mercoledì 21 marzo 2018

Il rilevamento con il drone Saturn della frana di Marano (Appennino bolognese)


Nel monitoraggio delle frane i droni rappresentano una risorsa importante perché riescono a fornire modelli digitali del terreno in modo rapido ed economico. La messa a punto di un sistema del genere non è però semplice e soprattutto occorre un'aeromobile che riesca ad avere una navigazione molto precisa, senza la quale la produzione del modello del terreno non sarebbe così accurata da osservare variazioni centimetriate fra un rilevamento e l'altro. Il gruppo di Geologia Applicata del Dipartimento di Scienze della Terra ha sviluppato e brevettato proprio per queste esigenze una specifica famiglia di droni, i Saturn. In questo post presento ad esempio quello che è stato fatto per il monitoraggio della frana di Marano, nell'Appennino bolognese.


Il fronte della frana sul fiume Reno a Marano:
si nota la parziale occlusione dell'alveo
Nella valle del Reno, come in tante altre località collinari e montane italiane, l'aumento della presenza umana ha ulteriormente alterato il precario equilibrio che in secoli di storia si era instaurato fra le attività umane e i processi naturali; per cui i fenomeni naturali che fanno parte della natura stessa del territorio, come le frane, possono arrecare oggi molti più danni di prima a causa della distruzione di edifici e siti produttivi o l’interruzione delle vie di comunicazione.


Un evento del genere è avvenuto il 3 marzo 2018, quando si è innescato un movimento franoso a Marano, località del comune di Gaggio Montano, in riva sinistra del Reno. Nelle prime fasi la frana ha deformato il vecchio percorso della strada statale 64 Porrettana, che ora, dopo la costruzione di una variante, serve solo al traffico locale, rendendolo inutilizzabile; nelle ore e nei giorni successivi i movimenti sono continuati, coprendo definitivamente quello che restava della strada ed arrivando al fiume, il cui alveo è stato parzialmente ostruito. 
erosione di sponda in riva destra sotto la ferrovia
in corrispondenza della frana in riva sinistra
A questo punto sono iniziati altri guai, perché, anche se per fortuna lo sbarramento non è stato totale, si è registrato un deficit di deflusso e quindi il restringimento ha provocato a monte l’innalzamento del livello delle acque; inoltre coincidenza ha voluto che in quel punto l’alveo presenti una leggera ansa verso sinistra, per cui due giorni dopo una piena, dovuta alle forti precipitazioni e al parziale scioglimento delle nevi cadute in precedenza, ha provocato l’erosione di un tratto della sponda destra del Reno, mettendo in pericolo la massicciata della ferrovia porrettana, che si trova subito sopra; di conseguenza anche la ferrovia è stata interrotta tra Riola e Porretta Terme, e lo rimarrà fino a quando la sponda non verrà rinforzata. La variante della statale Porrettana, invece, che corre poco sopra la ferrovia, non ha subìto problemi (se non le classiche “code per curiosi”...).


Non è la “prima edizione” di questa frana: si era mossa già 22 anni fa, distruggendo due case proprio lungo la statale porrettana, che non sono state poi ricostruite (e che, fra l’altro, sarebbero state distrutte di nuovo).

Gli abitanti del posto ricordano come nel 1996 le prime avvisaglie dell’evento furono delle fuoriuscite di acqua nel pendio e una curiosa coincidenza sta nel fatto che anche in quella occasione il fenomeno avvenne in corrispondenza di importanti nevicate. La zona di coronamento presenta inoltre tracce di altri movimenti avvenuti negli anni successivi al 1996.
Il risultato di tutto questo è stato la trasformazione in una valle di un dolce pendio coltivato a graminacee.


I DRONI DELLA FAMIGLIA SATURN. Per studiare l’evolversi della situazione sono stati installati diversi strumenti di monitoraggio, fra i quali un interferometer radar da terra messo a disposizione dal Dipartimento di Scienze della Terra (DST) dell’Università di Firenze (che già 22 anni fa fu fra gli enti che studiarono la situazione), del tipo di quello impiegato due anni fa per la frana del Lungarno Torrigiani.
Un aspetto molto importante dello studio di una frana è il poter ricostruire i movimenti del terreno precedenti al momento in cui il fenomeno si è evidenziato e a questo possono provvedere i dati satellitari pregressi prodotti dai radar interferometrici (InSAR, ne ho parlato qui a proposito del disastro della diga del Fundao, in Brasile); ma è necessario per capire la situazione attuale anche anche un modello digitale aggiornato del terreno (DTM – Digital Terrain Model). Per ottenerlo con una buona precisione la cosa più semplice è l’utilizzo di un drone.
Per farlo il DST ha utilizzato una macchina della famiglia Saturn, descritto in questo filmato: si tratta di una serie di droni sviluppati specificamente per il monitoraggio del terreno di cui il DST produce direttamente il telaio grazie ad una stampante 3D. I droni Saturn sono un brevetto dell’Università di Firenze; consistono in un telaio ad anello in cui sono posti i motori (in genere 6); la strumentazione viene alloggiata in una parte centrale collegata non rigidamente con l’anello da alcune braccia (da questo si capisce il perché del nome… in volo sembra proprio Saturno)
Il risultato è un telaio rigido ma nel contempo leggero, dove sensore di volo e strumentazione sono posti al centro del drone disaccoppiati dalle vibrazioni dei propulsori, mantenendo eccellenti doti di manovrabilità e basso consumo delle batterie, per cui la dinamica di volo è ottimale.


PRODUZIONE DI UN MODELLO DIGITALE DEL TERRENO CON UN DRONE. L’esecuzione di una missione del genere necessita di diverse fasi. Alla base c’è un software utilizzato sfrutta gli stessi trucchi che usa il cervello umano per elaborare le immagini ed ottenere la profondità di campo, e quindi, anche se la cosa potrà stupire in un’epoca in cui si parla di satelliti, interferometria, infrarossi ed ultravioletti, si utilizza una normalissima fotocamera nel visibile.

Un bersaglio utilizzato
per geo referenziare le immagini
La prima fase è una ricognizione topografica, che può essere effettuata in situ ma anche in modo virtuale, tramite la quale vengono determinati l’area da rilevare, uno o più siti da dove partire e i relativi piani di volo, consistenti in una serie di “strisciate” ottimizzate per fotografare in continuo la superficie che si vuole esaminare. Il numero di voli necessario è determinata sia dall’estensione dell’area in oggetto (i droni per forza di cose hanno una autonomia limitata dalla corrente elettrica delle batterie, che ovviamente non devono essere pesanti più di tanto) che dalle condizioni atmosferiche: una giornata senza vento consente di lavorare più speditamente con meno consumo di batterie rispetto ad una giornata ventosa (e in ogni caso un vento superiore ai 7 metri al secondo mette in grossa difficoltà l’aeromobile).
Il drone Saturn inoltre scatta l’immagine esattamente nel punto GPS stabilito dal piano di volo, minimizzando gli errori di puntamento. Il vero nemico, oltre ad un vento troppo forte, è la pioggia, specialmente con apparecchi di piccole dimensioni.


Saturn in volo sulla frana,
prova anemometrica prima del volo
e gli operatori che sorvegliano il volo
Arrivati sul posto, un controllo delle condizioni meteorologiche è necessario per stabilire se il piano di volo precedentemente studiato a tavolino sia fattibile o no. Inoltre si rende necessario il collocamento ai margini della zona di volo di alcuni bersagli visibili dal drone. L’operatore che posiziona i bersagli ne misura anche le coordinate con un sensore GPS RTK (palmare). Questi bersagli sono necessari per il processamento finale delle immagini, in quanto consentono la georeferenziazione sicura di quei punti, fondamentale sia per il DTM che per l’ortofotocarta. In genere vengono posti su due linee che delimitano la zona delle operazioni.


Durante il volo un operatore con il radiocomando che funge da interfaccia pilota il drone, rimanendo sempre in contatto con esso nel rispetto della normativa vigente e anche per riportarlo a terra in caso di necessità. Con il radiocomando vengono continuamente monitorati diversi parametri, da quelli di volo (posizione, inclinazione) a quelli tecnici come la carica delle batterie; un secondo operatore guarda da uno schermo quello che inquadra la telecamera del drone.

Dopo il volo le immagini vengono scaricate su un computer e viene ricavato un primo modello del terreno, a bassa risoluzione; questa fase serve per controllare che le immagini acquisite coprano tutta l’area necessaria per la successiva elaborazione, che verrà effettuata con lo stesso software, ma a risoluzione molto più dettagliata.
La frana di Marano è larga circa 100 metri al coronamento e 160 al fronte, ed è lunga circa 700 metri. Queste dimensioni potevano consentire teoricamente un unico volo. Purtroppo il vento ha costretto gli operatori a suddividere il rilevamento in tre voli distinti durati 12 minuti circa ciascuno. Così, mentre due operatori sono andati a mettere i bersagli, il pilota del drone ne ha riprogrammato il software.
In particolare sono stati effettuati un primo volo partendo dal coronamento, un secondo partendo dalla zona in cui la vecchia statale in riva sinistra del Reno è stata invasa dal corpo di frana e una terza partendo dalla riva destra del fiume sopra la ferrovia. Tutti e tre hanno avuto esito positivo in quanto, nonostante il vento, i piani di volo sono stati rispettati e le immagini regolarmente acquisite.
Il primo risultato, con il software “veloce” e ottenuto elaborando sul posto le immagini è questo:


Il modello digitale del terreno a bassa risoluzione ricavato nello stesso giorno.
Si evidenziano i solchi che sono stati tracciati nel corpo di frana per agevolare il ruscellamento


Nei giorni successivi le immagini verranno processate in sede fino ad ottenere una risoluzione centimetrica.

Sorvoli in giorni successivi potranno inoltre evidenziare tramite il confronto dei diversi DTM se e dove il corpo di frana si sia ulteriormente mosso con precisione centimetrica.


DTM di una cava ottenuti con
la stampante 3D
STAMPAGGIO IN 3D DEI DTM. I DTM possono anche essere usati per creare una stampa a 3D del terreno. Ne vediamo qui a destra un esempio che si riferisce ad un rilievo effettuato presso una cava di materiali lapidei.
In buona sostanza, il rilevamento con un drone di un corpo franoso fornisce un modello digitale del terreno preciso e acquisito con rapidità in modo sostanzialmente economico e che può essere agilmente ripetuto più volte.

15 commenti:

punteruolorosso ha detto...

cosa fare in questi casi? come recuperare l'area e mettere al sicuro la ferrovia e il fiume?
è previsto qualcosa? non sarebbe il caso di fare una legge che si occupi di tutti i terreni incolti dell'italia? da destinare a bosco o a un'agricoltura che rispetti l'ambiente?

Maddalena ha detto...

L'articolo è realmente interessante. Tuttavia, signor Piombino, sono ansiosa di conoscere cosa ne pensa della teoria delle celle geomorfologiche di Marisa Grande:

Le vibrazioni elettromagnetiche generano terremoti secondo la dinamica ad “armonica sei” prevista dalla teoria delle celle geomorfologiche circolari e modulari.
- La cella-base del sistema di celle geomorfologiche circolari che interessa l’Italia meridionale corrisponde a quella del Monte Marsili, il vulcano sottomarino del Tirreno meridionale.
- Il Monte Marsili imprime alla propria cella una forza di espansione che determina vulcanismo, attività sismica, attivazione di faglie, crolli costieri, frane, smottamenti…, contribuendo, in tal modo, alla configurazione geografica del territorio dell’Italia meridionale.
- Sulla circonferenza-base della cella geomorfologica del Monte Marsili si collocano, in forma di anello di fuoco, i vulcani attivi e non: Vesuvio, Vavilov, Ustica, Monte Altissimo (Enna), Aspromonte, M. Pollino.
- I sei vulcani costituiscono i vertici di un esagono regolare inscritto nella cella del Monte Marsili e sono, a loro volta, centri magnetici di sei celle geomorfologiche che intersecano la centrale.

Ulteriori informazioni su https://synergeticart.wordpress.com

Grazie e a presto!

Aldo Piombino ha detto...

Rispondo volentieri a Punteruolorosso, scusandomi di non averlo fatto prima.
1. verrà risistemato l'argine della riva destra in modo da mettere in sicurezza la ferrovia
2. quello che è franato non era un terreno incolto. Quanto ad una agricoltura che rispetti l'ambiente... può essere dal punto di vista dell'inquinamento chimico, ma semplicemente non esiste dal punto di vista geologico e biologico, perchè è una trasformazioe dell'ambiente. Sarebbe bello comunque tentare di rinaturalizzare a bosco sui versanti e a palude o laguna nelle piane... : un versante a bosco sarà meno soggetto ad erosione che un versante coltivato e una palude farebbe da cassa di espansione diminuendo il rischio - piene e anche i livelli delle magre.

Per Maddalena:
certe cose sono incommentabili... sulla geologia evitate i non geologi e le loro elucubrazioni.

punteruolorosso ha detto...

certamente i terreni incolti e abbandonati sono i più predisposti a franare. anch'io spero in una rinaturalizzazione che ripristini, per quanto possibile, l'assetto originario. i fenomeni esogeni prevalgono su quelli endogeni, e soprattutto in un ambiente generalmente distensivo come l'appennino si assiste allo smantellamento e all'abbassamento della catena. doglioni spiega la tettonica italiana con il modello delle subduzioni verso ovest, in cui si assiste a un allontanamento della cerniera di subduzione rispetto all'orogene, che va in distenzione e genera l'apertura di bacini di retroarco e vulcanismo. mi saprebbe chiarire questo punto?

Aldo Piombino ha detto...

il succo, molto sintetico, è:
- la litosfera e la astenosfera si muovono fra loro
- quando c'è una subduzione verso est (come nelle Ande) il piano di subduzione va nella direzione del movimento dell'astenosfera nei confronti della litosfera
- quando c'è una subduzione veso ovest il piano di subduzione va contro il flusso dell'astenosfera e voene trascinato via. Quindi la zona sopra la subduzione si allarga
Spero di essere stato sufficientemente chiaro. Purtroppo non riesco a mettere disegni qui.

Maddalena ha detto...
Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
punteruolorosso ha detto...

ottima spiegazione. alla base dell'assenza di regime compressivo in appennino centro-meridionale potrebbe esserci dunque una maggiore velocità di arretramento della cerniera di subduzione rispetto alla subduzione stessa? mi scusi se dico sciocchezze

Maddalena ha detto...

@punteruolorosso,

Ti riferisci alla teoria delle celle geomorfologiche della dottoressa Marisa Grande?

Comunque, è notizia recente che l'Osservatorio Vesuviano stia per cambiare sede. Cosa sanno loro che noi non sappiamo? Perché Giuliani è così stigmatizzato da voi "esperti"?

punteruolorosso ha detto...

no scusa maddalena stavo chiedendo al dott. piombino.

Aldo Piombino ha detto...

Maddalena, la Marisa Grande per fortuna non se la fila nessuno... Tantomeno su queste pagine una persona di sani principi scientifici come punteruolorosso potrebbe dare ascolto a scemenze simili e domanda sulla mia pagina a lei e non a me... un pò di acume grazie...

Andiamo con ordine, rispondendo prima a punteruolorosso:
L'assenza di regime compressivo nell'Appennino meridionale è un tema complesso (che, tanto per stare in tema, la Grande non credo sia in grado nè di capire nè di illustrare....).
In buona sostanza, dividiamo la penisola in un settore adriatico e in uno tirrenico Diciamo che la componente di movimento verso est del settore adriatico è maggiore di quella del settore tirrenico e quindi dove l'arco appenninico è orientato NW-SE i due blocchi tendono ad allontanarsi e prevale la distensione nelle zone interessate dai recenti avvenimenti sismici maggiori. Invece, siccome la componente di movimento verso nord è maggiore nel settore tirrenico che in quello adriatico. Per cui dove l'appennino è orientato NNW-SSE (Toscana, emilia e romagna) si ha compressione (i terremoti emiliani del 2012 per esempio).

Invece l'arretramento della subduzione oggi è fermo (o ha un movimento residuo molto molto scarso): il movimento veloce è cessato qualche centinaio di migliaia di anni fa quando l'arco calabro - peloritano ha impattato contro la Grecia e l'albania. Nell'appennino settentironale e centrale è cessato ancora prima. In pratica, a ritroso, prima attacchi la Calabria alla Sardegna, chiudendo il Tirreno, poi attacchi Calabrua - Sardegna e Toscana alle Baleari chiudendo il bacono ligure - provenzale.
Un'altra zona di compressione è nella piattaforma continentale sicula ed è quella che è venuta fuori di recente quando ha smesso l'attività vulcanica l'arco eolico a W di Lipari.

Tornando poi a Naddalena:
stigmatizzo le virgolette su "esperti". Si tratta semplicemente della comunità scientifica internazionale impegnata nelle Scienze della Terra, cioè gente che ha studiato geologia e/o geofisica all'unversità, vi si è laureata e ha continuato a studiar enell'università, al CNR o in altri istituti di ricerca.
1. Giuliani non ha niente di questo e si vede ... all'inizio il suo sito parlava di.... geosinclinali... roba da anni '50 del XX secolo, prima della tettonica a placche...
e poi continua parlare di Magnitudo con numeri ordinali anzichè cardinali (esempio: non si dice quarto grado ma Magnitudo quattro o più). inoltre pretende di monitorare la radioattività che passa dentro una scatola di piombo quando il piombo notoriamente scherma le radiazioni.
I suoi bollettini sono un concentrato di fantasia e ovvietà messe insieme e non ha mai previsto una beata minchia, se non a posteriori e ha fatto una figura del piffero anche in questi giorni.

2. non sapevo che l'OV si trasferiva. Evidentemente se la notizia è vera hanno trovato una sede che megio si confà alle esigenze attuali. Non capisco perchè ricamare su eventuali cose "che loro sanno e noi no". Il complesso Vesuvio-Campi flegrei è quello meglio monitorato al mondo. E non è colpa di OV se nelle zone a rischio ci sono centinaia di migliaia di abitanti...

buonanotte

punteruolorosso ha detto...

i blocchi che oggi costituiscono l'appennino sono in un primo momento migrati verso sud-est, per ultima la calabria, venendo subdotti da tetide. dunque la litosfera di tetide dovrebbe trovarsi al di sotto di questi blocchi. si è trattato in questa fase di una subduzione oceanica, giusto? a cui è seguita una subduzione continentale, allorché i blocchi hanno impattato con adria?
quindi questi blocchi hanno subito due diverse subduzioni?
e una volta fermatasi la subduzione di adria, è possibile supporre che adria abbia rotto lo slab sotto l'appennino e si sia decisa ad andare per conto suo, trascinando la parte est dell'appennnino? mi scusi se l'annoio ancora con questo.

Aldo Piombino ha detto...

allora, adiamo con ordine: durante l'apertura del bacono ligure - provenzale oltre ad un avanzamento verso SE c'è stata anche una rotazione in senso antiorario del complesso Sardegna - Appennino - Siicilia. Con l'apèertira del Tirreno dociamo invece che la Calabria è andata piuttosto "a diritto" verso SE.
Questi blocchi non sono statti subdotti... è la crosta della tetide (quella del settore jonico) che è subdotta sotto di loro..
Oggi la subduzione a largo della Calabria se fosse ancora attva (ma non dovrebbe esserlo) sarebbe si di crosta oceanica sotto crosta continentale.
Nell'Appennino Settentrionale c'è stata subduzione oceanica ma poi siamo arrivati allo scontro continente - continente.
Per buone informazioni sugli slab consiglio il sito "atlas of underworld". Semplicemente magnifico

Certo che lo slab si è rotto... quello appenninioco e quello calabro ora sono distanti centiania di km. Si tratta di un "classico": uno STEP, Slab transfer edge propagator... vedi: http://aldopiombino.blogspot.it/2017/11/i-nuovi-vulcani-scoperti-nel-tirreno-le.html

punteruolorosso ha detto...

nell'atlas of underworld la subduzione calabra risulta fra quelle ancora attive. immagino che su questo gli studiosi siano divisi. adesso mi vado a rileggere l'articolo sui nuovi vulcani.
quello che intendevo per rottura dello slab è probabilmente una fesseria. mi riferivo a una rottura longitudinale dello slab in corrispondenza delle faglie dell'appennino, cioè al corpo in immersione di adria che si spezza per tutta la lunghezza dell'appennino centro-meridionale, dividendosi longitudinalmente in due. una parte, quella più profonda, se ne va con europa, e una parte, quella più superficiale ed esterna, segue adria. in questo scenario, l'orogenesi è conclusa, e l'appennino viene semplicemente deliscato. per dare l'immagine: due coperte sovrapposte e una forbice che le taglia al centro. e due signori che si portano via ciascuno due mezze coperte.
mi chiedo perché i terremoti dell'appennino sono definiti di interplacca, pur essendoci due placche coinvolte.

Aldo Piombino ha detto...

1. semplicemente sotto buona parte della penisola non c'è lo slab, perchè un pezzo è rimasto sotto l'Appennino Settentrionale, un altro è andato in giù.
2. sulla domanda finale... meglio che me ne stia zitto...

punteruolorosso ha detto...

sì ho detto una sciocchezza. comunque ora mi vado a rileggere alcuni suoi articoli. lo slab è dunque arretrato a est della catena, e ora si trova...sotto l'adriatico?
comincio a capire: la distensione causata dall'arretramento dello slab ha lasciato il posto, dopo la fine della subduzione, a una distensione causata dalla semplice rotazione di adria.