martedì 15 dicembre 2009

Da Wegener a Wilson: dalla deriva dei continenti alla tettonica a zolle


"La geologia è matura per una rivoluzione scientifica e la sua situazione attuale è simile a quella dell'astronomia prima di Copernico e Galileo, della chimica prima degli atomi e delle molecole, della biologia prima di Darwin, della fisica prima della meccanica quantistica: prima di ogni rivoluzione non c'è niente che quadri e le risposte arriveranno quando si comprenderà che si deve lasciar perdere l'intera intelaiatura di riferimento e cercarne un'altra. 
Gli studiosi di geologia hanno cercato di adattare la storia terrestre, che è sempre stata mobile, all'intelaiatura di un modello rigido e immobile di continenti e non è sorprendente che fosse impossibile rispondere alle questioni maggiori. Non sono i nostri metodi e nemmeno le nostre osservazioni sbagliate, ma l'intero nostro modo di pensare."
Ognuna di queste rivoluzioni proietta la sua ombra molto innanzi a a sé. Gli astronomi greci presagirono Copernico duemila anni prima, Darwin prese dal nonno l'idea dell'evoluzione. Non ci sorprende che le idee di Wegener e di Holmes fossero presenti senza venire accettate. John Tuzo Wilson, Berkeley 1963.


Prima dell'avvento della tettonica a zolle crostali (come è stata successivamente chiamata la deriva dei continenti il momento che i geologi hanno voluto focalizzare l'attenzione sul fatto che i continenti erano solo degli spettaori passivi del fenomeno) c'erano delle idee sull'origine delle catene montuose, sui vulcani, sui terremoti, sulla distribuzione delle fasce metamorfiche. Ma erano poco convincenti e soprattutto non riuscivano a mettere in correlazione tutti questi fenomeni.


Per questa rivoluzione ci sono voluti 50 anni esatti , da quando nel 1913 Alfred Wegener (1880 – 1830) pubblicò “La formazione dei continenti e degli oceani”. Il meteorologo tedesco è più noto per i suoi studi geologici che per quelli meteorologici. Infatti è colui che per primo ha teorizzato in maniera organica la deriva dei continenti.
Prima di lui già Francis Bacon aveva supposto che Africa e Sudamerica fossero una volta unite e probabilmente anche altri lo avranno fatto.

Wegener è andato oltre, studiando con attenzione alcune caratteristiche geologiche e facendone dei punti di forza della sua teoria. Per prima la geologia intorno all'Atlantico, dove evidenziò le significative analogie fra le sue  sponde settentrionali, a partire dalla faglia di Cabot in Canada che appare proprio la continuazione della Great Glen Fault (quella del Loch Ness), finendo con le linee degli orogeni ercinici e caledoniani. Una seconda eccellente osservazione la fece riunendo i continenti meridionali e dimostrando come a questo modo diventava più spiegabile la distribuzione delle tilliti della glaciazione permo – carbonifera del Gondwana, anche in rapporto alle zone calde in cui si deponevano gli strati che hanno portato alla formazione dei depositi più noti di carbone.

Non tutti sanno che prima di Wegener anche un geologo americano, Frank B.Taylor (1860 – 1938), aveva pensato che i continenti fossero in movimento. Ma anche in questo caso il problema è il meccanismo: Taylor propose che i continenti si muovessero verso l'equatore perchè nel terziario la Terra avrebbe catturato la Luna. Taylor non riuscì a spiegare però perchè ci sono tracce evidenti di formazione di catene montuose ben prima del terziario.


Verso la fine degli anni 20 altri scienziati cominciarono a pensare al mantello terrestre come la causa dei movimenti dei continenti e dello scatenarsi dei cicli orogenici. Fra loro si distinsero in particolare l'irlandese John Joly (1857 – 1933), il britannico Arthur Holmes (1890 – 1965) e l'americano David T. Griggs (1911 – 1974). Joly (immagine a sinistra) ipotizzò dei cicli di riscaldamento dovuti al calore generato dalla radioattività, supponendo  che questi cicli influenzassero la dinamica della crosta. Holmes andò avanti su questa strada e fu il primo a parlare di correnti convettive nel mantello terrestre.

Purtroppo Wegener fallì in un punto focale: la rmancanza di un convinecente meccanismo per questi movimenti. Quindi dopo la sua morte, avvenuta in Groenlandia durante l'ennesima spedizione in quella terra di cui è stato uno dei primi fondamentali descrittori, il dibattito fra fissisti e derivisti si è fermato, nonostante che la deriva dei continenti avesse un autorevolissimo sostenitore come Arthur Holmes (il cui libro, Principles of physical Geology detto anche semplicemente “l'Holmes” è stato una Bibbia per molte generazioni di studenti).

In un congresso tenuto a New York nel 1928 ci fu una prima ricapitolazione della situazione. E le cose andarono male per Wegener e soci, anche se le conclusioni del presidente, l'olandese Willelm Van Watershoot (1873 – 1943) lasciarono qualche speranza: la deriva dei continenti era sicuramente più fondata di quella dei ponti continentali per spiegare la distrubuzione delle faune e delle flore del passato, ma fino a quel momento non era stato trovato un meccanismo plausibile per spiegarla, anche se c'è la possibilità di trovarne uno in futuro. Mai parole furono più profetiche!

Con la morte di Wegener e nonostante l'influenza di Holmes e la fissazione teorica delle correnti di convezione nel mantello che nel 1939 presentò Griggs, la deriva dei continenti andò in naftalina, appena citata dai testi universitari come una curiosità .
Le uniche voci fuori dal coro, guarda caso, provenivano da geologi dell'emisfero australe: per loro la distribuzione delle tilliti permocarbonifere, la geologia di Sudafrica e Sudamerica e altre caratteristiche del paleozoico delle loro regioni erano più spiegabili così che con la fissità dei continenti, per la quale la distribuzione di carbone (fasce tropicali) e tilliti (zone polari) è veramente un rompicapo. Però il problema, al solito, era trovare un meccanismo adeguato.


Proprio un sudafricano, Alexander Du Toit (1878 – 1948), scrisse nel 1937 un libro che dedicò a Wegener: “Our wandering continents” . Era stato  dimostrato proprio da Wegener stesso -  studiando il sollevamento postglaciale della Scandinavia - che il mantello terrestre avesse una discreta plasticità,  Du Toit propose una ipotesi sul movimento dei continenti tutta centrata sulla gravità e sulla deformazione lungo le coste dei continenti in quelle che all'epoca si chiamavano “geosinclinali”: per l'accumulo di sedimenti la geosinclinale sprofonda lentamente nel mantello plastico e questo “richiama” la crosta continentale verso la geosinclinale stessa, crosta che però essendo più rigida, si può spezzare, innescano la risalita dei magmi degli archi magmatici.

Comunque anche i geologi avevano difficoltà a capire la sovrapposizione delle varie unità che compongono le catene orogeniche: già negli anni 20 Steinmann aveva dimostrato che i basalti dell'Appennino non potevano essersi formate dov'erano, in quanto sotto di loro non c'erano tracce dei condotti di alimentazione di questi magmi.
Per spiegare la formazione delle catene a falde il concetto di geosinclinale fu ampliato e complicato ma senza riuscire a fornire un meccanismo plausibile, pensando anche in questo caso che movimenti gravitativi fossero la causa della sovrapposizione delle falde alloctone (“sequenze di eugeosinclinale”) sopra quelle “autoctone” appenniniche (definite di “miogeosinclinale”).

Tutto rimase “fermo” (nel pieno senso della parola!) per un paio di decenni, poi avvenne qualcosa di inaspettato: le ricerche sul magnetismo portarono prima a scoprire le inversioni del campo magnetico, poi che c'era qualcosa che non tornava: per esempio in alcune rocce inglesi del triassico si osservava non solo una direzione che non era quella attuale, ma anche una l'inclinazione più da zone tropicali che boreali. Quindi o si erano mossi i poli o si era mossa l'Inghilterra...

La cosa incoraggiò il cosiddetto “gruppo di Londra” a verificare le cose in altre parti del mondo (qualcuno sostiene che il tutto si deve all'influenza di Holmes, che aveva intuito i possibili sviluppi della scoperta). L'India fu sostanzialmente una conferma: i dati indicavano che la zona di Bombay, ora a 19 gradi di latitudine nord, doveva essere nel Giurassico a 40° sud. Il confronto fa India, Inghilterra e altre zone del pianeta dimostrò che le cose non tornavano lasciando i continenti dove sono adesso e fu un primo colpo contro i fissisti.

Siamo nel 1955, 27 anni dopo il congresso di New York. Nonostante questo altri studiosi continuavano a sostenere che questi dati provavano poco. Alcuni, non so come, continuavano a sostenere che questi dati fossero compatibili con la fissità dei continenti. Altri invece pensavano che il magnetismo terrestre avesse assunto nel passato altre forme. Il dogma dei continenti fissi era ancora più forte dei nuovi dati, ma progressivamente si stava preparndo allo scioglimento, come un iceberg alla deriva verso acque più calde.

Nel 1963 John T. Wilson scrisse su Scientifica American il famoso articolo “La deriva dei continenti” in cui fece il famoso parallelo fra l'Oceano Atlantico da una parte  e Golfo di California e Mar Rosso dall'altra, considerati degli atlantici in apertura al di sopra di una zona di risalita di una corrente di convezione nel mantello. Correttamente raffigura le catene del Pacifico centrale come tracce del passaggio della zolla pacifica su un plume di materiale in risalita dal mantello profondo. Altrettanto correttamente le fosse oceaniche sono indicate come le zone dove la corrente convettiva riscende nell'interno del pianeta.
A dimostrazione della pioniericità l'articolo ipotizza nell'Oceano Indiano una dorsale in più che non esiste.

Da allora proprio grazie alla Tettonica a Zolle qualsiasi fenomeno geologico è stato inquadrato e correlato agli altri utilizzando questa intelaiatura, che ha ridisegnato completamente le Scienze della Terra facendole passare dall'infanzia alla maturità. Dopo astronomia, chimica, biologia e fisica, anche la geologia ebbe la sua teoria unificante

6 commenti:

Annarita ha detto...

Ciao. Sono Annarita Ruberto, fisico e insegnante. Collaboro con la rivista Scuola e Didattica e gestisco il blog di didattica e divulgazione delle scienze, scientificando.

Ti seguo da tempo e trovo i tuoi articoli molto ben fatti e interessanti. Ti chiedo di poter pubblicare questo articolo sul mio blog, citando l'autore e il post originale. Vieni dare un'occhiata prima di decidere.

A presto.
annarita

Aldo Piombino ha detto...

Ti ringrazio perla stima. Nello spirito che deve animare la Rete e i blogger in particolare non possono assolutamente esistere problemi a pubblicare i miei post allorchè autore e blog vengono citati!!
Semplicemente mi fa piacere essere informato di ciò. aspetta domani perchè hoscoperto un paio di errori di ortografia, imperdonabili per un blog sulla scuola.....
saluti!

Annarita ha detto...

Aldo, fai con calma...non c'è fretta.

A presto.
annarita

Annarita ha detto...

Ciao, Aldo. Il tuo articolo è stato segnalato.

Ciao.
annarita

Marco Fulvio Barozzi ha detto...

Aldo, ho commentato sul blog di Annarita mettendo in evidenza la tua grande capacità di divulgatore (geologico e ferroviario!). Intanto di faccio i migliori auguri per le feste.
Marco (popinga)

Stefano Calandra ha detto...

Grazie, la lettura del suo articolo è stata piacevole.
Vorrei aggiungere che è stato dimostrato recentemente che le forze astronomiche Luni-Solari hanno ruolo- chiave nella deriva dei continenti e sui terremoti.

Recentemente anche INGV, con Davide Zaccagnino, Francesco Vespe e Carlo Doglioni hanno effettuato l’analisi delle variazioni nel tempo della velocità di allontanamento o avvicinamento tra le placche.

Dai loro studi è emerso che la deriva secolare dei continenti, cioè delle placche litosferiche in cui è suddiviso il guscio del pianeta, è modulata da una vibrazione che oscilla alle stesse basse frequenze delle maree. E’ stata fatta una controprova per linee di base intra-placca per capire se queste oscillazioni persistessero o meno. Proprio la trascurabilità riscontrata su linee di base intra-placca ha confermato che queste forze astronomiche giocano un ruolo decisivo nel descrivere i moti della deriva dei continenti che, quindi, lentamente si muovono verso ‘ovest’ grazie alla spinta orizzontale delle maree solide rispetto al mantello sottostante, lungo un flusso ondulato descritto dal cosiddetto equatore tettonico che fa un angolo di circa 30° con l’equatore geografico.

Poche persone sono consapevoli che le maree influenzano non solo gli oceani, ma anche la Terra solida e la sua crosta. Con lo studio “Tidal modulation of plate motions”, appena pubblicato su Earth-Science Reviews, scienziati dell'Università La Sapienza di Roma, dell'Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) hanno fatto luce sulla importanza delle maree solide, quelle deformazioni che oscillano su e giù ma anche orizzontalmente il suolo e la crosta terrestre di poche decine di cm durante il passaggio allo zenit dei due principali corpi celesti che interessano il nostro pianeta, ovvero la Luna e il Sole, dimostrando il legame tra lo spostamento delle placche tettoniche e la componente orizzontale delle maree terrestri.
Gli effetti periodici delle maree si verificano a intervalli di tempo molto diversi. Alcuni hanno un'alta frequenza, cioè si verificano su base semigiornaliera, giornaliera, bisettimanale e mensile. Altri, invece, sono a bassa frequenza con cadenze più lunghe: semestrali, annuali, 8,8 e circa 18,6 anni, fino a quella della precessione degli equinozi che ha un periodo di circa 26.000 anni. Quelle con periodi di 8,8 e 18,6 anni, su cui si è concentrato lo studio, sono dovute, rispettivamente, alla precessione del perigeo e del nodo ascendente della Luna.
(estratti da: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0012825220302257?via=ihub)

Infine, Doglioni stesso nel 2020 ha affermato, con riguardo a questo articolo: "questa è l’analisi solo della componente orizzontale della marea solida, quindi quella che ‘pompa’ il sistema, che carica di energia i margini di placca. Il terremoto avviene quando la soglia critica è raggiunta e lì la componente verticale della marea può contribuire all’innesco (che può avvenire anche in tempi non coincidenti) in modo opposto in funzione dell’ambiente tettonico perché il carico litostatico favorisce le faglie normali e inibisce le faglie inverse."

Un caro saluto.