere provocata da diversi fenomeni: 

  • un abbassamento tettonico (che è anche la causa dell’inizio della deposizione di serie sedimentarie importanti
  • nelle aree di sedimentazione può essere la risposta isostatica della crosta all’aumento del carico sedimentario sovrastante (un po' come, al contrario, la Scandinavia si sta tutt’ora rialzando da quando non ha più la calotta glaciale che la ricopriva fino a 12.000 anni fa)
  • la risposta alla compattazione dei sedimenti dovuta al peso di quelli che gli si sono accumulati sopra
  • cambiamenti nella mineralogia dei sedimenti durante la diagenesi o per modifiche naturali dell'umidità del sottosuolo

Negli ultimi decenni la subsidenza registra una nuova componente che è di origine antropica: il prelievo di idrocarburi, ma soprattutto quello di acque a vari scopi (irriguo ed industriale soprattutto): in questo modo viene diminuita la pressione idrostatica dei pori del terreno e di conseguenza quanto vi sta sopra si rilassa, abbassandosi.


Ieri: livellazioni manuali
oggi: immagini da satellite
LA MISURA DELLA SUBSIDENZA: IERI UN AFFARE MOLTO COMPLESSO, OGGI COSA MOLTO PIÙ SEMPLICE. Misurare la subsidenza nel passato non era molto semplice: dovevano essere utilizzate delle reti geodetiche manuali e quindi il suo riconoscimento, lento e complesso attraverso il traguardamento di vari punti uno per uno, era forzatamente limitato a casi particolari ed importanti come la Central Valley della California (Poland et al, 1975), dove il tasso di subsidenza è anche influenzato dalle condizioni meteorologiche delle singole annate (Murray e Lohman, 2018).

Le tecnologie satellitari hanno consentito un salto in avanti nella misura della subsidenza. All’inizio fu il GNSS: è un sistema che in genere sfrutta i dati dell’americano GPS; di fatto il GNSS è spesso identificato tout court con il GPS che è – come dire – un marchio diventato nome; in realtà esiste da anni un altro sistema GNSS, il russo GLONASS, ed è in avanzato sviluppo il sistema europeo Galileo. Il GNSS fornisce i dati in maniera veloce ma necessita di stazioni opportunamente installate, per cui forzatamente non è possibile configurare una rete particolarmente fitta (ovviamente per misurazioni come queste, a scala millimetrica, si devono utilizzare strumentazioni estremamente più precise di quelle comunemente disponibili e usare algoritmi particolari per raffinare il dato). Per ottenere una copertura migliore a costi più bassi e tempi di realizzazione molto più brevi, la tecnologia ha fornito da una trentina di anni una soluzione molto pratica, l’interferometria da satellite con il metodo dei persistent scatterers, punti di cui viene registrata la posizione ad ogni passaggio di un satellite. In questo modo si misura molto bene la componente verticale dei movimenti del terreno ed è possibile monitorare praticamente tutta la superficie terrestre. Ad esempio in questo modo Rosi et al (2016) hanno potuto determinare rapidamente tutte le aree in subsidenza in Toscana, molte delle quali non sarebbero state riconosciute con i metodi classici. Ho parlato dettagliatamente della tecnica InSAR presentando il monitoraggio del territorio della Regione Toscana, la prima al mondo ad essersi dotata di questo strumento.
I punti studiati con ENVISAT (2003- 2010) e le correzioni
delle velocità verticali effettuate tramite i dati GNSS.
É molto chiara la subsidenza dell'area pistoiese a NW
Oltre alla grande quantità di dati ottenibili, questa tecnica ha un altro grande vantaggio: nella ricostruzione dei movimenti si può tornare indietro nel tempo fino a quando, in genere i primi anni ‘90, esistono i dati satellitari appropriati. È così, per esempio, che nel 2005 è stato possibile osservare come si evolveva la subsidenza nella valle del fiume Segura (SE della Spagna) oltre 10 anni prima (Tomas et al, 2005). 
Recentemente i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze e dell’Istituto Geografico Militare Italiano hanno utilizzato i dati ricavati dalle immagini satellitari ENVISAT tra il 2003 e il 2010 e quelli di SENTINEL-1 tra il 2015 e il 2017, combinandole con i dati GNSS per investigare la subsidenza nella pianura di Firenze-Prato-Pistoia (Del Soldato et al, 2018). I primi dati delle stazioni GNSS sono disponibili da tempi diversi: i più vecchi partono dal 1998 e gli ultimi dal 2010.  
Le velocità di deformazione verticale risultanti sono allineate al dato del Sistema di riferimento terrestre europeo 89 (ETRS89) e possono essere considerate velocità reale di spostamento. Le mappe di deformazione verticale del terreno derivate dai dati ENVISAT e Sentinel-1, sono state corrette con il GNSS, e mostrano come si è evoluta l'area interessata dalla subsidenza nei periodi 2003-2010 e il 2014-2017.

Il Bacino dove sono Firenze, Prato e Pistoia è l'unica vallata
della Toscana interna a non avere un nonme geografico
IL BACINO DI FIRENZE, PRATO E PISTOIA. La vallata tra Firenze, Prato e Pistoia rappresenta un caso direi unico nella toponomastica mondiale: nel versante tirrenico degli Appennini si susseguono creste e depressioni: tutte naturalmente hanno un nome (ad esempio Casentino, Valdarno superiore, Mugello) a parte, appunto, questa fossa tra Rovezzano, alle porte di Firenze e Serravalle Pistoiese, paese a cavallo dello spartiacque con la piana della Lucchesia; nel cercarne una definizione, ovviamente essendo i toscani molto campanilisti, pensare di chiamarla semplicemente “Bacino di Firenze” si configura come un torto nei confronti di chi non viene nominato, per cui vanno citate almeno le altre due realtà più grandi che vi insistono e quindi il nome diventa “Bacino di Firenze – Prato – Pistoia”, in sigla BFPP, in attesa che protestino per l’esclusione gli abitanti di Campi Bisenzio, Poggio a Caiano, Montemurlo o Quarrata, tanto per citare i comuni principali (mi scuso con gli abitanti degli altri comuni che non ho ulteriormente elencato..).
Annoto comunque che anche la pianura che si stende fra Montecatini, Lucca, Empoli, Livorno e la Versilia a sua volta è priva di un nome generale che la comprenda nella sua interezza….
Uno scorcio del Bacino di Firenze - Prato - Pistoia
dai colli sopra Sesto Fiorentino:
la piana si estende a questo modo per 35 km
con una larghezza di circa 9 km
Il bacino di Firenze – Prato – Pistoia è orientato NNW-SSE; si è formato dalla fine del Pliocene e da quel momento si è avviata la deposizione di una serie spessa fino a 600 metri nella zona centrale, essenzialmente formata da sedimenti alluvionali e lacustri. Da notare che l’aspetto del BFPP è nettamente differente da quello dei suoi fratelli: in Mugello, Casentino, Valdarno superiore i sedimenti lacustri e fluviali plioquaternari che si sono deposti in quelle depressioni sono spesso visibili perché si è abbassato il livello di base dei fiumi e quindi sono andati in erosione; di conseguenza il paesaggio vede una serie di rilievi collinari all’interno del bacino stesso, come le famose balze del Valdarno superiore; il BFPP, che è posto ad un livello inferiore di quegli altri è invece quasi totalmente un’area di sedimentazione; di fatto il centro del bacino è tutt’ora spesso soggetto ad alluvioni ed è particolarmente noto nella storia perché è stato uno dei principali ostacoli naturali incontrati da Annibale nella sua spedizione in Italia: perennemente impaludato di suo, fu incontrato dall’esercito cartaginese in un momento in cui gli acquitrini erano particolarmente difficili ad attraversare e il grande condottiero proprio qui perse un occhio per una malattia contratta in queste malsane paludi; gli unici depositi attualmente in erosione formano un terrazzo fra Careggi e le aree sotto Fiesole e Settignano e alcune collinette a W di Bagno a Ripoli, tutte annidate quindi all’estremità orientale della valle. Arno, Ombrone pistoiese e Bisenzio sono i fiumi principali che lo percorrono.
I punti esaminati con Sentinel tra il 2015 e il 2017:
anche qui si nota facilmentela subsidenza a Pistoia

LA SUBSIDENZA DEL BACINO DI FIRENZE, PRATO E PISTOIA. La spessa serie sedimentaria fluvio – lacustre deposta nel bacino, la cui superficie è ora posta mediamente a poco meno di 50 metri sul livello del mare, dimostra l’elevato tasso di subsidenza che lo caratterizza naturalmente.
Inoltre ci sono diverse cause antropiche che la influenzano: il carico degli edifici ma, principalmente, l’estrazione di acque a scopo irriguo ed industriale. 

L’attività immediatamente visibile da chi passa per Pistoia è il florovivaismo, attività che utilizza grandi quantità di acque estratte dal sottosuolo. 
Il pratese è invece noto per l’attività tessile e le tintorie, che hanno costituito un importante elemento di consumo di acque, prelevate indiscriminatamente a livelli decisamente insostenibili per le falde, specialmente fra gli anni ‘50 e ‘80. Poi, fra la sensibile diminuzione del numero delle attività e l’attuazione di procedure per il riciclo delle acque industriali, i prelievi dalla falda acquifera sono molto diminuiti.
In buona sostanza le parti della piana comprese nelle province di Prato e di Firenze tra il 2003 e il 2010 possono essere considerate sostanzialmente stabili, tranne che in pochi punti compresi tra la il centro di Prato e i comuni di Campi Bisenzio, Calenzano e Sesto Fiorentino, dove localmente sono raggiunte velocità di subsidenza fra 13 e 10 mm/anno e di innalzamento nel centro di Prato. Invece a Pistoia il centro urbano e una parte dell’area a SE della città sono in forte abbassamento.


Il sollevamento del centro di Prato
e la subsidenza nella zona di Campi Bisenzio
INNALZAMENTO E SUBSIDENZA ATTUALI NEL PRATESE. Esaminiamo adesso i dati specifici delle aree dove ci sono dei movimenti verticali intensi. Iniziamo dall’area tra Prato e Campi Bisenzio, a cavallo fra la provincia di Prato e quella di Firenze. In arancione i dati ENVISAT del primo periodo e in blu i dati SENTINEL del secondo periodo, che mostrano dei comportamenti diversi fra loro.
La parte a sinistra nella sezione DD’  (che è orientata grossolanamente NW-SE) dimostra che l’agglomerato principale della città di Prato presenta un tasso di subsidenza negativo, cioè il suolo si sta sollevando. Questo è dovuto essenzialmente alla fine delle attività industriali all’interno del tessuto urbano propriamente detto: la cittadina laniera ha avuto una crescita tumultuosa nel dopoguerra, per cui le aree residenziali hanno circondato le attività industriali, che a poco a poco hanno dovuto ricollocarsi  in zone più periferiche. 
La sezione EE’ rientra totalmente all’interno dell’abitato pratese (il vertice E è praticamente in piazza del Duomo). Il tasso di innalzamento tra le due epoche è diminuito nel secondo periodo di osservazione nella parte più vicina al centro, mentre nella parte più lontana presenta andamento opposto.   
Il motivo di questo sollevamento sta nel fatto che l’area residenziale è essenzialmente edificata sulla conoide del Bisenzio, la cui falda forniva acqua in abbondanza e adesso, grazie alla fine dei prelievi, si sta velocemente ricaricando.

Nella parte destra della sezione DD’ sono comprese invece alcune delle poche aree attualmente in subsidenza, che è aumentata negli ultimi anni in una fascia corrispondente ai nuovi insediamenti produttivi tra Prato e Campi Bisenzio. L’intersezione della sezione DD’ con la sezione FF’ corrisponde ad uno dei massimi della subsidenza, quello a sud del casello di Prato Est della A11. Le sezioni EE' e FF' sono disponibili su Del Soldato et al (2018)


Il confronto fra i dati ENVISAT e Sentinel, con i decisi
cambiamenti nel movimento tra i due periodi, in particolare
nell'area urbana di Pistoia
LA SUBSIDENZA A PISTOIA. Pistoia è un caso un po' più strano. Attualmente ci sono due aree principali in subsidenza, con valori dell'abbassamento che arrivano a 20 mm/anno:

  • quella a SE della città, lungo la via Fiorentina, centrata convenzionalmente nella frazione del Bottegone, in cui il fenomeno è chiaramente connesso agli emungimenti della falda da parte del florovivaismo. La situazione degli acquiferi è un po' complessa, ce ne sono diversi con tempi di ricarica diversi e provenienza delle acque ancora non molto chiara. Il tasso di  subsidenza è diminuito tra i due periodi, probabilmente per una riduzione delle attività e/o per una riduzione dei prelievi
  • il centro della città, che è all’intersezione fra le sezioni AA’ e BB’, mostra invece un vistoso aumento del tasso di subsidenza nel secondo periodo. Le misure dimostrano che questo abbassamento persiste tutt’ora a livelli elevati 

Anche in questo caso le altre sezioni (BB' e CC') sono in Del Soldato et al (2018). Il grafico qui sotto mostra la serie temporale di un sito rappresentativo all'interno del centro storico di Pistoia. Prima del 2007 c'erano delle oscillazioni, ma è da quel momento che è stata imboccata la via dell'abbassamento, i cui valori erano fino al 2010 abbastanza ridotti. La ripresa dei monitoraggi dal 2015 è arrivata ad accelerazione del movimento già avvenuta e quindi non è dato sapere quando è avvenuto nè come si è svolto il cambio di velocità. Le cause di questo improvviso mutamento del comportamento del suolo sotto la città non sono ancora state chiarite e sono tutt'ora oggetto di attenti studi.
Questo lavoro dimostra ancora una volta l’estrema utilità dei dati satellitari per lo studio delle deformazioni in aree di una certa grandezza e consente ancora una volta di dimostrare come le attività antropiche influenzino in maniera massiccia i movimenti verticali del suolo.

Il diverso comportamento del suolo nel centro di Pistoia
tra il periodo di osservazione con ENVISAT e quello con Sentinel



Del Soldato et al 2018 Subsidence Evolution of the Firenze–Prato–Pistoia Plain (Central Italy) Combining PSI and GNSS Data Remote Sens. 2018, 10, 1146; doi:10.3390/rs10071146 

Galloway, D.L.; Burbey, T.J. Regional land subsidence accompanying groundwater extraction. Hydrogeol. J. 2011, 19, 1459–1486 

Gonzales et al 2012 The 2011 Lorca earthquake slip distribution controlled by groundwater crustal unloading Nature Geoscience | Vol 5 | November 2012 DOI: 10.1038/NGEO1610 

Murray e Lohman, 2018 Short-lived pause in Central California subsidence after heavy winter precipitation of 2017 Sci. Adv. 2018;4:eaar8144 

Poland et al, 1975 Land subsidence in the San Joaquin Valley, California, as of 1972 Geological Survey Professional Paper 437-H

Rosi et al, 2016 Subsidence mapping at regional scale using persistent scatters interferometry (psi): The case of tuscany region (Italy). Int. J. Appl. Erth Obs. Geoinf. 2016, 52, 328–337. 

Tomas et al 2005 Mapping ground subsidence induced by aquifer overexploitation using advanced Differential SAR Interferometry: Vega Media of the Segura River (SE Spain) case study Remote Sensing of Environment 98 (2005) 269 – 283 

Vissers e Meijninger 2011 The 11 May 2011 earthquake at Lorca (SE Spain) viewed in a structural-tectonic context Solid Earth, 2, 199–204, 2011 

martedì 18 settembre 2018

Le due classi di terremoti in Giappone: oltre all'intensità di un evento, per i danni conta molto la sua posizione


Il recente terremoto a Hokkaido M 6.6 del 5 settembre 2018 ha provocato decine di morti a causa delle frane che hanno devastato i versanti collinari, resi particolarmente vulnerabili dalle intense piogge dei giorni precedenti. In Giappone c'è una apparente contraddizione fra terremoti fortissimi che provocano pochi danni e terremoni meno intensi come questo ed altri, a partire dal disastro di Kobe del 1995. La discriminante è la posizione degli ipocentri: i grandi terremoti di subduzione come nel 2011 si generano sotto l'oceano antistante, mentre questi terremoti sono più distuttivi perchè si generano, parafrasando Alessandro Amato, "sotto i piedi dei giapponesi". 

Uno dei danni più noti del teremoto di Kobe del 1995:
il crollo di alcuni viadotti
TERREMOTI PIÙ DEBOLI MA DANNI MAGGIORI. In Giappone fanno più morti e più danni (specialmente frane) eventi sismici a Magnitudo non troppo alta di quanti ne abbia fatti, tsunami a parte, il grande terremoto del 2011, uno dei più forti registrati da quando esiste la moderna sismologia: si tratta di terremoti che non hanno neanche raggiunto una M di 7, il che li fa essere 1000 volte più deboli di quell’evento spaventoso (ricordo che tra un punto e l’altro di Magnitudo l’energia sprigionata aumenta di oltre 30 volte, per cui un M 6 è qualcosa di più di 30 volte più potente di un M 5). Molti ricordano i danni del terremoto M 6.9 di Kobe del 1995, mentre diversi morti e danni hanno fatto i 3 terremoti con M>6 dell’aprile del 2016 a Kyushu, l’isola più meridionale dell’arcipelago; ho parlato diffusamente degli eventi del 2016 in questo post.
Mercoledì 5 settembre 2018, nella parte meridionale di Hokkaido, l’isola più settentrionale, un evento a M 6.6 ha provocato crolli di edifici e diversi morti soprattutto per le frane indotte, e rimarrà a lungo un importante caso di studio su questo specifico aspetto. Tutto quanto è accaduto a causa di questi terremoti è clamorosamente in contraddizione con l’Università della Vita, secondo la quale “in Giappone non crolla nulla quando c’è un terremoto”, nato soprattutto a seguito dei tanti filmati girati l’11 marzo 2011, in cui si vedono tanti edifici tremare ma senza subire danni.
Quindi, qual’è la differenza fra quel fortissimo terremoto e questi altri eventi che, sia pure più deboli, hanno provocato più danni (a parte, come detto, quelli dello tsunami)? Banalmente, il luogo dove sono avvenuti. 

Le tre placche in gioco e la sismicità con M > 5 in Giappone degli ultimi 50 anni: si vedono sia i terremoti
delle croste oceaniche in subduzione che si approfondiscono allontanandosi dai limiti fra le placche
che la diffusa sismicità superficiale (in viola) nell'arcipelago
IL GIAPPONE: UN’AREA DI SCONTRI TETTONICI INTENSI E NUMEROSI. Il Paese del Sol Levante è un territorio molto caldo dal punto di vista sismo-tettonico, perché è una zona di scontro fra ben tre placche: la placca pacifica, quella del mare delle Filippine e quella Euroasiatica. Lo scontro fra una placca continentale ed una oceanica comporta la subduzione di quella oceanica, che è più pesante. La subduzione provocata dalla convergenza di placche comporta una serie di fenomeni, a partire da terremoti e vulcani, esattamente come succede in Giappone. C’è solo una piccola differenza: tutte le subduzioni sono collegate a hanno terremoti, mentre in diversi casi ci sono delle interruzioni nella sequenza dei vulcani (ad esempio in Messico e in Cile).
In quest’area di scontri ce ne sono ben 3:

  1. la placca del mare delle Filippine scende sotto quella euroasiatica con una velocità di circa 3 cm/anno
  2. la placca pacifica subduce sotto l’Eurasia, alla rispettabile velocità di circa 9 cm/anno
  3. tanto per complicare il quadro, a sua volta la placca dell’oceano Pacifico scende pure sotto quella del mare delle Filippine, a circa 8 cm/anno 

Da un punto di vista tettonico il Giappone si può dividere in due parti:

  • la parte settentrionale è orientata circa N/S: la placca dell'Oceano Pacifico scende sotto il continente e tra l'arcipelago e l'Asia, il limite fra le due placche, la cui traccia è la fossa del Giappone, è praticamente parallelo alla costa; la placca pacifica si muove quasi perpendicolarmente rispetto alla costa
  • all'altezza di Tokyo il bordo della placca pacifica si dirige verso il mare aperto, lungo la fossa delle Bonin, e la placca pacifica scende sotto quella delle Filippine. La zona di scontro è indicata dal sistema di arco / fossa di Izu – Bonin e delle Marianne
  • per questo da quel punto in poi nella zona centro / meridionale del Giappone, orientata NW/SE, la placca che subduce sotto l'arcipelago è quella delle Filippine e la direzione del movimento è obliqua rispetto alla fossa corrispondente, quella di Nankai e alla costa dell’arcipelago

LA DUPLICE DISTRIBUZIONE DELLA SISMICITÀ IN GIAPPONE. In questa carta, che mostra i terremoti a M > 5 degli ultimi 50 anni circa, si vede bene che gli eventi sismici si dividono in due classi:

  • la prima, abbastanza intuitiva, è rappresentata dai terremoti lungo il piano di subduzione, posizionati nella crosta pacifica che scende sotto l’Asia.
  • una seconda classe è rappresentata da terremoti superficiali che si generano nella crosta dell’arcipelago


L'approfondirsi dei terremoti lungo un piano
di subduzione (da Wikipedia)
Come si vede nella carta ottenuta tramite l’Iris Earthquake Browser, gli eventi legati al piano di subduzione sono estremamente superficiali tra la fossa e l’arcipelago e poi diventano via via sempre più profondi andando verso il continente asiatico, tracciando la posizione della crosta dell’Oceano Pacifico che si immerge sotto l’Eurasia (i pallini assumono progressivamente colori diversi: viola, blu, verde giallo, arancione e rosso a seconda della profondità); in media sotto l’arcipelago la loro profondità è di 70 km. Ne segue che in genere vengono risentiti senza troppi danni, anche perché, notoriamente, i morti più che i terremoti li fa la cattiva edilizia e da quelle parti l’edilizia antisismica è di livello proverbiale
la seconda classe di eventi è diversa: le zone che si trovano davanti ad un limite fra placche evidenziano una certa sismicità anche allontanandosi dalla zona calda, ma in genere non si tratta di terrmeoti particolarmente intensi, tranne che nel caso di terremoti dovuti a  back-thrust e cioè fasce di compressione dal lato opposto a quello principale: succede ad esempio in Indonesia (Zubaidah et al, 2014) e nel Sichuan (Jia et al, 2010) e anche la sismicità lungo il fronte delle Alpi dalla Lombardia al Friuli è stata interpretata a questo modo da parecchi Autori (Michetti et al, 2011). Qui ho parlato specificamente dei back-thrust a proposito dei recenti terremoti indonesiani di Lombok
L’arcipelago giapponese è un caso particolare perchè è una area di retroarco caratterizzata da una attività sismica particolarmente intensa (oltrechè frequente) non dovuta a back-thrust (che non ci sono). Rimanendo negli ultimi decenni, a Honshu ci sono stati alcuni eventi particolarmente importanti e superficiali, come il M 7.2 del 13 giugno 2008, di meccanica compressiva, e quello del Kanto settentrionale M 7.0 dell’11 April 2011, caratterizzato al contrario dalla riattivazione di vecchie faglie normali. Questi terremoti sono considerati “intraplacca”. Il terremoto del Kanto è stato attribuito alle modifiche del campo di sforzi dopo il terremoto dell’11 marzo 2011, di appena un mese precedente (Fukushima et al, 2018). Un altro terremoto importante nell’area è stato il M 6.0 del 28 dicembre 2016. 
Nel Giappone meridionale abbiamo i terremoti di Kobe 1995 e del Khiyshu del 2016, che, tanto per completare la gamma dei meccanismi focali, sono di tipo trascorrente. 

La "Linea tettonica mediana" da Sato et al (2015)
PERCHÉ QUESTA SISMICITÀ SUPERFICIALE COSI' INTENSA IN GIAPPONE? Ma qual’è la differenza fondamentale fra il Giappone e altre zone di convergenza di placche come ad esempio l’Indonesia? In genere una placca continentale sotto la quale si immerge una placca oceanica è un blocco robusto e, possibilmente, abbastanza antico. Invece la crosta del Giappone è molto fragile, perché vi abbondano delle cicatrici di eventi tettonici piuttosto recenti. Inoltre non ha alle spalle il continente, ma è una stretta fascia di crosta continentale alle cui spalle si trova un bacino di retroarco. Quindi queste cicatrici che delimitano i vari blocchi rappresentano delle zone di debolezza che reagiscono con terremoti anche piuttosto violenti alle sollecitazioni che subiscono dallo scontro fra le placche. La più famosa di queste è la “linea tettonica mediana” del Giappone meridionale, che è attiva proprio a causa della direzione obliqua rispetto all’arcipelago della placca delle Filippine e che nel Cretaceo era la superficie lungo la quale la fascia metamorfica di alta pressione di Sanbagawa è sovrascorsa sopra blocchi più antichi; oggi, dal precedente comportamento compressivo è passata a una meccanica trascorrente (Sato et al, 2015). 

Una analogia “in grande” di questa situazione è rappresentata dalla diffusa sismicità a nord del Tibet, dove la spinta del continente indiano che si incunea nel continente euroasiatico provoca movimenti lungo vecchie direttrici tettoniche paleozoiche che vengono riprese essendo fasce di debolezza (Heron et al, 2016)
Anche il terremoto di Hokkaido è presumibilmente avvenuto lungo una linea tettonica antica, che però ha un certo significato anche attuale: è curioso infatti vedere che sia questo che l’evento M 6.4 del 21-03-1982 siano annidati lungo la fascia tettonica cretacea di Sorachi – Yezo che bene o male corrisponde anche ad una interruzione della linea di vulcani dell’anello di fuoco.

Le accelerazioni cosismiche nel 2011 e nel 2018:
nel 2011 il risentimento è stato percepito in un'area molto vasta,
mentre nel 2018 è stato localizzato ma molto più forte
DISTANZA EPICENTRALE, PROFONDITÀ ED EFFETTI DI UN TERREMOTO. Il terrificante terremoto del 2011 appartiene alla prima classe di eventi: è stato risentito in tutto il Giappone a causa della sua estrema forza, ma l’epicentro è stato nell’oceano Pacifico a circa 100 km dalla costa, e non sono state raggiunte in terraferma le accelerazioni del terreno locali raggiunte il 5 settembre. Nel caso dei terremoti del Kanto, del 1995, del 2016 a Kyushu e di mercoledì scorso l’epicentro è stato sotto l’arcipelago, a poca profondità. Per capire, facciamo un paragone con i suoni: una campana viene percepita a grande distanza ma non dà noia, mettere invece l’orecchio su un altoparlante a tutto volume lo danneggia ma a qualche centinaio di metri questo suono non è udibile a meno di non trovarsi in una zona di silenzio assoluto.
La cosa discriminante per i danni da terremoto infatti è la PGA (Peak Ground Acceleration), cioè la massima accelerazione che le onde sismiche imprimono al terreno, che è funzione sì della Magnitudo, ma anche della distanza dall’area della crosta dove si genera un terremoto: insomma più lontano e più profondo è un terremoto, meno danni fa. 
Lo dimostra il confronto delle due carte in figura, che sono alla stessa scala: a sinistra la mappa della accelerazione del terreno nel 2011 e a destra quella del terremoto di Hokkaido della settimana scorsa. Possiamo facilmente notare come nel primo caso l’area interessata dallo scuotimento sia stata estremamente più vasta che nel 2018, ma anche che l’intensità massima raggiunta dallo scuotimento sia stata ben più alta nel caso più recente. 
Un altro aspetto particolarmente importante di questo terremoto, come di quello del 2008  sono le frane. Si tratta di un fenomeno comunemente associato ai terremoti, che ne aumenta spesso considerevolmente le vittime ma, soprattutto, i danni. Il grande terremoto cinese del Sichuan nel 2008 e quello nepalese del 2015 hanno generato moltissime frane, sia nell’immediato che nella successiva stagione delle piogge. Il gran numero di frane che si sono generate dopo il terremoto di Hokkaido si spiega anche con le forti piogge dei giorni precedenti, le quali hanno indebolito il terreno, che non è stato in grado di resistere alle forti sollecitazioni prodotte dalle onde sismiche.

Fukushima et al 2018 Extremely early recurrence of intraplate fault rupture following the Tohoku-Oki earthquake Nature Geoscience  https://doi.org/10.1038/s41561-018-0201-x 

Heron et al (2016). Lasting mantle scars lead to perennial plate tectonics. Nature communications DOI: 10.1038/ncomms11834

Jia et al (2010) Structural model of 2008 Mw 7.9 Wenchuan earthquake in the rejuvenated Longmen Shan thrust belt, China Tectonophysics 491, 174–184

Michetti et al 2012 Active compressional tectonics, Quaternary capable faults, and the seismic landscape of the Po Plain (northern Italy) Annals of Geophysics, 55, 5, 2012 

Sato et al, 2015 Reactivation of an old plate interface as a strike-slip fault in a slip-partitioned system: Median Tectonic Line, SW Japan Tectonophysics 644/645 , 58–67 

Zubaidah et al, 2014 New insights into regional tectonics of the Sunda–Banda Arcs region from integrated magnetic and gravity modelling Journal of Asian Earth Sciences 80,172–184

martedì 11 settembre 2018

Tra Annapurna ed Everest, una ferrovia sul tetto del Mondo


Notoriamente sono un appassionato di ferrovie e della geologia dell’Himalaya. Non potevo quindi non parlare del progetto cinese di costruire una ferrovia fra Tibet e Nepal attraverso il tetto del mondo. Non è una cosa facile ma i cinesi sono sicuramente in grado di cimentarsi in questa ciclopica impresa: 350 km di cui 300 a oltre 4000 metri di altezza, in zone desertiche o quasi e ponti di altezza fuori dal comune, che dovrebbe avere la sua conclusione entro il 2022.

la Araniko highway e la  Pasang - Lhamu road
(Xu et al, 2018)
I TRAFFICI TRA I DUE VERSANTI DELL’HIMALAYA. Il Nepal è una piccola nazione stretta fra due giganti come India e Cina. La Cina sta tentando una penetrazione nel Nepal, tradizionalmente più legato all’India, anche per motivi geografici, e fra i due Paesi ci sono in corso tutta una serie di accordi commerciali; inoltre i cinesi hanno svolto un ruolo importante nella ricostruzione delle strade dopo il terremoto del 2015. Ma logisticamente parlando questi rapporti sono particolarmente difficili, perché fra questi due Paesi ci sono delle montagne (e che montagne… il Tibet e l’Himalaya!).
Fondamentalmente le strade tra Cina e Tibet sono due: una arriva a Kathmandu da Est, passando dal “Ponte della Pace” tra la località cinese di Zhangmu e quella tibetana di Kodari. In Cina è la strada nazionale 318, che parte da Shangai e arriva al confine con il Nepal 800 km dopo Lhasa; dal confine prende il nome di Araniko Highway, giungendo dopo poco più di 100 km a Kathmandu. La seconda strada, la Pasang – Lhamu, è stata inaugurata nel 2014: seguendo il corso del fiume Trishuli, uno dei diversi affluenti del Gange che attraversano la catena himalayana, parte dalla città tibetana di Gyrong, passa la frontiera presso Rasuwagadhi, alla Gyirong Port (aperta agli stranieri nel 2017), e giunge a Kathmandu da ovest. Entrambi gli itinerari sono stati pesantemente interessati dal terremoto M 7.8 del 25 aprile 2015, essenzialmente a causa delle frane; ne sono avvenute decine nell’immediatezza dell’evento, e purtroppo da quel momento ne è aumentata drasticamente la frequenza, come del resto è accaduto – e accade tutt’ora – in tutta l’area interessata da quel drammatico sisma, a causa della instabilità dei versanti che ne è conseguita (Xu et al, 2018). 

Per cui se la viabilità era già ostacolata “tradizionalmente” dal rischio – frana la situazione da quel momento è divenuta estremamente critica, specialmente nella stagione delle piogge. La Araniko, dopo una serie di pesanti interventi finanziati in larga parte dal governo cinese risulta ancora chiusa al ponte di confine fra Nepal e Tibet e di conseguenza il poco traffico stradale è attualmente assicurato dalla Pasang – Lhamu: secondo l’Himalayan Times non arriva a 100 container al giorno e per percorrere i 145 km dalla “porta di Gyirong" a Kathmandu ci vogliono non meno di 8 ore, fatte salve le interruzioni per frane o incidenti.


UNA ALTERNATIVA FERROVIARIA. Insomma… non è che fra Cina e Nepal la via stradale sia particolarmente appetibile… un itinerario molto difficile e dalle capacità molto ridotte, attraverso strade in cattive condizioni, vicine alla saturazione ed estremamente vulnerabili soprattutto nella stagione delle piogge a frane ed altri eventi geologici.
Il governo di Pechino sta promuovendo una alternativa ferroviaria al traffico marittimo con l’Europa, con la nuova Via della Seta, un sistema ferroviario che collega scali cinesi con scali europei – Italia compresa – e che ha già iniziato la sua attività e qualche anno fa si è fatta strada anche l’idea di una ferrovia transhimalayana per mettere in collegamento il Tibet con la capitale nepalese Kathmandu. Il Tibet è raggiungibile con il treno dal 2006, da quando è stata ultimata la costruzione della ferrovia che viene da nord (Golmud) e che attraversa il Qinghai (approssimativamente l’altopiano a nord della valle del Brahamputra); una ferrovia da record, con i binari più alti del mondo ai 5050 metri del passo Tanggula; nel 2014 la linea è stata prolungata da Lhasa verso ovest di altri 280 km, raggiungendo la città di Xigaze. Ci sono altri progetti in corso per le ferrovie tibetane: in costruzione c’è una linea che collega direttamente la Lhasa - Golmud verso ovest, verso il Sichuan e in progetto c’è, addirittura, una ferrovia per collegare il Tibet con la zona più occidentale della Cina, il bacino del Tarim.
Non pochi contestano questi progetti: sia il Tibet che il Tarim hanno una popolazione locale che non è e non si sente cinese (il caso del Tibet è ben più noto del Tarim) e la paura è sempre che le ferrovie servano soprattutto per una colonizzazione del territorio da parte dell’etnia cinese preponderante, gli Han
Xigaze nelle intenzioni di Pechino è dunque una tappa intermedia per raggiungere altre aree ben più lontane, come Gyirong, dove inizierebbe il tratto transhimalayano propriamente detto.
Un lavoro appena uscito mette in luce sia le caratteristiche tecniche che quelle geologiche dell’impresa (Shi et al, 2018). Da notare che questo articolo parla del tratto fra Tingri, Gyrong e Kathmandu, ma anche la tratta Xigaze – Tingri è in progetto e, molto diplomaticamente, parla nell’introduzione soprattutto dei traffici fra Cina e India (nonostante le tradizionali frizioni politiche, l’India è uno dei principali partner commerciali della Cina). Siccome la stragrande maggioranza delle merci si muove per mare, una via lenta e vulnerabile specialmente nella stagione dei tifoni, evitando di accennare alle mire di espansione di Pechino nella piccola nazione himalayana.

L'itinerario, da Shi et al, 2018
CARATTERISTICHE DELL’ITINERARIO. L’itinerario previsto è stato disegnato il più vicino possibile alle strade esistenti per motivi logistici e per servire i pochi centri abitati della zona ed è diviso in 5 sezioni.
1. Da Tingrì, città a circa 4100 metri di altezza, segue la strada nazionale 318 per un centinaio di km per la ampia (tra 2 e 6 km di larghezza) valle del fiume Pum Qu. Sembra una cosa semplice ma i problemi non mancano, sia dal punto di vista logistico (non è il “nulla assoluto” ma insomma non è facile reperire i beni necessari per i lavori e per la manodopera) che da quello geologico: è una zona con vegetazione scarsisssima, per cui il rischio di frane e flussi detritici è alto, mentre il fiume tende a erodere le rive sulle quali la ferrovia dovrebbe essere impostata; per questo sono raccomandate tutta una serie di operazioni per stabilizzare il terreno e agevolare il drenaggio, soprattutto dove l’itinerario si sviluppa sulle conoidi formate dagli affluenti del Pum Qu
2. Al km 98 e per 30 km la valle si stringe drasticamente e il fondovalle è considerato molto rischioso. In questo tratto sono previsti diversi ponti e gallerie, ma tutti di ridotta lunghezza 
Geologia dell'Himalaya da Carosi et al (2018) e l'itinerario
3. Siamo a Xiamude, dove l’itinerario lascia la strada 318 e inizia la strada regionale 214, che, siccome porta a Gyirong, rappresenta l’inizio dell’itinerario Pasang – Lhamu, che più o meno viene seguito anche dalla ferrovia. La valle si allarga nuovamente e ci sono gli stessi problemi del tratto iniziale
4. Poi c’è da valicare la catena dello Xixiabangma, un allineamento montuoso trasversale all’Himalaya, un assaggio di quello che verrà dopo. La strada 214 lo affronta con una serie di tornanti, cosa che ovviamente la ferrovia non può fare: infatti il progetto prevede un tunnel di quasi 20 km, che arriva molto vicino alla sede successiva di tappa, Gyjrong. In questa zona ci sono arenarie e calcari appartenenti alla Himalaya tedidea e la direzione della galleria sarà guidata anche dalle direzioni delle strutture geologiche esistenti (pieghe e faglie). Le serie dell’Himalaya Tetidea sono sedimenti deposti sul margine continentale dell’India (Torsvik et al, 2009) sull’oceano che è stato chiuso dalla successiva collisione  con l’Asia avvenuta nel Terziario inferiore e di cui ho parlato molto spesso. La sedimentazione è iniziata nel Paleozoico inferiore ed è continuata praticamente fino alla chiusura dell’oceano (Cai et al, 2015)
Il confine stradale Cina - Nepal alla Gyirong Port.
sulla strada tra Gyirong e Kathmandu
5. Finalmente, 215 km dopo Tingrì siamo a Gyirong, dover inizia il tratto propriamente transhimalayano. Da Gyirong a Katmandu in linea d’aria ci sono appena 130 km e 2800 metri di dislivello, che, sempre in linea d’aria, farebbero 22 mm/metro, una pendenza discreta per una ferrovia ma non impossibile. La linea segue la valle dello Gyirong Zangbo, che si getta nel Trishuli a meno di 30 km a valle della città. Da qui segue il corso di questo fiume. La valle è molto, molto stretta (e, appunto, franosa) e quindi nell’itinerario tra Gilong e Kathmandu sono previste una serie di gallerie, di cui le più lunghe di 20, 10, 8 e 7 km, tutte comprese fra i km 223 e 355. 
Un altro aspetto che colpisce sono i ponti: dei 9 principali 6 di lunghezza superiore al km. Ma quello che colpisce è la loro altezza: nel tratto propriamente transhimalayano il più basso di questi sarà alto 230 metri, gli altri tra 290 e 320 metri. Il più ardito è lungo 3200 metri e alto 320. Cifre da capogiro nel pieno senso della parola... Per dare un’idea il tristemente noto Viadotto del Polcevera crollato questo agosto era lungo 1180 metri e alto 90
Soprattutto, rispetto al tunnel dello Xixiabangma cambiano le condizioni geologiche: alle serie sedimentarie dell’Himalaya tetidea si sostituiscono le rocce cristalline della Grande Himalaya: si tratta di rocce ad alto grado metamorfico che evidenziano un seppellimento ed un riscaldamento fra 45 e 25 milioni di anni fa. Ad esse si accompagnano delle rocce magmatiche intrusive del Miocene inferiore, messe in posto poco dopo la fine del metamorfismo. Precedentemente ritenute una unica unità tettonica di grandi dimensioni, oggi le serie della Grande Himalaya considerata un insieme di più unità dalla storia e dalla tempistica metamorfica e tettonica differenti (Carosi et al, 2018), Data l’area, inoltre, è evidente che non solo il tratto trans-himalayano, ma tutta la linea debba essere costruita con stringenti criteri antisismici, in quanto le accelerazioni cosismiche possibili sono tipiche del VIII – IX grado in quasi tutto il percorso (Rahman et al, 2018)

Da queste immagini si capisce il rischio di frane
anche in caso dei pendii non ripidi delle sezioni 1 e 3
CARATTERISTICHE FERROVIARIE DELLA LINEA. Dal punto di vista tecnico generale si tratta di una ferrovia a binario singolo, con velocità massima di 120 km/h, che viene ridotta a 80 km/h nel tratto in cui il tracciato è costruita sul permafrost. È evidente come queste caratteristiche appaiano non eccezionali dal punto di vista “europeo”, ma la linea è pensata essenzialmente per le merci, per le quali rispetto al collegamento stradale attuale si tratterebbe di un deciso miglioramento.
Queste velocità sono consentite da curve di raggio non inferiore a 300 metri e da una pendenza media di 15 mm/metro. Sono comunque previste livellette isolate da 35 mm/m.
La lunghezza delle gallerie consiglia la trazione elettrica, mentre la ferrovia che arriva dalla Cina a Xigaze è a trazione diesel (a causa dell’altitudine queste locomotive hanno degli accorgimenti tecnici particolari), perché nel tratto non elettrificato, da Golmud a Lhasa, c’è solo una galleria di circa 10 km su un totale di 1100, che quindi da sola non giustifica l’elettrificazione.
Questo giustifica in pieno la velocità ammessa: ci sono due filosofie di fare treni merci: negli USA e in Australia, ma anche in Russia e Cina si usa in genere la trazione diesel, che permette di fare treni un po' lenti, ma estremamente lunghi, perché puoi mettere tutte le locomotive che vuoi. Con la trazione elettrica è diverso: come a casa nostra il contatore della corrente scatta se mettiamo in funzione contemporaneamente troppi apparecchi anche la trazione elettrica in ferrovia ha l’inconveniente che le locomotive in una determinata tratta non possono assorbire più corrente di una valore limite; di conseguenza il loro numero è limitato. Però in Europa, dove i convogli merci sono più corti, la capacità di trasporto è assicurata dalla maggiore velocità e il valore di 120 km/h giustifica la trazione elettrica, usando la velocità per aumentare le potenzialità della linea.

IL NEPAL E LE FERROVIE: LAVORI IN CORSO. Ho scritto che l’obbiettivo primario non è collegare Cina e India, ma Cina e Nepal. E l’India, che conosce le mire espansionistiche di Pechino, ne è consapevole, tanto è vero che ha già in costruzione alcune linee per collegarsi con il Nepal, a scartamento indiano (quindi 1676 mm contro quello ordinario di 1435 mm che è anche quello cinese) e proprio in questi giorni ha proposto la costruzione di una ulteriore linea che da Raxaul, cittadina indiana di confine, raggiungerà Kathmandu. Le due città sono abbastanza vicine in linea d’aria (90 km), ma fra loro ci sono ben 1300 metri di dislivello
Insomma, in pochi anni la capitale nepalese potrebbe essere raggiunta da ben due linee ferroviarie internazionali, mentre la compagnia ferroviaria di stato sta pianificando una linea nazionale che serva tutto il Paese da est a ovest.

Cai et al 2011 Provenance analysis of upper Cretaceous strata in the Tethys Himalaya, southern Tibet: Implications for timing of India–Asia collision Earth and Planetary Science Letters 305, 195–206

Carosi et al, 2018 Structural evolution, metamorphism and melting in the Greater Himalayan Sequence in central-western Nepal in: Treloar  & Searle (eds) Himalayan Tectonics: A Modern Synthesis. Geological Society, London, Special Publications, 483,

Rahman et al (2018) Probabilistic Seismic Hazard Assessment for Himalayan–Tibetan Region from Historical and Instrumental Earthquake Catalogs Pure Appl. Geophys. 175 , 685–705

Shi et al, 2018 Engineering geology of cross-Himalayan railway alignment and its preliminary design Journal of Nepal Geological Society, 2018, vol. 56, pp. 49–54

Torsvik et al (2009) The Tethyan Himalaya: palaeogeographical and tectonic constraints from Ordovician palaeomagnetic data Journal of the Geological Society, London 166,679–687

Xu et al, 2018 Landslide damage along Araniko highway and Pasang Lhamu highway and regional assessment of landslide hazard related to the Gorkha, Nepal earthquake of 25 April 2015 Xu et al. Geoenvironmental Disasters (2017) 4:13