giovedì 18 dicembre 2025

L’infestazione del bostrico nelle Alpi Orientali: oltre ai problemi forestali aumenta erosione e rischio-frana nelle aree rimaste senza alberi


una sezione di un tronco di abete rosso 
che presenta le gallerie scavate da coleotteri
Nelle Alpi del Nord-Est italiano a seguito della tempesta Vaia è scoppiata una pullulazione di un insetto, il bostrico, che sta provocando gravissimi danni al patrimonio boschivo alpino. Oltre al danno al patrimonio boschivo a cui le Autorità locali stanno cercando di fare fronte con diverse misure, un altro aspetto che va considerato è il degrado dei versanti: senza la copertura vegetale il poco suolo rischia di essere dilavato dalle piogge e nelle zone sottoposte al taglio degli alberi morti e/o malati si possono produrre delle frane, cosa che purtroppo ho già potuto appurare personalmente. Il rischio quindi è quello di un cambiamento totale nell’aspetto di interi, e non sempre ristretti, settori delle vallate alpine. Ovviamente le mie competenze forestali sono scadenti e quindi non posso che ringraziare l’amico dottore forestale Savero Lastrucci per le utili correzioni al testo sulla parte di sua competenza.

L’ABETE ROSSO E IL SUO NEMICO PER ECCELLENZA: IL BOSTRICO. L’abete rosso è onnipresente lungo le valli del nord-est italiano. Oltre al pregio estetico di un albero decisamente “bellissimo”, Picea abies ha un legname largamente usato nell’edilizia ed è particolarmente apprezzato per gli strumenti musicali, a cui conferisce una qualità del suono inarrivabile da altri legni specialmente quando si tratti di “legno armonico”; spiccano al proposito gli abeti di alcune zone come la Val di Fiemme, la quale ha l’indiscutibile onore di essere l’area di provenienza dei materiali usati da Antonio Stradivari per i suoi leggendari violini.
Purtroppo la popolazione di abete rosso delle Alpi orientali è in questo momento messa a dura prova da un insetto, il bostrico tipografo o bostrico dell'abete rosso (Ips typographus), noto in letteratura scientifica anche con il nome inglese di bark beetle: questo coleottero si nutre degli abeti rossi scavando delle piccole gallerie all'interno della corteccia, succhiandone la linfa.
In primavera i coleotteri maschi sopravvissuti all’inverno penetrano nelle piante e costruiscono una camera nuziale, in cui si accoppiano in genere con due-tre femmine. Queste scavano poi gallerie lunghe fino a 10-15 cm e parallele all’asse del tronco, dove depongono in media 80 uova, da cui escono delle larve che, nutrendosi, scavano anche esse delle gallerie di 5-6 cm sempre nell’area sottocorticale in cui passare la linfa; al termine dello sviluppo si trasformano in adulti, dando vita a una nuova generazione che potrà insediarsi su altre piante. Ciò può avvenire nello stesso anno, se le condizioni climatiche lo consentono (bisogna quindi sperare in estati che finiscono alla svelta), oppure nell’anno successivo se sopravvivono allo svernamento (e anche qui, le basse temperature non li aiuterebbero)
Un abete attaccata dal bostrico è irrimediabilmente condannato perché l’attività dell’insetto interrompe il flusso della linfa, portando inevitabilmente a morte la pianta in breve tempo.
L’infestazione potrebbe essere riconosciuta già all’inizio grazie all’emissione della rosura dal foro di ingresso (la polvere di legno scavato, proprio come succede nelle case con i tarli). Altri sintomi della infestazione in corso sono la caduta di aghi verdi e la perdita di resina, prodotta dalla pianta nel tentativo di difendersi dall’attacco.
Ci sono due fattori che purtroppo rendono difficile riconoscere il problema:
  • le piogge cancellano la rosura alla base dell'albero
  • è facile che l’attacco inizi nella parte più alta dell'albero
Per questo è frequente che le tracce del problema si evidenzino solo quando l’infestazione è ormai in uno stato già molto avanzato e quindi è troppo tardi per rimediare.
Normalmente il bostrico colonizza singole piante indebolite o sotto stress, ma essendone la popolazione cresciuta a dismisura ormai vengono attaccati anche alberi sanissimi. Inoltre non è stato ancora trovato un rimedio per combatterlo, come peraltro succede per la Xylella in Puglia. Ma a differenza della Xylella, arrivata dalle Americhe, il bostrico non è un nuovo infestante proveniente da chissà dove: era già un componente dell’ecosistema alpino con uno sviluppo contenuto e in equilibrio, spesso indirizzato verso piante già parzialmente sofferenti o deboli; la sua esplosione la si deve alla tempesta Vaia, che ha convolto il nord-est, e che ha fatto aumentare la disponibilità di “cibo” per questi coleotteri. La maggiore disponibilità temporanea di legname ha fatto aumentare innaturalmente questi insetti che, mancando poi risorse alimentari, hanno aggredito le piante sane provocando l’attuale squilibrio ai danni dei popolamenti forestali.

le "macchie" di abeti morti sono comuni nei versanti delle Alpi orientali,
come qui, in una zona tra la Val di Fiemme e la valle dell'Adige
 


L’ORIGINE DELL’INFESTAZIONE: LA TEMPESTA VAIA. Come qualcuno ricorda, tra il 27 e il 30 ottobre 2018 un’area depressionaria particolarmente profonda ha provocato una fase di maltempo addirittura peggiore di quella del 1966 nell’Italia di Nord Est. Lo scirocco ha scatenato piogge superiori ai 700 mm in 3 giorni, con le ovvie, conseguenti, alluvioni; quanto al mare Adriatico settentrionale, oltre alla forte mareggiata, queste sono le condizioni in cui i venti lo gonfiano e quindi a Venezia si è verificata una acqua alta paragonabile a quella del 1966.
Oltre all’Acqua Alta epocale, un altro aspetto tristemente noto della perturbazione sono stati i venti: una serie continua di raffiche con velocità superiore ai 200 km/h che hanno causato ingenti danni sulle Alpi orientali, in particolare al patrimonio boschivo, una grossa fetta el quale è rappresentata dalle conifere. Queste piante, in maggioranza abete rosso, non sono certo state aiutate dal loro apparato radicale, poco profondo ma soprattutto ben esteso orizzontalmente (in rete si trovano immagini e filmati terrificanti). Le piante, abbattute, sono a lungo rimaste sul terreno e quindi hanno costituito un ambiente ideale per la proliferazione incontrollata del bostrico, che quindi si è diffuso a dismisura. Oggi in tutto il Trentino, l’Alto Adige e il Friuli anche uno spettatore disattento riconosce immediatamente le aree colpite: in mezzo alle distese di abeti rossi si vedono chiazze più o meno grandi di alberi secchi o aree già disboscate dove le piante malate e/o morte sono state tagliate nei versanti.
A questo proposito, quella del taglio e del disboscamento è una questioni delicata e complessa: non sempre è un bene tagliare le piante morte, mentre al contrario in altre situazioni talvolta vengono tagliate anche piante sane. Al proposito proclamo la mia incompetenza in materia e quindi non posso (né voglio) entrare in un dibattito che compete solo ed esclusivamente al mondo forestale e non al sottoscritto. Dove gli abeti sono stati tagliati, evidentemente c’erano le condizioni per farlo.

LE PROSPETTIVE. Sembra che adesso, dopo 6 anni, l’infestazione sia diminuita, in analogia con l’andamento di altri episodi di pullulazioni del bostrico che caratterizzano i paesi centro-europei, guarda caso anche queste innescati da fenomeni che hanno abbattuto abeti rossi: gli episodi durano in media 5-6 anni, con la massima infestazione nel 2° e 3° anno e una riduzione progressiva in quelli successivi. Ovviamente un po' giocano i predatori (anche il Bostrico per fortuna ne ha, sono diversi e probabilmente a loro volta stanno godendo della situazione), ma anche le condizioni climatiche.
Siccome nella lotta contro il coleottero gli abeti sono aiutati da bassa temperatura ed estati umide, la lotta in Italia è più complessa proprio a causa del clima: temperature più alte comportano un maggiore tempo di attività estivo dell’insetto e una minore mortalità invernale; inoltre gli abeti sarebbero favoriti da estati umide come quelle dell’Europa Centrale, mentre nel versante italiano l’influenza del clima mediterraneo provoca spesso dei periodi siccitosi ben più graditi dai coleotteri che dalle piante, la cui resistenza, appunto, è maggiore in caso di estati fresche e piovose.
Per fortuna nelle Alpi le più recenti condizioni climatiche hanno ridotto la durata della fase di espansione.
Insomma, ottimisticamente si può dire che:
1. la fase acuta dell’infestazione è già passata (lo dimostrano i dati, confortati dalla casistica analoga)
2. ma che, purtroppo, il problema è ancora in atto e che a causa del clima durerà ancora, per un tempo maggiore che negli eventi analoghi a nord delle Alpi.



RIMEDI. Qui per fortuna di abeti ce ne sono tantissimi e quindi la loro scomparsa non è all’ordine del giorno, ma in ogni caso vediamo ancora una volta qual’è uno dei problemi maggiori delle monoculture: basta che si diffonda incontrollatamente un parassita (già presente o importato, cosa questa purtroppo molto facile oggigiorno, come dimostra il caso Xylella ) e sono dolori. Ovviamente Picea abies non potrà essere sostituito, per questioni paesaggistiche (il connubio Abete rosso – paesaggio è ormai troppo radicato) ed economiche (difficilissimo sostituirlo per edilizia e strumenti musicali), però a questa pianta dovranno essere affiancate altre specie che non vengono attaccate dal malefico coleottero, per esempio il larice (sperando che non si adatti e diventi “bravo” ad attaccare anche queste). Ma gli enti preposti, per esempio nella Provincia di Trento, stanno pensando anche alla prospettiva di impiantare specie arboree diverse, che meglio si adatteranno ai cambiamenti climatici in corso.

alcuni esempi di dissesti dovuti all'abbattimento di abeti morti tra Val di Fiemme e val di Fassa
IL BOSTRICO È ANCHE UN PERICOLO PER L’EQUILIBRIO DELL’ASSETTO IDROGEOLOGICO. I versanti alpini sono spesso acclivi,  e con un suolo non troppo spesso. Queste condizioni favoriscono le conifere le cui radici si estendono orizzontalmente e non vanno in profondità rispetto a quelle delle angiosperme. 
Ma l’eventuale taglio delle piante malate, morte o che stanno per essere attaccate comporta anche una grave conseguenza nell’assetto del territorio: nei versanti che così diventano direttamente esposti agli agenti atmosferici aumenta la possibilità che si verifichino delle frane (lo stesso avviene anche in caso di versanti interessati da gravi incendi boschivi). Queste frane porterebbero via una gran parte del suolo e il resto verrebbe dilavato dalle prime piogge. Ne ho già viste alcune passando per le valli di Fiemme e di Fassa.
Inoltre la forte disponibilità di luce al suolo dopo il taglio favorisce il rapido sviluppo di vegetazione erbacea o arbustiva concorrente, che può ostacolare la germinazione e lo sviluppo delle plantule di rinnovazione e non ha le stesse capacità di trattenere il suolo.
Si rende quindi necessaria una immediata riforestazione delle aree dei versanti che sono state sottoposte al taglio degli abeti, per non rendere quei versanti privi di suolo: in questo caso la vegetazione dei versanti si trasformerebbe in un insieme di piante pioniere (in genere arbusti e non alberi), con un cambiamento paesaggistico ed ecologico drammatico.


martedì 16 dicembre 2025

Spezzoni di crosta continentale in mezzo agli oceani


Carta da Balasz et al (2025): i blocchi continentali a W dell'Australia sono diversi
ma vengono indicati per semplicità solo Gulden Draag e Broken Ridge
In linea generale sulla Terra esiste una dicotomia fra crosta continentale e crosta oceanica, nettamente diverse fra loro e questa differenza si riflette anche nel mantello sottostante. Qualche anno fa ho parlato della transmogrificazione e cioè di come secondo Morgan e Vannucchi (2022) aree apparentemente a crosta continentale siano in realtà dei blocchi di crosta oceanica e relativa litosfera sottostante rimasti intrappolati e come anche il Mediterraneo orientale possa avviarsi a diventare una cosa simile.
Esiste però anche la situazione contraria: blocchi di crosta continentale intrappolata all’interno di crosta oceanica.


I blocchi continentali all'interno degli oceani sono divisibili in due categorie:
  • i microcontinenti, blocchi di dimensioni significative, in genere ai lati dell’Oceano Atlantico e soprattutto dell’Oceano Indiano
  • piccole “schegge” di crosta continentale all’interno di alcune delle prnicipali faglie trasformi negli oceani.
Entrambi questi tipi di crosta continentale sono il seguito di un rifting continentale, un processo fondamentale della tettonica a placche, che separa un continente in due masse continentali differenti attraverso un progressivo assottigliamento della crosta e della sottostante litosferica, che infine porta alla formazione della dorsale medio-oceanica, dove si genera nuova crosta oceanica e alla formazione di un oceano. In questa carta, tratta da Balazs et al (2025) vediamo i principali settori di crosta continentale in mezzo agli oceani.

I MICROCONTINENTI non erano stati “previsti” quando fu ideata la tettonica a placche e alla loro scoperta hanno costituito un luogo di dibattito sul loro significato. Che siano “strascichi” dell’apertura dei relativi oceani è ancora ben evidente, per esempio, a proposito del microcontinente di Jan Mayen e ben descritto da Gaina et al (2009):
  • nella carta da Gaina et al (2009) in rosso
    le dorsali oceaniche non più attive
    l'apertura dell'Oceano Atlantico settentrionale in prossimità del limite Paleocene-Eocene si verificò lungo tre dorsali di espansione interconnesse, la dorsale di Reykjanes, la dorsale di Aegir e la dorsale di Mohns. La direzione iniziale di espansione era NNW-SSE e determinò un movimento obliquo tra la Groenlandia orientale e il Mare di Barents.
  • Circa 35 milioni di anni fa, all'inizio dell'Oligocene, l'espansione cessò nel Mare del Labrador e la Groenlandia divenne parte della placca tettonica nordamericana. In seguito a questa riorganizzazione, la direzione di espansione cambiò di 30°, passando da NW a SE
  • Durante l'Oligocene, l'espansione del fondale marino terminò lungo la dorsale di Aegir e si verificò un salto di dorsale verso la dorsale di Kolbeinsey. Questo cambiamento nella direzione di espansione separò anche il microcontinente di Jan Mayen dal margine orientale della Groenlandia.
Più complessa la questione dei microcontinenti nell’Oceano Indiano, oceano che comprende diversi sottobacini e frammenti continentali originatisi dal Gondwana e trascinati da diversi eventi di spostamento delle dorsali. Ovviamente i frammenti erano in origine posizionati nelle aree dove nel Cretaceo si sono divise India, Antartide e Australia, ma è più difficile ricostruirne storia ed esatta collocazione perché l’apertura che ha iniziato la formazione dell’oceano è ben più antica di quella dell’Atlantico settentrionale (oltre 120 milioni di anni contro 55) e l’espansione dei fondi oceanici ha allontanato molto fra di loro questi frammenti che però, non a caso, si trovano più verso i lati dell’oceano e non in mezzo ad esso. Quelli ben conosciuti sono:

SEYCHELLES: nel Giurassico medio, l'Africa si separò dall'Antartide orientale e dal blocco India-Seychelles-Madagascar, che a sua volta si separò dall'Antartide orientale e dall'Australia. Successivamente India e Seychelles si separarono fra loro. La precedente vicinanza delle Seychelles all’India è documentata dalle rocce magmatiche che mostrano una forte affinità con i basalti del Deccan, messi in posto al passaggio fra Cretaceo e Paleocene e che hanno appunto preceduto il distacco fra i due blocchi (Ganerød et al, 2011).

KERGUELEN: queste remote isole ospitano una delle più importanti Large Igneous Provinces della storia, che oltre all’arcipelago comprende lave presenti in India (i trappi di Rajmahal) e nell’oceano (la dorsale di 90°E), mentre secondo Olierook et al (2016) i basalti australiani di Bundbury e quelli trovati in alcun blocchi a W dell’Australia sono troppo antich per fare parte della provincia, anche se è stata proposta una superprovincia che comprende diverse subprovince. La cosa interessante è che nella parte centrale dell’arcipelago l’Elan Bank mostra chiaramente di essere un frammento dell’orogene dell’Eastern Ghats Belt, in India, che non a caso è vicino ai trappi di Rajmahal.

AD W DELL’AUSTRALIA: lì di questi blocchi se ne trovano diversi e all’inizio degli studi sulla tettonica a placche la loro natura è stata dibattuta. In alcuni, come Gulden Daag Knoll, Naturaliste Plateau e Batavia Knoll sono state riconosciute rocce appartenenti a quelle fasi orogeniche che hanno unito il Gondwana riconosciute in Antartide e in Australia (es: Gartner et al, 2017). 
I plateau di Wallaby e Zenith con le loro imponenti successioni di basalti mostrano chiaramente la loro appartenenza a una crosta continentale interessata da un rift che l’ha assottigliata e soggetta al vulcanismo correlato all’apertura. Tutti questi blocchi sono attualmente sommersi
Broken Ridge è un caso un po' diverso, perché era probabilmente unito al microcontinente delle Kerguelen.
In queste carte tratte da Olierook et al (2016) si vede l’evoluzione di tutti questi blocchi.




FRAMMENTI CONTINENTALI INTRAOCEANICI LUNGO LE FAGLIE TRASFORMI.
Se la formazione di microcontinenti è “abbastanza logica” in un quadro di rift continentale a cui segue l’apertura di un oceano, appare più incredibile la presenza di piccole “schegge” di crosta continentale in mezzo agli oceani, lungo alcune faglie trasformi. Le dorsali medio-oceaniche sono segmentate e collegate da faglie conosciute come faglie trasformi, tradizionalmente descritte come margini trascorrenti che assecondano i movimenti orizzontali derivati dalla espansone dei fondi oceanici lungo le dorsali. Un aspetto fondamentale di queste strutture è l’energia del rilievo, con scarpate alte anche diversi kilometri.
Le faglie trasformi in alcun momenti della loro storia sono soggette a sforzi compressivi, che provocano il sollevamento di alcuni blocchi (per esempio gli isolotti di San Pietro e San Paolo a largo del Brasile) lungo la trasforme di San Paolo. Questi isolotti fanno parte di un massiccio peridotitico, quindi materiale della crosta oceanica. Ma in alcuni casi questi massicci sono formati da crosta continentale. Quelli più conosciuti si trovano nell’Atlantico settentrionale, dove sono rappresentate da dorsali ancora non frammentate (quella della Groenlandia orientale e quella di Terranova), mentre si trovano delle schegge di dimensioni molto ridotte nell'Atlantico centrale (zona di frattura Romanche), nel Mar Rosso (l’isola continentale di Zabargad), nell’Oceano Indiano (Davie continental sliver, tra Madagascar and Africa) e ad E della Nuova Gunea nel bacino Woodlark.

DAL RIFT ALLE SCHEGGE CONTINENTALI NEGLI OCEANI. Per capire come funziona il processo di formazione di queste schegge Balasz et al 2025 hanno realizzato una modellazione, che ricorda le ricostruzioni geologiche proposte per la storia del rift nell'Atlantico centrale o nell'Africa orientale e in Madagascar. 
Il processo inizia quando la crosta viene interessata dalle tensioni che portano alla formazione di un rift, in un’area caratterizzata da zone di debolezza ereditate da precedenti fasi tettoniche.
Il modello di riferimento simula una velocità totale di divergenza delle placche di 1,9 cm/anno. 
  1. dopo 13 milioni di anni di attività del rift inizia a formarsi crosta oceanica in alcuni segmenti collegati da una zona di taglio obliqua che presto evolvono in vere dorsali oceaniche.
  2. dopo altri 2 milioni di anni la zona di taglio evolve in un bacino con il fondo costituito da litosfera continentale sempre più assottigliata e che si restringe.
  3. dopo altri 3 milioni di anni rimane un ultimo ponte continentale che collega i nuovi margini continentali alla deriva formati precedentemente lungo il rift e che presto formerà queste schegge.
  4. a questo punto sono passati 18 milioni di anni e per una sere di motivi i due segmenti adiacenti della dorsale medio-oceanica si propagano in modo da cercare di sovrapporsi l’uno all’altro nella zona della faglia trasforme. È una fase transitoria che però induce il sollevamento della scheggia crostale continentale rimasta intrappolata, che poi continuerà ad essere trasportata durante l’espansione dell’oceano.
È importante notare che queste schegge continentali mantengono uno spessore minimo di circa 5-7 km, con al di sotto un sottile residuo di mantello litosferico continentale.

Qui è disponibile il video del modello, che comunque mostro: 




BIBLIOGRAFIA

Balasz et al (2025) Presence of continental slivers in oceanic transform faults determined byrift inheritance. Nature Geoscience 18, 1303-1310

Gaina et al (2009) Palaeocene–Recent plate boundaries in the NE Atlantic and the formation of the Jan Mayen microcontinent Journal of the Geological Society 166, 601–616

Ganerød et al (2011). Palaeoposition of the Seychelles microcontinent in relation to the Deccan Traps and the Plume Generation Zone. in Late Cretaceous – Early Palaeogene time. In Van Hinsbergen et al (eds) The Formation and Evolution of Africa: A Synopsis of 3.8 Ga of Earth History. Geological Society, London, Sp. Pub. 357, 229–252.

Gardner et al (2015). Discovery of a microcontinent (Gulden Draak Knoll) offshore Western Australia: Implications for East Gondwana reconstructions. Gondwana Research 28, 1019–1031

Morgan e Vannucchi (2022). Transmogrification of ocean into continent: implications for continental evolution. PNAS 119/15 e2122694119

Olierook et al (2016). Bunbury Basalt: Gondwana breakup products or earliest vestiges of the Kerguelen mantle plume? Earth and Planetary Science Letters 440, 20–32











mercoledì 10 dicembre 2025

il terremoto M 7.6 a largo della costa settentrionale di Honshu del giorno 8 dicembre 2025 e perchè è stata lanciata una allerta tsunami per i prossimi giorni


geodinamica dell'area giapponese
Il terremoto M 7.6 dell’8 dicembre 2025 a largo della costa pacifica settentrionale di Honshu è stato decisamente un evento sismico importante. Per dare un’idea della sua forza, il Servizio Geologico degli Stati Unti ha segnalato immediatamente la possibilità di liquefazioni del terreno sulla terraferma nonostante che l’epicentro (o, meglio, il punto di rottura iniziale) sia distante un centinaio di km dalla costa. D’altro canto anche i filmati sullo scuotimento danno un’idea di cosa sia successo a una distanza così grande dall’epicentro.
Vediamo qui a sinistra la situazione dal punto di vista tettonico: tra placca euroasiatica, placca nordamericana e placca pacifica alcune microplacche prima considerate parte della placca nordamericana (la questione è ancora dibattuta). L’evento sismico è probabilmente avvenuto proprio nell’interfaccia fra la placca pacifica in subduzione e la sovrastante placca continentale di Okhotsk e ha provocato il ferimento di almeno 33 persone.

TSUNAMI ASSOCIATO AL TERREMOTO. Subito dopo il terremoto sia l'agenza meteorologica giapponese che lo Tsunami Pacific Warning Center della statunitense NOAA hanno decretato l'allerta tsunami. Lo tsunami c’è stato eccome e ha raggiunto un’altezza di 80 cm nella zona epicentrale. Un’altezza importante perché, come spiega bene il mio amico Filippo Bernardini, se un'onda "normale" interessa solo la parte superficiale della colonna d'acqua, uno tsunami interessa l'intera colonna dal fondale alla superficie. Se uno tsunami è alto 80 cm vuol dire che l'intera colonna d'acqua si alza di 80 cm, il che implica che l'energia in gioco di un'onda normale di pari altezza non sia neanche lontanamente paragonabile a quella dello tsunami.

I MEGATERREMOTI. Un megaterremoto è un evento sismico la cui Magnitudo risulta uguale o superiore a 8.5.  La stragrande maggioranza dei  terremoti più forti avvengono lungo le zone di subduzione e quindi essendo eventi di tipo compressivo, quando avvengono lungo faglie a basso angolo, sono denominati terremoti di thrust. Quindi i megaterremoti sono praticamente tutti dei megathrust
Qui ho parlato dei megathrust e di come e dove possono scatenarsi: se alcune zone di subduzione sono regolarmente interessate da terremoti così forti, altre invece non ne presentano. 
Una regola della geofisica è che più ampia è l’estensione del piano che si rompe, maggiore è l’energia liberata dal sisma (e difatti i megathrust si caratterizzano per la vastità dell’area interessata dal movimento). Quindi Blethery et al (2016) hanno fornito una spiegazione elegante per questa differenza: tutti i megathrust più recenti si trovano dove la curvatura dell’interfaccia fra la placca superiore e quella che le scorre sotto è poco pronunciata, ad esempio proprio nel sistema Giappone settentrionale – Kurili – Kamchatka, tra le Aleutine, l’Alaska e la Cascadia, in America meridionale e nel sistema Andamane, Sumatra – Giava; invece non sono conosciuti megaterremoti nei sistemi dove la curvatura del piano di scorrimento è più accentuata, ad esempio nelle zone di subduzione di Filippine, Salomone, Izu-Bonin, nelle South Sandwich e neanche tra Nuova Guinea e Nuova Zelanda nel sstema Santa Cruz, Vanuatu e Tonga – Kermadec, dove peraltro la sismicità è davvero impressionante!). Vediamo appunto nella figura 2 la differente geometria del piano di subduzione tra il Giappone settentrionale (dove la curvatura è bassa) e le isole Vanuatu, dove la curvatura è più pronunciata e nonostante la sismicità sia estremamente alta (dal 1971 64 eventi a M 7 e oltre) ci sono solo 4 eventi a Magnitudo 8 o superiore e il massimo è 8.2. 
Nella figura, ottenuta grazie a SUBMAP, un interessante tool della Università di Montpellier, si nota chiaramente la differenza di curvatura fra una subduzione capace di generre dei Mmegathrust e una che non è in grado di farlo. 
Naturalmente i megathrust sono gli eventi in grado di produrre gli tsunami più importanti, data l'estensione molto vasta del fondo marino che viene interessata dal movimento.

la cartellonistica spiega il nesso fra il terremoto M7.3 che ha preceduto il megaterremoto 
del 2011, e i possibili effetti di un nuovo megaterremoto dopo il terremoto M 7.6 dell'9 dicembre 2025
L’ALLERTA-MEGATHRUST EMANATA DALLE AUTORITÀ GAPPONESI. Poche ore dopo il terremoto dell’8 dicembre l'agenzia meteorologica giapponese ha emesso una allerta megaterremoto, esortando gli abitanti delle aree prossime alla costa del Pacifico delle isole di Hokkaido e della parte settentrionale di Honshu a rimanere vigili per tutta la prossima settimana e a preparare piani di evacuazione nel caso in cui dovessero abbandonare le proprie case. 
Vediamo perché di questa mossa che ai non addetti pare una previsione, ma in realtà in senso stretto non lo è: i dati non indicano la previsione di un terremoto estremamente forte, ma il fatto che nelle prossime due settimane ci sia una maggiore possibilità che un evento del genere si verifichi, il che è molto diverso.

Il terremoto in cui si sono registrati più morti in Giappone è quello M 8.0 della regione del Kanto nel 1923 con un bilancio che oscilla tra 105 e 140.000 persone.
I megaterremoti più recenti lungo la fossa di Honshu in Giappone sono avvenuti negli anni 1933,1952, 2003 e, appunto, 2011, quando morirono quasi 20.000 persone, soprattutto a causa dello tsunami.
Si capisce come mai l’eventualità di un megathrust costituisca un serio problema nel Paese del Sol Levante, anche perché ci sono discrete probabilità che il prossimo avvenga entro 30 anni.


 fig.5 la sequenza principale del 30  luglio 2025 a largo della Kamchatka
e la sequenza che l'ha preceduta 10 giorni prima
Ma perché è stata lanciata questa allerta, che come si vede, è ampiamente pubblicizzata da apposita cartellonistica? Molto banalmente perché entrambi gli ultimi due megathrust avvenuti nel sistema di fosse tra Kamchatka, isole Kurili e Giappone sono stati preceduti da eventi sismici significativi con epicentri molto vicini a quelli dei successivi megathrust (ricordo che con eventi di questa portata, che interessano segmenti lunghi anche centinaia di km, l’epicentro è il punto dove inizia la rottura):
  1. nella figura "C" qui sopra si vede come il terremoto M 9.1 delle coste settentrionali di Honshu dell'11 marzo 2011 sia stato preceduto due giorni prima da una sequenza iniziata con un M 7.3 e proseguita con almeno altri 21 eventi di M uguale o superiore a 5.0, di cui 2 M6.0, e uno M 6.5
  2. nella figura qui accanto si vede come il terremoto M 8.8 del 30 luglio 2025 a largo della Kamchatka sia stato preceduto 10 giorni prima da un evento a M 7.4 e quasi un anno prima dal terremoto M 7.0 del 17 agosto 2024.
Rimanendo in Kamchatka, il terremoto del 4 novembre 1952 non sembra essere stato anticipato come quello del 2025 da un importante foreschock (anche se, ricordiamoci, il registro dell’USGS che ho consultato potrebbe essere lacunoso, mancando sicuramente di tutti gli eventi a M inferiore a 6.3 e non so se manca qualcosa di più forte). Però il terremoto M 7.0 del 6 novembre 1951 alle isole Kurili ha innescato una sequenza sismica che ha interessato il segmento immediatamente a sud di quello interessato dal successivo megathrust del 1952

Sui terremoti più vecchi non mi pronuncio, perché i dati che ho non sono sufficienti e purtroppo i lavori in merito che ho trovato sono ancora a livello di pre-print e quindi non ne voglio parlare.
Siamo come ho detto prima, non su una previsione, ma su una possibilità basata sulla storia sismica recente. Ma non c’è automatismo fra eventi molto forti e megathrust: dal 1971, l’anno da cui partono i suoi dati, l’Iris Earthquake Browser segnala 25 terremoti con M 7 o superiore lungo i circa 760 km circa del tratto della subduzione corrispondente alla fossa di Honshu e alla fossa di Chishima (quella davanti a Hokkaido, che prosegue nell fossa delle Kurili); di questi, 4 sono associati o associabili al terremoto M 9.1 del 201, ma se due di questi hanno “anticipato” i megathrust del 2011 e del 2025, gli altri 20 terremoti con M elevata (diciamo sopra a 7, figura 3A) non hanno preceduto un megathrust. 
Tutto ciò evidenzia come non ci può essere certezza biunvoca in proposito: insomma, se appare estremamente probabile che un megathrust sia preceduto da un evento sismco importante con M superiore a 7, la probabilità che il singolo evento a M 7 e oltre anticipi un megathrust è molto bassa: uno su 20 dal 1971. Una minima possibilità in più forse ci sarebbe notando, come si vede dalla figura “3A”, come la sequenza attuale si collochi in un vuoto (sia pure minimo) della sismicità a M 7+ dal 1971 ad oggi

I TERREMOTI DI NOVEMBRE E DI DICEMBRE 2025 LUNGO LA FOSSA DI HONSHU A CONFRONTO. La sequenza sismica iniziata ieri 8 dicembre a largo di Honshu è iniziata circa un mese dopo che se ne è verificata un’altra circa 150 km a SSE di questa. Le due sequenze sismiche recenti a largo della costa orientale di Honshu, visibili nella figura 3B, hanno però caratteristiche differenti:
  • quella di adesso è una classica sequenza con un evento principale e le sue repliche
  • nella sequenza di novembre invece gli eventi più forti sono avvenuti 2 giorni dopo il suo inizio

BIBLIOGRAFA CITATA

Blethery et al (2016). Mega-earthquakes rupture flat megathrusts. Science 354, 1027-1031

Zhao et al (2018). Timing of Okhotsk Sea Plate Collision With Eurasia Plate: Zircon U-Pb Age Constraints From the Sakhalin Island, Russian Far East. Journal of Geophysical Research: Solid Earth, 123, 8279–8293






lunedì 24 novembre 2025

il terremoto del 21 novembre 2025 e la delicata - anche se poco conosciuta - situazione del Bangladesh dal punto di vista tettonico e sismico


Il terremoto M 5.5 del 21 novembre 2025 ha causato una decina di morti e diverse centinaia di feriti in un’area in cui gli edifici non sono certo adatti a sostenere sollecitazioni sismiche anche non importanti (ennesima dimostrazione che, almeno nelle pianure, morti e feriti non li fanno i terremoti, ma la cattiva edilizia). Questo terremoto può in prima battuta lasciare un po' perplessi, ma in realtà la situazione del Bangladesh è piuttosto complicata dal punto di vista sismo-tettonico, con la reale possibilità della occorrenza di terremoti particolarmente importante. Lo hanno fanno notare i sempre precisi Judith A. Hubbard e Kyle Bradley di Earthquake Insight e allora ho deciso di illustrare la situazione.

il terremoto del 21 novembre e quelli di circa un secolo fa
TERREMOTI IMPORTANTI NEL BANGLADESH. Poco più di un secolo fa il Bangladesh è stato teatro di 3 terremoti importanti: M 7.1 nel 1918, M 6.4 nel 1921 e M 6.9 nel 1923, i cui epicentri sono compresi tra poco a N di Dacca e la costa. Oltre a quelli, il Paese mostra una discreta sismicità di fondo, specialmente nella sua parte orientale. Il terremoto M 5.5 del 21 novembre 2025 è il classico evento che fa capire come da quelle parti ci siano degli sforzi tettonici di un certo livello.
Secondo USGS il terremoto è avvenuto lungo una faglia inversa. 
Dal punto di vista del risentimento macrosismico, Dacca è ad appena 60 km dal confine con lo stato indiano del Tripura, anche questo interessato da una sismicità di fondo abbastanza alta, che comprende eventi con M>5 .

IL DELTA DEL GANGE E IL GOLFO DEL BENGALA. Da quando nell'Eocene l’India si è scontata con l’Asia i fiumi che scendono dall’Himalaya (attualmente i principali sono Gange e Brahmaputra) hanno fornito una quantità di sedimenti talmente ingente al delta (più di 1 milione di tonnellate all’anno) da far avanzare la piattaforma continentale di 300-400 km in circa 40 milioni di anni. Anche lo spessore della serie sedimentaria è gigantesco: arriva addirittura a 20 km di sedimenti.
Quanto al golfo del Bengala, in realtà è compreso nell'Oceano Indiano, perché il suo fondo è crosta oceanica di quest'ultimo. Un primo problema è che l'avanzamento del delta e soprattutto lo spessore dei suoi sedimenti impediscono di capire con certezza dove finisce la crosta continentale e dove comincia la crosta oceanica.
A nord di Dacca c’è una complicazione in più: il Massiccio di Shillong, formato essenzialmente da rocce magmatiche e metamorfiche con una copertura sedimentaria del Terziario. Fino a una decina di milioni di anni fa era ricoperto da una spessa serie sedimentaria, ma da quel momento lo scontro in atto fra subcontinente indiano ed Eurasia ha portato questo massiccio molto rapidamente in superficie.
Sul lato orientale del golfo del Bengala, le catene indo-birmane, costituiscono un altra area di scontro fra la placca indo-australiana e l’Eurasia.

il terremoto del 1762 e la zona di subduzione di Andamane - Indonesia
I MOVIMENTI DELLE PLACCHE DEDOTTI CON I SENSORI GPS. È stato supposto in passato che lungo la costa orientale del mar Arabico non vi sia una subduzione attiva tra la placca indiana e il sud-est asiatico. In questo quadro è stato suggerito che tutto il moto relativo tra le placche indiana ed euroasiatica sia accomodato nel Myanmar centrale lungo la faglia di Sagaing (quella del recentissimo terrible terremoto birmano M 7.7 del 28 marzo 2025).
Però i dati GPS indicano qualcosa di più complesso: solo il 60% della componente obliqua del moto relativo delle placche è accomodato sulla faglia di Sagaing (Cummings, 2007).
Allora, dove è la deformazione residua? Ci sono due ipotesi:
  • la deformazione mancante è assorbita nella zona della catena indo-burmese, tra la faglia di Sagaing e la costa orientale del Mar Arabico
  • la zona di subduzione di Arakan è ancora attiva.
La soluzione più realistica è “la seconda che ho detto”. Questo anche perché la regione dell’Arakan (oggi denominato Rakhine, una provincia birmana lungo la costa a sud del Bangladesh), fu teatro nel 1762 di un terremoto particolarmente violento (la Magnitudo risulta tra 8.5 e 8.8), seguito da uno tsunami. Il sisma cambiò notevolmente, fra innalzamenti e subsidenze sin e post sismiche, la geografia della costa. La rottura ha interessato un segmento lungo almeno 200 km e uccise almeno 500 persone anche a Dacca (200 km dal bordo di rottura settentrionale). Studi ulteriori hanno fatto emergere importanti indicazioni su altri 2 terremoti importanti negli ultimi 1500 anni (Mondal et al, 2018)

il prolungamento verso nord della zona di convergenza
come ipotizzato da Steckler et al (2016)
LA ZONA DI SUBDUZIONE DI ARAKAN E IL SUO PROLUNGAMENTO FINO ALL’HIMALAYA. Come si vede dalla carta qui accanto la zona di subduzione di Arakan costituisce il prolungamento della notissima zona di subduzione che dalle isole Andamane corre lungo il bordo indonesiano dell’Oceano Indiano. Una subduzione quindi dalla sismicità estremamente importante. La domanda è dove si trovi la terminazione settentrionale di questo sistema.
La spessa copertura sedimentaria del delta del Gange ha sepolto qualsiasi struttura del basamento e quindi osservazioni dirette sono impossibili: come ho detto non si conosce neanche il limite fra la crosta continentale e quella oceanica del golfo del Bengala, figuriamoci se si vede una faglia, anche se importante.
Steckler et al (2016), integrando e migliorando i dati di Cummings (2007) hanno installato una serie di ricevitori GPS continui tra il 2003 e il 2014, coprendo solo il territorio prevalentemente deltizio del Bangladesh, situato a sud della latitudine del Massiccio di Shillong confrontandoli con le velocità note in bibliografia in India e in Myanmar. Dei 46 mm/anno di moto fortemente obliquo tra l'India peninsulare e l'Altopiano dello Shan, posto ad E della faglia di Sagaing, questa ultima ne assorbe circa 20, quindi manca all’appello una importante quota della deformazione.
Pertanto gli Autori ipotizzano la presenza del limite convergente fra India e Indocina , rappresentato da un megathrust passante sotto al delta del Gange e che quindi prolunga verso nord la continuità fra le zone di convergenza di Arakan, Andamane e Indonesia raccordandosi con il limite fra India ed Eurasia dell'India nord-orientale, passando per alcune strutture visibili a nord di Dacca ad E del massiccio di Shillong. È interessante notare che gli epicentri dei forti terremoti avvenuti intorno al 1920 s annidano più o meno lungo il megathrust ipotizzato da questi Autori.
Come si osserva, sia l’evento del 21 novembre che i terremoti di circa un secolo fa si allineano grossolanamente lungo il tracciato del megathrust sepolto sotto i sedimenti del delta del Gange ipotizzato da Steckler et al (2016).

BANGLADESH: UN PAESE A RISCHO SISMICO ELEVATO. Nel SE del Paese la zona di subduzione di Arakan è in grado di produrre terremoti con M superiore a 8.5 (Socquet et al. 2006). Quanto all’ipotizzato limite convergente sotto al delta del Gange, data la geologia locale sono ipotizzabili anche importanti fenomeni di liquefazione del terreno, le cui conseguenze si sommerebbero a quelle delle onde sismiche.
Le condizioni dell’edilizia in Bangladesh sono decisamente scadenti in una nazione di 170 milioni di abitanti, di cui 15 nella capitale Dacca e quindi un terremoto importante avrebbe conseguenze semplicemente drammatiche.


BIBLIOGRAFIA

La discussone su Earthquake Insight la potete trovare a questo link:  https://earthquakeinsights.substack.com/p/bangladesh-shaken-by-deadly-m55-earthquake

Cummings (2007). The potential for giant tsunamigenic earthquakes in the northern Bay of Bengal. Nature, 449, 75-78

Mondal et al (2018). Microatolls document the 1762 and prior earthquakes along the southeast coast of Bangladesh. Tectonophysics, 745, 196-213

Socquet et al (2006). India and Sunda plates motion and deformation along their boundary in Myanmar determined by GPS. J. Geophys. Res. 111, doi:10.1029/2005JB003877 (2006)

Steckler et al 2016 Locked and loading megathrust linked to active subduction beneath the Indo-Burman Ranges. Nature Geoscience 9, 615-618


martedì 21 ottobre 2025

L’importanza della sorveglianza satellitare dei vulcani privi di sistemi di monitoraggio terrestre: l'esempio pratico del Taftan (Iran)


Molti vulcani sono sorvegliati per studiarne il comportamento al fine di fornire indicazioni sulla possibilità di eruzioni, utilizzando misurazioni di stazioni terrestri. Purtroppo circa il 45% dei vulcani storicamente attivi non ha questo tipo di monitoraggio, con 30 milioni di persone che vivono entro 10 km da essi (Brown et al, 2015). È quindi ovvio che in qualche modo questi sistemi vulcanici vadano monitorati, con l'obiettivo, appunto, di rilevare indizi sul possibile inizio dell'attività eruttiva. I dati satellitari possono essere uno strumento formidabile nelle fasi di previsione, rilevamento e tracciamento delle fasi di unrest vulcanico: l’unrest, letteralmente disordine, è quella serie di manifestazioni come deformazione del suolo, variazioni di temperatura e composizione delle fumarole e sismicità che possono portare a eruzioni. I satelliti con telecamere termiche a infrarossi possono effettuare osservazioni sulle fasi di unrest vulcanico allarmando con le osservazioni sull'aumento della temperatura innescato dall'aumento di attività fumarolica, mentre i satelliti radar InSAR offrono la possibilità di indagare le deformazioni del suolo (soprattutto il sollevamento correlato all'unrest). Questo è utile su vulcani con monitoraggio a terra, ma diventa l'unica possibilità di sorveglianza continua per i vulcani che non ne dispongono.

l'arco di Makran e i suoi vulcani - da Ghalamghash et al (2019)

IL TAFTAN, UN GRANDE VULCANO QUIESCENTE IN IRAN. Un esempio di cui si parla in questi giorni sul web, con le solite considerazioni catastrofiche acchiappaclick, è quello del vulcano Taftan, nell’Iran orientale.
Il Taftan, insieme ad altri grandi vulcani come il Bazman, il Kuh‐e‐Sultan e dei campi di lave basaltiche morfologicamente giovani (ad esempio: Kuh-e-Nader), appartiene all'arco vulcanico del Makran. Lungo circa 450 km all'interno delle coste del Golfo di Oman tra Iran e Pakistan, l'arco del Makran è una conseguenza dalla subduzione della placca arabica sotto la placca euroasiatica (Namdarsehat et al., 2024). Non è troppo noto al grande pubblico perché la sismicità non è altissima rispetto alle aree limitrofe in quanto sembra che la subduzione sia bloccata, anche se potenzialmente potrebbe ospitare terremoti con M superiore a 8. È però noto ai geologi che si occupano di zone di convergenza fra placche per aver formato uno dei più grandi prismi di accrezione della Terra.
Il Taftan è l'unico vulcano dell’arco del Makran che presenta attività fumarolica persistente. È un edificio imponente: la cima più alta arriva a 4.050 m e dall'inizio della sua attività ha coperto una superficie di circa 1.300 chilometri quadrati. È un vulcano antico, visto che le prime lave andesitiche e dacitiche deposte su una paleosuperficie vulcanica e sedimentaria del Cretaceo-Eocene, a circa 20 km a nord-ovest dell'attuale edificio vulcanico, sono del tardo Miocene (circa 8 milioni di anni fa). Nel Plio-Pleistocene sono stati emessi consistenti volumi di lave (sempre andesitiche e dacitiche) e flussi piroclastici (da circa 3,1 a 0,4 milioni di anni fa).
Le elevate concentrazioni di oligoelementi nelle sorgenti indicano come il sistema idrotermale di Taftan sia in gran parte guidato da processi magmatici (Shakeri et al., 2015). Analisi geobarometriche di anfibolo e clinopirosseno suggeriscono la presenza di serbatoi crustali di stoccaggio del magma, a profondità comprese tra 3,5 e 9 km (Delavari et al., 2022).
Sulla sua attività più recente le fonti discordano: per Mohammadnia et al. (2025) il Taftan non avrebbe mai sperimentato eruzioni storicamente documentate, mentre Akhoondzadeh (2025) cita una eruzione tra il 1349 e il 1350.

le serie temporali di InSAR (Sentinel-1) ascendente e discendente 
e la componente verticale derivata evidenziano
 la fase di unrest e la mancanza di una successiva subsidenza
e una non correlazione con le piogge
LE OSSERVAZIONI InSAR ATTESTANO DIVERSE FASI DI UNREST DEL TAFTAN NEGLI ULTIMI ANNI. Le osservazioni satellitari InSAR (radar satellitari interferometrici ad apertura sintetica) sono già state utilizzate in passato per indagini sporadiche sul Taftan.
Dal 2003 al 2010, alcuni di questi dati hanno riportato episodiche deformazioni superficiali, che sono state ritenute legate all'attività di fluidi derivanti da camere magmatiche pressurizzate. Inoltre, anche delle osservazioni effettuate tra il 2015 e il 2020 hanno mostrato tassi modesti di sollevamento circa 1 mm/anno (Shirmohammadi et al., 2024).
Mohammadnia et al. (2025) riportano dei segnali di unrest vulcanico sul Taftan: utilizzando i dati satellitari InSAR della costellazione Sentinel-1 dell’Agenzia spaziale Europea, i ricercatori hanno rilevato un sollevamento del suolo localizzato sulla sommità del vulcano di circa 9 cm tra luglio 2023 e maggio 2024. Hanno inoltre limitato con precisione la sua tempistica dall'inizio alla fine del processo: il sollevamento è iniziato a luglio 2023 ed è terminato gradualmente dopo 10 mesi (maggio 2024), raggiungendo una velocità di picco di 11 cm/anno. Interessante è la coincidenza fra il rallentamento del sollevamento con diversi eventi di emissione di gas.
Poiché il fenomeno non è correlabile a precipitazioni né a terremoti, gli Autori propendono per una sua origine direttamente collegata a processi di spinta interna con due possibili scenari:
  1. alterazione idrotermale dinamica che porta a variazioni di permeabilità, stoccaggio di gas superficiale e pressurizzazione, seguita dall'apertura di vie di degassamento;
  2. una intrusione magmatica profonda di non grandi dimensioni appena messasi in posto e non rilevata da cui si liberano volatili che aumentano la pressione all'interno del sistema idrotermale.
ELEVARE IL RISCHIO VULCANICO DEL TAFTAN. Il fatto che alla fase di sollevamento non sia seguita una fase di subsidenza dell’edifico suggerisce la persistenza di condizioni di alta pressione idrotermale sulla sommità (e quindi dei rischi associati).
Indipendentemente dal fatto che abbia eruttato nel XIV secolo o che l’ultima eruzione sia di 400.000 anni fa, l’attività fumarolica classificava già il Taftan come vulcano quiescente, e le recenti evidenze di unrest lo confermano. Anzi, al di là del fatto che questi unrest non abbiano prodotto eruzioni, i risultati delle indagini InSAR rivelano che il Taftan sia più attivo di quanto precedentemente ritenuto. La logica conclusione, quindi, è che si rendono necessarie alcune azioni “elementari” urgenti: 
  • la necessità di una revisione dell'attuale rischio vulcanico
  • l’istituzione di una rete di monitoraggio 
  • e altre misure volte a ridurre il rischio.
Questo al di là degli scenari iperbolicamente drammatici riportato dai soliti siti acchiapaclick: non è assolutamente detto che questa attività di unrest porti per forza ad una eruzione del Taftan, tantomeno che questa futura eruzione abbia esiti distruttivi. 
In conclusione si può affermare in base all'esempio del Taftan come l'impiego dei dati satellitari possa rappresentare un sistema speditivo per controllare i vulcani non monitorati e che eventualmente, grazie a questi dati, possano essere messe in campo azioni rapide e mirate per monitorare - anche provvisoriamente - da terra dei complessi vulcanici appena insorgono delle fasi di unrest

BIBLIOGRAFIA

Akhoondzadeh (2025). Monitoring of volcanic precursors using satellite data: the case of Taftan volcano in Iran. Journal of Appl. Geodesy 19(2), 227–245

Brown et al (2015). Populations around Holocene volcanoes and development of a population exposure index. In: Loughlin SC, Sparks RSJ, Brown SK, Jenkins SF, Vye Brown C, editors. Global volcanic hazards and risk. Cambridge University Press; 2015:223 − 32 pp.

Delavari et al. (2022). The Bazman and Taftan volcanoes of southern Iran: Implications for along‐arc geochemical variation and magma storage conditions above the Makran low‐angle subduction zone. Journal of Asian Earth Sciences, 233, 105259.

Ghalamghash et al (2019). Magma origins and geodynamic implications for the Makran-Chagai arc from geochronology and geochemistry of Bazman volcano, southeastern Iran.  Journal of Asian Earth Sciences171, 289-304

Mohammadnia et al. (2025). Spontaneous transient summit uplift at Taftan volcano (Makran subduction arc) imaged using an InSAR common‐mode filtering method. Geophysical Research Letters, 52, e2025GL114853.

Shakeri et al. (
2015). Rare Earth elements geochemistry in springs from Taftan geothermal area SE Iran. Journal of Volcanology and Geothermal Research 304, 49–61.

Shirmohammadi et al. (2024). Calculating of Taftan Volcano displacement using PSI technique and sentinel 1 images. ISPRS Annals of the Photogrammetry, Remote Sensing and Spatial Information Sciences, X‐1, 213–218


martedì 14 ottobre 2025

anno 17 EV: la vittoria di Firenze e Rieti contro una proposta del Senato romano (probabilmente aiutate anche da una serie di circostanze)


Le commissioni parlamentari d’inchiesta erano evidentemente di moda anche nel senato romano e nel 17 EV una di queste si occupò di trovare il modo di diminuire le alluvioni del Tevere a Roma. Fu proposto un sistema per diminuire la portata degli affluenti, e questo fece preoccupare diverse città fra le quali Reate e Florentia, che espressero la loro contrarietà. Il progetto fu abortito, probabilmente non solo per l'opposizione delle popolazione, ma anche per motivi più pratici.

nell'immagine si vede come la parte romana di Firenze si trovi
ad una quota decisamente superiore al resto della piana circostante
FLORENTIA NASCE PER IL GUADO DELL’ARNO. Firenze è una città di fondazione, nel senso che la sua nascita è dovuta a un preciso intento, in questo caso militare e politico: la colonia fu fondata dall’esercito romano come presidio militare per difendere l’unico guado sull’Arno fra Arezzo e il mare (a cui forse su aggiunto un ponte). Il guado è dovuto ad un restringimento dell’alveo a causa dei sedimenti portati dal Mugnone in riva destra, che costringono il fiume a rasentare i colli in riva sinistra
La zona all’epoca era disabitata, preferendo gli etruschi risiedere sulle alture, in questo caso a Fiesole. In età più antica ci sono delle tracce di un insediamento villanoviano.
La scelta di difendere il guado è interessante, perché all’epoca l’Etruria non si trovava come adesso la Toscana interna lungo la direttrice principale nord – sud: l’itinerario “normale” tra Roma e la pianura padana era la Flaminia, che attraversava l’Appennino umbro-marchigiano fino a Fano e Rimini (non per nulla Cesare trasse il dado attraversando il Rubicone, fiume romagnolo). Ma l’Etruria settentrionale era lo stesso un’area strategicamente importante, basta considerare che i monti sopra Pistoia erano appena stati teatro della battaglia con cui si concluse la congiura di Catilina mentre due secoli prima Annibale aveva valicato l’Appennino nella stessa zona. Insomma, anche se il guado non era posto lungo una direttrice fondamentale, la presenza di una guarnigione avrebbe permesso un buon controllo dell’area, e soprattutto, di eventuali movimenti sgraditi sia via terra, che via acqua.

Naturalmente tutta la piana era impaludata, come ricorda anche Boccaccio all'incirca nel 1344 nel Ninfale Fiesolano, ottava V, 

Prima che Fiesol fosse edificata
di mura o di steccati o di fortezza,
da molta poca gente era abitata:
e quella poca avea presa l’altezza
de’ circustanti monti, e abandonata
istava la pianura per l’asprezza
della molt’acqua e ampioso lagume
ch’ai pie de’ monti faceva un gran fiume
Insieme alla presenza del guado, l’area presentava altre tre condizioni piuttosto interessanti:
  1. il castrum romano è sorto a breve distanza dall’Arno su un provvidenziale rialzo rispetto alla piana paludosa formato proprio dalla conoide del Mugnone (e in effetti è stato interessato dalle alluvioni solo nel 1333, 1557 e 1966)
  2. il castrum poteva inoltre essere difeso da due corsi d’acqua che fungevano da fossato lungo le mura, il Mugnone stesso (lungo l’attuale via Tornabuoni) e lo Scherraggio (lungo l’attuale via del Proconsolo).
  3. nell’area immediatamente a monte del restringimento dell’Arno e quindi a monte del castrum, la depressione corrispondente all’area attualmente occupata dagli Uffizi e dal quartiere di Santa Croce era caratterizzata da una insenatura dove da tempo esisteva già un piccolo porto al servizio della etrusca Fiesole.
la celebre carta di Philipp Cluver (1580-1623)
in cui si vede come i bacini di Arno e Tevere non erano distinti
IL CLANIS TRA ARNO E TEVERE. Il Clanis era il fiume che scorreva nella Val di Chiana e si gettava nel Tevere attraverso il Paglia, di cui era affluente. Si trattava all’epoca etrusca di un fiume importante e reso navigabile con un sistema di chiuse, che aveva fatto la fortuna di città come Chiusi, Cortona ed Arezzo, preziosissimo come era per i loro commerci (mi ricordo di aver visto qualche toponimo “porto” nella vallata). In questo modo i bacini di Arno e Tevere non erano separati e la posizione dello spartiacque nella Val di Chiana era incerto e soprattutto variava di continuo.  La situazione più o meno è rimasta la stessa fino alle regimazioni effettuate, non sempre in armonia, da Granducato di Toscana e Stato della Chiesa. La famosa carta del geografo tedesco Filippo Cluverio (1580 – 1622) mostra come si presentava l’Italia centrale tirrenica all’inizio del XVII secolo, quando lo spartiacque fra Tevere e Arno era mobile e dettato dall’altezza dell’acqua nel lago della Valdichiana.

RIETI E IL VELINO: l’antica Reate, oggi Rieti (per questo gli abitanti si chiamano reatini) si trova in una delle varie conche esistenti nell’Appennno centrale, come Colfiorito e il Fucino, per esempio. I rapporti fra Velino e Nera sono da vedersi nel quadro di una storia geologica delle ultime centinaia di migliaia di anni molto complessa: la conca di Rieti si è formata in diverse fasi grazie all’attività non contemporanea di più faglie:
  1. fino ad un certo punto era la Nera ad entrarvi dentro ed essere un affluente del Velino. Non sono in grado di dire con sicurezza verso dove questo Paleo-Nera si dirigesse: forse verso SE lungo il percorso dell'attuale Turano (che avrebbe quindi invertito il corso) oppure lungo il percorso del Canera, ma non ne sono sicuro 
  2. poi un altro sistema di faglie ha ribassato l’area ternana, formando quindi un dislivello importante fra quest’area e la conca di Rieti. A causa di questo il deflusso delle acque provenenti dalla Valnerina si è diretto verso il percorso attuale.
La deviazione della Nera verso Narni ed Orte ha provocato l'inversione della direzione delle acque nel tratto fra le Marmore e la conca di Rieti e quindi quel tratto della Paleo-Nera è diventato la parte bassa del Velino. Però poco dopo in quella stretta vallata è iniziata la sedimentazione di travertini. La quantità di sedimenti è stata talmente tale da provocare il blocco del deflusso del Velino. E così la conca di Rieti, alimentata dalle acque di Velino, Salto, Canetra e Turano e senza un emissario stabile fu occupata da un lago con le rive paludose. Si trattava quindi di una zona malsana per la malaria e totalmente inutile o quasi per la popolazione. Per migliorare la situazione igienica e sfruttare una piana così estesa per l’agricoltura, nel 271 a.C. il console romano Manio Curio Dentato fece realizzare il Cavo Curiano, che prende appunto il nome dal suo ideatore. Il Cavo Curiano permise il deflusso delle acque stagnanti in direzione del salto delle Marmore, trasformando la palude in un granaio e generando la famosa cascata.

FLORENTIA E REATE ALLEATE CONTRO UN PROGETTO DEL SENATO ROMANO. Il panorama di Florentia non era però poi troppo sicuro dal punto di vista della pericolosità idraulica: è vero che il castrum, sorgendo in un relativo rialzo, aveva una minore pericolosità rispetto alle paludi che lo circondavano (tanto è vero che fra le decine di alluvioni che hanno coinvolto la città dal 1200 l'area romana è stata allagata solo da quelle del 1333, 1557 e 1966), ma che gli abitanti non si sentissero al sicuro è evidenziato da un episodio in cui i fiorentini si coalizzarono ad altre genti dell’Italia centrale per contrastare una operazione idraulica di vasta portata ideata a Roma, come racconta Tacito negli Annales, nel libro I: correva l’anno 17 d.C. e a Roma le alluvioni del Tevere suscitavano una preoccupazione talmente grande da far istituire una commissione del Senato avente l’obbiettivo di risolvere il problema (insomma, una “commissione De Marchi” ante litteram: la Commissione Interministeriale De Marchi ha predisposto dopo l’alluvione del 1966 dettagliati progetti per fronteggiare il rischio idraulico in Italia, a protezione degli abitati lungo le aste fluvali).
La commissione esaminò una proposta di due senatori, Arrunzio e Ateio, che consisteva nella deviazione di alcuni fiumi e laghi che alimentano il Tevere, con la convinzione che così si evitassero le piene del fiume a Roma. La proposta scatenò il panico non solo a Florentia, ma anche fra gli abitanti di Reate e di diverse città lungo la Nera, come Narni.
In particolare 
  • i fiorentini erano preoccupati perché secondo il progetto di Arrunzio e Ateio le acque del Clanis, anziché scorrere verso il Tevere attraverso il Paglia, sarebbero state riversate verso l'Arno. Annoto che anche Pietro Leopoldo quando lanciò il progetto della bonifica della Valdichiana ebbe delle difficoltà perché a Firenze si è sempre continuata ad esistere la corrente di pensiero secondo la quale le acque della Valdichiana fossero un pericolo gravissimo (ma per esempio nel 1966 non fu così). Gli abitanti della Valnerina, ad esempio quelli di Narni, condividevano la stessa situazione dei fiorentini.
  • quanto ai reatini, evidentemente c’era la prospettiva di tornare alla situazione precedente alle opere volute da Manio Curo Dentato e quindi ad un nuovo impaludamento della conca.
Inoltre non dobbiamo dimenticare i motivi religiosi: le popolazioni avevano consacrato culti, boschi e altari ai loro fiumi e secondo alcune correnti di pensiero anche lo stesso Tevere (anche esso a maggior ragione oggetto di venerazione), non poteva accettare di scorrere privato degli affluenti. E toccare i sentimenti religiosi può non essere opportuno oggi, figuriamoci allora.
Fiorentini e reatini allora inviarono delle delegazioni a Roma per protestare vivacemente contro questa operazione, che minacciava la sopravvivenza dei primi e l’economia dei secondi.

Il progetto in effetti venne bocciato, anche se Tacito ammette di non sapere (o, almeno, così dice) se nella bocciatura abbiano prevalso le preghiere delle colonie, la difficoltà dei lavori, le motivazioni religiose o altre opinioni come quella di Gneo Calpurnio Pisone, fermamente contrario all’opera. La mia impressione personale è che sia stato un mix di tutti questi ostacoli a bloccare l’opera. Ho anche il sospetto di forti timori sul fatto che questa operazione avrebbe avuto gravi implicazioni economiche e sociali a Roma, per la cessazione della produzione di derrate alimentari in quelle fertili pianure particolarmente vicine alla capitale come conca di Rieti, bassa Valnerina e Valdichiana.

il lago della Valdichiana e il Trasimeno 
nella veduta a volo di uccello della Toscana di Leonardo
 
IL SUCCESSIVO MURO GROSSO SUL PAGLIA, UN RIMEDIO CHE NON HA AVUTO SUCCESSO. Per completezza delle informazioni riguardo al Clanis - Paglia, è comunque importante ricordare che continuava a riscuotere consensi l’ipotesi del Clanis come origine delle alluvioni a Roma e quindi nel 65 ev fu realizzato vicino a Fabro un muro sul Paglia, il “muro grosso”, una operazione che ha avuto un esito che eufemisticamente si potrebbe definire “sub-ottimale”: non ha impedito minimamente le alluvioni a Roma, ma in compenso ha pesantemente allagato tutta l’area a monte di esso.
Ovviamente il muro grosso cadde in rovina nel periodo post-imperiale, determinando un ritiro delle paludi. Ma nel 1055 gli orvietani, che si erano stufati dei continui passaggi di eserciti da quelle parti, risistemarono e rialzarono lo sbarramento costruito dai romani, proprio per impaludare nuovamente la vallata allo scopo di diminuire le possibilità di movimento delle armate perugine e senesi; la cosa riuscì loro benissimo, e non solo nel settore meridionale, perché in pochi anni le paludi ricoprirono di nuovo quasi tutta la Valdichiana, come si vede nel particolare della celebre "veduta a volo di uccello" di Leonardo da Vinci

lunedì 6 ottobre 2025

Breaking News: nell’atmosfera di Venere c’è molta più acqua del previsto


È semplicemente incredibile come dati vecchi di decenni possano essere recuperati e rivisitati con nuove tecnologie consentendo nuove interpretazioni, che oltretutto alle volte, come in questo caso, oscillano fra il sorprendente e il rivoluzionario. In questo caso sono stati rivisitati i dati ottenuti durante la discesa nell’atmosfera di Venere del satellite Pioneer Venus Large Probe, nei quali c’è la traccia di una cattura non prevista di aerosol che conterrebbero una quantità di acqua molto maggiore di quella che era accettata fino ad oggi. Questi dati potranno essere integrati ritrovando quelli delle altre sonde americane e di quelle sovietiche che hanno penetrato l’atmosfera venusiana, e sarebbero molto utili per le missioni pianificate verso Venere della NASA, ISRO Venus Orbiter e DAVINCI (ammesso che la NASA le effettui … con questi chiari di luna non è certo).

la classica immagine del sito di atterraggio 
della sonda sovietica Venera 14 nel 1981
VENERE, UN MONDO CALDO E SECCO. Le osservazioni dirette della superficie di Venere (ad esempio quelle della sonda sovietica Venera nel 1975) hanno dipinto un ambiente estremamente caldo e secco e fra acidità dell’atmosfera, pressione elevatissima ma soprattutto una temperatura di oltre 460 °C, queste poche missioni, tutte dell'era sovietica, sono sopravvissute solo pochi minuti dopo lo sbarco sulla superficie del pianeta. Sono comunque riuscite a a scattare ed inviare a Terra alcune foto di una superficie rocciosa arida e - ovviamente - senza tracce di vita.
Siccome dimensioni e materiale di origine di Venere sono simili a quelli della Terra, l’aridità indica una perdita d'acqua quasi totale partendo da condizioni iniziali umide che esistevano prima di 3 miliardi di anni fa, quando l’abbondanza di acqua avrebbe mediamente coperto il pianet con un oceano profondo circa 3 km (Chaffin et al 2024). Poi, a causa dell’aumento dell’irraggiamento solare, la temperatura e il vento solare hanno avuto effetti devastanti, non solo per la minor distanza dal Sole rispetto a noi, ma anche a causa dell’enorme effetto serra di una atmosfera in cui non si sono verificati quei processi tipicamente terrestri in grado di asportarne buona parte del CO2 (a partire da fotosintesi, formazione di rocce carbonatiche, seppellimento di materia organica e alterazione dei minerali). Quando è stato raggiunto il punto di non ritorno, tutti gli oceani sono evaporati e Venere è diventato il pianeta caldo e secco che vediamo oggi. Inoltre su Venere è diminuita l’attività tettonica e di conseguenza è crollato il campo magnetico, fattore che ha ulteriormente facilitato la dispersione dell’idrogeno lontano dal pianeta.
Senza entrare nell’argomento del come l’acqua sia fuoriuscita dal pianeta, il particolare che evidenzia maggiormente la fuga dell’idrogeno è l'arricchimento atmosferico del suo isotopo pesante: partendo da un rapporto iniziale deuterio / idrogeno simile a quello terrestre, oggi nella mesosfera di Venere questo rapporto è pari a circa 120 volte quello terrestre (Mahieux et al 2024). Questo perchè gli atomi di idrogeno sono più leggeri di quelli di deuterio e quindi fuoriescono nello spazio più facilmente, causando un aumento indiretto del secondo nell’acqua rimasta.
Però secondo Chaffin et al (2024), i modelli e i processi normalmente ipotizzati per questa fuga non sono in grado di spiegare del tutto i valori osservati, secondo i quali l’acqua contenuta dall’atmosfera potrebbe ricoprire la superficie del pianeta mediamente di 3 cm: questi processi si interromperebbero con un tenore di acqua tale da provocare una copertura teorica del pianeta di almeno 10 metri. Quindi o c’è più acqua del previsto o ci sono degli ulteriori processi ancora sconosciuti.


PROVE DI ACQUA E FERRO NELL'ATMOSFERA DI VENERE. I ricercatori sapevano che durante la discesa verso il pianeta delle varie sonde russe e americane gli spettrometri ultravioletti hanno temporaneamente e più volte perso il segnale; l’ipotesi è che queste perdite siano state dovute all'ostruzione dei loro ingressi a causa della cattura non pianificata degli aerosol. Questa cattura si è riflessa in una misurazione di gas come SO2, H2O e O2, inaspettatamente abbondanti
Per questo (e immagino anche in vista delle nuove missioni verso Venere delle sonde ISRO Venus Orbiter e DAVINCI) alcuni scienziati qualche anno fa si sono messi alla ricerca dei dati di una sonda americana, Pioneer Venus Large Probe, che è scesa attraverso l'atmosfera di Venere nel 1978, elaborando un piano per rivisitarli. La loro ricerca non è stata semplice, ma alla fine il set di dati archiviato è stato scoperto presso l'ufficio della NASA Space Science Data Coordinated Archive e successivamente pubblicato online.
Ed eccoci alla grande novità: Mogul et al (2025) presentano una nuova e rivoluzionaria composizione degli aerosol nelle nubi di Venere, ottenuta analizzando quei dati. I nuovi risultati supportano la valutazione secondo la quale il satellite durante la discesa attraverso l'atmosfera sempre più calda abbia recuperato gli aerosol delle nubi. Gli aerosol, una volta entrati negli strumenti di bordo, hanno subito una decomposizione termica grazie alla quale hanno rilasciato gas e composti, che sono ovviamente stati rilevati. Questi gas e composti includevano acqua H₂O, SO₂, O₂ e probabilmente Fe₂O₂. Sulla sonda era installato uno spettrometro di massa e queste molecole sono state identificate nel set di dati come H₂O+, SO₂+, O₂+ e Fe₂O+. Il tutto indica che gli aerosol delle nubi contengono una notevole quantità di acqua e masse comparabili di solfato ferrico e acido solforico.
Per gli Autori è probabile che l'acqua degli aerosol derivi da idrati, tra cui solfati idrati di ferro e magnesio e che ferro e magnesio potrebbero avere origine cosmica.
Questo lavoro, rivelando riserve di acqua e possibili materiali cosmici negli aerosol offre nuove e rivoluzionarie considerazioni per i modelli di chimica delle nubi venusiane e per le discussioni sulla loro abitabilità.

LE PROSPETTIVE FUTURE. È chiaro come questi dati rivoluzionano le conoscenze sugli aerosol di Venere, finora ritenuti composti quasi esclusivamente da acido solforico concentrato. E siccome a questo punto è altamente probabile che la raccolta e l'analisi non pianificate degli aerosol si siano verificate in tutte le misurazioni dirette condotte finora nelle nubi di Venere, sarebbe quindi interessante ritrovare anche i dati delle sonde americane e sovietiche, a bordo delle quali c’erano dei sensori chimici che hanno tutte misurato una notevole quantità di acqua nelle nubi dopo la cattura non pianificata di aerosol.
Queste valutazioni della raccolta imprevista di aerosol atmosferici oltre a precisare meglio il quadro, sono rilevanti per le prossime missioni pianificate verso Venere:
  1. DAVINCI che intende proprio campionare l'interno delle nubi. Ci si aspetta che queste misurazioni potrebbero anche correggere le incertezze relative all'abbondanza di vapore acqueo nelle nubi medie e basse.
  2. il Venus Orbit Dust Experiment della missione ISRO Venus Orbiter invece prevede di misurare l'abbondanza e il flusso di particelle di polvere interplanetaria per identificare potenziali materiali cosmici negli aerosol (ad esempio, Fe, Mg e Si)

BIBLIOGRAFIA


Chaffin et al (2024). Venus water loss is dominated by HCO+dissociative recombination. Nature 629, 307–310

Mahieux et al (2024). Unexpected increase of the deuterium to hydrogen ratio in the Venus mesosphere. PNAS 121 No. 34 -e2401638121

Mogul et al (2025). Re‐analysis of Pioneer Venus data: Water, iron sulfate, and sulfuric acid are major components in Venus' aerosols. Journal of Geophysical Research: Planets, 130, e2024JE008582.