venerdì 30 maggio 2008

Ma possiamo davvero impedire le alluvioni?

Gli attuali tristi avvenimenti piemontesi mi spingono a una riflessione di fondo per chiarire in parte qunto le alluvioni siano inevitabili e come sia possibile difendersi, premettendo che una difesa, anche la più costosa, potrà, nella maggior parte dei casi, limitare o impedire i danni. Ma è praticamente impossibile uscire indenni da eventi particolarmente violenti

Geografia e geologia associano al termine "pianura" l’aggettivo "alluvionale". Un aggettivo spesso omesso ma insito nel concetto stesso di pianura. Definiamo una pianura alluvionale di qualsiasi dimensione, dalla Valpadana alla Valdelsa, come una zona più bassa e pressochè pianeggiante in mezzo a delle alture, ricoperta e riempita dai sedimenti trascinati e depositati dai fiumi durante le alluvioni. In altre parole: quando camminiamo in una pianura, siamo in una zona sulla quale un pò di tempo fa un fiume, esondando dal suo alveo, ha depositato i sedimenti che trasportava.

Noi siamo abituati a vedere i fiumi nascere, ricevere gli affluenti e sboccare in mare. Questa configurazione è quasi totalmente artificiale: in natura un fiume, dopo una ripida discesa dal monte, arrivando nella pianura si impaluda, si divide in più rami, ed è libero di divagare pigramente a suo piacimento in lungo ed in largo per tutta la valle, dove zone asciutte si alternano ad acquitrini e laghi (tra gli ultimi esempi di laghi di questo tipo c'è il Trasimeno). Anche quando i fiumi godevano di queste libertà, sconosciute nell’Italia di oggi, le alluvioni catastrofiche erano all’ordine del giorno: in una sezione verticale di un terreno di pianura si vedono dei livelli di materiale anche molto grossolano (ciottoli se non massi) intercalati nelle argille e nelle sabbie. Queste sono le tracce di importanti eventi alluvionali che hanno interessato la zona (in generale che più grandi sono gli elementi che compongono il sedimento, maggiore è stata in quel punto l’energia della piena).

Poi è arrivato l’uomo, che ha imbrigliato i fiumi in alvei sempre più stretti, impedendogli di muoversi a piacimento e diminuendone la portata utile in caso di piena. Ma, fatto questo ancora più grave, li ha rettificati, riducendone la lunghezza anche a un terzo di quella originaria; si sono ottenuti così degli effetti negativi molto pericolosi: l’aumento della velocità dell’acqua per l’aumento della pendenza e la mancanza di curve (che notoriamente la rallentano) e la diminuzione totale del volume di acqua contenibile dall'alveo. Velocità maggiore e percorso più rettilineo diminuiscono la distanza temporale fra gli affluenti e quindi aumenta la probabilità che le varie piene degli affluenti si riversino quasi contemporaneamente nel corso principale, con esiti disastrosi.

Le bonifiche hanno fatto guadagnare spazio alle attività umane (sopratutto all'agricoltura) e hanno spesso consentito l'eliminazione di malattie come la malaria, ma nel contempo hanno tolto alle acque la possiilità di fermarsi da qualche parte e quindi, oltre alle restrizioni viste prima, i fiumi si ritrovano a dover "gestire" anche quella percentuale di acqua che si sarebbe, almeno nella fase acuta, fermata nelle paludi. La costruzione delle "casse di espansione" e cioè zone che possono essere allagate in caso di piena è finalizzata proprio a "catturare" una parte dell'acqua in eccesso, rilasciandola a piena finita.

Le dighe sono spesso chiamate a sproposito come concause di alluvioni da stampa e voci popolari. In realtà qualche colpa ce l'hanno, ma di altro tipo (e, soprattutto, nessuno è attualmente così pazzo da rischiare in fase di piena di aprire una diga, anche solo per le conseguenze penali che ci sarebbero...) In realtà le dighe qualche disturbo ai fiumi lo provocano: siccome intrappolano la maggior parte del sedimento che il fiume trascina, a valle il corso d'acqua potrà avere delle caratteristiche più erosive e questo lo scontano sopratuttto i ponti, che si ritovano così i piloni troppo in superifce rispetto a quando sono stati costruiti (in alcuni casi il fenomeno è molto veloce, bastano poche decine di anni perchè succeda). Ma, tutto sommato, in caso di alluvione possono essere positive: una diga trattiene a monte (tranne nel caso in cui il lago sia completamente riempito e quindi la correte la scavalca) tutti quei materiali (soprattutto tronchi di albero), che spesso boccano la corrente sotto i ponti causando tracimazioni improvvise e diffuse.

Il disboscamento delle pendici dei monti ha acuito il problema, perchè il suolo del bosco e le radici degli alberi sono ottimi mezzi per rallentare l’immissione dell’acqua piovana nei fiumi ed inoltre le impediscono di trascinare tanto sedimento.
La cemenficazione non è da meno: toglie alla zona interessata la possibilità di assorbire la pioggia, facoltà che è prerogativa esclusiva di zone con suolo o con roccia fratturata. In una città, ad esempio, soltanto i giardini hanno questa possibilità. Pertanto o il sistema fognario è efficente oppure l'acqua resta ferma, a meno che non scorra per gravità (quanti sottopassi si allagano anche in caso di piogge non proprio intense?).

Anche le coste lungo le pianure non sono naturali. Consideriamo la laguna veneta una eccezione, ma in realtà è proprio il tipo di costa che ci si dovrebbe aspettare lungo una pianura, dove una linea di costa precisa non esiste e tutta la pianura costiera è una successione di stagni, dune, cordoni litorali, insomma una laguna. E se la pianura è vasta, come quella padana o semplicemente la bassa valle dell’Arno, il limite fra le acque dolci e quelle salmastre sarebbe molto più sfumato di quello che vediamo oggi.

Non ci si può allora stupire che, ome sono messi, a fiumi e torrenti siano sufficenti pochi giorni (se non ore) di pioggia per esondare: quando piove una certa quantità di acqua (e non si può evitare che succeda ....) è perfettamente logico che in qualche modo una certa percentuale di essa dovrà pure defluire. Allora i fiumi escono dal loro alveo, o meglio da quel poco che gli abbiamo lasciato, sommergendo quanto incautamente gli abbiamo costruito intorno. A memoria di chi non ricorda va notato che in tutto il bacino dell’Arno l’unica opera che si è rivelata veramente utile nel corso delle più recenti piene è stata lo Scolmatore di Pontedera, che ha drasticamente diminuito la quantità di acqua dell’Arno nel pisano, salvando Pisa ed i dintorni da un bagno non certo richiesto.

Si, è vero: qualcosa si può fare. Per esempio tenere i fossi più puliti, evitare che i tombini siano ostruiti dalle foglie (il che accade soprattutto in autunno, guarda caso la stagione più piovosa....) e fare tante altre cose, ma - parliamoci chiaro - le alluvioni in quanto tali non si potranno mai evitare. Se ne possono evitare alcune conseguenze trattando meglio i fiumi e costruendo in zone più sicure (o meno insicure..). Ma, mi domando, l'attuale domanda umana di uso del territorio potrebbe consentire di vivere solo in zone a basso richio idrogeologico?

martedì 27 maggio 2008

Chaiten: la situazione sta migliorando


Buone notizie dal Chaiten.
Il SERNAGEOMIN, il servizio geologico e minerario nazionale cileno, ha annunciato che l'attività è stata declassata da “pliniana” a “sub-pliniana”. Quindi la situazione si sta evolvendo in maniera positiva: sostanzialmente anziché il paventato collasso del duomo di lava formatosi 9.000 anni fa, con le drammatiche conseguenze di tipo pompeiano che avrebbe poortato, la lava sta procedendo alla costruzione di un secondo duomo sul fianco settentrionale del primo, dove si era aperto il cratere.
Pertanto, complice anche la riduzione dell'altezza della colonna di polveri al di sopra del vulcano, la zona di esclusione è stata provvisoriamente ridotta da 50 a 24 kilometri di raggio (fonte: ONEMI, l'agenzia cilena di protezione civile). Gli abitanti di questa area hanno avuto il permesso di tornare a casa ma solo per portare via cose e animali. Mi pare comunque che il provvedimento non riguardi la città di Chaiten, che è sempre sotto l'acqua piena di fango vulcanico del Rio Blanco. ">Ci sono in rete delle bellissime foto del vulcano, sul sito The volcanism blog (indirizzo: http://volcanism.wordpress.com/ )
Io ne pubblico una visibile sul sito del SERNAGEOMIN: riprende il vulcano da nord. In primo piano si vede, con un colore rossastro, il duomo di lava. ancora calda che per la sua estrema viscosità non riesce a formare una colata e quindi si raffredda sul posto. Al di sotto una parte dell'anello che forma il "catino" della vecchia caldera, su cui è cresciuto il vecchio duomo di lava, che si vede diatro a quello nuovo. Non si riesce sullo sfondo ad apprezzare una differenza di colore tra il vecchio duomo e la caldera perchè le ceneri hanno ricoperto tutto e bruciato la vegetazione, che scarsissima sul duomo, era rigogliosasui fianchi della caldera.

aggiornamento: contrariamente a quanto ho scritto la zona di esclusione passa a 24 kilometri di raggio, mentre gli abitanti della zona più interna possono andare a recuperare i loro averi. Purtroppo, stante lo stato di alluvionamento temo che avranno poco da riprendere.

domenica 25 maggio 2008

Le dighe da frana nel terremoto del 12 maggio 2007: una emergenza primaria


Il fortissimo terremoto (M=7.9) che il 12 maggio 2009 ha colpito la Cina ha avuto delle enormi conseguenze sia sulle cose che sulle persone. Non è giunto inaspettato da un punto di vista scientifico: la regione era stata colpita da una scossa con una magnitudo leggermente inferiore (7.5, quindi all'incirca 8 volte meno potente) il 22 agosto 1933. Inoltre la rivista “Tectonics” nel luglio 2007 mise in guardia dal pericolo scrivendo che “le faglie (del Sichuan) sono sufficentemente lunghe per sostenere un terremoto dallo scuotimento molto forte”, indicando chiaramente la zona interessata questo mese. Purtroppo ancora non si riesce a prevedere il momento esatto in cui avverrà una scossa, però questo dato spinge a riflettere sulle condizioni dell'edilizia (specialmente pubblica) in zona: il precedente del 1933 poteva essere più considerato, forse (è chiaro che, anche se recepito dalle autorità, l'allarme lanciato l'anno scorso sarebbe stato troppo recente per delle contromisure adeguate).
Oltre al dramma di coloro, tantissimi, che sono morti sepolti vivi e quello dei milioni di senzatetto, un terremoto di questa portata in una zona collinare o montagnosa provoca enormi cambiamenti al paesaggio, a causa delle frane: lo scuotimento del suolo rimette in movimento frane esistenti e provoca crolli improvvisi lungo i pendi (proprio mentre scrivo questo articolo mi giunge notizia che una scossa in Colombia, non tanto forte, ha provocato 6 morti per una conseguente frana). Le frane possono avere delle ripercussioni ulteriori: cadendo su un corso d'acqua, specialmente se la valle è stretta, il corpo di frana diventa una diga che sbarra il fiume. Dal momento del terremoto ad oggi ne sono state censite ben 21.
All'inizo i problemi sono nell'area a monte, progressivamente allagata. Inoltre, se la frana da sola non è riuscita ad interompere una via di comunicazione, questa potrà venire bloccata dal lago. E se la valle verrà ostruita completamente la barriera diventerà insormontabile.
Le dighe da frana devono essere tenuti sotto controllo con estrema attenzione: certamente non danno nessuna garanzia di durata nel tempo. Possono crollare da un momento all'altro, sia naturalmente per il loro stesso peso o a seguito di una scossa di replica un po' fortina o centrata in zona, oppure venire demolite improvvisamente dalle acque in caso di tracimazione non guidata. Le conseguenze di questo a valle sarebbero drammatiche.
E' chiaro quindi che lo svuotamento di questi invasi sia una conditio sine qua non prima di affrontare qualsiasi opera di ricostruzione ed è l'emergenza maggiore dopo quella umanitaria.
Per esemplificare il problema, ci sono delle foto da satellite, diffuse in Rete dall'Earth Observatory della NASA, in cui si vede il progressivo allagamento di un area a monte di una diga che si è formata a causa di una frana. Da notare la velocità con cui procede l'allagamento e l'interruzione della strada.

lunedì 19 maggio 2008

Aggiornamenti sulla situazione del Chaiten

Scrivo questo post perchè vedo che i mezzi di informazione italiani non parlano assolutamente della situazione in Cile.
Le cose per la città sgomberata stanno volgendo verso il peggio. Al vulcano si sono aggiunte le piogge: si diceva che da quelle parti pioveva poco ma adesso piove eccome. Di conseguenza il Rio Blanco ha invaso più del 90% della città: le ceneri che il fiume trasporta si depongono alla foce, quando la corrente è costretta a rallentare e pertanto l'acqua non riesce a defluire in mare. Dalle pendici del vulcano si muovono molti lahar, colate di fango che aggiungono fango a quello che i fiumi trasportano a valle. Tutta l'area è accessibile solo dagli elicotteri perchè anche l'aeroporto è ridotto ad un pantano di acqua e cenere. La zona interdetta ai civili si estende fino a 50 kilometri di distanza dal vulcano, per adesso per tre mesi.
Nel duomo di lava si è aperto un cratere di un kilometro di diametro. Continua l'attività esplosiva e le ceneri incandescenti hanno incendiato molti boschi intorno alla montagna. Anche i terremoti si fanno via via più frequenti e violenti.
Il bollettino del SERNAGEOMIN cileno (servizio geologico e minerario nazionale) è ben poco incoraggiante: giovedì scorso l'attività del vulcano è aumentata di intensità, sia dal punto di vista sismico che di emissione di ceneri, con la colonna di polveri la cui altezza è costantemente superiore ai 5000 metri. I militari e i tecnici che rimangono in zona segnalano anche di percepire distintamente delle esplosioni.
Successivamente la sismica è cambiata. Un forte sciame di terremoti attesta che realmente sotto il Chaiten ci sia molto magma in movimento e che il duomo di lava si stia fratturando.
Quindi al momento il collasso del duomo lavico, con una ripetizione, per fortuna senza vittime, del dramma di Pompei continua ad essere realisticamente il quadro posssibile nellìevoluzione di questa inaspettata eruzione.

mercoledì 14 maggio 2008

L'eruzione del Chaiten e le incertezze sulla conoscenza dei vulcani andini


Sulla costa del Cile meridionale si è svegliato il Chaiten, un vulcano la cui ultima eruzione è datata a oltre 9300 anni. Nell'immagine di Google Earth (ripresa prima dell'eruzione) si vede chiaramente una depressione calderica (come quelle dei laghi vulcanici laziali) causata dallo sprofondamento del terreno quando la camera magmatica sotto il vulcano si svuota e il suo soffitto cede per il peso delle rocce sovrastanti. Dentro questa caldera, parzialmente tuttora occupata da un paio di laghetti, si è formato nell'ultima eruzione un “duomo lavico”: la lava, per la sua estrema viscosità, non è riuscita a muoversi e si è ammucchiata intorno al punto in cui è venuta in superficie.
Come conseguenza l'omonima città di Chaiten, posta a meno di 10 kilometri dal vulcano, è stata evacuata dagli abitanti, sfollati a Puerto Mott, ad oltre 200 km di distanza (attualmente è allo studio il trasferimento del bestiame): il rischio di fare la fine di Pompei è elevatissimo: vulcani di questo genere possono infatti collassare e provocare la formazione di “nubi ardenti”, frane di materiale incandescente che distruggono tutto quello che trovano nel loro percorso e la cui velocità (vicina ai 200 km/h) impedisce qualsiasi possibilità di salvezza a chi è in zona. Questo scenario è molto temuto anche se, ovviamente, non è sicuro che avvenga.
Anche senza il collasso del vulcano e la conseguente ignimbrite, la situazione è difficilissima: nell'ultima eruzione si è deposto uno strato di ceneri spesso fino a 1,50 m. e già la poca cenere caduta fino ad ora è di grave ostacolo per le attività agricole e, dato che da quelle parti piove pochissimo, c'è il rischio che per parecchio tempo rimanga lì, senza essere dilavata. I problemi sono molto gravi anche ad est del vulcano, dove i venti hanno spinto la cenere addirittura sull'Oceano Atlantico e sono state evacuati città e villaggi anche in Argentina.I pochi abitanti rimasti a Futaleufu (città argentina sul confine cileno) hanno il grosso problema che le polveri finissime non consentono di utilizzare l'acqua.
Oggi (13 maggio) nella città di Chaiten è straripato il Rio Blanco, a causa della cenere che lo ha ostruito più a valle.
L'ultima eruzione del Chaiten è stata datata a 9370 anni fa. Questo dato è molto importante: convenzionalmente si definisce “attivo” un vulcano che ha eruttato meno di 10.000 anni fa e quindi il Chaiten risulta nella casistica per un pelo.
Questo limite convenzionale ha una certa logica ma mi lascia perplesso, perchè non tiene conto delle differenze fra i vari tipi di vulcani e perchè alcuni di essi, anche in Italia, hanno presentato periodi di quiescenza più lunghi di 10.000 anni. A me personalmente piacerebbe un'altra soluzione e cioè considerare “attivo” o, meglio, “potenzialmente attivo” un vulcano se il tempo trascorso dall'ultima eruzione ad oggi è minore dell'intervallo più lungo fra due cicli di attività. Ma obbiettivamente l'autorevolezza dello Smithsonian Institute è infinitamente maggiore della mia e quindi trovo corretto attenersi alla regola dei 10.000 anni.
Il Chaiten appartiene a quella lunga serie di vulcani che contraddistingue la costa pacifica delle Americhe, ad eccezione di un segmento compreso fra California e Messico settentrionale
Sono fra i vulcani più pericolosi del mondo e la cosa più tragica è che attualmente non si sa neanche quanti siano quelli “potenzialmente attivi”: considerando il solo segmento andino il loro numero oscilla tra i 200 e i 300. Qualcuno potrà sobbalzare sulla sedia leggendo questo dato, non tanto per il numero in se stesso, quanto per la sua incertezza.
Quali sono i motivi di questa grande incertezza? I vulcani andini hanno una vita media stimata di circa un milione di anni e molti, come il Chaiten, sono caratterizzati da una attività sporadica, con lunghi intervalli fra due eruzioni. Purtroppo i dati storici che abbiamo a disposizione riguardano poche centinaia di anni: ne consegue che, per considerare un vulcano attivo o no, l'unica via è studiarne la storia. Attualmente pochi sono quelli monitorati (soprattutto quelli vicini a grandi città come Quito o Santiago del Cile), ma dovunque ci sono abitanti e quindi c'è un rischio per la vita umana.
Fra l'altro, oltre ai “normali” rischi vulcanici, i vulcani andini ne hanno un altro, assolutamente peculiare: essendo molto alti, spesso ospitano sulle pendici dei ghiacciai, che, in caso di inizio di attività vulcanica, possono fondersi in poco tempo, dando origine a violente ed improvvise alluvioni. Questo accadde nel 1985 ad Armero, in Colombia: 25.000 persone morirono a causa dello scioglimento dei ghiacciai sulle pendici del Nevado del Ruiz.
Il Chaiten, oltre ad essere un esempio di un vulcano che ha dormito a lungo, è anche molto significativo della confusione che regna sui vulcani andini: nella descrizione dello Smithsonian Institute si legge che “il vicino vulcano Yelcho non esiste” (!!)., da cui si deduce che qualcuno abbia preso un abbaglio prendendo per il resto di un vulcano un lago con una parziale forma cilindrica. Inoltre quando alla fine di aprile iniziò la sequenza sismica, non si pensò subito al Chaiten, ma era stato indicato come origine il Minchinmávida, ad una quarantina di kilometri di distanza, di cui si ricorda un'eruzione nel 1834/35, vista anche da Charles Darwin.

mercoledì 7 maggio 2008

Lo strano caso dello sciame sismico "rovescio" del Nevada

Cosa sta succedendo tra Somersett e Mogul, due sobborghi ad ovest del centro di Reno, città al confine fra Nevada e California?
Dal 28 febbraio ad oggi ci sono stati nella zona più di 1000 piccoli terremoti. Oddio, alcuni non proprio debolissimi, visto che qualche danno lo hanno fatto... La cosa peggiore è che nel corso della sequenza l'intensità delle scosse è progessivamente aumentata. Annotiamo che a causa della minima profondità a cui avvengono (meno di 2 kilometri), queste scosse e questi tremori possono essere percepiti chiaramente dalla popolazione, nonostante la loro 'intensità sia normalmente molto bassa (per dare una misura del tremore “normale” ho visto dei sismogrammi in cui addirittura il passaggio di un treno è più marcato di qualche evento).
In mezzo al tremore, ogni tanto venivano avvertiti dei movimenti leggermente più forti, in media uno ogni 2 o 3 giorni. Ma poi, in marzo, alcuni sismi hanno cominciato a passare la magnitudo 3. Le cose sono continuate così fino a metà di aprile, quando la situazione è peggiorata e siamo passati a una media di 3 scosse percepite al giorno. Il 24 aprile è iniziata la fase ancora più “calda”: in un'ora 3 eventi di magnitudo superiore a 4, a cui ne è seguito un quarto il giorno dopo addirittura di 4,7 gradi (inframmezzato ad altri due di potenza inferiore), che ha provocato i primi veri danni alle abitazioni. Sono seguite oltre 100 scosse di assestamento. Il 28 un'altra scossa con M=4, e solo il primo maggio sono stati segnalati ben 26 eventi.

Questo sciame sismico presenta due caratteristiche piuttosto strane: innanzitutto la serie è “rovesciata”: normalmente in uno sciame sismico si ha all'inizio una o più scosse di un certo livello a cui ne seguono altre che gradatamente diminuiscono nel tempo nella frequenza e nella intensità (sono probabili dei picchi parossistici, anch'essi via via meno significativi). C'è poi un'altra particolarità:come detto gli ipocentri sono a meno di 2 kilometri di profondità. Rarissimo.
Significato e meccanismo di questa sequenza sono ancora sconosciuti. Sicuramente sono legati ai movimenti fra la placca americana e quella di Nazca, lungo la faglia di San Andreas e le altre del sistema californiana: ci potrebbe essere una tensione dovuta all'allontanamento delle due zolle.
L'origine tettonica è sicura. Sciami sismici sono frequenti in zone vulcaniche o con risalita di acque calde. La cosa era teoricamente possibile: ad una ventina di kilometri c'è un vulcano spento (Steamboat Springs) che è comunque ancora considerato attivo perchè presenta ancora una certa attività idrotermale (proprio in questi giorni vi è stata inaugurata una centrale geotermica!) e ad una distanza doppia c'è il complesso dei Soda Lakes, un lago vulcanico originatosi da un'esplosione vulcano-freatica meno di 2000 anni fa. Però sono state escluse connessioni, in quanto non ci sono variazioni significative di origine vulcanica o idrotermale nella temperatura e nella composizione delle sorgenti della zona. E neanche ci sono connessioni dirette con il terremoto di Magnitudo superiore a 6 che aveva colpito l'estremità opposta dello stato, a Wells, lungo il confine con lo Utah, a metà febbraio.
Sembra che fenomeni sismici simili siano comuni in Tibet, zona ancora malconosciuta, ma c'è un precedente in zona: una sequenza simile è avvenuta nel 1990 a San Ramon, in California (vicino a San Francisco e alla faglia di Hayward di cui mi sono già occupato in questo blog) dove la terra tremò per 46 giorni fino a quando avvenne un terremoto di Magnitudo 4.6, dopo il quale le scosse diminuirono di intensità. La differenza fondamentale è che a San Ramon le faglie erano conosciute, mentre a Mogul non sembravano esserci faglie attive. Qualcosa vicino c'è, come dimostrano i due terremoti con una magnitudo discreta, un 6,1 nel 1914 e un 5.3 nel 1953 che l'hanno colpita
L'esempio californiano è tenuto in grande considerazione anche perchè la sequenza, dopo la grande scossa del 25 aprile ha diminuito notevolmente la sua energia
Nessuno sa come andrà a finire. Le autorità, nonostante questo precedente induca all'ottimismo, sono abbastanza (e giustamente) allarmate. Comunque oggi è il 6 maggio e gli eventi continuano a mantenersi bassi sia di numero che di potenza (ma non accennano a finire.
Ma nessuno ha la certezza di cosa potrà accadere, come riferisce Glenn Biasi, sismologo della Università del Nevada, secondo il quale gli scienziati “si stanno grattando la testa per capire cosa stia succedendo”
Staremo a vedere cosa succederà, se cioè le acque si calmeranno oppure no. Penso che i prossimi giorni saranno decisivi. E intanto, per informarci, continuamo a leggere la preziosa edizione on-line della Reno Gazzette Journal e consultare le mappe dell'USGS, il Servizio Geologicpo degli Stati Uniti.

giovedì 1 maggio 2008

Le lingue isolate dell'Eurasia e la diffusione delle lingue indoeuropee

Quasi tutte le lingue parlate nell'Eurasia sono correlabili con altre parlate nelle vicinanze. Le più diffuse appartengono alle famiglie linguistiche indoeuropea (lingue neolatine, germaniche, indoiraniane etc etc), uralo-altaica (lingue turche, ungheresi, finlandesi), afroasiatica (arabe e berbere) e sino-tibetana (dialetti del Tibet e della Cina meridionale). Altre famiglie linguistiche (Caucasica, Dravidica e Austrica) sono parlate in zone più limitate. Esistono anche delle “lingue isolate”, in cui parole (ma soprattutto la struttura) sono profondamente diversa da quelle vicine. Alcuni Autori si spingono fino a considerare lingue isolate il coreano ed il giapponese, che però la maggior parte degli studiosi inserisce fra le uraliche.

Il concetto di autoctonia di una popolazione è abbastanza relativo: ad esempio per noi europei non c'è dubbio che lo siano le popolazioni na-denè del sudovest degli USA (Navajos e Apaches), ma se lo chiedevate agli antenati dei loro vicini (comanches, zuni, utes etc etc), questi non sarebbero stati della stessa opinione, visto che queste tribù erano arrivate dal Canada occidentale pochi secoli prima e avevano tolto loro quei territori.

In Europa c'è la più parlata delle lingue isolate, il Basco. Sumero e hurrita sono stati parlati a lungo nella Mesopotamia, ma furono soppiantati da idiomi indeuropei ben prima dell'inizo dell'era cristiana (il sumero verso il 2000 AC, continuando a lungo ad essere usato per scopi rituali o scientifici, l'hurrita era ormai defunto già nel VI secolo AC). Nell'odierno Pakistan circa meno di 100.000 persone, i Burushi, parlano il Burushaski. In Siberia il Ket, parlato dalla popolazione omonima stanziata nel medio oro dello Jenisei è l'ultimo sopravvissuto fra le lingue della famiglia linguistica dello Jenisei.

Nel complesso puzzle degli idiomi parlati tra la Siberia orientale e il Giappone la maggior parte appartengono al ceppo uralico. Esistono anche due (o tre) famiglie linguistiche diverse: le lingue Ciukci-kamchadale, dell'estremità nordorientale del continente e un piccolo gruppo di lingue, il Giljiak, parlato tra le isole Kurili, Sakhalin, e il basso Amur, a cui forse è legato anche l'idioma degli antichi abitanti del Giappone, gli Aiunu, sull'origine del quale sono stati avanzate le più disparateipotesi.

Per studiare le lingue isolate viene usata sempre la loro struttura. Sulle parole c'è da fare molta attenzione per scartare i termini mutuati da lingue vicine. La ricerca su questo argomento ha risvolti molto interessanti sul modo in cui si sono diffuse le lingue indoeuropee.

Il Basco è attualmente confinato nelle coste meridionali del golfo di Biscaglia, tra la Spagna e la Francia. I suoi vocaboli sono piuttosto ben definiti, con scarsa penetrazione dall'esterno: i baschi sono sempre stati abbastanza chiusi.
Sumero e hurrita sono noti da alcune tavolette e, come detto, hanno lo status di lingue isolate perchè è evidente che non siano indeuropee.
Molte parole del Burushashki sono mutuate da dialetti più o meno vicini, sia indoeuropei che turchi che sino-tibetani, ma la sua sintassi è profondamente diversa ed originale.

Tutte queste lingue hanno una caratteristica comune che le avvicina alle odierne lingue caucasiche: sono lingue ergativite. Nelle lingue indeuropee e afroasiatiche (che secondo molti studi hanno origini comuni) abbiamo il sistema nominativo / accusativo: il soggetto della proposizione (anche se il verbo è passivo) è sempre espresso con il nominativo, mentre l'oggetto, ove presente, è caratterizzato dall'accusativo. Nelle lingue ergative la situazione è un po' diversa: ci sono due nominativi, uno (l'ergativo) viene usato quando il soggetto compie un'azione
Oltre ad essere ergative, hanno un'altra caratteristica comune: sono anche agglutinanti, cioè le parole sono modificate nel significato aggiungendo e/o rimuovendo prefissi e suffissi.
Pertanto l'interpretazione attuale è che tali caratteristiche riflettano una origine comune di queste lingue: forse che prima della diffusione delle lingue indoeuropee, quelle caucasiche erano parlate in una grande fetta del vecchio mondo, dalla Spagna all'Indo?

Mi ero sempre posto un problema: con tutte le popolazioni di lingua caucasica capillarmente presenti nell'area, come mai l'indoeuropeo si è espanso così diffusamente? L'agricoltura fu scoperta e diffusa proprio dall'unica popolazione che parlava una lingua di ceppo diverso? E' strano, no? O, quantomeno, statisticamente improbabile. O è stata proprio l'adozione dell'agricoltura a far cambiare la lingua?

Su come le lingue indeuropee si siano diffuse c'è in corso un bel dibattito. Non tutti sono d'accordo addirittura sulla loro diffusione: c'è anzi chi sostiene l'autoctonia dell'indoeuropeo, ma sono attualmente delle correnti di minoranza (e rimane il problema di cosa voglia dire “autoctono”).... E' stata una invasione demica, una conquista da parte di una elite, una semplice colonizzazione culturale? Attualmente non si sa ancora, anche se, insomma, i dati genetici parrebbero escludere una massiccia invasione, almeno nel Mediterraneo occidentale: ad eccezione dei sardi, le popolazioni iberiche, italiane e della Francia meridionale sono abbastanza simili.

Potrebbe essere stato un mix di tutte queste possibilità, soprattutto perchè ci possono essere state risposte diverse a seconda della originaria densità di popolazione (questo spiegherebbe la persistenza delle lingue basche tra Francia meridionale e Spagna: la popolazione indigena era troppo grande per perdere la propria lingua). Notiamo innanzitutto che la connessione con l'arrivo dell'agricoltura è un po' difficile, soprattutto da un punto di vista temporale: è arrivata fra l'8000 e il 5000 AC e la civiltà dei megaliti, diffusa nella zona atlantica dell'Europa fino al 1.000 AC, probabilmente era bascofona.

Numerosi studi suggeriscono che il Burushashki fosse parlato in un areale molto più vasto in passato. E parallelamente ci sono forti indizi che il basco sia l'ultima di quelle lingue che erano estesamente parlate in Europa prima dell'arrivo delle lingue indeuropee e che tali idiomi fossero ancora vivi prima della conquista romana in Spagna e nella Francia meridionale. Non a caso nella famosissima introduzione del “De Bello Gallico” Giulio Cesare scrive che: “Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt". Secondo il testo gli Aquitani erano una entità distinta dai Celti (gallici) e Belgi (in cui si notavano elementi germanici)e probabilmente erano ancora bascofoni, come tutti gli iberici, a parte i celtiberi della Catalogna

Qualche anno fa fu pubblicato su “Le Scienze” un articolo di E.Hamel, Th. Vennemann, P. Foster, in cui gli autori proponevano l'origine bascofona di molti nomi geografici. Fecero notare che, rispetto ad altre categorie, i nomi dei fiumi presentano una grossa anomalia alfabetica: sono tantissimi quelli che cominciano per una vocale e, secondo loro, si tratta appunto di una reminiscenza bascofona. Ci sono forti possibilità che anche l'Italia fosse bascofona, e non solo per la vicinanza genetica fra le popolazioni italiche ed ibriche: in Toscana per esempio più di un terzo dei nomi dei fiumi più importanti comincia con una vocale (è significativo che la percentuale sia elevatissima in quelli più importanti e diminuisca andando verso corsi di importanza minore). Per confronto i nomi dei comuni (le città sono posteriori all'epoca della bascofonia) che iniziano per una vocale per esempio sono 14 su 287, appena il 5%!). Nel centro Italia ci sono forti indizi di bascofonia: secondo lo storico Albino Cece molti toponimi della zona compresa fra Lazio e Campania hanno origine pre-indeuropea.

Ho pensato a lungo a questo problema e penso ad una introduzione trifasica delle lingue indeuropee.
All'inizio (7000 – 5000 AC) si diffondono, a partire dall'Anatolia o dall'Ucraina nei Balcani e nelle pianure centrali, dove l'introduzione dell'agricoltura in zone scarsissimamente popolate ha avuto come effetto un aumento notevole di popolazione, con l'assimilazione totale o la scomparsa dei pochi indigeni preesistenti. L'Europa mediterranea occidentale aveva maggiore disponibilità di cibo e dunque poteva ospitare popolazioni di maggiori dimensioni di cacciatori – raccoglitori che si adeguarono all'invenzione (impossibile sapere se tramite sollecitazioni esterne oppure semplicementeimparando le novità dai vicini). Queste popolazioni sarebbero alla base della “civiltà dei megaliti”.
Una seconda espansione avvenne con la diffusione della cultura celtica detta “dei campi di urne” (urnfeld) nel primo millennio AC. Si espanse a partire dall'Europa Centrale. Secondo Cavalli – Sforza ha pochi fondamenti genetici (quindi è stata soprastutto culturale o elitaria) ed è costata alle lingue Basche l'Italia e la Francia Settentrionale (guarda caso risale all'epoca lo stanziamento dei celtiberi nella Spagna settentrionale.
La terza fase è stata la conquista latina (anche questa decisamente più culturale che genetica) che ha confinato l'areale delle vecchie lingue europee ai soli Paesi Baschi.

Aggiornamento del 14 LUGLIO 2008: su PLOS ONE è stato pubblicato un articolo che in qualche modo conferma questa ipotesi: il DNA mitocondriale di uno scheletro ritrovato in Puglia è sicuramente europeo: nel parlo qui