venerdì 31 ottobre 2008

Il drammatico impatto della zootecnia sull'ambiente marino

Da anni le organizzazioni ambientaliste e i biologi marini stanno mettendo in guardia per l'eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche. I più minacciati sono tonni e squali ma molti altri pesci non è che se la passino poi così bene.
Il mercato giapponese del tonno e quello cinese delle pinne di pescecane sono gli esempi più additati al riguardo: alcune specie di tonno, come il tonno rosso, sono sull'orlo dell'estinzione o quasi. Per quanto riguarda gli squali la cosa è ancora peggiore, sia perchè quelli grandi hanno un tasso di riproduzione molto basso (e quindi trovano difficoltà a rimpiazzare le perdite), sia per la crudeltà della pesca: la loro carne vale poco e vengono ributtati in mare dopo il taglio delle pinne, morendo dopo atroci sofferenze (in compenso sembra che le pinne degli squali pescati in occidente vengano buttate via per perchè non interessano a nessuno....).
L'allarme è generale. La catena alimentare del mare aperto viaggia soprattutto in base alle dimensioni: in generale un pesce mangia quello un po' più piccolo e viene mangiato da quello un po' più grande. La pesca sta tartassando selettivamente alcune classi dimensionali (quella del tonno e quella del nasello, per esempio), per cui c'è il rischio di aprire dei vuoti dimensionali con conseguenze attualmente incalcolabili (ma probabilmente incontrollabili). I pesci di misura inferiore a quella che tende a sparire, senza la pressione dei loro naturali predatori, tenderebbero ad aumentare spropositamente, opprimendo con una pressione eccessiva quelli di cui si nutrono. Potrebbe essere una catastrofe dalla quale il mare si riprenderà con estrema difficoltà.
Può sorprendere ma anziché i cinesi o i giapponesi, il miglior cliente della pesca mondiale è la zootecnia. In pratica più di un terzo del pescato viene usato (o, meglio, come si legge nell'ultimo numero della rivista Annual Review of Environment and Resources “buttato via”) così. Lo dicono, fra gli altri, Daniel Pauly e Jaqueline Alder, due dei massimi esperti del settore.
Non molti hanno la percezione della quantità enorme di farina di pesce consumata in un anno dalla zootecnia.
Si parla del 37% del pescato complessivo, oltre 30 milioni di tonnellate all'anno, che per il 90% viene convertito in farina di pesce e olio di pesce. Il mangime va per il 46% nell'acquacultura (e fin qui una logica,volendo, ci sarebbe...), il 24% alla suinicultura mentre il settore avicolo ne assorbe un altro 22%. Complessivamente suini e pollame sono i destinatari di una quantità di pesce doppia di quella che va al tanto additato mercato giapponese!
Si tratta soprattutto di pesce di pezzatura medio-piccola, come sardine, acciughe e aringhe, molto nutrienti, che vengono trasformati in farina di pesce e olio di pesce.
I pesci di queste dimensioni e di così alto potere nutritivo sono per gli animali marini più grossi la principale fonte di cibo e infatti sono anche soprannominati collettivamente “pesci-foraggio”, indipendentemente dalla loro posizione nella classificazione zoologica dei pesci.
Uno sfruttamento eccessivo di queste specie avrebbe delle conseguenze spiacevoli: sono il nutrimento di base per una vasta gamma di animali, da pesci più grandi a cetacei, pinnipedi e uccelli marini. Puntualizzo che per “cetacei” intendo quelli di piccole dimensioni (delfini e, al limite, orche). Non comprendo nel novero le balene, piaccia o non piaccia alle nazioni favorevoli alla loro caccia, che volevano dimostrare il contrario per avere una scusa migliore per aumentare i quantitativi di pescato autorizzati: gli studi più recenti, da loro sollecitati, dimostrano proprio il contrario, e cioè che le grandi balene hanno uno scarsissimo impatto sulle quantità di pesci-foraggio.
A scala umana ci sono due risvolti: sono risorse che potrebbero risolvere grossi problemi alimentari in realtà dove la fame la fa da padrona (per questo Alder e Pauly usano il termine “buttare via”), la seconda è che spesso questi pesci sono la base dell'alimentazione delle popolazioni che vivono lungo le coste e che si troverebbero in grosse difficoltà se questi pesci dovessero eccessivamente diminuire di numero per il loro sfruttamento intensivo, anche se non occorre arrivare alla riduzione del numero di pesci-foraggio per provocare problemi alle popolazioni rivierasche di nazioni meno ricche: è chiaro che, nonostante la grande estensione delle acque territoriali e quindi delle zone esclusive di pesca, il prezzo che i pescatori locali possono spuntare nei mercati che hanno bisogno di farina di pesce è più alto di quello che possono ricavare in patria...
Ma perchè la farina di pesce ha questo successo? Perchè costa poco, è molto nutriente e di facile stoccaggio. Molto semplicemente.
Il mondo scientifico si sta muovendo per cercare delle soluzioni alternative. E' evidente che sarebbe auspicabile un ritorno a mangimi provenienti dall'agricoltura. Non è semplice, dato che il quantitativo da ricavare sarebbe enorme e va trovato lo spazio per farlo, impresa non semplice visto che si dovrebbero aggiungere coltivazioni a quelli già esistenti e che in futuro potrebbero richiedere spazio pure le coltivazioni per i biocarburanti
Da ultimo vorrei annotare, sempre a proposito della pesca alla balena, delle voci che mi sono arrivate. Non ho la più pallida idea se siano vere o false e quindi le riporto con il marchio “attendibilità ingnota” e non mi assumo nessuna responsabilità in materia: parrebbe che le ultime campagne di pesca alla balena abbiano prodotto troppa carne. Rimanendo invenduta dovrebbe essere finita nelle scatole di cibo per animali prodotte in estremo oriente....

1 commento:

Anonimo ha detto...

Un post molto interessante ed equilibrato che mette in luce un problema importante, spesso sottovalutato e a cui non viene data la necessaria pubblicità.