mercoledì 30 marzo 2016

La posizione sistematica dei rettili marini del Mesozoico tra gli altri rettili


Rettili e uccelli formano i diapsidi, i vertebrati provvisti di due finestre temporali ai lati del cranio. I diapsidi rappresentano un gruppo estremamente diversificato con poco meno di 20.000 specie che troviamo in tutti gli ecosistemi mondiali sulla superficie terrestre, sugli alberi, in aria, nelle acque interne e nei mari: lucertole, serpenti, tartarughe, coccodrilli, uccelli.
Fondamentalmente i diapsidi si dividono in lepidosauri (lucertole e serpenti) e arcosauri (coccodrilli e uccelli). Gli arcosauri sono stati particolarmente importanti durante l'era mesozoica: nel triassico esistevano numerose linee appartenenti a questo gruppo. Pochi di questi, però, sono sopravvissuti alla estinzione di massa della fine del Triassico (coccodrilli, rettili volanti e dinosauri). L'estinzione di fine cretaceo ha decretato la fine dei rettili volanti e di quasi tutti i dinosauri, tranne alcuni dei primi uccelli. Anche fra i lepidosauri molte linee sono scomparse entro la fine del triassico.
In questo post non considero i choristoderi, altri rettili sopravvissuti alla fine del cretaceo, ma scomparsi più tardi, nel terziario, che meritano una futura discussione a parte.

Nel Mesozoico i rettili hanno costituito una delle principali caratteristiche dell'assemblaggio faunistico marino:
  • alcune linee sono state di breve durata, come i Tanystrophei triassici (arcosauri forse collegati con i prolacertida, caratterizzati da un collo lunghissimo e che vivevano tra Europa meridionale e Cina settentrionale lungo le coste settentrionali della Paleotetide) e alcuni Eosuchi, anch'essi limitati al Triassico inferiore e non pienamente adattati ad una vita marina (gli Eosuchi sono un clade diffuso fra fine Permiano ed inizio Triassico, che non ha lasciato discendenti già in questa antica epoca).
  • i Mosasauri, tipici del Cretaceo superiore, comparvero dopo la scomparsa degli Ittiosauri. Sono chiaramente imparentati con i serpenti
  • ittiosauri e sauropterigi (denominazione che comprende plesiosauri, pliosauri, notosauri ed altri rettili marini) sono stati i gruppi più diffusi nei mari mesozoici fino dal Triassico medio. I primi sono scomparsi alla fine del Cenomaniano, una trentina di milioni di anni prima del K/T, i secondi invece sono fra le vittime dell'estinzione di fine Cretaceo
  • nel Giurassico e all'inizio del Cretaceo c'erano anche dei coccodrilli marini, i Metriorinchi
Le tartarughe sono l'unica linea sopravvissuta di rettili marini mesozoici. Il loro posto è ancora incerto, ma molti Autori le inseriscono quantomeno vicine ai notosauri. Sarebbero quindi parenti dei sauropterigi basali.

I MOLTI DUBBI SULL'EVOLUZIONE DEI RETTILI

Il problema dell'evoluzione dei rettili, è che le relazioni tassonomiche fra i vari gruppi più alti (arcosauri, lepidosauri, rettili marini) e quelle basali all'interno dei gruppi più alti sono davvero poco chiare. Quindi c'è un forte dibattito sulla questione, che investe in particolare la posizione dei rettili marini.

Questo è particolarmente chiaro per gli arcosauri: come ho detto, nel triassico ne esistevano tanti gruppi, ma oggi non è ancora possibile capire in che modo fossero imparentate fra loro le varie linee.
Il posto dei rettili marini è ancora più problematico: l'incertezza non verte solo su chi siano i loro parenti più stretti, ma addirittura sul fatto se ittiosauri e sauropterigi siano strettamente imparentati o no.
Il motivo fondamentale di tutto ciò è che la differenziazione di questi animali è stata estremamente rapida.

Attualmente ci sono tre soluzioni sul tappeto, descritte in questo lavoro [1] e che presento in maniera molto semplificata nelle prossime 3 figure.
Ricordo per brevità che:
  • per lepidosauri si intendono gli antenati di lucertole, varani, serpenti, camaleonti etc etc
  • per arcosauri si intendono gli antenati di coccodrilli, rettili volanti, dinosauri, uccelli e altra “roba”, specialmente triassica

Ed ecco la prima soluzione:


In questa visione Ittiosauri e Sauropterigi condividono un antenato comune, che si è separato dalla linea degli altri rettili attuali prima della separazione fra gli antenati di arcosauri e lepidosauri.

Ed ecco la seconda soluzione:


In questa ricostruzione, ittiosauri e sauropterigi non sono in relazione fra loro: gli ittiosauri, come nella prima soluzione, si sono separati dal ramo comune degli altri rettili molto presto, ma i sauropterigi discendono dai primi lepidosauri, dopo che questi si sono separati dagli antenati degli arcosauri

E veniamo alla terza soluzione:




Qui vediamo di nuovo ittiosauri e sauropterigi che condividono un antenato comune, ma in questo caso ne condividono uno più antico con gli arcosauri, vissuto dopo la separazione tra arcosauri e lepidosauri.

Queste tre ipotesi provengono da modi differenti di confrontare i resti fossili: 
  • nella prima quelle che sono caratteristiche tipicamente acquatiche in ittiosauri e sauropterigi sono considerate come l'eredità proveniente da antenati comuni
  • la seconda considera questi caratteri come il risultato di una evoluzione convergente
  • la terza invece è un po' una via di mezzo


IL CONFRONTO FRA LE IPOTESI

Bene, la domanda è: quale delle tre soluzioni appare la più realistica?
Nei lavori che ho letto in genere prevale il dubbio. Allora a questo punto tento io una soluzione partendo, come nel caso dell'articolo che ho scritto sull'evoluzione delle piante, da un approccio diverso, che cerca di capire come sono andate le cose attraverso i dati ricavati dai fossili e dalla storia geologica.

Per prima cosa dobbiamo osservare che  la diversificazione dei rettili “moderni” e la contestuale sostituzione delle vecchie forme (quelle che nelle 3 soluzioni sono i “diapsidi del Permiano”): 
  • è stata molto veloce (come abbiamo appena visto)
  • è avvenuta a cavallo tra il tardo Permiano e l'inizio del Triassico, una fase caratterizzata da imponenti cambiamenti climatici e da due estinzioni di massa, alla fine del Permiano medio e al passaggio Permiano – Triassico, distanziate tra loro da una decina di milioni di anni (ne ho parlato qui)

Quindi, specialmente dopo la strage della fine del Permiano, i pochi superstiti hanno potuto compiere una serie di radiazioni evolutive molto veloci, avendo praticamente il vuoto intorno. Ne consegue che le linee di diapsidi che troviamo sono tutte triassiche semplicemente perchè la maggior parte di quelle permiane si sono estinte durante le due grandi crisi biotiche di fine Capitaniano e di fine Permiano: come spesso succede, la vita prima e dopo una estinzione di massa si presenta molto diversa: scompaiono gruppi apparentemente in salute, mentre altri, precedentemente marginali perchè di spazi ce n'erano pochi, diventano i padroni della Terra.
Il risultato è stato una evoluzione e una differenziazione rapidissima, per cui la sparsa e scarsa documentazione fossile non è in grado di definire bene il quadro degli avvenimenti. È questo, ad esempio, che rende così difficile capire le relazioni fra i vari gruppi principali di arcosauri triassici, come ancora non si è ben capito in che modo e quando si sono divisi i gruppi maggiori: il tutto si è compiuto in molto meno di 10 milioni di anni.

Cosa ci dicono i reperti fossili?
Innanzitutto che i primi arcosauri erano già arcosauri (e quindi si erano separati dagli antenati dei lepidosauri) almeno a metà del Permiano, visto che resti attribuiti con sicurezza ad un arcosauro sono stati trovati in Brasile nella formazione di Rio do Rastro [2], databili a poco prima dell'estinzione di massa con cui si è concluso il Permiano medio.

In due ricostruzioni su tre ittiosauri e sauropterigi sono strettamente correlati. È possibile che sia davvero questa la soluzione?
Il criterio geologico rende abbastanza verosimile questo quadro: i più antichi fossili di Ittiosauromorfi e di Sauropterigi sono stati entrambi rinvenuti in sedimenti del Triassico inferiore in Cina meridionale, nella provincia di Anhui. Sembrerebbe quindi che entrambi questi due gruppi si sono originati nel caldo e umido arcipelago che ricopriva allora la Cina meridionale [3]. 
La Terra alla fine del Carbonifero, 300 milioni di anni fa
(50 milioni di anni prima della fine del Permiano):
la Cina Meridionale era una massa continentale isolata 
Questo ci fa fare una riflessione paleobiogeografica interessante: la Cina meridionale si è staccata dal Gondwana nel tardo Devoniano, per cui rettili “moderni”, come quelli mesozoici marini, non possono rappresentare una fauna autoctona di quel blocco in quanto la comparsa dei rettili è avvenuta quando questo piccolo continente si aggirava solo soletto nel Panthalassa. 
Quindi gli antenati di questi animali sono potuti arrivare da quelle parti solo quando il blocco della Cina Meridionale si è nuovamente avvicinato a dei continenti che ospitavano già faune di vertebrati terrestri importanti (nella fattispecie la Cina Settentrionale e altri blocchi che compongono attualmente l'Asia). E quando sono arrivati laggiù hanno trovato un continente in cui si sono potuti espandere e differenziare con facilità.
Questo aspetto privilegia dunque la prima e la terza possibilità, cioè la parentela stretta fra ittiosauri e sauropterigi.
Ma fra queste due ipotesi, qual'è la migliore?

Per scoprirlo veniamo adesso alle tartarughe. Come ho detto, per la maggior parte degli Autori sono dei parenti stretti dei sauropterigi. Lo confermano anche le ultime scoperte di quella che è la più antica tartaruga conosciuta [4]: gli Autori di questa scoperta correlano Pappochelys, questo essere del Triassico inferiore di 240 milioni di anni fa, con il ben conosciuto Eunotosaurus del Permiano medio, che è stato indicato come un possiible antenato delle tartarughe [5]; inoltre sia in questo che in altri lavori, c'è una correlazione fra Eunotosaurus e sauropterigi. Il problema però è che non ci sono tracce di antenati dei sauropterigi prima di quelli triassici della Cina meridionale, un gap di almeno una dozzina di milioni di anni.
Recenti studi genetici hanno dimostrato che gli antenati delle tartarughe si sono staccati dagli antenati degli arcosauri poco dopo che questi si erano separati dagli antenati dei lepidosauri (per esempio Field et al, 2014 [6]). Avevo commentato questo ultimo lavoro in questo post.
Il che sarebbe esattamente quello che dice la terza soluzione
Una soluzione che è anche abbastanza in linea con l'età Permiana media di Eunotosaurus e di quei resti brasiliani di arcosauro del Permiano medio.
Anche se gli Autori della scoperta di Pappochelys ... privilegiano la seconda soluzione, quella che invece io ho scartato per prima....


[1] Chen et al (2014) The Enigmatic Marine Reptile Nanchangosaurus from the Lower Triassic of Hubei, China and the Phylogenetic Affinities of Hupehsuchia PLoS ONE 9(7): e102361. doi:10.1371/journal.pone.0102361

[2] Martinelli et al (2016) The oldest archosauromorph from South America: postcranial remains from the Guadalupian (mid-Permian) Rio do Rasto Formation (Paraná Basin), southern Brazil Historical Biology, DOI:10.1080/08912963.2015.1125897

[3] Motani et al (2015) A basal ichthyosauriform with a short snout from the Lower Triassic of China Nature 517, 415 – 488

[4] Schoch and Sues (2015) A Middle Triassic stem-turtle and the evolution of the turtle body plan Nature 523, 584 - 587

[5] Lyson et al (2013) Evolutionary Origin of the Turtle Shell Current Biology 23, 1113–1119 


[6] Field et al (2014) Toward consilience in reptile phylogeny: miRNAs support an archosaur, not lepidosaur, affinity for turtles Evolution & Development 16/4, 189–196 

venerdì 18 marzo 2016

Genova e le alluvioni: gli errori urbanistici sul Bisagno e cosa viene fatto per rimediare


Nella storia del dissennato uso del territorio italiano quello Ligure è sicuramente uno dei più tragicamente martoriati. I rischi maggiori dal punto di vista geologico sono dettati dalla presenza di alture prospicienti un mare molto caldo (per cui soggette a piogge particolarmente intense) e dalla ristrettezza dei bacini idrografici, per cui il lasso di tempo che intercorre tra la pioggia intensa e la piena è bassissimo, meno di due ore. Ricordo per esempio che durante la grande alluvione europea del 2002, che colpì Cechia, Germania, Austria e Balcani, a Dresda seppero giorni prima che l'Elba sarebbe uscito dagli argini e quindi potettero prendere idonei provvedimenti – per esempio – per salvare le opere d'arte conservate nel Museo Statale. Anche durante la terribile alluvione del 2000 in Piemonte grazie ad un preavviso di appena 24 ore Il ponte sul Pò a Pontelagoscuro (Rovigo) fu sollevato provvisoriamente di circa 1mt, con interruzione del traffico ferroviario per evitare che ostacolasse l'onda di piena di 14.000 mc/sec in arrivo. Mentre a Genova la piena del Ferreggiano iniziò 3 ore dopo l'inizio della pioggia, che era peraltro ancora in corso quando il torrente esondò. I problemi della Valbisagno quindi hanno una origine naturale ma i loro riflessi sulle attività umane sono stati amplificati in maniera devastante dalle attività umane dalla fine del XIX secolo in poi. Per rimediare verranno realizzate due gallerie che diventeranno due canali scolmatori (uno per il Fereggiano e uno per il Bisagno). 

Il Bisagno è una brutta bestia: lo scenario peggiore è quello di una piena di 1.300 mc/sec. Tanto per fare un raffronto con l'Arno a Firenze, durante l'alluvione del 1966 è stata calcolata una portata di 4.100 mc/sec. Si tratta in termini assoluti di 3 volte tanto, ma il Bisagno ha un bacino di 95 km quadrati contro i 4.100 dei sottobacini che compongono il bacino dell'Arno a monte di Firenze (Mugello, Casentino, val di Chiana, Valdarno superiore e qualcosina di altro). Ok, direte, più grande il bacino, più diluite le piene, ma insomma...
Appare pertanto chiaro che la valle del Bisagno andrebbe trattata con una attenzione particolare, come dovrebbe essere del resto nella Liguria tutta, cosa che invece non è stata assolutamente fatta.

GEOGRAFIA DELLA PARTE TERMINALE DELLA VALBISAGNO

La parte finale della Val Bisagno:
a sinistra il centro di Genova,a destra le colline
di Albaro e San Fruttuoso. Tutta la stretta fascia
pianeggiante è densamente urbanizzata 
Focalizziamo la situazione di quella parte di Genova. Guardando dal mare vediamo in riva sinistra del Bisagno (e quindi sulla destra) le colline di Albaro, San Fruttuoso e Camaldoli. A sinistra la collina di Carignano e l'inizio del centro della città (le mura cittadine erano poste più o meno fra il Bisagno e i colli). Guardando la Foce dal mare, a sinistra e quindi in riva destra del Bisagno, c'è il colle di Carignano dove comincia la zona centrale della città. Tra la ferrovia e la foce c'è un po' meno di un km. Si presenta quindi una fascia pianeggiante allungata nella direzione del fiume che si restringe verso la foce da quasi 1 km a 300 metri.  
In questa fascia, poco a valle della odierna stazione di Brignole c'era un borgo protetto da argini che non sempre funzionavano, Borgo Pila, presso l'omonimo ponte, più volte distrutto (l'ultima volta a causa della piena del 26 Ottobre 1822: fu ricostruito nel 1836, in ferro. Oggi da quelle parti di un ponte non ce n'è bisogno....
Anche alla foce c'era un borghetto e, a testimoniare la scarsa popolazione della zona, in tempi più antichi c'era pure un lazzaretto.
Insomma …. meglio abitare sulla scomode colline che in quella valle....

I TRE GRAVISSIMI ERRORI URBANISTICI NELLA VAL BISAGNO (PER TACER DEL FEREGGIANO)

Il ponte di S.Agata: oggi basterebbero 6 arcate
per attraversare il Bisagno contro le 28 originali
Scendiamo il corso del Bisagno a partire dallo stadio di Marassi, dopo il quale il fiume descrive una ampia ansa a destra per seguire la valle. Il vecchio ponte di S.Agata (noto anche come Ponte Romano), distrutto nel passato svariate volte, era in perfetta efficienza nel 1970, quando fu parzialmente rovinato dall'alluvione del 3 ottobre. Siccome era molto stretto non è stato rimesso a posto. Torneremo su questo ponte molto presto. 
Poche decine di metri dopo il ponte di S.Agata c'è il ponte ferroviario: qui comincia il tombamento del Bisagno che si conclude solo quando il fiume sfocia nel Mar Ligure, alla Fiera di Genova, situata appunto nella zona detta “Foce”. 

1. Il primo errore, anzi, il “padre di tutti gli errori” è stato il restringimento degli spazi di pertinenza fluviale. Che il fiume sia stato ristretto (un classico dell'urbanistica del Bel Paese) lo dimostra proprio il ponte di S.Agata: questa foto ci fa vedere come, sostanzialmente, con il corso attuale del Bisagno basterebbero al massimo 7 arcate, contro le 28 originali: il manufatto iniziava tra le attuali Via Borgo Incrociati e Via Canevari e finiva oltre corso Sardegna. Il Bisagno quindi era una fiumara (toponimo che da quelle parti si ripete...). E come ogni buona fiumara che si rispetti, per decenni pochissima parte del suo alveo viene utilizzato dalle acque, ma ad un certo punto c'è bisogno di tutto quello spazio in caso di eventi pluviali particolarmente gravi. 

2. Per il secondo grave errore bisogna andare un poco più a valle: dopo la grande ansa e prima di incontrare la ferrovia il fiume descrive una nuova curva a destra, ben più corta e più secca, che oggi come oggi ha poco significato ma ha incontrato la mia curiosità, aumentata quando ho visto alcune stampe antiche le quali, nonostante la scarsa accuratezza dal punto di vista topografico, fanno capire che lì c'era un restringimento dell'alveo oggi non evidente.
Una coincidenza importante è che giusto poco dopo in riva sinistra nella valle principale sfocia una valletta secondatia parallela all'andamento della costa, percorsa dagli odierni corso Gastaldi e Corso Europa. Insomma, quella zona della valle era occupata da una conoide formata dai detriti provenienti dalle colline di Camaldoli, San Fruttuoso, San Martino e Albaro. portati fin là da due torrenti, il rio Rovare e il rio Noce, e dai loro tributari. Quindi il Bisagno vira bruscamente a destra a causa dell'ostacolo che ponevano questi detriti.
Ho scritto ponevano perché oggi, appunto, c'è un piano. M
ecco come doveva più o meno
 
presentarsi 
il lato sinistro della
val Bisagno all'altezza della
odierna stazione Brignole
a perché? Semplice, perchè alla fine del XIX secolo quella zona venne tutta sbancata dai depositi della conoide allo scopo di abbassare il tutto a livello della piana e fare la città “moderna”. La situazione prima dell'intervento umano doveva essere simile a quella raffigurata nell'immagine qui a fianco.
Contemporaneamente il Rio Noce venne tombato e deviato in parallelo al Bisagno per sfociare in mare a circa 300 metri a est. 
Di conseguenza è stata aumentata la zona a rischio alluvione: nel 1971, 2011 e 2014 l'acqua del Bisagno non sarebbe mai arrivata su quei rilievi ma ha provocato ingenti danni e vittime nella zona ribassata.
Vediamo nella carta qui accanto, la zona sbancata. 

3. Il terzo errore è stato compiuto negli anni '30 del XX secolo, quando il Bisagno è stato tombato con una portata di 450 mc/secondo. Bisogna notare che non ci fu all'epoca un accordo unanime su quest'opra: c'era chi sosteneva che questo valore si poteva rivelare nettamente insufficiente in caso di piena. 
Quest'altra foto mostra l'inizio della tombatura del tratto conclusivo del Bisagno, in corrispondenza della ferrovia. Si vedono quattro arcate, ma di queste solo due proseguono. Le due a sinistra sono cieche e si infrangono contro quei negozi costruiti sotto la ferrovia di via Tolemaide che vengono ovviamente distrutti ad ogni piena...

ARRIVANO FINALMENTE I RIMEDI!

Nell'ottica che i georischi non provocano danni ma sono le costruzioni sbagliate o collocate nel luogo sbagliato a farli, è abbastanza ovvio che il rimedio teoricamente migliore sarebbe quello di.... ritornare allo status quo, quindi buttare giù strade e palazzi, ripristinare lo spazio che prima dell'urbanizzazione del XIX secolo era pertinenza della fiumara e togliere la tombatura di Bisagno, Fereggiano, Rovara, Noce e di tutti gli altri rii e tanti saluti. Ora, è chiaro che non si può, perché farlo vorrebbe dire sgomberare mezza Genova,  o almeno tutto quello che è sotto una certa quota nella valle e tutta la piana tra la ferrovia e il mare e non un piccolo quartiere come ad Aulla...
Quindi la soluzione è la stessa che fu pensata (ed eseguita, sia pure con non eccessiva solerzia) in Toscana, per proteggere Pisa: catturare a monte le acque in eccesso realizzando degli scolmatori. Sono opere abbastanza facili in pianura (specialmente in quella fra Pontedera e Pisa che è relativamente poco urbanizzata) ma molto complesse in un'area come quella genovese completamente urbanizzata, dove quindi occorre scavare delle gallerie e che finalmente, grazie ai finanziamenti e ai regolamenti di #italiasicura, potranno finalmente essere eseguiti. 

In arancione lo scolmatore del Bisagno
In giallo lo scolmatore del Fereggiano
La costruzione dello scolmatore del Fereggiano era già stata iniziata negli anni '90, quando furono scavati 909 dei 3.717 metri necessari per evitare che le acque di questo rio entrassero nel Bisagno prima che i lavori venissero – non proprio saggiamente – interrotti.
Insieme alle acque del Fereggiano vi passeranno anche quelle del Rio Noce e del rio Rovare. La portata della galleria sarà di 160 m3/s totali, ipotizzandone 111 dal Fereggiano, 26 dal rio Rovare e 23 dal Rio Noce. È interessante notare che sono stati assunti come portata di progetto per i Fereggino i 111 m3/s dell'evento alluvionale del 2011 e non il valore sensibilmente più basso che risultava come duecentennale dalla documentazione ufficiale vigente, che è di appena 87 m3/sec. I lavori dovrebbero concludersi prima dell'autunno del 2018: ci saranno quindi da passare ancora due autunni, sperando che non succeda niente. L'opera inizierà un po' a monte rispetto all'inzio del tombamento e finirà in mare passando sotto la collina di Albaro qualche centinaio di metri a d E della foce del Bisagno, più o meno in corrispondenza del fianco sinistro della valle.

Per il Bisagno ci saranno due interventi: il primo è un aumento della portata nella zona tombata, che passerà dagli attuali 450 m3/s a 850 m3/s. In questo caso i lavori dovrebbero concludersi prima dell'autunno 2017. Più complesso il discorso dello scolmatore del Bisagno, impresa molto più lunga. Questa opera, lunga oltre 6 km e la cui portata massima sarà 450 m/sec, preleverà le acque del fiume a monte di Staglieno (e quindi oltre 1 km prima di Marassi), passerà in riva sinistra del fiume sotto la collina di Marassi e nella sua parte finale scorrerà accanto allo scolmatore del Fereggiano che verrà anche utilizzato come galleria di servizio per i lavori, la cui conclusione è prevista per il 2020.
La spesa per il complesso delle 3 opere sarà di quasi 300 milioni di euro, dopo le quali solo una piena superiore ai 1300 mc/sec potrà fare dei danni.

venerdì 4 marzo 2016

I lavori usciti nel 2015 sulla paleoantropologia che in parte ridisegnano lo stato dell'arte nella materia


Sono passati pochi mesi da quando è uscito “il meteorite e il vulcano”: ritengo di essere stato fortunato a scrivere questo libro tra 2014 e 2015, perché quando il lavoro era in sviluppo ho potuto utilizzare gli atti della conferenza di Londra sulle estinzioni di massa del 2013, che rimarranno a lungo un punto fermo nelle conoscenze sull'argomento. Qualche piccolo aggiornamento da fare ci sarebbe di già, ma fondamentalmente l'impalcatura resta valida.
Se però mi fossi accinto nel 2014 a scrivere un libro sulla storia dei nostri antenati (inteso quando ancora non c'era Homo sapiens e fino all'inizio della sua espansione) oggi avrei dovuto riscriverlo a causa di 5 scoperte fondamentali pubblicate nel 2015. Qualcuna è davvero sorprendente, altre invece confermano o precisano quello che si supponeva. Ricordo che non sono reperti scoperti nel 2015, ma sono i risultati delle ricerche pubblicati nel 2015: è ovvio che fino a quando non esiste una pubblicazione un reperto è sconosciuto ai più.

vista laterale di LD 350-1 da [1]
1. I PRIMI HOMO SONO PIÙ VECCHI DI 500.000 ANNI RISPETTO A QUELLO CHE SI SAPEVA. Il problema più importante della paleoantropologia è la scarsità di fossili tra 2.0 e 3.0 milioni di anni fa, che è esattamente il periodo in cui sarebbero comparsi i primi Homo (in particolare Homo habilis).
Il 23 febbraio su Science esce un articolo [1] sul reperto classificato come LD 350-1, un fossile trovato nell'Afar, in Etiopia. Si tratta di un frammento parziale di mandibola con parte dei canini, i premolari e i molari, appartenuto ad un essere vissuto tra 2.80 e 2.75 Ma (Milioni di anni). La datazione è molto attendibile perché il livello che lo conteneva si trova esattamente sopra il Gurumaha Tuff, radiometricamente datato a 2.822 Ma (tra Afar e Rift Valley l'attività vulcanica ha lasciato dei provvidenziali tufi che spesso forniscono degli ottimi riferimenti cronologici!).
In quell'epoca vivevano da quelle parti diverse australopitecine, come Australopithecus africanus (2.8 - 2.3 Ma), A. garhi (~2.5 Ma) and A. aethiopicus (2.7 - 2.3 Ma). Però le loro caratteristiche craniche e dentali sono molto derivate rispetto a quelle delle australopitecine più vecchie e in una direzione che pare troppo diversa da quella dei primi Homo come H.habilis e H.rudolfensis. Quindi appaiono un ramo del cespuglio umano che non ha lasciato discendenti, diverso quindi da quello che ha portato a Homo.
LD 350-1 mostra caratteristiche che ricordano il più antico Australopithecus afarensis. Questo potrebbe suggerire, dunque, la presenza di una popolazione relitta di questa antica australopitecina (non si trovano suoi reperti più giovani di 3 milioni di anni). Ma altre caratteristiche sono piuttosto compatibili con quelle dei primi Homo. Il ritrovamento va dunque nella direzione già ipotizzata e cioè appunto che le varie australopitecine etiopi di 2.5 milioni di anni fa non sono estremamente vicine alla linea che ha portato a sapiens e, come novità, retrodata di 500.000 anni l'arrivo delle prime caratteristiche che diversificano Homo dai suoi predecessori.

Alcuni degli utensili trovati a Lomekwi, da [2] 
2. UTENSILI PIÙ ANTICHI DEL PREVISTO. Gli utensili più antichi conosciuti fino al 2014 hanno 2.6 milioni di anni e appartengono al cosiddetto “modo Olduvaiano”. È vero che sono state ritrovate delle ossa che mostravano segni di raschiamento o taglio di quasi 3.4 milioni di anni fa ma non è dato sapere se gli autori di queste operazioni abbiano usato oggetti deliberatamente realizzati: anche gli scimpanzè sono in grado di prendere degli oggetti ed usarli come utensili (e riescono anche in certi casi ad adattarli). Invece quelli descritti il 21 maggio su Nature e trovati nel sito Lomekwi 3 in Kenya sono sicuramente prodotti intenzionalmente. Le loro caratteristiche principali sono una età di 3,3 milioni di anni fa, quando l'area era ancora coperta da una foresta e delle grandi differenze con il modo olduvaiano, per cui è stata proposta per definirli l'istituzione di un altro tipo di industria litica, il modo lomekwiano.
Le conseguenze di questa scoperta sono davvero tante: innanzitutto retrodatano la prima industria litica di ben 700.000 anni. Ma c'è di più: respingono l'idea che le prime lavorazioni di utensili siano nate dopo il passaggio dalla foresta alla savana e, terza considerazione importante, anche degli individui “pre-Homo" con cervelli molto più piccoli erano in grado di produrre oggetti. È ancora ignoto chi fossero gli autori di questi utensili. È possibile che si tratti di individui appartenenti a Kenyanthropus platyops.

3. AFAR 3.5 MILIONI DI ANNI FA: UNA GRANDE BIODIVERSITÀ NELLE AUSTRALOPITECINEIl 28 maggio, ancora su Nature, un gruppo internazionale presenta Australopithecus deyiremeda [3], un nuovo tassello che aggiunge ulteriore biodiversità di Ominini a quella già vasta dell'Africa tra 3 e 3.5 milioni di anni fa, di quando cioè nel triangolo Ciad – Sudafrica – Etiopia vivevano diverse australopitecine (Australopithecus afarensis, Au. bahrelghazali e quindi Au. deyiremeda) insieme a  Kenyanthropus platyops.
A queste, pochi giorni dopo, ne è stata aggiunta un'altra, Au. Africanus: non è certo una creatura nuova, ma la novità riguarda il periodo in cui ha vissuto.

Il cranio di Little Foot da [4]
4. AUSTRALOPITHECUS AFRICANUS È VISSUTO ANCHE PRIMA DI QUELLO CHE SI SAPEVA FINO AD ORA. Australopithecus africanus sembrava che fosse vissuto solo meno di 3 milioni di anni fa, ma non è così. Nel famoso complesso di Sterkfontein nel 1998 era stato trovato il teschio di Little Foot. Negli anni successivi sono state rinvenute altre parti del suo scheletro, che era stato datato in manera un pò dubitativa a 3.3 Ma. Purtroppo il bacino è danneggiato e non è stato possibile studiarlo in dettaglio. Little Foot è – bene o male – abbastanza simile a Australopithecus africanus (anzi vi è ben inquadrabile dentro questo tipo) anche se in genere Au. Africanus è più giovane. Già dunque i suoi 3.3 milioni di anni lo facevano “piuttosto vecchio” per essere un africanus, ma il 4 giugno esce su Nature un lavoro in cui delle indagini la sua età è stata indicata in 3.67 Ma [4].
Quindi almeno in parte A. africanus ha convissuto con A. afarensis, al contrario di quello che si sapeva.

Un individuo di Homo naledi da [5]
5. HOMO NALEDI, UN NUOVO, PRECOCE HOMO CON UN CERVELLO MOLTO PICCOLO. Siamo sempre nella “Culla dell'umanità” ma in un complesso diverso da quello di Sterkfontein, quello di Rising Star. L'eccezionalità di questo ritrovamento è che in una grotta di questo secondo complesso, la Dinaledi, sono stati trovati oltre 1500 reperti appartenenti a non meno di 15 individui che hanno permesso una ricostruzione praticamente completa dell'aspetto di questo ominide. Cioè, mentre di solito i paleoantropologi si devono accontentare di reperti parzialissimi, se non addirittura solo di qualche dente o pezzo di mandibola, stavolta ci sono individui completi e ben conservati da studiare. Da questo ben di Dio le conclusioni sono state tantissime e possono essere sintetizzate così: Homo naledi è un mix di caratteristiche antiche, da australopitechi, e caratteristiche più derivate e tipiche di Homo. Per cui è nel guado fra Australopithecus e Homo (un po' diciamo come succede per il Sediba, che però è stato inserito in Australopithecus). La cosa particolare però è che fra le caratteristiche più umane non c'è il cervello, ancora di piccole dimensioni da australopitecina. E questa, in fondo, è una sorpresa.
Ci sarebbero poi da scoprire altre due cose: la prima è che non è stato assolutamente possibile capire l'età di questi fossili... potrebbero avere 4 come meno di 1 milione di anni. Non ci sono indizi in merito se non – appunto – quella morfologia intermedia e quel cervello piccolo che potrebbero indicarla in circa 3 milioni di anni.
La seconda è come hanno fatto quegli scheletri ad arrivare laggiù. Ci sono caduti? Vi sono arrivati con le proprie gambe senza poter tornare indietro? O, addirittura, come pensa qualcuno, si tratta forse di un primo esempio di sepoltura? Mi verrebbe da dire "ai posteri l'ardua sentenza"... ma non so se queste risposte potranno davvero venire

6. DENTI DI SAPIENS MOLTO ANTICHI IN CINA. La sesta e ultima scoperta è invece recente e fuori dall'Africa. Siamo nella calda Cina meridionale, dove la grotta di Fuyan, nel Daoxian, non era ancora stata studiata. Vi sono stati trovati 47 denti di età incerta ma oscillante fra i 120 e gli 80 mila anni fa. Questi denti appartengono sicuramente a Homo sapiens e rappresentano un caposaldo per la storia del popolamento fuori dall'Africa della nostra specie: innanzitutto perché sono i più antichi reperti di sapiens in Asia. Secondo perché accertano quello che in molti (modestamente anche il sottoscritto) avevano pensato: l'espansione in direzione sud – est è stata molto precoce e diretta nella direzione in cui non c'erano i neandertaliani. Un segno che all'epoca questi nostri cugini erano ancora troppo “forti” per essere affrontati, mentre le forme che abitavano quella zona erano più abbordabili.

Insomma, un 2015 davvero ricco di novità in campo paleoantropologico! 

[1] Villmoare et al (2015) Early Homo at 2.8 Ma from Ledi-Geraru, Afar, Ethiopia Science 347,  1352 – 1355
[2] Harmand et al (2015) 3.3-million-year-old stone tools from Lomekwi 3, West Turkana, Kenya Nature 521, 311 – 316
[3] Haile Selassie et al (2015) New species from Ethiopia further expands Middle Pliocene hominin diversity Nature 521, 483 – 488
[4] Granger et al (2015) New cosmogenic burial ages for Sterkfontein Member 2 Australopithecus and Member 5 Oldowan Nature 522, 85 – 88
[5] Berger et al. 2015 Homo naledi, a new species of the genus Homo from the Dinaledi Chamber, South Africa eLife 2015;4:e09560.
[6] liu et al 2015 earliest unequivocally modern humans in southern China Nature 526, 696 – 700