mercoledì 14 febbraio 2018

I vantaggi nell'integrazione fra gli strumenti a terra e quelli satellitari per lo studio delle frane: il caso di una miniera a cielo aperto



I dati ottenuti con l'interferometria radar rappresenta oggi uno dei migliori sistemi per la sorveglianza delle frane e di qualsiasi movimento del terreno. Mi sono già occupato della cosa due anni fa, ai tempi del crollo della diga del Fundao in Brasile. L'interferometria radar misura le distanze come differenza tra la fase del segnale, quindi riesce ad ottenere valori estremamente precisi.
Il gruppo di Geologia Applicata del dipartimento di Scienze della Terra di Firenze ha appena pubblicato una interessante ricerca sulla rivista Engineering Geology che esplora i benefici dell'uso incrociato di due tipi di radar interferometrici, quelli a terra e quelli satellitari InSAR, per monitorare le frane, capire quello che è successo prima dell'innesco del fenomeno e, possibimente, arrivare  fino ad una previsione del quando inizierà.


VANTAGGI E SVANTAGGI DELL’USO DEI SATELLITI NELLO STUDIO DELLE DEFORMAZIONI DEL TERRENO. In genere il monitoraggio di un fenomeno franoso inizia "a posteriori", nel senso che una appropriata rete di monitoraggio viene allestita solo dopo che la frana è avvenuta. Però dal punto di vista della ricerca scientifica e da quello della valutazione del rischio “a priori” o “nell’immediato” sarebbe importante sapere cosa sia successo "prima" e cioè quali siano i fenomeni precursori dell'avvenimento, in modo, appunto, da poter capire quando aumenta il rischio in una certa area (in genere già potenzialmente prona alle frane), cercando, nella situazione ottimale, di arrivare persino ad una previsione di quando il tutto si metterà in movimento in maniera distruttiva.
La copertura satellitare riesce a fornire una buona parte delle risposte a questi interrogativi, grazie ad un suo immenso vantaggio: il satellite c'è "sempre", nel senso che quelli dotati di radar interferometrico sono numerosi, appartengono a diverse agenzie e quelli appartenenti ad una singola agenzia sono coordinati in flotte. Per cui esiste una copertura totale e abbastanza frequente di tutta la superficie terrestre, con i dati che rimangono registrati e facilmente consultabili dagli specialisti in materia.
Quindi dopo una frana si possono consultare i dati satellitari di tutti i passaggi degli anni precedenti sopra l'area interessata, grazie ai quali vengono individuati i movimenti del terreno avvenuti prima del verificarsi della frana stessa; il che è esattamente quello che ci vuole per poter cercare di capire quali siano dal punto di vista delle deformazioni del suolo i fenomeni precursori di una frana. È ovvio che queste indagini devono essere completate prendendo in considerazione anche altri aspetti: litologia, morfologia, clima, condizioni meteo, attività antropica e quant’altro. Un esempio di applicazione di questa metodologia lo troviamo in [1].

L'interferometria radar da satellite ha però alcuni svantaggi:
- il primo, a comune con quella da terra, è che lo strumento misura lo spostamento lungo la direzione in cui “vede” l'occhio del radar (la cosiddetta "linea di vista"), per cui più la direzione del movimento è parallela alla linea di vista, più la misura è precisa; in realtà quindi per qualsiasi movimento non in direzione della linea di vista ne viene rilevata la proiezione lungo la linea di vista e se il movimento è in direzione perpendicolare alla linea di vista non viene minimamente percepito
- il secondo che, ovviamente, a causa della minor distanza un radar a terra che illumina una parete di roccia è molto più preciso di quello satellitare
- il terzo è che il rilevamento è discontinuo, avvenendo ad ogni passaggio del satellite (ad esempio Sentinel, il satellite usato per questo lavoro, passa su un determinato punto della superficie ogni 6 giorni circa
Il radar a terra invece può essere orientato “a piacere”, consentendo quindi una visione più ottimale del fenomeno. Ma la copertura ottenuta può essere difficilmente totale come quella satellitare
Per tutti questi motivi, oltre che per la minore risoluzione spaziale, i radar satellitari non possono sostituire quelli a terra nel monitoraggio dei versanti instabili, bensì affiancarli e renderli più efficaci.

LA NECESSITÀ DI MONITORARE LE MINIERE A CIELO APERTO. Nel caso in oggetto c'era anche già un sistema di monitoraggio a terra perché la frana di cui si parla è avvenuta in una miniera a cielo aperto. In questi contesti un sistema di monitoraggio del genere è necessario [2]: le pareti di una miniera a cielo aperto hanno una pendenza superiori a quella che avrebbero in Natura e quindi sono estremamente soggette a frane, dalla semplice caduta massi fino al collasso di un intero versante. I crolli in queste miniere dunque sono un rischio sostanziale (e frequente) sia per gli operatori sia per l'attività della miniera. Il monitoraggio consente di sgomberare l’area interessata prima che l’incidente avvenga, o, in alcuni casi, può addirittura consentire un intervento preventivo di ripristino del versante affetto dal problema. Nel primo caso si salvano vite umane, mentre nel secondo oltre alle perdite umane si evitano le perdite economiche dovute ad una più o meno lunga interruzione delle attività estrattive.
Particolarmente noto fra i più recenti incidenti del genere, soprattutto per le sue dimensioni, è quello della miniera a cielo aperto di rame del Bingham Canyon, nello Utah, nel 2013, un caso che ben esemplifica l’utilità dei sistemi di monitoraggio dei versanti in impianti del genere: malgrado il collasso di ben 144 milioni di tonnellate di materiale, non ci furono vittime proprio grazie ad un eccellente sistema di monitoraggio, composto da diversi radar da terra e da alcune centinaia di prismi sorvegliati da diverse stazioni totali robotizzate, i cui dati consentirono alla direzione della miniera non solo di capire che il versante stava per collassare, ma anche di evacuarla in relativa calma con 12 ore di anticipo rispetto al verificarsi del collasso; questo secondo aspetto è stato conseguito mediante l'impiego di metodi empirici previsionale basati su quanto veniva osservato.


la zona della frana da [2]: si nota come il fenomeno
sia partito da sopra la zona interessata alla coltivazione
IL CASO DI STUDIO. Geoapp, lo spin-off accademico del Gruppo di Geologia applicata del Dipartimento di Scienze della Terra dell'università di Firenze fra le sue attività ha proprio l'allestimento, il mantenimento e l'analisi dei dati di sistemi per il monitoraggio dei versanti delle miniere a cielo aperto.
Il caso di studio si basa su una frana avvenuta su una parete di una miniera di rame a cielo aperto non specificata il 17 novembre 2016. Geoapp è stata chiamata dalla società che operava la miniera perché, nonostante la miniera fosse regolarmente dotata di un sistema di monitoraggio, l’evento era giunto inaspettato, e per questo è costato la morte di 16 minatori. La frana ha interessato una zona lunga circa 400 m e larga fino a 300, visibile in questa fotografia. Gli obbiettivi dell’intervento erano: ricostruire l'accaduto, capire l'eventuale prevedibilità del fenomeno con i dati di monitoraggio disponibili prima dell'evento e supportare le indagini della magistratura connesse.
La prima questione era il perché il sistema a terra non aveva rilevato segni precursori dell'evento. Per capire lo sviluppo del fenomeno sono stati quindi esaminate le immagini InSAR dei mesi precedenti alla frana, ricavate dal satellite europeo Sentinel-1.
Le indagini, presentate nell'articolo [3], dimostrano innanzitutto che l'area copertura dal radar da terra installato nella miniera non era sufficiente ad identificare nella sua interezza il fenomeno franoso: il sistema rendeva possibile la rilevazione della deformazione in soli due banchi, mentre la zona di sviluppo della frana era collocata fuori dalla linea di vista del sistema; come l'analisi InSAR satellitare ha poi potuto chiarire, questa circostanza è dovuta al fatto che il fenomeno franoso ha avuto inizio nel pendio naturale al di sopra della cresta della miniera, non monitorato. Lo vediamo sia dalla fotografia qui sopra che da questa carta, dove  è chiaro il limite della coltivazione e dove i triangoli rossi rappresentano l’area a massima deformazione, che insiste sia nell'area soprastante che in quella mineraria.


Nei dati satellitari la frana in via di sviluppo è chiaramente evidente e la curva della deformazione mostra nei giorni precedenti una chiara accelerazione della pendenza, come si vede dal grafico qui accanto: il collasso è avvenuto il 17 novembre ma si nota come il periodo preparatorio dell’evento con l’ accelerazione del movimento del terreno sia iniziato circa due mesi prima. Siamo in una zona dal clima arido e dalla scarsa vegetazione, pertanto precipitazioni significative possono innescare molto facilmente dei fenomeni di instabilità dei versanti. Le prime tracce significative di movimento nella parete sovrastante la coltivazione mineraria datano ai primi di settembre e dopo una fase di stabilizzazione le piogge del 16 ottobre hanno improvvisamente modificato le cose (ecco dimostrata l’importanza delle correlazioni fra dati InSAR e dati meteorologici!). Comunque, anche dopo il disturbo dovuto alla pioggia del 15 ottobre, il sistema era di nuovo sostanzialmente tornato stabile, senonché si è avuto un nuovo e prolungato intervallo piovoso, che ha definitivamente degradato la situazione (volendo, ha piovuto anche immediatamente prima l'innesco della frana).
Quindi se la direzione della miniera avesse avuto a disposizione i dati del monitoraggio satellitare, questi movimenti sarebbero stati rilevati "in diretta" e ciò avrebbe permesso di riposizionare il radar a terra in modo da inquadrare la zona oltre il culmine della miniera in cui la frana stava partendo, evitando le vittime.

LA PREVISIONE DELLA DATA DELL’EVENTO. I dati InSAR hanno persino dimostrato che era possibile indicare una valutazione della data dell'evento. Supponendo una accelerazione degli eventi si può ricavare una curva della inversione della velocità in un grafico in cui in si plotta ad ogni tempo t l'inverso della velocità 1/v: più la v aumenta più 1/v tenderà a zero e quando la curva dei valori di 1/n raggiunge il valore 0 (punto di velocità infinita) e quindi la retta del tempo, quel particolare tempo t sarà esattamente il momento in cui arriverà la rottura.
In particolare già con i soli dati InSAR disponibili ogni 6 giorni si vede che la retta mediana fra le varie osservazioni dava il 17 novembre come data più probabile fin da metà ottobre.

L'articolo dimostra splendidamente sia le incredibili opportunità che i dati dei satelliti interferometrici possono fornire per capire le fasi precedenti all'avvio di un fenomeno franoso e che proprio grazie a questi la copertura dei radar a terra è meno essenziale dal punto di vista "generale". Con ciò evidenzia anche come non sia possibile fare a meno dei radar locali; però dimostra anche come la strumentazione a terra possa essere posizionata in maniera ben più efficace proprio grazie ai dati satellitari, i quali consentono di selezionare con una buona precisione le aree di pericolo. Inoltre, ovviamente, un radar satellitare non potrà mai rilevare il rischio per caduta di singoli massi di ridotte dimensioni!

[1] Intrieri et al 2018 The Maoxian landslide as seen from space: detecting precursors of failure with Sentinel-1 data. Landslides 15, 123 - 133

[2] Carlà et al (2018) Integration of ground-based radar and satellite InSAR data for the analysis of an unexpected slope failure in an open-pit mine. Engineering Geology 235, 39–52

[3] Carlà et al (2017) On the monitoring and early-warning of brittle slope failures in hard rock masses: Examples from an open-pit mine. Engineering Geology 228, 71-81


martedì 6 febbraio 2018

La subsidenza delle aree di pianura e i rischi che corrono per questo fenomeno le aree costiere


Torno ad occuparmi della subsidenza costiera, di cui ho parlato altre volte nel passato, perché è un georischio non troppo conosciuto, soprattutto perché non è “spettacolare” come alluvioni o terremoti. Ma al contrario di questi ha esiti definitivi: un territorio colpito da alluvioni o terremoti può riprendersi, sia pure fra mille difficoltà; la subsidenza invece è “per sempre”, almeno a scala temporale umana, visto anche l'innalzamento del livello marino dovuto al riscaldamento globale, e potrebbe costringere all’abbandono del territorio (come è successo in alcune aree del Texas e potrebbe succedere a Venezia) o alla fine delle attività agricole per la sostituzione delle falde di acqua dolce con quelle salate di provenienza marina (il cosiddetto cuneo salino) a meno della sostituzione delle acque locali con acque provenienti da lontano e a patto che le acque salate non arrivino in superficie.


La "veduta della Toscana a volo di uccello" di Leonardo da Vinci:
si nota come la costa era occupata da lagune oggi bonificate
EROSIONE COSTIERA E SUBSIDENZA. Di recente i problemi connessi con l’erosione costiera, sempre più rapida e intensa, hanno fatto crescere l’attenzione sui temi della difesa dei litorali. E se una volta si pensava solo in termini di salvaguardia delle risorse economiche e sociali, oggi, finalmente, se ne parla anche in termini di protezione ambientale, per cui l’ISPRA ha pubblicato delle apposite linee – guida per la realizzazione di opere di difesa costiera [1]. Il problema maggiore che le aree costiere devono affrontare è la subsidenza.
Per subsidenza si intende ogni movimento di abbassamento verticale della superficie terrestre, indipendentemente dalla causa che lo ha prodotto. Fra i georischi è molto meno conosciuta rispetto a frane, alluvioni e terremoti, probabilmente perché anziché un evento improvviso e – a suo modo – spettacolare la subsidenza è un fenomeno impercettibile con le normali osservazioni umane, che per essere visualizzato richiede tecniche molto sofisticate: in particolare è normale studiarla con la interferometria da satellite, una tecnologia che consente di vedere spostamenti verticali dell’ordine del millimetro [2]. 


LE COSTE BASSE ITALIANE: QUASI TUTTE ARTIFICIALI. Per parlare della subsidenza costiera occorrono alcune premesse: la prima è che se le coste alte, quelle caratterizzate da scogli o scogliere, forniscono un limite netto fra mare e terraferma (anche se, ovviamente, sono in arretramento a causa dell’erosione ma in genere si tratta di un arretramento non particolarmente evidente a scala umana se non in alcuni casi), noi siamo abituati a vedere un limite netto mare / terraferma anche nelle coste basse e consideriamo un’area come quella della laguna veneta una eccezione; in realtà quello che si vede in Veneto è proprio ciò che ci si dovrebbe aspettare dove il mare incontra una pianura costiera: in tutte le coste basse al posto di un linea di costa precisa e definita troveremmo in natura una fascia costituita da una successione di stagni, dune, cordoni litorali, insomma una fascia lagunare. 
E se la pianura nell’entroterra è vasta, come quella padana o semplicemente la bassa valle dell’Arno, il limite fra le acque dolci e quelle salmastre sarebbe molto più sfumato di quello che vediamo oggi. La celebre “veduta della Toscana a volo d’uccello” di Leonardo illustra la situazione dei litorali toscani: ampie zone della Versilia e della Maremma non erano ancora state bonificate ed erano costituiti da un insieme di dune e isolotti in mezzo a specchi d’acqua salmastri. 


PIANURE E SUBSIDENZA. In Natura la subsidenza, il gioco delle correnti e l’apporto di materiale fanno sì che le aree costiere siano un ambiente estremamente dinamico dal punto di vista geomorfologico, dove i cambiamenti sono velocissimi, percepibili anche alla scala umana e le dinamiche costiere  nel passato hanno costretto all’abbandono di innumerevoli insediamenti per il loro allagamento e, specularmente, di porti a causa dell’interramento. Di casi del genere la storia del nostro Paese è piena.
La subsidenza è un fenomeno che riguarda tutte le pianure, costiere e no, tranne quando l’area in oggetto è in sollevamento per motivi tettonici. È proprio grazie alla subsidenza che si formano delle serie sedimentarie che in alcuni casi, quando la deposiizone dura decine di milioni di anni si formano serie sedimentarie spesse diversi km, perché in Natura se il suolo si abbassa viene sempre ricoperto da nuovi sedimenti. 
Facendo alcuni esempi, lo spessore dei sedimenti recenti in Toscana Settentrionale è spesso superiore ai 2 km: se noi togliessimo tutto quello che si è depositato negli ultimi 5 milioni di anni tra Empoli, Montecatini e la costa ci sarebbe teoricamente un mare molto profondo. In realtà le cose stanno diversamente: la superficie del basamento roccioso ricoperta dai depositi marini si trova molto al di sotto di dove era quando si sono deposti i primi sedimenti, e si è abbassata proprio per il loro peso.
Se nelle aree lontane dal mare la subsidenza impone delle precauzioni, soprattutto per la stabilità degli edifici e il rischio alluvione delle zone che si deprimono maggiormente (per esempio a Roma [3]), lungo le coste invece il fenomeno può raggiungere esiti devastanti, come ad esempio lungo nel Texas, dove il caso più devastante è quello di Brownwood, un sobborgo della città di Baytown, costruito in una zona boscata lungo la baia di Galveston negli anni ‘30 del XX secolo, in un’area all’epoca circa 3 metri sopra il livello del mare. Nel 1978 il suolo si era già abbassato di 2 metri e nel 1983 l’uragano Alicia provocò 3 metri di storm surge (l’innalzamento del livello marino causato da onde, venti e della bassa pressione connessi, appunto, agli uragani), ne decretarono l’abbandono. Oggi è una riserva naturale per uccelli che vivono in ambiente lagunare e/o palustre [4]. Ma anche in Italia non si scherza (potevamo forse mancare di qualche geo-rischio???): il caso di Venezia è quello più noto in tutto il mondo di subsidenza costiera.


Il borgo di Brownwood, sulle coste del Texas,
abbandonato a causa della subsidenza, da [4] 
CAUSE NATURALI DELLA SUBSIDENZA. I motivi naturali dell'abbassamento del suolo sono diversi, e da qualche millennio anche l’impatto umano ha significativamente alterato il paesaggio, come appunto dimostra anche solo la carta di Leonardo,  e – di conseguenza – la dinamica delle coste.
I principali processi naturali sono:
- processi tettonici: rappresentano l’innesco della formazione di pianure interne o di bacini marini costieri se il mare è sufficientemente vicino
- variazioni climatiche che cambiano il regime marino (soprattutto tempeste e correnti) ma anche il regime delle precipitazioni: l’aumento degli eventi estremi (precipitazioni intense in tempi ridotti) comporta un aumento del carico sedimentario dei fiumi e quindi un colmamento delle lagune e un avanzamento delle coste. Alla rovescia, una diminuzione degli eventi estremi porta ad un arretramento dei litorali perchè il carico solido delle alluvioni non riesce a compensare la subsidenza. Inoltre un aumento della frequenza delle mareggiate in un’area in subsidenza aumenta i possibili alluvionamenti da mareggiate e da storm surge. Il caso del delta del Gange in Bangladesh è un classico del genere [5] 
- subsidenza da carico: l’abbassamento e le trasformazioni chimico-fisiche (diagenesi) dei sedimenti per effetto del carico dei sedimenti che a poco a poco si sono formati al di sopra dei sedimenti più vecchi [6]: quindi più sedimenti si depositano più la crosta si abbassa a causa del peso di ciò che vi si accumula al di sopra
- oscillazione del livello delle falde acquifere
- innalzamento del livello marino: è evidente che nelle zone costiere il gioco non insiste solo nel livello del terreno ma anche in quello del livello del mare: una risalita del livello del mare ha gli stessi effetti di un abbassamento del suolo. Il riscaldamento globale sta innalzando il livello del mare, sia tramite lo scioglimento dei ghiacci delle calotte polari (Antartide e Groenlandia), sia per l’aumento di volume delle acque marine che comporta il loro riscaldamento. 


L'aumento del consumo di suolo lungo le coste in Italia, da [8]
Copertura del suolo in Italia nei primi 300 metri dalla costa, da [8]
CAUSE ANTROPICHE DELLA SUBSIDENZA. Alcuni aspetti dell'attività antropica hanno influenzato in modo considerevole il fenomeno. Nel passato, diciamo in età storica, la causa principale delle influenze antropiche sulla dinamica dei litorali sono state le operazioni di disboscamento che hanno accentuato l’erosione dei versanti. Di fatto ad estesi disboscamenti corrispondono fasi di avanzamenti della linea di costa e colmamento delle lagune, perché l’erosione del suolo dovuta al disboscamento ha provocato un significativo aumento del carico solido dei fiumi. Questo carico è nettamente diminuito nei decenni recenti sia per le opere di riforestazione che per la costruzione di laghi artificiali, essenzialmente a scopo idroelettrico, ma anche irriguo e idropotabile, i quali ne trattengono una grande parte [7].
Le bonifiche e le arginature dei fiumi impediscono le alluvioni: dal punto di vista economico è sicuramente utile perché gli eventi alluvionali provocano enormi danni ad abitazioni ed are di interesse industriale e commerciale. Ma contribuiscono ad aumentare l’abbassamento del terreno, perché il carico solido portato dalle piene è appunto il sistema naturale che permette in caso di subsidenza di mantenere un certo livello del terreno.

Negli ultimi decenni sono diventati fondamentali i prelievi indiscriminati di acqua dalle falde, e l’estrazione di idrocarburi, che provocano subsidenza in quanto l'acqua occupa i pori del terreno e non è comprimibile, e  toglierla vuole dire compattare il terreno, che quindi si abbassa.  
In Italia la linea di costa nella stragrande maggioranza dei casi è completamente artificiale e quindi in qualche modo si oppone ai fenomeni naturali che la governano. Il rapporto ISPRA sull'uso del suolo 2014 [8] descrive negli ultimi decenni un incremento notevole del consumo di suolo nella fascia compresa entro i primi 10 km dal litorale, nettamente superiori rispetto al resto del territorio nazionale: dal 4% degli anni ‘50 siamo al 10,5% nel 2012.  Lo si vede dal grafico qui sopra.
I valori più elevati di copertura artificiale del suolo sono visibili in questa carta: nella stragrande maggioranza dei litorali, la fascia entro i 300 metri dalla linea di costa registra oltre il 20% di copertura artificiale.
I valori massimi si registrano in alcuni tratti della Liguria, nella Toscana settentrionale, nelle province di Roma e Latina, in buona parte della Campania e della Sicilia, a Bari e a Taranto, e lungo la costa adriatica da Ravenna a Pescara. Banalmente, nelle aree più turisticamente sviluppate.
Questa massicci copertura delle aree costiere è essenzialmente una conseguenza dello sviluppo del turismo. Insomma, in Italia di coste basse rimaste allo stato naturale ce ne sono ben poche. Soprattutto grave per la dinamica del sedimento è stata la cancellazione delle dune che bordavano la costa.
Costruzioni come moli o porti sono un altro elemento antropico di disturbo della linea di costa perché bloccano il continuo movimento del sedimento lungo la riva, che sarebbe costante. Quindi a monte dell’ostacolo la spiaggia aumenta, a valle diminuisce. L’esempio del porto di Marina di Carrara è illuminante al proposito: la corrente costiera va verso sud e trasporta la sabbia proveniente dal fiume Magra. A nord della struttura c'è una ampia spiaggia che ospita importanti stabilimenti balneari. A sud invece la costa è in erosione e addirittura è stato definitivamente interrotto il lungomare.
Negli ultimi decenni sono diventati fondamentali i prelievi indiscriminati di acqua dalle falde, e l’estrazione di idrocarburi, che provocano subsidenza in quanto l'acqua occupa i pori del terreno e non è comprimibile, e  toglierla vuole dire compattare il terreno, che quindi si abbassa. 

Il porto di Martina di Carrara e le sue conseguenze sulla dinamica dei sedimenti costieri
Il cuneo salino in avanzamento a causa della subsidenza delle aree costiere
ALCUNI ASPETTI DELLA SUBSIDENZA CONNESSA AL RECENTE SFRUTTAMENTO DELLE FALDE ACQUIFERE. Il massiccio sfruttamento delle falde acquifere iniziato nel dopoguerra con l’industrializzazione e l’agricoltura intensiva è un problema gravissimo che ha dei risvolti curiosi: nelle aree in cui il sovrasfruttamentoda parte delle industrie è  particolarmente intenso, il livello della curva piezometrica (la superficie della falda) mostra una correlazione con il lavoro nelle aziende: si innalza durante le ferie ed i fine settimana. Questa componente è spesso più forte rispetto a quella stagionale, in cui la falda si innalza in periodi piovosi e si abbassa durante le stagioni secche. Prendendo l'esempio di Prato, città in cui le tintorie di tessuti una volta erano numerosissime e non c'era nessuna forma di riciclaggio del quantitativo imponente di acqua che consumavano, il livello massimo della falda veniva toccato alla fine di agosto, quando in assenza di influenze antropiche quel periodo dovrebbe corrispondere al livello minimo annuale! Oggi, tra la drammatica contrazione delle lavorazioni e il sistema di riciclaggio industriale delle acque i prelievi sono talmente diminuiti che l’area pratese è in sollevamento; pochi km più ad W nel pistoiese le attività florovivaistiche usano un quantitativo di acqua importante e difatti questa area registra tassi di subsidenza elevatissimi. 
Prato e Pistoia sono bel lontane dal mare e i loro acquiferi non cambiano di composizione. Ma nelle aree costiere l’emungimento delle falde acquifere, la subsidenza e la risalita del livello marino hanno conseguenze pesanti sulle acque del sottosuolo, perché tutti questi fenomeni facilitano la sostituzione delle acque dolci con quelle salate di provenienza marina, il che ne rende impossibile l’uso per qualsiasi scopo (irriguo, industriale, idropotabile). Insomma, la subsidenza mette a rischio l’uso primario per cui nei secoli scorsi sono state fatte le bonifiche delle zone costiere: eliminare la malaria ma soprattutto renderle disponibili per le coltivazioni ed altre attività economiche (industria e turismo).


CONCLUDENDO. I rischi che stanno correndo le aree costiere sono molto elevati perchè:

- alcune aree hanno una subsidenza naturale talmente elevata che solo l'avvento delle idrovore ne ha permesso la bonifica
- alla subsidenza naturale si è aggiunta una forte componente antropica causata essenzialmente dei prelievi idrici
- le arginature impediscono il deposito di sedimenti
- le coste sono avanzate negli ultimi secoli anche e soprattutto a causa degli estesi disboscamenti dei versanti montani, mentre oggi avanzata dei boschi e dighe hanno diminuito il carico solido dei fiumi, per cui molte coste sono in erosione
- la penetrazione all'interno del cuneo salino ne metterà a dura prova l'agricoltura
A questo dobbiamo aggiungere un innalzamento del livello marino di circa 4 mm/anno a causa del riscaldamento globale 
Per cui non è detto che anche alcune aree costiere italiane non debbano essere abbandonate nei prossimi decenni e di sicuro molte rischiano di diventare improduttive dal punto di vista agricolo. 
Il tutto, se economicamente sarà sicuramente un disastro, potrebbe avere dei risvolti interessanti dal punto di vista ambientale, ripristinando come nel caso di Brownwood le condiizoni naturali.



[1] Paganelli et al (2014). Linee guida per gli studi ambientali connessi alla realizzazione di opere di difesa costiera. ISPRA, Manuali e Linee Guida 105/2014: 73 pp. 
[2] Rosi et al 2016 Subsidence mapping at regional scale using persistent scatters interferometry (PSI): The case of Tuscany region (Italy) International Journal of Applied Earth Observation and Geoinformation 52, 328–337
[3] Raspini et al 2016 Advanced interpretation of interferometric SAR data to detect, monitor and model ground subsidence: outcomes from the ESA-GMES Terrafirma project Nat Hazards (2016) 83:S155–S181 DOI 10.1007/s11069-016-2341-x 
[4] Ingebritsen and Galloway (2014) Coastal subsidence and relative sea level rise Environ. Res. Lett. 9 (2014) 091002
[5] Karim e Mimura 2008 Impacts of climate change and sea-level rise on cyclonic storm surge floods in Bangladesh Global Environmental Change 18, 490-500
[6] Tosi et al (2016) Combining L- and X-Band SAR Interferometry to Assess Ground Displacements in Heterogeneous Coastal Environments: The Po River Delta and Venice Lagoon, Italy Remote Sens. 8, 308; doi:10.3390/rs8040308
[7] Syvitski et al 2005 Impact of Humans on the Flux of Terrestrial Sediment to the Global Coastal Ocean Science 308, 376-380
[8] Munafò e Tombolini 2014 il consumo di suolo in Italia Rapporto ISPRA 195 / 2014


sabato 3 febbraio 2018

Il "nucleo fondativo dell'Eurasia": dagli Urali alla Cina la fascia orogenica dell'Asia Centrale



Non ci sono dubbi che l’Eurasia sia una delle figure preminenti della superficie terrestre. Però si tratta di un continente geologicamente recente e le sue origini sono generalmente poco note. In Italia c’è una florida scuola di Geologia Himalayana che risale ai primi anni del XX secolo con la spedizione del duca degli Abruzzi (non per nulla c’è una sezione apposita persino nella Società Geologica Italiana), ma quello dell’India non è altro che l’ultima collisione avvenuta in quell’area: a nord del Tibet c’è una lunga storia, abbastanza sconosciuta “ai più”, che sta venendo fuori solo negli ultimi decenni grazie agli eccellenti risultati di ricercatori cinesi. Una storia che parla di come, con l’amalgamazione di alcune piccole masse continentali, si è sviluppato il “nucleo fondatore” dell’Eurasia.




Carta da [1] dove si vede l'enorme estensione dell'orogene dell'Asia centrale 
LA FASCIA OROGENICA DELL’ASIA CENTRALE: IL NUCLEO FONDATIVO DI EURASIA. L’Eurasia ci appare una cosa massiccia ma è una figura geografica abbastanza recente, frutto dello scontro e della amalgamazione di una serie di aree continentali più piccole. Nella formazione del continente ci sono state delle “amalgamazioni multiple” di cui l’Iran è un perfetto esempio: prima (nel Triassico) è andato a collidere verso NE contro il Kazhakstan (a sua volta già unito a Siberia, Tarim, Lhasa etc etc), formando l’orogene cimmeride e diventando così per un bel po' il limite SW dell’Asia; poi nel Miocene, circa 40 milioni di anni fa, da SW è arrivata l’Arabia, per cui adesso il blocco iraniano si trova schiacciato fra il nucleo dell’Eurasia e quest’ultima. La sismicità attuale dell’orogene cimmerico dimostra che questa vecchia cicatrice è stata riattivata da questo ultimo scontro. Ne ho parlato qui
Il nucleo intorno al quale si è formata l’Eurasia è una vasta area tra Europa orientale, Siberia occidentale, Cina Orientale e repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale; si è creato nel Paleozoico inferiore quando, con la chiusura dell’oceano paleoasiatico, si sono amalgamati insieme 5 blocchi crustali principali (Europa orientale, Siberia occidentale, Kazakhstan, Tarim e Tianshan) e una serie di archi magmatici che erano in mezzo. 
Il risultato è la fascia orogenica dell’Asia Centrale (in sigla CAOB – Central Asian Orogenic Belt): si tratta di una “cosa” di dimensioni gigantesche, il più esteso collage orogenico attualmente visibile sulla Terra, come si vede in questa carta tratta da [1]. 
Nel CAOB è registrata una lunga storia sedimentaria dal tardo Proterozoico al Mesozoico e una serie di episodi di convergenza di placche che è iniziata lungo il margine di un piccolo continente che comprendeva la attuale Siberia occidentale con le Bajkalidi nel Neoproterozoico, tra 850 and 570 milioni. Il clou delle deformazioni è iniziato nell’Ordoviciano, 450 milioni di anni fa, e ha comportato  la chiusura definitiva dell’oceano Paleo-Asiatico che si è definitivamente conclusa all’inizio del Triassico 250 milioni di anni fa.



Carta da [3] che illustra la paleogeografia all'inizio del Cambriano
IL SUPERCONTINENTE DI PANNOTIA E LA SUA PRIMA FRAMMENTAZIONE. Per parlare della storia dell’Eurasia (che all’inizio è la storia del CAOB) bisogna partire da quando, tra 600 e 500 milioni di anni fa si formò un supercontinente, spesso chiamato Gondwana. Il nome può trarre in inganno, perché insieme al Gondwana che conosciamo comunemente, quello Permo – Triassico formato da Sud America, Afro-Arabia, Madagascar, India, Australia e Antartide, il Gondwana dell’epoca comprendeva praticamente tutte le terre emerse dell’epoca e quindi per questo è con Ur (forse), Nuna, Rodinia e Pangea uno dei supercontinenti della storia della Terra. Diciamo che sotto certi aspetti concorderei con Powell e Dalziel che chiamarono questo continente “Pannotia”[2]: si eviterebbe una certa confusione fra la configurazione cambriana e quella permiana del continente. 
Il problema è che il supercontinente ha iniziato a fratturarsi subito dopo la sua agglomerazione, tantochè in pratica la tettonica degli ultimi 500 milioni di anni si potrebbe riassumere così: una perdita di pezzi da parte del supercontinente meridionale (Gondwana o Pannotia, come volete..) che a poco a poco si stanno riagglomerando in un continente settentrionale (a parte l’Antartide..)
Insomma, da quando si è aggregato, tra Ediacariano e Cambriano, e fino alla quasi improvvisa frantumazione finale nel Mesozoico delle parti che erano rimaste ancora unite, per tutto il Paleozoico il Gondwana ha continuato a perdere pezzi, di cui una buona parte si sono poi riamalgamati nell’Eurasia. Quindi per questo io preferirei parlare di Pannotia, che comprende il Gondwana permiano più gli altri pezzi che vi appartenevano all’inizio del Paleozoico.

 In questa carta da [3] si vede la situazione poco dopo l'inizio della frammentazione di Pannotia: Kazakhstan e Siberia sono abbastanza vicini a Baltica e Laurentia, il Tarim è un pò più lontano


I CONTINENTI COINVOLTI NELLA COSTRUZIONE DEL CAOB. Siamo abituati a pensare all’Eurasia come un corpo massiccio e stabile, ma in realtà si tratta di un nucleo stabile per modo di dire, visti i forti terremoti che contraddistinguono tutta l’area a nord del Tibet, anche se il tutto è “meravigliosamente” dovuto a cause esterne, cioè essenzialmente alla pressione che l’India esercita incuneandosi nel continente.
 I blocchi continentali coinvolti nella formazione del CAOB si sono staccati precocemente da Pannotia e i resti delle zone oceaniche che li dividevano sono compresi nella denominazione di oceano Paleo – Asiatico.  Vediamoli in dettaglio:

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il continente siberiano comprende quella parte della Siberia che va dagli Urali fino all’estremità orientale dell’altopiano della Siberia centrale, tra l’oceano Artico a nord, il lago Baikal a sud, il fiume Yenisey a ovest e il mare di Okhotsk a NE. I suoi bordi sono lungo delle fasce orogeniche paleozoiche e mesozoiche [4]. La più antica, a sud, è quella del CAOB e corrisponde più o meno ai monti Altai, dove è registrata la collisione con la placca dell’oceano Paleoasiatico. Uno scontro complesso dato che, come ho detto, c’erano diversi archi magmatici divisi da spezzoni di crosta oceanica (forse bacini marginali) che adesso sono tutti schiacciati contro il continente
  • Kazakhstania era una piccola massa continentale isolata, con un basamento paleoproterozoico e una copertura sedimentaria più recente [5], bordata ad est da una zona di subduzione grazie alla quale numerose unità vi si sono state nel tempo accrete (diciamo “in italiano” che vi si sono attaccate), più o meno come in Siberia
  • il Tarim corrisponde bene o male alla depressione del Tarim, nella Cina Orientale (lo Xinjiang, per il governo cinese, il Turkestan orientale o l’Uiguristan per le popolazoni autoctone). Anche qui c’è un basamento precambriano, con una copertura sedimentaria che arriva fino al paleozoico superiore [6]. Da notare anche la presenza di una estesa successione basaltica che forma la Large Igneous province permiana dei basalti del Tarim
  • il cratone Est Europeo, di cui ho parlato diffusamente in diversi post, cominciando da questo LINK, è l’Europa orientale, a NE della linea di sutura trans – europea che va grossolanamente dal mare del Nord all’Ucraina [7].
  • il Tianshan non era invece un continente: si tratta di un collage lungo 2400 km composto dai resti di una serie di archi magmatici intraoceanici  posto nell'oceano paleoasiatico che so estende da E del lago di Aral fino al Tianshan propriamente detto [8]

In questa carta da [8] vediamo quella che poteva essere la situazione 430 milioni di anni fa, nel Siluriano, quando l’oceano Paleoasiatico aveva concluso la sua espansione e stava iniziando a chiudendosi (ci sono voluti altri 200 milioni di anni per concludere il tutto).

 Notiamo come il tutto si è svolto ad una latidudine moltoinferiore a quella dove attualmente sono questi blocchi e che dall'epoca tutto il ristema è ruotato praticamente di 90°.





La situazione attuale delle coste asiatiche del Pacifico, 
con zone di subduzione attive e fossili 
CAOB: UN PUZZLE DIFFICILE DA RISOLVERE.  La dinamica di formazione del CAOB è ancora dibattuta e la ricostruzione dell’Oceano Paleoasiatico e dei continenti che lo circondavano è piuttosto complessa, perchè non siamo davanti a un tipico scontro continente – continente, dove c’è una sutura singola o poco più e le cose sono abbastanza lineari e ricostruibili. È abbastanza ovvio che dell’oceano paleoasiatico siano rimaste poche tracce, essendo per la maggior parte finito nel mantello nelle diverse zone di subduzione che si sono alternate nel tempo e nello spazio; ma la questione è che le zone di convergenza sono state poco lineari: si tratta di un puzzle di parti di oceano, archi magmatici, bacini marginali e persino catene di isole vulcaniche come le Hawaii strizzati fra 5 masse continentali.
 Insomma, molte delle zone di convergenza assomigliavano più ad un margine tipo quello asiatico del Pacifico che ad uno di tipo andino: vediamo nella carta qui accanto la situazione asiatica attuale, con i suoi vari sistemi di arco intraoceanici attivi o relitti, che si ripetono nel tempo e/o nello spazio (in Giappone, ad esempio, abbiamo delle unità tettoniche mesozoiche che si sono formate in un ambiente simile a quello che adesso troviamo tra l’arcipelago e la fossa oceanica che lo borda), bacini marginali tra l’arco magmatico e il continente come il mar del Giappone, placche intermedie come quella del mare delle Filippine, inversioni della direzione della subduzione come tra Taiwan e le Filippine. 
Immaginiamoci che in futuro un continente proveniente da sudest vada a sbattere conto il margine asiatico e strizzi tutto quanto e proviamo a immaginare cosa ne possa venire fuori e come da quel macello si possa ricostruire la paleogeografia attuale.. e per il CAOB di margini del genere ce n’erano almeno 3 se non 4!. Quindi… beh… ricostruire la storia del CAOB è quantomai difficile e non ci si può stupire delle tante interpretazioni che ci sono nella letteratura scientifica! 




UNA RICOSTRUZIONE ATTENDIBILE DELLA STORIA DEL CAOB. Queste sezioni, sempre da [8] ci fanno vedere quella che ritengo sia la ricostruzione più vicina alla realtà lungo la traccia della figura precedente, anche se alle volte mi sembra un pò troppo perversamente complessa per essere vera.
 La prima fa vedere la situazione  nel Paleozoico inferiore, quando solo il limite settentrionale e quello lungo il Kazakhstan, non visibile in sezione, sono in subduzione e parallelamente a quella lungo il continente ce n’è una zona di subduzione più a largo, una situazione che ricorda, appunto,  l’odierna Asia Orientale dove lungo il continente ci sono le subduzioni sotto il Giappone e le Filippine e, più a largo nell’oceano, gli arcipelaghi di Usu-Bonin e Marianne.
 


Poi la faccenda si complica: dall'Ordoviciano medio (ca 450 milioni di anni fa) inizia la compressione anche lungo il margine opposto a quello siberiano,  nel Tarim, dove il margine era invece di tipo andino [10], e nascono altre zone di chiusura intermedie fino a quando la distanza fra Tarim e gli Altai si riduce di centinaia di km e, alla fine del Paleozoico, non c’è più traccia dei vari bacini a crosta oceanica che vi erano frapposti 200 milioni di anni prima.
 


La fine dei processi tettonici direttamente connessi con il CAOB è avvenuta tra la fine del Permiano e l’inizio del Triassico, quindi circa 250 milioni di anni fa. A quel punto il “nucleo fondante” dell’Eurasia, tra l’Europa Orientale e la Mongolia, si era formato. 

Annoto che non tutti sono d'accordo sulla formazione di un margine attivo con relativa subduzione sotto il Tarim.


LA SUCCESSIVA AGGLOMERAZIONE DI ALTRI CONTINENTI NELL’EURASIA. Fuori dal CAOB, ad ovest, l’Europa occidentale si era saldata già al cratone est europeo lungo la zona di frattura trans – europea e successivamente al nucleo fondante si sono uniti altri pezzi, determinando la formazione dell’Eurasia come la conosciamo oggi: nel Triassico Cina settentrionale, Tibet (Lhasa), Iran e Afghanistan, nel Giurassico Siberia orientale e Cina meridionale (che si era appena fusa con Subumanu e Annamia, cioè Indocina e parte dell’Indonesia) e nel Terziario India e Arabia. Se non si fosse aperto il Mar Rosso anche l’intera Africa si potrebbe definire come facente parte della stessa massa continentale; comunque possiamo alternativamente pensare a questi altri due scenari:
- Eurasia e Africa sono unite lo stesso conteggiando la continuità crustale sotto l’istmo di Suez
- erano unite fino all’apertura del Mar Rosso

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Queste collisioni successive alla costruzione del CAOB, specialmente quelle del blocco di Lhasa (sostanzialmente il Tibet), dell’India e della Cina Settentrionale, hanno rimesso in movimento alcune delle vecchie cicatrici dell’orogene, modificando ulteriormente il quadro. L’esempio classico è, sia pure leggermente al di fuori del CAOB, la faglia di Altyn Tagh (ne ho parlato qui), il vecchio limite dello scontro fra il Tarim e il blocco di Lhasa, lungo la quale la collisione dell’India ha provocato una ulteriore dislocazione di oltre 400 km, con un movimento che persiste tutt’ora [11]. Anche i forti eventi sismici nella catena del Tianshan, che è proprio una delle parti del CAOB sono alla fine dovuti alla “spinta” dell’India che fa muovere ancora le faglie paleozoiche, senza la quale questa catena avrebbe la stessa attività sismica di catene come come gli Appalachi o la Scandinavia… nell’area del CAOB ci sono stati più di 60 eventi con M superiore a 6 negli ultimi 50 anni… per essere una zona lontana da margini di placca convenzionali non è male...




[1] Han et al 2011 Late Carboniferous collision between the Tarim and Kazakhstan–Yili terranes in the western segment of the South Tian Shan Orogen, Central Asia, and implications for the Northern Xinjiang, western China Earth-Science Reviews 109, 74–93
2. 
[2] Powell et al 1995 Did Pannotia, the latest Neoproterozoic southern supercontinent, really exist?: Eos (Transactions, American Geophysical Union), Fall Meeting,76,46, p.172
3.
[3]  Santosh et al 2009 The making and breaking of supercontinents: Some speculations based on superplumes, super downwelling and the role of tectosphere Gondwana Research 15, 324–3414. 
[4] Rosen et al 1994 Archean and Early Proterozoic Evolution of the Siberian Craton: A Preliminary Assessment Developments in Precambrian Geology 11,411-459
4
[5] Bazhenov et al 2012 Unraveling the early–middle Paleozoic paleogeography of Kazakhstan on the basis of Ordovician and Devonian paleomagnetic results Gondwana Research 22, 974–991

[6] Zhang et al 2013 Tectonic framework and evolution of the Tarim Block in NW China Gondwana Research 23,1306–1315
6
[7] Mints 2015 Tectonic zoning of the Early Precambrian crust of the East European Platform GSASpecial Paper 510,9–13
[8]  Xiao et al 2013 Paleozoic multiple accretionary and collisional tectonics of the Chinese Tianshan orogenic collage Gondwana Research 23, 1316–1341
[9] Xiao et al 2014 How many sutures in the southern Central Asian Orogenic Belt: Insights from East XinjiangeWest Gansu (NW China)? Geoscience Frontiers 5, 525-536
[10] De Jong et al 2006 Ordovician 40Ar/39Ar phengite ages from the blueschist-facies Ondor Sum subduction–accretion complex (Inner Mongolia) and implications for the Early Paleozoic history of continental blocks in China and adjacent areas. American Journal of Science 306,799–845
[11] Yang et al 2001 Tectonic significance of early Paleozoic high-pressure rocks in Altun–Qaidam–Qilian Mountains, north- west China. Geological Society of America Memoir 194, 151–170