venerdì 27 marzo 2020

Il crocevia preistorico degli Altai: Neandertaliani, Denisovani e una seconda (e recente) migrazione di Neandertaliani europei



I monti Altai sono una catena montuosa imponente; fanno parte della fascia orogenica dell’Asia centrale, formatasi nel paleozoico durante l’amalgamazione dell’Asia (ne ho parlato in questo post). Dal punto di vista geologico la storia di questo orogene e di tutta l’Asia a nord dell’allineamento Karakorum – Tibet mi affascina tantissimo (non solo perché dalle nostre parti è abbastanza sconosciuta); ma per un’altro dei miei pallini, l’antropologia intesa come storia del genere umano e dei suoi antenati, gli Altai hanno un fascino ancora maggiore (e di fatti ne ho parlato più volte): rappresentano un gigante dell’antropologia, sia per la possibilità che quelle zone corrispondano a quelle di origine dei nativi americani, sia per quello che è successo in un’epoca in cui i sapiens non vi erano ancora arrivati, con una convivenza fra Denisovani e Neandertaliani.


GLI ALTAI E I DENISOVANI. Era risaputo che tra 130 e 50.000 anni fa questi monti fossero uno dei centri dei Neandertaliani, ma nel 2010 c’è stata una delle scoperte principali per la storia dell’umanità: nella grotta di Denisova del materiale osseo si rivelò proveniente da un gruppo umano ancora diverso e fino ad allora sconosciuto, i Denisovani (Krause et al, 2010 – ne parlai qua). La grotta di Denisova è l’unico sito che contiene dei resti appartenenti a questo gruppo di uomini parecchio misterioso, a parte una mandibola di circa 160.000 anni fa ritrovata in una cava in Tibet nel 1980, a oltre 3800 metri di altezza, la cui appartenenza ai Denisovani è stata dedotta poco tempo fa dall'analisi delle proteine (Chen et al, 2019); ma, fatto estremamente importante, se è noto che in tutti i non africani è presente una componente Neandertal (frutto degli incroci sapiens – neanderthalensis), il genoma degli orientali oltre a una piccola percentuale di geni  neandertalian, presenta ampie tracce di geni denisovani (Browning et al, 2018).
Meno di un anno fa a Denisova ecco un’altra eccezionale scoperta: un reperto risalente a circa 50.000 anni fa (Brown et al 2016) si è dimostrato essere un ibrido diretto, figlio di mamma neandertaliana e padre denisovano (Slon et al 2019): di individui con un antenato ibrido nelle prime 4 / 5 generazioni fra sapiens e neandertal ne sono stati trovati diversi, ma è la prima volta che vediamo un ibrido diretto fra due gruppi umani (in questo caso neandertaliani e denisovani). Ne ho parlato qua.


Le datazioni assolute a Denisova non sono semplici perché per date più vecchie di 50.000 anni fa il C14 non può essere usato (ed è un peccato vista l’abbondanza di ceneri e di ossa). Per fortuna l’ambiente secco ha consentito le indagini con il DNA, grazie alle quali – appunto – sono stati scoperti i Denisovani. Le ultime datazioni hanno fornito per il materiale genetico denisovano età che dimostrano una quasi continua frequentazione della grotta: nonostante la forbice un po' larghina di queste età, ricavate con la termoluminescenza (un metodo di datazione su cui evito di addentrarmi), le tracce denisovane più antiche hanno più di 180.000 anni fa (e quindi appartengono ad un periodo precedente al penultimo massimo glaciale), mentre le più recenti sono centrate a 47.000 anni fa, ma con una forbice di incertezza in più e in meno di 8.000 anni, per cui si va da 55 a 41 mila anni fa (Jacobs et al 2019). In particolare la date della forbice più giovani del dato centrale ci consegnerebbero una interessante prospettiva…


UN POSTO AFFOLLATO. Il fatto che i Neandertaliani sono apparsi in zona, migrando dall’Europa, all’incirca 130.000 anni fa, implica che questi sono arrivati quando i Denisovani c’erano di già e che i due gruppi hanno vissuto fianco a fianco. I dati genetici ricostruiscono in linea generale i complessi rapporti e le differenze fra le due popolazioni: nei Neandertal erano frequenti gli incroci con consanguinei (segno di una popolazione non numerosa), i Denisovani erano sicuramente di più e appartenevano ad una popolazione di dimensioni maggiori con ampia diffusione geografica, come conferma la mandibola tibetana (addirittura si vede una sostituzione nel tempo: i Denisovani di periodi diversi sono diversi fra loro geneticamente tanto quanto lo è un nativo americano  da un africano) e – tanto per complicare le cose – il corredo genetico dei Denisovani mostra all’interno una componente derivata dall’ibridazione con un’altra – ancora misteriosa – popolazione (Meyer et al, 2012).  


UNA NUOVA POPOLAZIONE NEANDERTALIANA SI INSEDIA 70.000 ANNI FA. I Neandertal locali usavano utensili di tipo Mousteriano – Levallois (che dovrebbero esser stati adottati anche dai denisovani)
Recentemente al già affollato panorama di questa area si è affiancata una terza novità. 100 km ad ovest di Denisova (uno sputo nell’immensità dell’Asia centrale..) nella grotta di  Chagyrskaya sono stati trovati decine di migliaia di utensili e 74 reperti neandertaliani. In cosa consiste la novità? Inaspettatamente sia i reperti umani che gli utensili (di fattura  micoquiana) portano a ritenere che il sito di Chagyrskaya fosse abitato da neandertaliani di origine europea (Balcani settentrionali o Caucaso) che sono arrivati in zona molto più tardi rispetto a quelli – chiamiamoli così – autoctoni noti a Denisova e in altre parti degli Altai (Kolobova et al, 2020). Solo nella grotta di Okladnikov (più vicina a Denisova), sono stati trovati utensili di questo tipo. La questione del micoquiano è piuttosto dibattuta e il termine è usato come indicante una cultura neandertaliana europea piuttosto moderna, diffusa dalla Croazia al Caucaso (e geneticamente distinguibile). Da notare che queste industrie litiche sono coeve con quelle più recenti di Denisova, il che ci dice che le due diverse popolazioni, con usi e cultura diversa, hanno bene o male convissuto fra di loro.
Insomma, gli Altai si confermano ancora una volta un crocevia fondamentale per l’umanità e circa 50.000 anni fa vi convivevano "autoctoni" Denisovani, Neandertaliani insediati da tempo e nuovi immigrati Nenandertaliani.




La mobilità di Homo (e non solo di sapiens) è dimostrata da tante testimonianze, ma nella fattispecie resta da capire come mai questa zona ha svolto questo ruolo incredibilmente importante e – soprattutto - chi glielo abbia fatto fare a dei neandertaliani europei di affrontare questo viaggio nell’immensiotà dell’Asia centrale (e presumibilmente in mezzo a genti diverse da loro, sempre neandertaliani ma di altro ceppo).
Le popolazioni micoquiane sono comunemente considerate come cacciatori specializzati in cavalli e bisonti, adattate alla vita nelle steppe. Il gruppo che ha studiato Chagyrskaya  attribuisce la loro presenza negli Altai ad una seconda migrazione verso est dei Neandertal (dopo quella di 130.000 anni fa), dovuta alle condizioni fredde e aride tra 70 e 60 mila anni fa (la fase detta MIS 4).
Attendiamo ovviamente nuovi sviluppi


Brown et al (2016) Identification of a new hominin bone from Denisova Cave, Siberia using collagen fingerprinting and mitochondrial DNA analysis Sci. Rep. 6, 23559

Browning et al (2018) Analysis of Human Sequence Data Reveals Two Pulses of Archaic Denisovan Admixture  Cell 173, 1–9 

Chen et al (2019) A late Middle Pleistocene Denisovan mandible from the Tibetan Plateau Nature 569, 409–412(2019)

Kolobova et al (2020) Archaeological evidence for two separate dispersals of Neanderthals into southern Siberia PNAS 117/6, 2879–2885

Krause, J. et al. (2010) The complete mitochondrial DNA genome of an unknown hominin from southern Siberia Nature 464, 894–897

Jacobs et al (2019) Timing of archaic hominin occupation of Denisova Cave in southern Siberia Nature 565, 594 – 599

Meyer et al, 2012 A High-Coverage Genome Sequence from an Archaic Denisovan Individual Science 338, 222 - 226

Slon et al (2019)  The genome of the offspring of a Neanderthal mother and a Denisovan father Nature 561, 113–116)

lunedì 23 marzo 2020

L'origine naturale di SARS-Cov-2: salto di specie, probabilmente da un pangolino


Allora, sull’origine dell’epidemia Covid-19, dovuta al virus SARS-Cv-2 se ne sono dette tante. Ora un articolo su Nature Mecicine fa sufficiente chiarezza. Questo post è stato redatto a più mani: oltre a me gli aspetti più tecnici sui recettori sono stati scritti da Matteo Bonas di “La Scienza Risponde”, la nostra pagina di divulgazione (per adesso solo su facebook) che sta avendo un discreto successo (tranne che con i fuffari che ce ne hanno dette di tutte, ma questo ci fa capire di essere sulla strada giusta...). Vogliamo in questo post raccogliere e divulgare alcune informazioni che mettano in chiaro la questione della sua provenienza, così cara ai complottisti (che lo considerano un metodo per sterminare l'umanità), dove è nato e come ha fatto a diventare così “cattivo”. Naturalmente in modo “distaccato” e cioè senza nessuna considerazione di tipo politico, religioso, sociale e quant’altro; soltanto quelli che sono i “fatti scientifici”. Comunque - ribadiamo - l'idea che ci sia una connessione fra 5G e coronavirus è una delle più colossali idiozie che esistono, tantomeno con "i vaccini" (magari ce ne fosse uno...)

In questo periodo stanno uscendo molti articoli scientifici, soprattutto sui metodi di cura. Una cosa molto importante è che i ricercatori di tutti i Paesi hanno deciso di condividere i dati, in particolare per quello che ci interessa qui il codice genetico del virus. A me interessa oggi soprattutto puntualizzare l'origine del Coronavirus e a questo proposito un articolo estremamente interessante che investiga sull’origine di SARS-Cv-2 è appena uscito su Nature Medicine sotto forma di breve comunicazione (Andersen et al, 2020).

Incominciamo con alcune definizioni chiare: 
  • il virus si chiama SARS-Cov-2all’inizio era stato indicato come 2019-nCov, ma poi l'International Committee on Taxonomy of Viruses lo ha ribattezzato nell’attuale Sars-Cov-2 perché l’attuale protagonista della pandemia condivide con Sars-Cov, il coronavirus responsabile della SARS del 2003, circo l’80% del genoma e una evidente affinità nelle manifestazioni cliniche delle due infezioni: COVID-19 è appunto una SARS, severe acute respiratory syndrome (sindrome acuta di respirazione molto importante) 
  • invece la forma epidemica è stata chiamata COVID-19, ovvero COronaVIrus Disease 2019, dove 2019 è l’anno della sua scoperta). Sono passati i bei vecchi tempi in cui alle grandi epidemie veniva dato il titolo di “Peste”, indipendentemente dall’agente eziologico coinvolto, oggi si preferisce usare acronimi più precisi e descrittivi ma soprattutto più utili a catalogare le peculiarità` delle malattie aiutando a capire a colpo d’occhio le similitudini 
  • SARS-Cov-2 è un Coronavirus, cioè un virus della famiglia Coronaviridae. I Coronavirus sono virioni a singolo filamento di RNA (che rappresenta il loro genoma, cioè la somma di tutti i loro geni) che oltre al capside (l’involucro che protegge il cromosoma) possiedono un involucro pericapsidico. Questo involucro, che gli dona la caratteristica forma a corona è composto da un mix di proteine virali e pezzi della membrana cellulare dell’ospite (e cioè noi) ed ha lo scopo di proteggere il virus rendendolo, ad esempio, più difficile da identificare per il sistema immunitario dell’ospite.

COSA SONO I VIRUS?

Immagine di Markus Hoffmann
Secondo un classico manuale di microbiologia i virus sono “elementi genetici che replicano indipendentemente dai cromosomi cellulari ma non dalle cellule stesse” (Brock Biologia dei Microorganismi).
In pratica significa che i virus non hanno un metabolismo e quindi per riprodursi e sopravvivere hanno bisogno di cellule viventi (animali, piante, batteri) e per farlo devono “infettare” suddette cellule. Questo significa che questi virus esistono in due forme: 
  • una forma extracellulare, ovvero quella che siamo abituati a vedere sui libri e in televisione; 
  • e una forma intracellulare, più “subdola”, costituita dal cromosoma del virus e dalle proteine che questo codifica all’interno della cellula ospite
In questa seconda forma il virus è in grado di prendere il controllo del metabolismo del suo ospite per fargli produrre un gran numero di copie del virus fino, in alcuni casi, ad ucciderlo – come avviene alla fine del ciclo litico dei batteriofagi (virus dei batteri).
I virus, come tutti i parassiti, tendono ad essere estremamente specifici perché sono “coadattati” per sopravvivere sfruttando un particolare ospite al meglio. Capita però, in determinate circostanze molto particolari e rare, che un virus faccia il “salto”, ovvero l’agente patogeno, che infetta una specie di organismo evolve rapidamente a seguito di mutazione e acquisisce la capacità di invadere una nuova specie di ospite.

SARS-Cov-2. Si tratta del settimo coronavirus noto per infettare gli esseri umani. Dei precedenti solo due, SARS-Cov (responsabile della SARS del 2003) e MERS-Cov (responsabile della Middle East Respiratory Syndrome – MERS – del 2012) hanno dato delle infezioni severe, mentre HKU1, NL63, OC43 and 229E hanno sempre provocato sintomi abbastanza lievi.
Ma come mai SARS-Cov2 è così infettivo? Tutto si gioca sui recettori. I recettori sono proteine che protrudono dalla superficie delle cellule (tutte, nessuna esclusa) e funzionano come delle antenne che captano, legandosi a specifiche molecole, i segnali dal mondo esterno (che per le nostre cellule sarebbe comunque l’interno del nostro corpo), trasmettendo le informazioni all’interno della cellula. Dal momento che i recettori sono essenziali alla sopravvivenza delle cellule e presenti sulla superficie di tutte le cellule viventi, essi sono anche il bersaglio ideale per organismi che vogliono legarsi alla superficie delle cellule per invaderle, come ad esempio i virus. La proteina di un virus che si lega ad un recettore della cellula - ospite è detta proteina di spike.

Innanzitutto Anderson e soci hanno potuto notare che SARS-Cov-2 ha tre caratteristiche importanti:
  • il virus si è evoluto per legarsi con alta affinità al recettore umano ACE2, un enzima che serve alla regolazione dell’angiotensina, un ormone che regola la pressione del sangue
  • l’interazione tra la proteina di spike e il recettore ACE2 non è ottimale e questa è una forte evidenza di come si sia trattato di un salto da un’altra specie all’uomo;
  • la proteina di spike che forma la raggera del virione possiede una particolare regione che facilita il taglio da parte della proteasi furina (il taglio da parte di questo enzima è importante per il processo di infezione delle cellule ospiti).

IPOTESI SULL’ORIGINE DI SARS-Cov2

Come è noto le possibilità sono virus “artificiale” o “naturale”. Per Anderson et al. (2020) è assolutamente improbabile che sia artificiale perché:
  • la cinetica di legame al recettore umano è – diciamo così – estremamente originale e per quanto sia efficace è ben lungi dall’essere ottimale: non sarebbe quindi stato usato uno dei tanti sistemi (estremamente precisi) di ingegneria proteica che sono stati ipotizzati fino ad ora per farlo;
  • non è stato usato nessuno dei sistemi di retro-ingegneria genetica (ovvero quelle tecniche che permettono di “copiare” meccanismi funzionanti da un organismo ad un altro) – non esiste un Coronavirus conosciuto con un recettore con le stesse caratteristiche;
  • né vi sono tracce dell’uso di “modelli” presenti ad oggi utilizzati per la generazione di virus e retrovirus in laboratorio; si tratta di tecnologie che vengono comunemente utilizzate per creare virus per fini di ricerca
  • a questo si aggiunge la “non ottimale” interazione con il recettore umano vista sopra
Insomma… ci sarebbero state altre strade più semplici se qualcuno avesse voluto fabbricare di proposito un virus: in caso di evento accidentale è poi assolutamente impossibile che non ci fossero tracce nella letteratura scientifica di processi simili. Quanto ad averlo sparso di proposito è altrettanto improbabile perché tanto dal codice genetico non sarebbe stato scoperto lo stesso l’autore di questo virus.

DA QUALE ANIMALE VIENE SARS-Cov2?

Un pangolino che cammina e uno "appallottolato":
si vede che una difesa del genere, buona contro un predatore normale,
è assolutamente inutile in caso di predazione da parte di un essere umano
Per quanto riguarda invece il caso del “salto di specie” sono state considerate due specie: un pipistrello (Rhinolophus affinis) e un pangolino (Manis javanica). Mentre tutti conoscono i pipistrelli, in occidente pochi fra coloro che non hanno studi di Scienze Naturali conoscono i pangolini, unici esponenti dell’ordine dei Folidoti: sono dei parenti stretti dei mammiferi appartenenti all’ordine dei carnivori, il che potrebbe sembrare strano, ma è stato dimostrato dal punto di vista genetico (Springer et al, 2004), Anzi, volendo è stato uno dei più clamorosi risultati dei primi lavori che si sono occupati della genetica dei mammiferi. Ne parlai “secoli fa”.

Lunghi da 30 cm a un metro, i pangolini per difendersi dai loro nemici naturali hanno un sistema piuttosto particolare: una corazza impenetrabile composta da grosse squame cornee, dure e mobili e quando si sentono in pericolo si appallottolano. Purtroppo per i pangolini, le scaglie che compongono questa corazza rappresentano un ingrediente pregiato nella medicina tradizionale cinese e costano tantissimo e contro gli esseri umani la difesa a questo modo funziona ovviamente malissimo (anzi, non scappano e li prendi in mano...). Per cui sono sottoposti ad un intenso bracconaggio.

Manis javanica viene preferito perché fra i coronavirus che  infettano i pangolini sono presenti dei domini di legame al recettore (RBD) estremamente simili a quelli presenti sulla proteina di spike di SARS-Cov-2
Le stime dei tempi del più recente antenato comune dei ceppi attualmente attivi del virus indicano l'emergenza del virus tra la fine di novembre 2019 e l'inizio di dicembre 2019, compatibile con i primi casi confermati retrospettivamente. Questo scenario presume quindi un periodo di trasmissione non riconosciuta nell'uomo tra l'evento zoonotico iniziale e l'acquisizione delle mutazioni necessarie a legare il recettore umano dell’angiotensina. Non è ancora chiaro se la mutazione della proteina di spike  necessaria per un efficiente contagio dell’uomo (compreso il particolare sito di taglio dell'enzima di cui abbiamo parlato prima) si siano evolute prima o dopo il passaggio del virus agli ospiti umani.

La conclusione comunque è che SARS-Cov-2 sia un virus che ha effettuato un salto di specie fra il pangolino di Giava e l’uomo attorno alla fine del 2019 (o forse un pò prima).

Andersen et al (2020) The proximal origin of SARS-CoV-2 Nature Medicine https://doi.org/10.1038/s41591-020-0820-9
Springer et al (2004): Molecules consolidate the placental mammal tree - Trends in ecology and evolution 19, 430 - 438



sabato 21 marzo 2020

l'autorevolezza della Scienza e peer-review: come capire se una ricerca è autorevole o no



La questione Coronavirus è interessante anche perché in materia si leggono una montagna di notizie che vengono riferite senza un minimo controllo. Vorrei spiegare qui come funziona la ricerca scientifica e come capire quali siano le fonti autorevoli e quelli no.



Una cosa importante sulla questione Coronavirus sono le dicerie e le varie fonti che parlano di ricerche e sulle dinamiche della epidemia e del contagio. Iniziamo a chiarire i termini: il virus si chiama SARS-CoV-2; Covid-19 invece è il nome con cui viene indicata la malattia.
Ora, a parte le cazzate di Panzironi (finalmente sanzionato!) sulla vitamina C (sembra addirittura che i farmaci testati vadano nella direzione opposta e cioè la riduzione della risposta immunitaria, mi dicono gli esperti in materia del nostro vulcanico team di “La Scienza Risponde” perché, come nel caso della spagnola, è proprio la risposta immunitaria al virus che mette a rischio), si susseguono notizie su cure e ricerche. 
Comunque si rincorrono molte “voci”, sia sul virus che sulle statistiche delle varie nazioni etc etc. Insomma, questa situazione è di fatto un incubatore di leggende metropolitane più o meno fondate, oltre alle benemerite idiozie dei complottisti che evito di presentare.
Però escono anche articoli che dovrebbero essere seri. Ma che fino a quando non saranno approvati dai “referee” noi “comuni mortali” che di virologia o epidemiologia non sappiamo nulla dovremmo prendere con le molle quando non commentati da esperti, esattamente come tutte le voci di cui sopra.


Faccio un esempio: è uscito un articolo su un portale importantissimo del settore sanitario e cioè Medrχiv (un database che raccoglie i preprint degli articoli in ambito medico). L’articolo è corredato di DOI (un codice che identifica stabilmente e inequivocabilmente un articolo, insomma una targa che non sarà mai data ad un altro articolo) e quindi è in teoria pronto per la pubblicazione ma in questo momento non è ancora ufficiale perché non è referato. Lo scrive il portale stesso nella sua home page: 

Attenzione: le prestampe sono rapporti preliminari di lavoro che non sono stati certificati da peer review. Non dovrebbero essere invocati per guidare la pratica clinica o il comportamento relativo alla salute e non dovrebbero essere riportati nei media come informazioni consolidate.
Per quelli a cui non fosse chiaro questo concetto, quello che dice Medrxiv è che la letteratura scientifica in peer review è l’unica fonte sicura. Anche io su Scienzeedintorni cito sempre gli articoli a cui mi riferisco, perché un conto è dire una cosa “da soli”, un altro è affermarla in base a ricerche precedenti citate. Tanto è vero che quando dico qualcosa che “penso io” (e questo vale solo ed esclusivamente quando parlo di argomenti di cui ho una “conoscenza scientifica adeguata”, non certo per l'infettivologia) specifico che questo è il mio pensiero e quindi ha una “autorevolezza scientifica scarsa” fino a quando non viene “referato”.

Ora, spesso insisto a dire che la Scienza non è democratica, ma il problema quindi è che se non si può mettere in votazione una ricerca per sapere se va bene o no, e neanche scegliere per votazione se sia giusta una idea o un'altra. Ma allora, come si fa ad approvare una ricerca. cioè inserirla nel giro della letteratura scientifica rendendola autorevole?


Il problema si risolve con la “referazione”: solo quando una ricerca è illustrata in un articolo su una rivista scientifica con “peer review” è ritenuto ragionevolmente valido e attendibile in base alle conoscenze attuali (al cui incremento l'articolo è finalizzato), per cui potrà essere considerato come punto di partenza in ricerche future degli stessi e di altri ricercatori. Si noti che le ricerche future potrebbero anche portare al superamento di quanto esposto. NB: questa è una "correzione in corsa" consigliatami da Giordano Teza, che quindi mi ha fatto da referee anche lui.



Il concetto di “peer review” è molto semplice e distingue le riviste scientifiche di ricerca (generaliste come Nature o Science o di un argomento specifico come ad esempio il Bulletin of Volcanology) da quelle di divulgazione di qualsiasi taglio, dalla molto specifica Le Scienze a quella per tutti come Focus.

È un iter in cui i protagonisti, oltre a chi scrive l’articolo, sono i referee, ricercatori che conoscono la materia a cui viene chiesto di valutare la robustezza scientifica e metodologica dell’articolo a loro sottomesso. I referee hanno “potere di vita o di morte “ sull'articolo e generalmente restano anonimi. Anche io sono stato “referato” e ho fatto il referee. In genere i referee sono in genere odiati e temuti dagli autori... ma quasi sempre il loro contributo (oscuro perché nascosto ai lettori!) è essenziale per assicurare la qualità dell'articolo e l'attendibilità delle evidenze sperimentali e delle conclusioni.

Il sistema, illustrato un pò ironicamente (ma .. insomma.. è una metafora abbastanza realistica...) funziona così: 

1. io presento un articolo a una rivista

2. questa rivista lo assegna a dei referee
3. l'articolo può essere
:
a) rigettato; in questo caso ciao a tutti (e non è inserito nella letteratura scientifica). Al limite lo propongo ad un'altra rivista 
b) accettato a prezzo di una revisione: i referee propongono correzioni / integrazioni / spiegazioni; dopodichè, quando rimando l'articolo alla rivista, debitamente riguardato in base alle indicazioni dei referee, si riparte dal punto 1

c) accettato: i referee danno l'OK e quindi l'articolo viene pubblicato sulla rivista e diventa "ufficiale" e quindi "autorevole"



È  chiaro ed evidente come una persona che non sia un "esperto della materia" non possa trarre conclusioni da una articolo se è in fase (1) o (2), per le quali gli unici in grado di dare un giudizio in attesa di quello (quasi) definitivo dei referee sono gli "esperti della materia".



Noto inoltre che alle volte un non esperto dovrebbe evitare pure di trarre le conclusioni, ma soprattutto ho letto scemenze interpretative a gogò quando chi commenta è un ideologizzato di ogni ordine e grado, da quelli politici a quelli ambientali, oppure antievoluzionisti, no-vax, negazionisti del clima e complottisti di ogni ordine e grado, gruppi notoriamente inclini alla citazione “ad minchiam”.

Celebre quando gli antievoluzionisti conclusero che anche il grande Steven Jay Gould, presentando gli “equilibri punteggiati” quando scrisse “bisogna andare oltre Darwin” avesse abbracciato le loro idee, diventando pure lui “antidarwinista” (loro si definiscono così).
Oppure quella per cui in Italia "a destra" il Mose è una cosa fondamentale, mentre "a sinistra" è uno spreco inutile di soldi".


L’aspetto della peer review vale soprattutto in caso di articoli su fatti di "stringente attualità" dove spesso la fretta di arrivare primi e la smania di pubblicare risultati eclatanti portano ad indagini incomplete (e la questione coronavirus è esattamente in un "caso di specie" del genere, un qualcosa su cui al momento c’è il massimo delll’attenzione dell’opinione pubblica mondiale). La fretta è essenzialmente motivata da:


1. farsi pubblicità

2. perchè poi ti citano in massa il tuo articolo


Per problematiche insite nel sistema dei finanziamenti pubblici alla ricerca, i succitati diventano due aspetti fondamentali; essi infatti servono ad ottenere finanziamenti (e quindi un posto di lavoro).; oggi, purtroppo, queste dinamiche hanno reso più importante la quantità e il tempismo delle pubblicazioni piuttosto che della qualità della ricerca.


Quindi - mi raccomando - ricordatevi che quando leggete di un fatto scientifico, un articolo di giornale o un link su internet che citano un articolo di una rivista in peer-review sono sicuramente più autorevoli di un altro che cita qualsiasi altra cosa. all'ultimo posto dobbiamo metterci gli articoli in cui si trovano frasi tipo "alcuni scienziati hanno detto che". 

Insomma meno circostanziata è una notizia, meno è attendibile

PS: non fraintendetemi... Io spero che sia vero quello che dicono sull'articolo, eh...


PPS: anche in questo caso mi sono servito pure io di un referee, in questo caso non anonimo (anzi, lo ringrazio esplicitamente), Matteo Bonas, del nostro team di La Scienza Risponde, grazie al quale - come dovevasi dimostrare - questo post è diventato migliore e più ricco

mercoledì 11 marzo 2020

Il crollo del petrolio del 9 marzo 2020: possibili retroscena


Tra le conseguenze dell’epidemia del coronavirus c’è una drastica riduzione dei consumi di energia. Di conseguenza c’è una netta diminuzione dei consumi di petrolio, che a sua volta aveva provocato una riduzione dei prezzi dai 60 $ al barile a poco più di 50. A questo è seguito il crollo di lunedì 9 marzo. Il sospetto è che approfittando dell’eccedenza di greggio sul mercato, qualcuno abbia deciso per una resa dei conti. Vediamo perché.

Le quotazioni dei vari benchmark del petrolio
Allora, tutti a dire che il crollo del prezzo del petrolio è dovuto al mancato accordo fra russi e sauditi sul taglio della produzione. 
Beh, io sospetto invece che sia l’esatto contrario: cioè che queste due nazioni siano state perfettamente d’accordo per farlo crollare.
Ricordo che qui parlerò del Brent come parametro di riferimento (quelli “saputi” direbbero “benchmark”), in realtà ogni tipo di petrolio viene quotato in base alle sue caratteristiche, come vediamo qui.
IL CROLLO DEL 2014-2015. L’Arabia Saudita ci aveva già provato nel 2015 quando sperava di far abbassare a 80 $ il prezzo del greggio che allora per il Brent era tra 100 e 110 dollari. Per chi volesse “rivangare” quegli avvenimenti nell’agosto 2015 avevo spiegato cosa stava succedendo: riassumendo, i sauditi hanno un costo di estrazione basso e speravano abbassando il prezzo di mettere fuori mercato le tante aziende che in USA stavano vertiginosamente aumentando la produzione di idrocarburi. questo aumento ha determinato una rivoluzione nel mercato, perché da  un pò di tempo gli Stati Uniti da importatori sono diventati esportatori di idrocarburi. In USA il costo di estrazione è, piuttosto alto, per una serie di motivi e quindi per i Sauditi, che lo hanno molto più basso, un prezzo del Brent sugli 80 dollari avrebbe azzerato i guadagni dell'oil&gas di oltreoceano, le quali si sarebbero trovate senza risorse per finanziare l'esplorazione di nuovi pozzi, innescando una carenza di petrolio da lì a qualche anno (per un po' in effetti le esplorazioni sono state poche), che avrebbe fatto riprendere con gli interessi ai sauditi i minori guadagni del periodo a prezzo più basso.   
Però la cosa sfuggì loro di mano e molte nazioni per incassare le stesse royalties aumentarono la produzione e fu un disastro per i paeai produttori e anche le le aziende oil&gas americane.

Produzione di petrolio di USA, Arabia e Russia
IL MERCATO OGGI. Oggi siamo in una situazione particolare: la produzione non è mai stata così alta perché, nonostante in Iraq e soprattutto in Libia siano a livelli molto bassi e l’Iran sia impelagato con le sanzioni, gli States macinano record su record, ma proprio a causa della sovrapproduzione in USA i prezzi del 2019 sono stati inferiori al previsto per i primi 3 trimestri del 2019; inoltre stiamo assistendo ad uno sganciamento parziale o totale dei fondi di investimento dall’azionariato di queste compagnie, come risposta ai cambiamenti climatici: questo ha messo in difficoltà molte aziende oil&gas (di cui non si contano negli USA i default finanziari) anche perchè il sistema bancario è diventato molto più prudente con il settore; di conseguenza alcune aziende non si sono salvate dalla bancarotta, altre hanno ristrutturato il debito e in genere tutte hanno ridotto se non azzerato gli investimenti.
Adesso c’è il coronavirus e tante immagini ci fanno vedere la riduzione dei consumi attraverso la riduzione dell’inquinamento (l’unico effetto collaterale positivo…)
Di conseguenza crolla la richiesta di petrolio nel momento in cui c’è la massima offerta di sempre, non del tutto sostenuta dalla domanda anche prima di questa grave perturbazione.

IL CROLLO DEL 9 MARZO. Da diversi anni l’OPEC sta perdendo quota ma si sta avvicinando politicamente ad uno dei massimi produttori mondiali, la Russia. 
Lunedì, come abbiamo visto, il prezzo del petrolio è crollato anche brevemente sotto i 30 $, ufficialmente perché Russia e Arabia Saudita non hanno trovato l’accordo per ridurre la produzione.
Ma la mia impressione è quindi un’altra: un accordo sottobanco per mettere in difficoltà gli americani: non penso proprio che ai russi dispiaccia fare uno scherzetto agli Stati Uniti. Quanto all’Arabia Saudita ci aveva già provato 5 anni fa, quindi sarebbe “recidiva” (nonostante che la monarchia locale sia molto sponsorizzata dagli USA ). 
Basta vedere le dichiarazioni di ieri, proprio il giorno dopo il collasso dei prezzi:
Si tratta di prezzi assolutamente insostenibili per il settore oil&gas nordamericano, per il quale si preannuncia un vistoso calo della produzione di idrocarburi a non più di 10,5 milioni di barili al giorno contro i quasi 13 milioni di oggi.
Mi pare dunque che sia Arabia Saudita che Russia abbiano la volontà di tenere i prezzi tutt’altro che alti, ma io sono un geologo e non un economista o un geopolitico degli idrocarburi.
Staremo a vedere

PS: il prezzo così basso del petrolio ha delle conseguenze dal punto di vista dei gas-serra dal punto di vista dei gas-serra perché se quando il petrolio è basso la produzione di corrente elettrica con il carbone va fuori mercato, in giacimenti attivati solo in questi ultimi anni, come il Permian shale del Texas, il gas estratto insieme al petrolio viene bruciato perché il prezzo sul mercato rende antieconomico venderlo.