lunedì 23 ottobre 2023

È forse necessario nelle progettazioni idrauliche passare da un approccio storico (le piene duecentennali) ad un nuovo approccio che consideri gli eventi estremi possibili in un bacino?


Prendo spunto dalla questione del nuovo aeroporto di Firenze per una serie di considerazioni che riguardano la progettazione di nuove opere impattanti nel territorio (e, volendo, per una mitigazione del rischio in quelle vecchie): già adesso mi hanno riferito che il Consiglio Superiore del Lavori Pubblici richieda come scenario di confronto per le opere che incidono sui corsi d’acqua la piena duecentennale aumentata di una certa percentuale, ma la sempre maggiore frequenza delle celle temporalesche autorigeneranti V-shaped e dei Medicanes mi spinge a ipotizzare la necessità di modificare il paradigma, cambiando lo scenario di riferimento, che oggi è quello storico, a quello di una modellazione basata sui possibili effetti in un bacino delle precipitazioni associate ad una cella temporalesca autorigenerante V-shaped. Ringrazio l’amico prof. Fabio Castelli, per le ampie discussioni che mi hanno molto aiutato sull’argomento.

ITALIA E OPERE PUBBLICHE: TROPPA IDEOLOGIA. Una caratteristica di base della cultura politica e sociale del nostro Paese è la trattazione dei progetti sulla costruzione di opere pubbliche in maniera ideologica, sia da parte di chi è a favore sia da parte di chi è contrario. Con questo approccio i dati purtroppo contano meno dei preconcetti ideologici, che purtroppo spesso prescindono da quella che è la logica scientifica, ambientale e trasportistica. Non solo, ma spesso chi discute evita di proposito di leggere i dati (e talvolta anche i progetti) se vanno contro le loro convinzioni o desideri, oppure cita esclusivamente (e disonestamente) solo quelli a favore della propria tesi. 
Insomma, in genere manca un approccio “laico” alle opere, grandi o piccole che siano e anche per questo l’Italia è la patria della sindrome NIMBY (no, non nel mio cortile!).
A trattare argomenti del genere senza tenere conto dei dati (o citando solo quelli che appoggiano la propria tesi), succede spesso che vengano realizzate infrastrutture inutili e non vengano realizzate infrastrutture utili, oppure le realizzazioni lascino parecchio perplessi quando sono dettate da compromessi che non hanno nulla di logico. E questo è un altro motivo del declino del nostro Paese.

IL NUOVO AEROPORTO DI FIRENZE. La conseguenza del problema di cui sopra è che in tutto questo marasma di discussioni i progetti si trascinano per anni, se non decenni. La questione dell’aeroporto di Firenze ne è un esempio classico visto da quanto tempo se ne parla. In buona sostanza le ipotesi sono 3: (1) lasciare le cose come sono, (2) realizzare in alternativa alla pista attuale una seconda pista perpendicolare ad essa e (3) chiudere tutto. Non intervengo in questi aspetti anche se, per onestà intellettuale e correttezza nei confronti di chi legge, considerazioni trasportistiche, ambientali ed economiche (i famosi “dati”!) mi spingerebbero verso la (2). Quindi non sono del tutto neutrale, ma un conto è essere neutrale, un altro essere obbiettivo e personalmente mi sento in dovere di fare le pulci sia ad opere sia ad opere a cui sono tendenzialmente contrario, sia a maggior ragione ad opere a cui sono tendenzialmente favorevole, perché farei anche io una brutta figura.
Ho in proposito solo una perplessità su questo progetto, di cui approfitto per parlare di una questione più larga e cioè se e come la normativa idraulica debba o no essere modificata alla luce dei cambiamenti climatici. Questo vale nelle più varie situazioni, da un territorio allo stato “quasi naturale” a una realizzazione in una plaga ampiamente antropizzato.
La cosa si dovrebbe anche applicare anche alle decisioni da prendere per rimediare ad evidenti guasti fatti per rendere maggiormente sicuri territorio, infrastrutture e manufatti in genere. Ad esempio nella mitigazione del rischio idraulico per l’abitato di Firenze a monte del ponte S. Trinita del 2021 deve essere garantito un franco di 70 cm per la piena duecentennale nello scenario futuro (cioè con realizzate le casse di espansione del Valdarno superiore (ne ho parlato qui) e 70 cm non sono proprio pochi.

il reticolo idrografico della piana fra Firenze, Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio con la nuova pista 

FARE I CONTI CON I GUASTI DEL PASSATO. Non mi stancherò mai di ripetere che per “guasti fatti” mi riferisco alla drastica diminuzione dello spazio concesso a fiumi e specchi d’acqua: le pianure come le vediamo, dalla più grande alla più piccola a parte poche rilevanti eccezioni non sono naturali perchè una volta erano aree acquitrinose nelle quali i fiumi erano liberi di fare gli affari propri, spostando il corso a loro piacimento. Inoltre paludi e lagune fungevano anche da enormi casse di espansione che tenevano abbastanza costante il livello di un fiume. 
Le bonifiche hanno cancellato la malaria, liberato ampi territori per l’agricoltura ed altre cose utili all’Umanità, ma hanno ridotto lo spazio a disposizione per i fiumi; inoltre nelle pianure l’urbanizzazione ha sigillato una gran parte del territorio, cancellando il reticolo idraulico. La costruzione delle casse di espansione serve proprio a laminare le piene, ripristinando in parte quello che era il loro stoccaggio nelle paludi. 

LA LEGISLAZIONE ATTUALE: LA PIENA DUECENTENNALE. Per legge, dal punto di vista idraulico, i progetti devono essere riferiti alla portata di una piena duecentennale. Mi giungono voci in base alle quali da un po' di tempo il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici chieda di considerare un certo incremento di questo valore. Per quanto riguarda l’estero, non sono a conoscenza di revisioni particolari (ma è possibile che sia io a non saperne niente), tranne che in Olanda dove hanno alzato il tempo di ritorno (insomma, più o meno come se noi aumentassimo la piena di riferimento dalla duecentennale alla cinquecentennale). 

le porte vinciane alla confluenza
dei fossinel fiume Bisenzio
LA QUESTIONE IDRAULICA DELL’AEROPORTO DI FIRENZE. Venendo nello specifico al caso dell’aeroporto fiorentino, intervenire con infrastrutture importanti su un territorio già ampiamente antropizzato è sempre complesso. I problemi ambientali paiono risolti in maniera egregia (a parte alcune infrastrutture per la mobilità), ma c’è una questione su cui sono piuttosto perplesso: il tracciato attuale del Fosso Reale confligge con il nuovo rilevato e deve essere modificato. 
Il fosse Reale è un canale di bonifica che a monte della progettata pista raccoglie le acque provenienti da Monte Morello e che poco a valle rispetto al sito dell'intervento diventa quello centrale di 3 fossi: a destra il Collettore Acque Basse e a sinistra il Collettore Sinistro Acque Basse. Il Fosso Reale e il Collettore Acque Basse sfociano nel Bisenzio a San Mauro a Signa, dopo un percorso di 6 km dall’interferenza con la pista e a meno di 1 km dalla foce del Bisenzio nell’Arno; il Collettore Sinistro invece finisce direttamente in Arno a monte della foce del Bisenzio; prima della foce dei primi due nel Bisenzio, è presente un sistema di "porte vinciane": sbarramenti mobili ad altezza fissa che sfruttano la variazione di livello del corso d'acqua. Sono dette "vinciane" perché si presume che siano state inventate da Leonardo Da Vinci. Questo sistema parzializza progressivamente il deflusso con il rialzarsi dei livelli dei corsi d'acqua, fino a determinarne la completa chiusura con il transito delle piene del fiume Bisenzio: in tal caso tutto quello che passa per i tre fossi defluisce in Arno attraverso il Collettore Sinistro. 
Un aspetto interessante di questi 3 fossi a valle della progettata pista è la presenza di 3 anse, che rallentano un po' eventuali flussi di piena. 

il progetto della deviazione del Fosso Reale
L’asta fluviale del Fosso Reale (che di naturale non ha proprio nulla) si trova abbastanza vicina al termine del rilevato della pista, pertanto il progetto prevede oltre a sistemazioni del reticolo a monte della pista (in particolare briglie e rimboschimenti sul versante di monte morello), anche una deviazione dell'alveo, con tre curve: una prima grossolanamente ad angolo di circa 90° e una seconda morbida a 180° con all’esterno una cassa di espansione che ricorda bene la geometria di un meandro fluviale; infine, una terza, ancora ad angolo di 90° come la prima, reimmette il fosso nel tracciato attuale. Ci sono poi altri interventi sul reticolo dei fossi che però non riguardano l'argomento generale del post e quindi evito di descriverli.
Lungi da me criticare le anse dei fiumi e dei canali (anzi, rappresentano un valore rispetto alle aste fluviali in linea retta e dipendesse da me li farei rifare tutti con delle belle anse...) e sono sicuro della rispondenza dal punto di vista idraulico – legale del nuovo corso del Fosso Reale e della cassa d'espansione agli standard normativi (ci mancherebbe altro!), però mi aspetto (e auspico) che essendo una soluzione con funzionamento idraulico “non standard”, verrà richiesto in fase di progettazione definitiva un qualche studio su modello fisico, in modo da verificare aspetti su cui i normali modelli numerici lasciano ancora margini di incertezza. Annoto che nella revisione del progetto si dice che rispetto al progetto originario, il percorso del Fosso Reale viene ridotto di circa 1.100 metri rispetto alle  previsioni di Masterplan, con evidenti benefici in termini di deflusso idraulico e velocità di scorrimento idrico. Resto sbalordito da questa asserzione: una riduzione così decisa del percorso riduce il volume delle acque contenibili dal fosso, e si continua a dire che la velocità di deflusso sia un valore positivo, quando invece potrebbe essere un problema per quanto sta a valle.


una cella temporalesca autorigenerante V-Shaped in Liguria e un Medicane sul Tirreno:
fenomeni sempre più frequenti

NORMATIVA IDRAULICA E CAMBIAMENTI CLIMATICI. Dopo questa lunga introduzione vengo ora al tema di cui vorrei parlare: l'ipotetico comportamento di un sistema idraulico rispetto ad eventi inusuali come quelli a cui stiamo assistendo da qualche anno a questa parte.
La mia opinione è che siamo davanti ad un tema talmente ampio da richiedere dei profondi cambiamenti a livello normativo: il tradizionale approccio progettuale è incentrato sui tempi di ritorno di un evento di massima portata (la “piena duecentennale); ora, considerare la duecenennale sarebbe un criterio valido con un clima costante, ma purtroppo la velocità a cui stanno procedendo i cambiamenti climatici ormai evidenti pone appunto il serio problema di quanto l’approccio “storico” possa essere ancora significativo. Mi chiedo quindi se sia da modificare questo paradigma, e lasciando per ora perdere l'esistente, richiedere per i nuovi interventi una verifica del comportamento rispetto a scenari non necessariamente legati al tempo di ritorno ricavato dalla storia passata del bacino, ma a scenari catastrofici purtroppo plausibili dal punto di vista climatico-fisico. 
Detto che in questo momento con l’evoluzione climatica in corso sono fonte di preoccupazione maggiore i bacini minori di quelli principali (ad esempio, per rimanere su Firenze il torrente Ema mi preoccupa molto più dell’Arno), definire cosa sia fisicamente plausibile, ancorché catastrofico, è una sfida scientifica ancora molto aperta. 
La tempesta del 15 settembre 2022 in particolare è stata rivelatrice di un pericolo maggiore rispetto al preventivato: a partire dall’evento di Stazzema del 1996, per proseguire con tutti gli altri disastri simili, sembrava che queste perturbazioni fossero relegate ad aree costiere oppure potessero proseguire solo in zone “abbastanza pianeggianti”, magari fino ad un ostacolo successivo, come succede in Veneto, oppure in Piemonte e Lombardia occidentale, dove possono arrivare, attraversando il non elevato Appennino ligure, i V-shaped che si formano nel Golfo di Genova. Invece la tempesta marchigiana ha attraversato quasi in direzione trasversale quasi tutta la penisola, prima di scaricare tutta la sua furia sulla dorsale del monte Catria (ne ho parlato qui), dimostrando che anche nell’Italia peninsulare aree interne molto lontane dal mare sono a rischio per questi fenomeni.
Il tutto mentre i nuovi fenomeni degli uragani mediterranei (i cosiddetti Medicanes) stanno flagellando sempre di più l'Italia meridionale.

Monte Morello visto dall'autostrada e dalla vecchia pista aeroportuale
UN NUOVO PARADIGMA PER LA NORMATIVA IDRAULICA? Provo pertanto ad ipotizzare ad esempio come scenario – limite di riferimento per l’Italia centrale e meridionale (in Liguria e in tutta l’Italia settentrionale le cose possono essere diverse) gli effetti di una cella autorigenerante V-Shaped simile a quello che ha colpito le Marche nel settembre 2016; pertanto propongo un cambiamento di paradigma, e cioè fissare le prescrizioni idrauliche non su eventi precedenti avvenuti nel bacino oggetto dell’intervento e quindi sulla piena duecentennale, ma sulla reazione del bacino stesso ad una eventuale situazione di questo tipo. 
Risolta la questione scientifica (che non sarà semplice: potrebbero essere fissati dei massimi di pioggia per aree ben più estese, in base a morfologia, orientazione, correnti e quant’altro), questa andrebbe poi tradotta in prescrizioni sulla progettazione, in quanto un progettista non è uno studioso, bensì un tecnico che esegue gli studi che gli vengono richiesti da normativa, secondo lo stato dell'arte corrente, e solo per quelli viene pagato. Naturalmente è possibile nel corso della progettazione di un’opera la prescrizione di ulteriori studi ed approfondimenti particolari da parte delle amministrazioni coinvolte, ma anche queste difficilmente si muovono al di fuori delle normative correnti sulle opere pubbliche. 

Nel caso di cui parlo specificamente, la dorsale di Monte Morello, alta 900 metri e il cui lato rivolto a SW verso la piana di Firenze è quasi una parete verticale, per la sua orientazione può essere considerata a rischio di essere investita da una cella V-shaped e quindi a me piacerebbe vedere una modellazione della risposta del reticolo idrografico e del territorio di Monte Morello a un evento analogo a quello marchigiano in cui piovono 400 mm di pioggia in 6 ore.


giovedì 19 ottobre 2023

Le zone di subduzione come motore delle celle convettive del mantello e quindi della tettonica a placche


Stimolato da quanto ha scritto Joao Duarte, a mio avviso una delle menti più brillanti che abbiamo fra i teorici della tettonica globale, vorrei fare il punto sullo stato dell’arte della ricerca in materia, perché rispetto al vecchio paradigma della semplice espansione dei fondi oceanici come motore dei movimenti delle placche di Hess dei primi anni sessanta oggi sappiamo che i “motori” sono diversi. O, meglio, le correnti di convezione esistono, ma sono una conseguenza della tettonica a placche, in particolare della subduzione della crosta oceanica nelle zone di convergenza e non la causa della dinamica terrestre. Lo avevo già fatto notare in tre post che scrissi sull’argomento una decina di anni fa. Da allora nella manualistica poco è cambiato e le correnti di convezione del mantello vengono ancora descritte - a torto - come il motore della tettonica a placche.

Carta di John T. Wilson del 1962 in cui propone la formazione dell'Oceano Indiano
a partire dalla separazione fra Africa, Antartide, Australia e Asia.
Si nota l'ipotesi di una dorsale che ha allontanato India e Australia
messa con il beneficio del dubbio. Hess fornirà una spiegazione degli allontanamenti
Per vedere come come in 50 anni dalla deriva dei continenti di Wegener siamo arrivati a John Tuzo Wilson e alla tettonica a placche, attraverso Holmes e le sue celle di convezione del 1931, ho scritto nel lontano 2009 questo post. Dopo Wilson altri tre giganti delle Scienze della Terra completarono il quadro: Dewey introdusse il termine "tettonica a placche crostali", Hess propose l’espansione degli oceani per spiegare l'esistenza di una dorsale oceanica, mentre Jason Morgan capì che la superficie del nostro pianeta è suddivisa in circa 20 placche.
In seguito ho scritto alcuni post facendo notare che i movimenti delle placche e l'espansione dei fondi oceanici possono essere addebitati a più meccanismi. Vorrei ricapitolare come la Scienza è arrivata allo stato dell'arte odierno, che purtroppo, non è ben recepito neanche nella comunità delle Scienze della Terra.

HARRY HESS, IL GEOLOGO SOMMERGIBILISTA E IL QUADRO TRADIZIONALE. Parliamo un po' più diffusamente di Harry H. Hess: era un geologo e comandante di sottomarini della Marina durante la seconda guerra mondiale (e per questo mi è molto simpatico, dato che anche mio nonno era un sommergibilista). Nell'immediato dopoguerra l’importanza dei sottomarini crebbe a dismisura e fu avviato da parte degli Usa un importante programma di mappatura dei fondi oceanici (a cui un comandante di sottomarini geologo non poteva certo sottrarsi!). Parte della sua missione consisteva nello studiare le parti più profonde del fondale oceanico. Nel 1946 aveva scoperto che centinaia di montagne dalla cima piatta, forse isole sommerse, modellano il fondale del Pacifico,  che si può considerare un pò una una estensione del lavoro di Darwin sugli atolli (Darwin, 1842). 
Negli anni ’50 furono scoperte le dorsali oceaniche. Ristudiando i suoi dati di anni prima e dopo aver riflettuto a lungo, nel 1960 Hess propose che il movimento dei continenti fosse il risultato dell'espansione del fondale marino. Nel 1962 aggiunse un meccanismo geologico per tenere conto del movimento dei continenti secondo Wegener: era possibile che il magma fuso da sotto la crosta terrestre potesse fuoriuscire lungo le dorsali oceaniche. Il magma continua ad uscire e “spinge” in là quello appena più vecchio e quindi le placche su entrambi i lati della dorsale (ad esempio nell’Oceano Atlantico le Americhe a ovest e Eurasia e Africa a est): così l’Oceano Atlantico diventa sempre più ampio ma le coste delle masse continentali non subiscono grandi cambiamenti (Hess, 1962).
In questo modo Hess ha dimostrato che l'idea fondamentale di Wegener era giusta e ha chiarito il meccanismo che dalla Pangea ha formato i sette continenti che ci sono familiari: i continenti fanno parte delle placche e non si muovono indipendentemente da esse, ma sono le placche stesse a spostarsi, trascinandoli con sé.
Questo è il quadro comunemente noto. In realtà le cose stanno diversamente.

IL RUOLO DELLE SUBDUZIONI SECONDO WILSON. Sempre Wilson all'inizio degli anni ‘70 intuì il ruolo delle zone di subduzione nella dinamica del mantello: lungo di esse l'affondamento delle placche nel mantello genera i moti di convezione che lo interessano e quindi a cascata l’espansione dei fondi oceanici. Questo quadro è supportato da osservazioni ed è riproducibile in modelli numerici (ad esempio Ueda et al, 2008) ma ha una conseguenza fondamentale: le correnti di convezione esistono, ma sono l’effetto e non la causa, ribaltando tutto quello che era stato pensato fino ad allora.

POSSIBILI CAUSE DELL’ESPANSIONE DEI FONDI OCEANICI. Per spiegarla, come avevo fatto notare, sono stati chiamati in causa diversi processi:
  1. trascinamento da correnti convettive del mantello: la placca è trascinata da una corrente convettiva del mantello. È l'ipotesi fondamentale su cui si basava già Arthur Holmes negli anni '30 per spiegare la deriva dei continenti come ipotizzata da Wegener e che era diventata il paradigma all’inizio della storia della Tettonica a placche negli anni '60
  2. trascinamento da parte della zona in subduzione (“slab-pull”): la crosta oceanica che subduce nel mantello (il cosiddetto slab) “trascina” la parte ancora in superficie della zolla
  3. spinta da parte della formazione di nuova crosta lungo una dorsale medio – oceanica: è l’ipotesi – diciamo così – “classica”: siccome il diametro della Terra rimane costante il continuo formarsi di nuova crosta oceanica lungo le dorsali medio – oceaniche impone che altrettanta crosta debba in qualche modo scomparire nelle zone di subduzione. Di fatto si vede bene in moltissimi casi la "coppia" formata da una dorsale dove si produce la nuova crosta e una zona di subduzione dove vecchia crosta scompare affondando nel mantello
  4. spinta da parte di un punto caldo: questo fattore agisce solo per tempi limitati ma può essere molto importante a causa della presenza di una zona di risalita di magma dal profondo che forma una serie di espandimenti basaltici. In sostanza, la presenza di questo materiale anomalmente caldo e quindi poco viscoso permette alla litosfera sovrastante velocità maggiori. Ad esempio proprio per il caso della deriva dell'India al passaggio Cretaceo – Terziario era attiva la serie dei Trappi del Deccan in cui in meno di 1 milione di anni sono stati messi in posto circa 1 milione di km cubi di magma. Questo può dare conto della velocità estremamente elevata che sembra aver avuto l'India proprio in quel momento e anche della temporanea inversione del movimento verso E dell’Africa.

questa figura tratta da Meschede e Warr (2019) evidenzia come la litosfera in subduzione
più fredda provochi, immergendosi, un richiamo verso l'alto di parte della astenosfera più calda 
presente ai lati del cuneo in subduzione
IL QUADRO ATTUALE. Questa immagine, molto semplice, tratta da Meschede e Warr (2019) illustra relativamente bene lo stato dell’arte della ricerca sulla tettonica delle placche nel contesto dinamico del mantello:
  1. nelle zone di convergenza le placche oceaniche entrano nelle zone di subduzione 
  2. le placche oceaniche affondano perché sono più dense del mantello circostante e sottostante
  3. la subduzione genera un flusso di ritorno (frecce rosse tratteggiate) che a sua volta induce la risalita di materiale profondo, i mantle plumes (pennacchi del mantello)
Notiamo quindi una inversione dei rapporti di causa – effetto: è la perturbazione provocata dalla subduzione a provocare a sua volta i flussi ascendenti del mantello (e quindi la corrente di convezione) e non il contrario. 
Per capire meglio la situazione prendiamo come modello di riferimento le correnti di convezione verticale negli oceani: si generano perché l'acqua più fredda nelle aree polari affonda, provocando la risalita passiva di masse d'acqua più calde. La stessa cosa accade nel mantello terrestre: il materiale più freddo (e più denso) della superficie che scende genera la convezione, e i plumes sono zone di risalita del mantello.
Alcuni di questi plumes arrivano verso la superficie. In questo caso la diminuzione della pressione provoca la fusione parziale della roccia e quello che arriva verso la superficie forma nuova crosta oceanica lungo una dorsale, dopo che si è aperto un rift, generalmente lungo una sutura precedente fra due masse continentali che si erano precedentemente scontrate (Butler e Jarvis 2004). La crosta oceanica sarà formata da peridotiti (il residuo refrattario della fusione parziale del mantello del plume) e da magmi a composizione basaltica tipici di questo ambiente tettonico, i cosiddetti Normal MORB (Mid Oceanic Ridge Basalts). Questi magmi possono arrivare ad eruttare i basalti MORB sul fondo oceanico oppure formano complessi gabbrici se si raffreddano senza arrivare in superficie.
I corollari di questo scenario sono:
  1. le placche in subduzione sottostante generano la maggior parte delle correnti di convezione del mantello. 
  2. Le placche sono anch'esse parte delle celle di convezione.

IL PROBLEMA DI COMUNICAZIONE ATTUALE. Purtroppo la maggior parte dei manuali continua a usare il vecchio quadro delle correnti di convezione e quindi che è l’espansione dei fondi oceanici a generare il movimento delle placche. Ora, questo non solo non è supportato dalle osservazioni, ma nessun modello numerico è stato in grado di riprodurlo. È semplicemente sbagliato. Non c'è altro modo per dirlo. Insomma, dal punto di vista della comunicazione, siamo fermi agli anni ‘60. 


BIBLIOGRAFIA

BUTLER E JARVIS (2004). Stresses induced in continental lithospheres by axisymmetric spherical convection. Geophysical Journal International 157, 1359–1376

DARWIN (1842). The structure and distribution of coral reefs. Being the first part of the geology of the voyage of the Beagle, under the command of Capt. Fitzroy, R.N. during the years 1832 to 1836. London: Smith Elder and Co

HESS
 (1962). History of ocean basins. In: ENGEL et al (eds) Petrologic Studies: a Volume in Honor of A.F. Buddington. Geological Society of America, New York, 599–620. 

HOLMES, A. (1931). Radioactivity and Earth movements. Transactions of the Geological Society of Glasgow, 18, 559–606,


MESCHEDE E WARR (2019). Plate Tectonics, the Unifying Theory  in: The Geology of Germany  Regional Geology Reviews © Springer Nature Switzerland AG 2019. 5, 25-31

UEDA et al (2008). Subduction initiation by thermal-chemical plumes: numerical studies. Phys. Earth Planet. Inter. 171, 296–312. 


sabato 14 ottobre 2023

il punto sulle eruzioni freatiche anche in rapporto ai Campi Flegrei


la nube piroclastica prodotta dall'eruzione dell'Ontake
nel 2014, ripresa da un escursionista
La maggior parte degli studi sulla pericolosità vulcanica si concentrano sulle eruzioni magmatiche e sui fenomeni che le accompagnano. Tuttavia, eventi vulcanici pericolosi possono verificarsi anche senza l’intervento diretto di magmi. In particolare le eruzioni freatiche, che in genere derivano da riscaldamento e vaporizzazione di fluidi estremamente rapidi. Quindi nelle eruzioni freatiche svolgono un ruolo chiave i processi idrotermali (cioè le interazioni tra acqua, rocce, calore e gas magmatici) che interessano dei fluidi comunemente situati a livelli poco profondi sotto un vulcano. Da notare inoltre che per descrivere il fenomeno i termini eruzione freatica ed esplosione freatica sono più o meno usati in alternanza fra loro come sinonimi.

Le eruzioni freatiche interessano solo un'area limitata circostante la zona di origine e pertanto a causa della debole energia coinvolta possono sfuggire a rilevamenti non particolarmente accurati.
L'aggettivo freatico viene dal greco "frear" (pozzo) e quindi si riferirebbe alla falda acquifera più superficiale. Preso alla lettera, il termine indicherebbe quindi un evento causato dalla violenta espansione del vapore generato nella falda freatica, senza il coinvolgimento di altro. Però i fluidi coinvolti nelle eruzioni freatiche possono anche provenire da:
  1. percolazione verso il basso di fluidi meteorici in rocce calde o in un condotto caldo che quindi si scaldano.
  2. migrazione verso l'alto di fluidi vulcanici, inclusi gas, fluidi supercritici e fusioni, in un sistema idrotermale o una falda acquifera poco profonda
Le crisi freatiche sono spesso di lunga durata, con numerosi eventi esplosivi.


schema della eruzione dell'Ontake
da Sano et al (2015) 
TERMINOLOGIA. Barberi et al (1992) hanno classificato i fenomeni esplosivi che coinvolgono fluidi e non magmi in:
  1. eruzione idromagmatica: l’interazione esplosiva tra magma e acque superficiali (mare, lago, ghiacciaio); a differenza degli altri casi, le conseguenze di questo tipo di eruzioni possono essere risentite in aree estremamente vaste, in particolare quando l’interazione avviene con un ghiacciaio (basta ricordare l’eruzione in Islanda dell’Eyiafjiallayokull che nel 2010 interruppe per giorni il traffico aereo)
  2. eruzione freatomagmatica: l'interazione esplosiva tra falde acquifere sotterranee, freatiche e non, geotermiche e non con il magma
  3. eruzione freatica: l’esplosione di una sacca confinata di vapore e gas senza coinvolgimento diretto di magma (tutti i materiali espulsi sono frammenti di rocce preesistenti).
A loro volta Styx e De Moor (2018) definiscono due tipi di eruzioni freatiche:
  1. freato-vulcaniana: un sistema idrotermale più profondo alimentato da gas magmatici è sigillato e produce una sovrappressione sufficiente a provocare eruzioni esplosive. Questo è il caso dei Campi Flegrei, dove la falda geotermica è sigillata, da una spessa coltre di materiali impermeabili sovrastanti; in situazioni del genere i fluidi caldi possono risalire solo attraverso delle fratture. In altri casi le esplosioni possono essere innescate da una sovrapressione dovuta a improvvisi crolli che sigillano i canali che portano in superficie i vapori.
  2. freato-surtseyana: i gas magmatici arrivano dal basso a un sistema idrotermale che si trova vicino alla superficie, vaporizzandone l'acqua liquida.
Le eruzioni del primo tipo tendono ad essere più energiche delle eruzioni del secondo e alcuni sistemi possono produrre eruzioni di entrambi i tipi.

PRODOTTI E PERICOLI. I prodotti delle eruzioni freatiche formano solitamente depositi di caduta (cenere, fango e blocchi) la cui distribuzione è limitata alle immediate vicinanze del cratere (poche centinaia di metri). In rari casi i blocchi possono essere lanciati a una distanza fino a 1-1,5 km e in un numero limitato di casi si segnalano piogge di cenere fino a 5-7 km di distanza. 
I maggiori pericoli connessi con eruzioni freatiche sono:
  1. lo scarico di nubi di gas tossici o paralizzanti, come a Larderello nel 1282 con un numero incerto di vittime, e come in due esempi molto recenti: Dieng in Indonesia (1979, 149 vittime) e Nyos in Camerun (1986, oltre 1700 vittime)
  2. i proiettili che ricadono sul terreno, come accadde sull’Etna (1979, 8 morti), sull’Ontake in Giappone (2014, oltre 50 vittime - ne ho parlato qui) e White Island (Nuova Zelanda, 2019 – almeno 22 vittime).
  3. su vulcani con versanti a forte pendenza circondati da tufi non consolidati, la produzione di importanti colate di fango
PRECURSORI. Le eruzioni freatiche sono eventi improvvisi, e in genere arrivano senza essere accompagnati da precursori chiari, come successe nel 2014 all’Ontake in Giappone (Caudron et al 2022). Quindi i processi fondamentali legati alle fasi preparatorie sono poco conosciuti. Una ulteriore complicazione è che di norma si verificano durante i cosiddetti periodi di “unrest” di un sistema vulcanico (traducibile come agitazione): periodi di elevata sismicità e elevato flusso di calore che talvolta sfociano in una eruzione, il che rende difficile capire quali siano effettivamente i loro precursori specifici, fra tutti i sintomi presenti in una fase in cui un vulcano dà segni di attività.
Barberi et al (1992) hanno raccolto informazioni in letteratura scientifica su un totale di 132 eruzioni freatiche, 115 delle quali non sono state seguite da un'eruzione magmatica o freatomagmatica. Si tratta di un quadro molto incompleto perché mancano i dati di molte regioni vulcaniche e dove presenti la quantità dei dati disponibili non è certo esauriente al confronto degli standard attuali. Questo soprattutto per la scarsità di dati sulla microsismicità.
Nel lavoro non vengono espressi giudizi, lasciando le considerazioni sui possibili precursori a chi aveva descritto i fenomeni. Per cui in quel database solo in 18 casi mancano i fenomeni precursori, ma dato che la maggior parte dei precursori sono sismici, sull’articolo c’è molto scetticismo al riguardo: viene ritenuta molto arbitraria la definizione di precursori attribuita ad uno o più terremoti avvenuti giorni o settimane prima dell'evento sismico, dato il quadro sintomatico generale di una fase di unrest vulcanico e solo in 24 casi il tremore vulcanico si è verificato pochi giorni prima dell'eruzione.
Le fumarole potrebbero dare dei risultati migliori: non è raro infatti che siano osservati degli aumenti di portata e/o temperatura, interpretati come sintomi di un aumento di temperatura e pressione nella falda acquifera sottostante.

PREVISIONE DELLE ERUZIONI FREATICHE. Da tutto questo si ricava che è generalmente difficile prevedere i tempi e la dimensione probabile delle eruzioni freatiche a causa della assenza o della debolezza dei loro precursori specifici che in caso esistano sono oltretutto altamente localizzati (Maeda et al. 2015). Per questo il monitoraggio avrà maggiori probabilità di rilevare dei cambiamenti prima delle esplosioni se gli strumenti sono posizionati più vicino al condotto rispetto a quelli usati per le eruzioni magmatiche.
Styx e De Moor (2018) non sono a conoscenza di eruzioni freatiche formalmente e accuratamente previste e quindi i possibili precursori sono studiati a posteriori. Quelli che sembrano più promettenti sono:
  1. eventi sismici di periodo molto lungo: noti in letteratura come VLP, sono segnali sismici con periodi che vanno da diversi a decine di secondi. Si verificano nei vulcani attivi durante periodi eruttivi o anche in fase di quiescenza, ma fino ad oggi non esiste una chiara relazione temporale tra eventi VLP ed eruzioni freatiche. C’è poi un segnale sismico particolare, un tremore a bande: un segnale sismico insolito caratterizzato da periodi di tremore intervallati da periodi di quiescenza. La durata sia del tremore che dei periodi di quiescenza sono talvolta costanti, producendo uno schema sorprendente su un sismogramma
  2. la composizione dei gas fumarolici, in particolare H2S/SO2 e CO2/SO2, ma soprattutto un aumento di pressione e temperatura delle fumarole.
Quanto alla deformazione del suolo, è notoriamente comune prima delle eruzioni magmatiche, ma in molte eruzioni freatiche manca un sollevamento precursore, specialmente in quelle derivate da riscaldamento di una falda superficiale.
A proposito dell’Ontake, Sano et al (2015) osservano che il rapporto 3He/4He della stazione più vicina al cono è aumentato significativamente da giugno 2003 a un paio di mesi dopo l’eruzione avvenuta nel novembre 2014, mentre quelli delle stazioni più distanti non hanno mostrato cambiamenti apprezzabili. Inoltre un catalogo dei terremoti costruito manualmente per la regione sotto la cima del Monte Ontake mostra un aumento dei terremoti tettonici vulcanici e di lungo periodo (magnitudo < 1,0) a partire da circa 2 settimane prima dell’eruzione (Kato et al 2015). 
Invece non sono stati riconosciuti neanche a posteriori dei precursori della eruzione freatica del Mayon del 7 maggio 2013 nelle Filippine,  dove è stato solamente osservato un evento sismico di lungo periodo, che ha accompagnato l'evento (Maeda et al 2015).
A Kawah Ijen (Indonesia), noto per le sue lave blu a causa delle reazioni con composti di zolfo e White Island (Nuova Zelanda) le eruzioni freatiche sono avviate da un evento sismico di lungo periodo (VLP) situato a profondità basse tra 700 e 900 metri sotto il cratere regione, possibilmente innescata dal gas intrappolato all'interno del magma (Caudron et al 2018). Ma chiaramente questi eventi si scatenano troppo a ridosso dell’esplosione per poter essere utili a scopo previsionale.
Un’altra difficoltà è rappresentata dal fatto che ogni eruzione freatica è storia a se, per le diverse condizioni geologiche, morfologiche ed anche climatiche. Fare considerazioni generali valide dappertutto è parecchio complesso.

CAMPI FLEGREI. E veniamo alla applicazione pratica di tutto ciò nei Campi Flegrei. In circostanze normali, cioè su vulcani relativamente lontani da centri abitati, il pericolo per cose e persone è basso, mentre nelle zone densamente popolate come i Campi Flegrei sia l’emissione di gas che la ricadute di proiettili possono costituire eventi altamente pericolosi e nella situazione attuale non è possibile escludere che avvenga un evento del genere. 
Purtroppo come abbiamo visto la previsione di una eruzione freatica è difficile e i segnali precursori sono sempre stati notati “a posteriori” o troppo a ridosso dell’evento, altrimenti ad esempio le esplosioni in strutture vulcaniche come White Island in Nuova Zelanda e Ontake in Giappone che hanno a disposizione monitoraggi di buon livello sarebbero avvenute ad area chiusa per il pericolo e pertanto non avrebbero provocato vittime. Comunque la rete di monitoraggi intorno a Pozzuoli è sicuramente molto più estesa che altrove e per questo motivo mantengo un cauto ottimismo in proposito, perché è realistico pensare che verranno rilevate sia eventuali variazioni di pressione e portata delle fumarole, che dei segnali sismici a bande. 
A questo punto, siccome la comunità scientifica ha riconosciuto la possibilità che anche l'area dei Campi Flegrei venga investita da un fenomeno di questo tipo, mi auguro l'implementazione da parte dalla Protezione civile un protocollo per la mitigazione del rischio se verranno captati i possibili segnali precursori dell'evento. Ovviamente si tratta di possibili precursori e non della certezza che avvenga qualcosa del genere, tantomeno potrebbe essere nota a priori la sua possibile entità; mi auguro pertanto anche che in caso di falsi allarmi non si levino proteste o prese in giro sia degli evacuati che di osservatori a centinaia di km di distanza. 

BIBILIOGRAFIA

Barberi et al (1992). A review on phreatic eruptions and their precursors. Journal of Volcanology and Geothermal Research, 52,231-246

Caudron et al (2018). Anatomy of phreatic eruptions. Earth, Planets and Space 70:168 

Caudron et al (2022). Hidden pressurized fluids prior to the 2014 phreatic eruption at Mt Ontake. Nature Communications, 13, 6145

Maeda et al (2015). A phreatic explosion model inferred from a very long period seismic event at Mayon Volcano, Philippines. J Geophys Res Solid Earth 120, 226–242.

Sano et al (2015). Ten-year helium anomaly prior to the 2014 Mt Ontake eruption. Scientific Reports, 5:13069

Stix e de Moor (2018). Understanding and forecasting phreatic eruptions driven by magmatic degassing. Earth, Planets and Space 70:83

Per chi volesse approfondire l’eruzione dell’Ontake del 2016 c’è uno special issue di Earth, Planet e Space, disponibile a questo indirizzo.

giovedì 12 ottobre 2023

i terremoti lungo la Faglia di Herat in Afghanistan dell'ottobre 2023


Non c’è pace per l’Afghanistan. Dopo una guerra durata a fasi alterne dal 1979 al 2021 con la definitiva (si spera per poco) presa del potere da parte del misogino regime talebano, ci mancavano questi terremoti, fra i più forti che hanno interessato il Paese, dopo una decina di eventi a M superiore a 6 tra il 1998 e il 2008 nel nordest, più vicini a Kabul (considero solo i terremoti superficiali e non considero i terremoti profondi dell’Hindu-kush di cui ho parlato qui).

In questa carta ricavata dall’Iris Earthquake Browser si vedono i terremoti a M superiore a 5.5 dal tragico 7 ottobre, quando ce ne sono stati ben 3 con M superiore a 6.
Dopo i due terremoti M 6.3 del 7 ottobre, anche il 10 ottobre è avvenuta una scossa della stessa Magnitudo. Già dal 7 ottobre interi villaggi sono stati rasi al suolo mentre i soccorsi sono impossibilitati dalla mancanza di strade ma anche di medicine e strutture sanitarie.
I morti si contano a migliaia (attualmente il bilancio è di circa 3.000 vittime). La buona notizia è che la città di Herat, a circa 50 km dall’inizio della “zona calda” e che conta oltre 500.000 abitanti abbia subìto pochi danni.

Immagine di Google Maps in cui la faglia di Chaman è tratteggiata, mentre quella di Herat è ben visibile
anche ad un occhio non particolarmente geologicamente allenato


carta tettonica dell'Afghanistan con i blocchi e 
le faglie. Da Ambraseys e Bilham (2014) 
TETTONICA DELL'AFGHANISTAN. Un occhio attento riconosce la presenza di una importante struttura allineata quasi est – ovest, la faglia di Herat, lunga 1.200 km che attraverso l'Afghanistan centrale, tende poi verso nord fino alle montagne dell'Hindu Kush a nord di Kabul, all'estremità NE del Paese, dove finisce nella faglia di Chaman, che, come ho fatto vedere qui, è il limite ovest della placca indiana.


L’area è geologicamente molto delicata e la sua geologia è ancora non del tutto conosciuta (per esempio non è ancora nota la faglia associata al terremoto M 7.4 del 1956 con epicentro vicino a Bamiyan (o, almeno, non ho trovato bibliografia in materia). 
L'Afghanistan si trova su un promontorio della placca eurasiatica, ed è formato da due blocchi (Shnizai, 2020):
  • il blocco settentrionale è costituito dalla piattaforma afghano-tagica, a sua volta formata da un insieme di terranes minori stabili che fanno parte del continente eurasiatico fin dal Paleozoico
  • il blocco centrale, anche esso costituito da diversi blocchi minori che sono entrati in collisione con l'Eurasia più tardi, durante il Mesozoico e all'inizio del Cenozoico. Fra essi spicca il blocco di Helmand che potrebbe rappresentare una parte della vecchia crosta oceanica della Tetide rimasta intrappolata nello scontro fra Eurasia, India e Africa senza essersi particolarmente deformata, quindi un blocco in trasmogrificazione nel quadro di Morgan e Vannucchi (2022)
L’arrivo dell’India e la sua indentazione nel continente asiatico hanno complicato la situazione: oggi la placca euroasiatica converge con la placca araba a sud e con la placca indiana a sud-est a una velocità di circa 30 mm/anno; c’è anche una convergenza con il blocco di Lut, ad ovest, di circa 15 mm/anno (Ambraseys e Bilham, 2014). 
In questo quadro la faglia di Herat rappresenta il contatto fra la piattaforma Afghano – Tagica e continua a mostrare una forte attività comportandosi come una “cicatrice litosferica” nel senso di Heron et al. (2016).
In precedenza in un database di terremoti afghani l’area di Herat è stata interessata da eventi con M circa 6 negli anni 849 1102 1164 e poi anche nel XX secolo (Ambraseys e Bilham 2014).
I terremoti di questi giorni si inquadrano perfettamente nella compressione nord – sud sulla faglia di Herat esercitata dalla convergenza fra Eurasia e Arabia.

BIBLIOGRAFIA

Ambraseys e Bilham (2014). The Tectonic Setting of Bamiyan 6 and Seismicity in and Near Afghanistan for the Past Twelve Centuries in: C. Margottini (ed.), After the Destruction of Giant Buddha Statues in Bamiyan (Afghanistan) in 2001, 101 Natural Science in Archaeology, Springer-Verlag Berlin Heidelberg 2014

Collett et al (2015). Polymetamorphic evolution of the granulite-facies Paleoproterozoic basement of the Kabul Block, Afghanistan. Mineralogy and Petrology, August 2015

Heron et al (2016). Lasting mantle scars lead to perennial plate tectonics. Nature communications DOI: 10.1038/ncomms11834

Morgan e Vannucchi (2022). Transmogrification of ocean into continent: implications for continental evolution. PNAS 119/15 e2122694119

Shnizai 2020. Mapping of active and presumed active faultsin Afghanistan by interpretation of 1-arcsecond SRTM anaglyph images. J Seismol https://doi.org/10.1007/s10950-020-09933-4