giovedì 26 dicembre 2024

a 20 anni dallo tsunami dell'Oceano Indiano del 26 dicembre 2004, gli sforzi per la mitigazione dei danni da tsunami


Quando l’11 marzo 2011 avvenne il terremoto M 9.1 del Tohoku, tutto il mondo era con il fiato sospeso per le conseguenze dello tsunami che stava per abbattersi sulla costa giapponese. Insomma, nel 2011 tutti sapevano cosa fosse uno tsunami. Invece il 26 dicembre 2004, quando avvenne lo tsunami provocato dal terremoto M 9.1 di Sumatra, che ha interessato una vasta parte delle coste dell’Oceano Indiano, questo concetto era molto meno noto al pubblico generico, al punto che prima di questa data sulla stampa parlando di uno tsunami doveva essere spiegato cosa volesse dire. Da quell'infausto giorno comunque il pericolo tsunami è entrato nelle conoscenze delle persone comuni e anche grazie a questo si sono moltiplicate le ricerche sulla mitigazione dei rischi conseguenti.

Questo perché nel 2004 gli ultimi tsunami importanti erano lontani nel tempo, dai terremoti di Valdivia (Cile) del 1960 e dell’Alaska del 1964. Nel Mediterraneo uno tsunami provocò oltre 50 morti nel mar Egeo a seguito del terremoto M 7.7 di Amorgos nel 1956. Dopo il 1964 solo fra gli addetti ai lavori erano noti i vari tsunami che avevano colpito essenzialmente Pacifico settentrionale, Indonesia e coste dell’America centrale, facendo nel complesso parecchie migliaia di morti ma le cui distruzioni sono rimaste confinate in aree limitate, compreso quello di Papua - Nuova Guinea del 1998, classico evento provocato da una frana sismoindotta (Tapin et al, 2001). Si tratta quindi di aree delle quali i media si occupano poco anche adesso nell’era di internet (basta vedere ad esempio la differente copertura mediatica fra uragani disastrosi nei Caraibi e negli USA). Quanto al Mediterraneo, dobbiamo ricordare lo tsunami del porto di Nizza del 1979 (che data la sua limitata estensione in epoca pre-social network rimase poco noto, ne ho parlato qui) e quello di Stromboli del 30 dicembre 2002, che avrebbe avuto una copertura mediatica molto più massiccia se fosse avvenuto d’estate con le spiagge piene. 
Lo tsunami del 2004 è stato una svolta epocale per il numero delle vittime che ha provocato in diverse nazioni rivierasche, fino all’Africa e perché è stato il primo grande disastro documentato in diretta da una vasta serie di immagini, soprattutto in Indonesia, Thailandia, Sri-Lanka e Maldive.
Insomma, si tratta di uno spartiacque sia mediatico che nelle conoscenze normali della popolazione mondiale.

LA PICCOLA TILLY IN VACANZA IN THAILANDIA CHE HA LANCIATO L’ALLARME. Gli tsunami sono onde in movimento sulla superficie dell'oceano, quindi oltre alle creste includono depressioni e alle volte è proprio la depressione a raggiungere prima la costa. Quando arriva prima la depressione della cresta, l'oceano prima si abbassa e risucchia l'acqua lontano dalle coste e solo successivamente si riversa di nuovo dentro l’area precedentemente abbandonata con la velocità e la forza che conosciamo. Le persone che notano l'acqua che si ritira e che capiscono cosa sta per succedere, hanno comunque pochi minuti (mediamente 5) per fuggire verso l'entroterra, verso terreni più elevati.
E su questo si innesta la vicenda di Tilly Smith che viveva nel Surrey ed era in vacanza a Mai Khao Beach in Thailandia. Essendo nata nel 1994 il 26 dicembre del 2004 era una bambina di 10 anni. Tilly aveva proprio studiato gli tsunami durante le lezioni di geografia pochi mesi prima, e quindi quando ha visto il mare ritirarsi ha capito quello che stava per succedere e dando l’allarme ha salvato la vita a circa 100 bagnanti che erano con lei sulla spiaggia, i quali le hanno dato retta (un fattore importante per credere ad una bambina così piccola è stato sicuramente lo sconcerto di vedere il ritiro del mare).
Una situazione del genere è successa anche per lo tsunami di Stromboli: ho letto il ricordo di questo fenomeno raccontato da un testimone diretto quale Franco Foresta Martin, giornalista e geologo che era proprio a Ustica in quei giorni e vide l’acqua prima sparire dal porto e poi ritornarvi con violenza.
Purtroppo non sempre succede questo, perché alle volte arriva direttamente la cresta dell’onda. Ad esempio mi risulta che lo tsunami del 2011 abbia colpito le coste giapponesi direttamente con la cresta dell’onda.

TSUNAMI DIRETTAMENTE DA TERREMOTO E TSUNAMI DA FRANA. Per provocare direttamente uno tsunami con lo spostamento del fondo marino, un terremoto deve avere una Magnitudo piuttosto elevata (in genere superiore a 7.5), ma non è infrequente la formazione di onde anomale con eventi di Magnitudo inferiore a causa di frane sismoindotte, quando queste precipitano in mare o in laghi. La maggior parte degli tsunami tra 1964 e 2004 hanno avuto questa origine. Poco prima, nel 1958 dobbiamo ricordare lo tsunami di Lituya Bay, in Alaska, provocato dall’omonimo terremoto M 7.8 di Lituya Bay del 1958, che ha innescato una frana di 30 milioni di metri cubi precipitata nella baia, provocando il megatsunami più grande e significativo dei tempi moderni, avendo spazzato via gli alberi fino a un'altezza massima di 524 metri. Di eventi provocati da frane nei laghi, se ne sono verificate tante specialmente negli USA. Anche la tragedia del Vajont è stata uno tsunami in un lago, sia pure non causato da un terremoto ma da una frana.
Quindi in caso di terremoto ben percepito anche di non eccezionale forza meglio evitare le rive di mari e laghi (e, incidentalmente, anche i versanti...).

altezze massime degli tsunami nel periodo 1800 -2020
da Reid e Monney 2003
IMPATTI A BREVE E MEDIO TERMINE DEGLI TSUNAMI. Di fatto gli tsunami rappresentano una minaccia sostanziale per le comunità costiere in tutto il mondo, minaccia in intensificazione, visto che le aree costiere già densamente popolate stanno sperimentando un'ulteriore crescita demografica del 68-122%, risultando in circa 1052-1388 milioni di persone entro il 2060 (Neumann et al. 2015).
Oltre alla distruzione istantanea, gli tsunami possono causare impatti a medio termine per i danni a centrali elettriche (Fukushima docet), infrastrutture portuali e zone industriali limitrofe, il che comporta un lungo periodo di crisi economica (in alcuni casi con conseguenze mondiali se i porti distrutti sono canali fondamentali di approvvigionamento di materiali o manufatti critici). In caso di terremoti di subduzione c’è poi il problema nell’area antistante al terremoto del conseguente abbassamento del terreno: questo provoca un impatto a lungo termine a causa della intrusione di acqua salata. Molti terremoti importanti del passato del genere sono stati datati con una certa precisione proprio grazie a livelli di alberi morti a causa dell’intrusione improvvisa del cuneo salino, con la dendrocronologia e la datazione con il radiocarbonio dei residui. Questo in caso di foreste, ma in aree costiere con un intensa attività agricola si tratta di un pericolo enorme che corre la produzione alimentare. Nel tempo il terreno tende a sollevarsi di nuovo, ma questo purtroppo non avviene a scala umana.

DIFENDERSI DAGLI TSUNAMI
. Spesso sono proprio le catastrofi a innescare una serie di studi scientifici e tecnologici volti a mitigare le conseguenze di catastrofi simili successive e questo è successo anche dopo il 2004.
Per contrastare gli effetti degli tsunami, vengono applicate diverse misure di mitigazione che si dividono in:
  • rigide: mirano a ridurre il livello e la distanza di inondazione
  • flessibili, che si concentrano principalmente su una maggiore resilienza e una minore vulnerabilità o sulla mitigazione dell'impatto delle onde basata sulla natura.
La scelta dipende essenzialmente dalle aspettative regionali, dalle esperienze storiche e dalle capacità economiche.

Per quanto riguarda le MISURE FLESSIBILI, rispetto a 20 anni fa la tecnologia a disposizione delle varie Agenzie pubbliche di competenza (che spesso si avvalgono di boe ondametriche a distanza dalla costa), specialmente se collegate al Web (con i loro siti, e con i media e i social network, possono contribuire in modo molto importante:
  • formazione permanente con l’educazione delle popolazioni sul rischio tsunami e sui comportamenti in caso di tsunami, documentando inoltre i piani di evacuazione
  • allertamento delle popolazioni rivierasche in tempo utile per trovare un riparo
Questo soprattutto in aree come le zone di convergenza di placche intorno all’Oceano Pacifico e all’Oceano Indiano (e anche nell’Atlantico a largo della penisola iberica). Quindi proprio grazie all’esperienza del 2004, dove lo tsunami ha colpito 9 ore dopo l’evento le coste indiane e dello Sry Lanka con la popolazione impreparata, per tacere delle oltre 300 vittime sulla costa somala, oggi in caso di un evento simile le vittime potrebbero essere molte meno rispetto a 20 anni fa.
È un po' più difficile lanciare in tempo utile un allerta nel Mediterraneo, data la distanza fra epicentri e le coste più vicine. Ma su queste vigila il centro di allerta tsunami dell’INGV, che ha competenza per tutto il Mediterraneo.

Fra le MISURE RIGIDE ci sono diversi interventi strutturali come dighe o frangiflutti al largo. Un’altra misura rigida potrebbe essere il rimboschimento: dopo il 2004 alcuni studi hanno evidenziato la possibile utilità delle foreste di mangrovie per la mitigazione del danno, citando alcuni esempi reali, ma purtroppo dopo un entusiasmo iniziale la letteratura scientifica è ancora divisa e non c’è una certezza che, oltre ad essere interessante dal punto di vista naturalistico e paesaggistico, la ricostruzione lungo le coste delle foreste di mangrovie, possa pure servire in caso di tsunami.
Per chi volesse approfondire l’efficacia delle misure rigide Oejtien et al (2022) fanno il punto sulla situazione delle contromisure rigide, grazie ai recenti eventi di tsunami su larga scala che ne facilitano la valutazione. Viene fornita una panoramica e un confronto di tali danni e dipendenze e vengono presentati nuovi approcci per mitigare gli impatti degli tsunami.

Insomma la diminuzione delle vittime di uno tsunami è un obbiettivo facilmente raggiungibile con i sistemi di allerta funzionanti se l’allerta arriva in tempo utile (a Banda Aceh nel 2004 tra terremoto e impatto dello tsunami sono passati appena 15 minuti), per i danni materiali la situazione è ben più complessa.

BIBLIOGRAFIA CITATA


Oejtiens et al 2022. A comprehensive review on structural tsunami countermeasures. Natural Hazards (2022) 113:1419–1449

Reid e Mooney (2023). Tsunami Occurrence 1900–2020: A Global Review, with Examples from Indonesia. Pure Appl. Geophys. 180, 1549–1571 

Tapin et al (2001). The Sissano, Papua New Guinea tsunami of July 1998 — offshore evidence on the source mechanism. Marine Geology 175 1–4, 1-23


sabato 21 dicembre 2024

individuazione con i dati satellitari InSAR di un'area in improvvisa subsidenza per una estrazione di acqua dal sottosuolo - considerazioni sulla utilità di un monitoraggio satellitare della subsidenza in generale





i Persistent Scatterers nel territorio regionale toscano
L’uso dei satelliti per monitorare la superficie terrestre e quanto vi avviene è ormai diventato una pratica consolidata. I recenti progressi dei sensori radar ad apertura sintetica (InSAR) hanno consentito alla comunità scientifica di identificare e monitorare diversi rischi geologici. L’uso dei dati radar si è rivelato particolarmente utile per monitorare la subsidenza, cosa molto difficile e laboriosa fino ad oggi perché occorrevano osservazioni geodetiche manuali, da fare quindi singolarmente: era impossibile quindi avere un buon numero di misure, sia nello spazio che nel tempo. Già con i sensori GPS la situazione è migliorata, potendo ottenere misurazioni continue, ma ovviamente i dati GPS necessitano della presenza di un sensore e quindi non si può andare a ritroso nel tempo prima della loro istallazione; invece con i dati radar satellitari si può tornare indietro di 30 anni, pur considerando che tempo di rivisitazione e densità del dato nelle elaborazioni di immagini di satelliti come ERS e ENVISAT non sono certo paragonabili a quelli offerti dalle costellazioni satellitari attive oggi, come Sentinel-1 dell’ESA.

La Regione Toscana è stata la prima regione al mondo a utilizzare con continuità i dati satellitari InSAR per il monitoraggio operativo del territorio. Questo a partire dal 2018 con i dati che partono dalla fine del 2014 e con un loro aggiornamento ogni 12 giorni, il tempo di rivisitazione di un satellite della costellazione Sentinel-1 (ne ho parlato qui). Un algoritmo di data mining sulle serie temporali di ciascun punto identifica anomale variazioni di tendenza, ovvero accelerazioni o decelerazioni brusche (Raspini et al, 2018). Alla scoperta di una anomalia vengono informate le autorità locali responsabili della gestione del rischio idrogeomorfologico. Dal 2016 sono state individuate diverse situazioni critiche di deformazione del suolo, che comprendono sia frane (Raspini et al, 2019) che cedimenti (Ezquerro et al, 2020).

il bacino di Firenze - Prato - Pistoia. La stella indica la zona in esame 

l'anomalia estremamente circoscritta nello stesso verso
sia in ascendente che in discendente dimostra la subsidenza
LA BRUSCA ACCELERAZIONE DELLA SUBSIDENZA A MONTEMURLO. Il comune di Montemurlo si trova sul lato occidentale del bacino di Firenze-Prato-Pistoia, una depressione del tutto simile alle altre del versante occidentale dell’Appennino settentrionale come Mugello, Casentino, Valdichiana, Valdarno superiore etc etc, ma che misterioamente non ha un nome geografico preciso e quindi per evitare proteste campanilistiche è chiamato con il nome dei 3 centri proncipali. La parte occidentale del bacino è stata storicamente interessato da una importante subsidenza dovuta al sovrasfruttamento delle risorse idriche per la domanda di serre, vivai e industria tessile. Il sottosuolo è formato spesso da materiale di riempimento in superficie, ma essenzialmente da strati di materiale limoso e argilloso alternati a sabbie e ghiaie.
Nel luglio 2017 fu notata una brusca accelerazione della subsidenza in un’area ristretta all’interno della zona industriale di Montemurlo, con valori significativamente superiori a -100 mm/anno, quando invece da ottobre 2014 e fino a quel momento erano rimasti intorno alla soglia di stabilità oscillando di ± 2 mm/anno. La corrispondenza delle velocità dei persistent scatterers sia in geometria ascendente che discendente hanno confermato la predominanza di un moto verticale in un’area quasi circolare, suggerendo la presenza di una subsidenza indotta da attività antropica. Nei mesi successivi l'area coinvolta nel fenomeno è aumentata.
Scomponendo la velocità lungo la Linea di Vista del satellite nelle componenti est-ovest e verticale si evidenzia un cono rivolto verso il basso, tipica situazione associabile in genere con il sovrasfruttamento di una falda acquifera (Medici et al, 2024).

le serie temporali identificano l'insorgenza improvvisa del problema e una ricostruzione in 3D della storia deformativa

sezione con litologia e livelli piezometrici
INDAGINI SUL TERRENO E MODELLISTICA
. Una volta interpretata come reale la deformazione del suolo rilevata, come da procedura sono state avvisate le autorità preposte alla gestione del rischio idrogeologico per avviare le indagini di campo, con le quali i dati sono stati convalidati ed è stata avviata una campagna per il rilevamento di eventuali danni alle strutture vicine. L'obiettivo principale era quello di eseguire ulteriori indagini approfondite, identificare possibili cause e fornire una potenziale soluzione per ripristinare il precedente scenario idrologico non critico.
L'area identificata era molto vicina ai pozzi di pompaggio di una lavanderia industriale. Per confermare l'ipotesi di una relazione fra subsidenza e sfruttamento delle falde acquifere da parte di questa attività, sono stati raccolti sei volte da ottobre 2019 a ottobre 2021 i dati di pompaggio e livello dell'acqua di due pozzi, compresi quantitativo prelevato e piezometria.
Tramite gli indicatori di assestamento verticale sono stati rilevati spostamenti significativi nel tempo in due porzioni dei 3 fori di sondaggio esistenti a profondità di circa 38 e 86 m.
Per l’analisi è stato usato il software open source GBIS Geodetic Bayesian Inversion Software. La sezione A–A' dell'area di interesse intercetta i vari fori di sondaggio disponibili con geologia nota e mostra tutti i dati raccolti dell'analisi di subsidenza e la profondità della sorgente valutata dalla modellistica. Il grafico presenta i livelli piezometrici in diversi momenti, vale a dire 2010 (prima dell'evento, in azzurro), 2019 e 2020 (dopo l'evento, rispettivamente in blu e in blu scuro), e le componenti verticale e orizzontale della velocità ottenuti da MTInSAR. Lo spostamento verticale massimo risulta allineato con il livello piezometrico, in particolare dove si trova il pozzo della lavanderia industriale e la velocità di deformazione modella un cono di pompaggio: la loro combinazione consente di identificare facilmente una correlazione diretta tra deformazione e deflessione piezometrica dal 2017, confermando l'ipotesi dell'estrazione ad alta portata di acqua di falda come causa del problema.

i cluster in movimento in ascendente a sinistra e discendente a destra, 
ricavati con i dati di Sentinel-1 tra 2014 e 2018 (Festa et al, 2022)
InSAR E STUDIO DELLA SUBSIDENZA IN GENERALE. Solo un servizio continuo di sorveglianza satellitare poteva individuare immediatamente il problema, quindi il titolare dell'attività che preleva acqua è stato sfortunato, perché solo in Toscana e in pochi altri luoghi al mondo sarebbe stato possibile evidenziare in tempo reale il problema.  
Ma proprio per questo l'esempio dimostra come i dati InSAR possano essere utilizzati per la rilevazione precoce dei fenomeni di cedimenti improvvisi del terreno, allo scopo di suggerire l'adozione di efficaci soluzioni per la mitigazione del problema immediatamente dopo la sua insorgenza.
In particolare l'approccio adottato nel caso di studio di Montemurlo dovrebbe essere replicato in ogni area soggetta a subsidenza. Considerando la classificazione automatica condotta dai dati InSAR, il territorio italiano ha più di 300 aree classificate come subsidenza e più come potenziale subsidenza (Festa et al, 2022) a causa di diverse cause, ma soprattutto:
  • sfruttamento eccessivo delle risorse idriche
  • consolidamento naturale dei sedimenti
  • sovraccarico per rapida urbanizzazione in suoli o sottosuoli soffici
  • attività mineraria e estrazione di idrocarburi
  • formazione di doline risultanti dalla dissoluzione carsica
  • sfruttamento geotermico
Quasi tutte queste cause possono essere esacerbate dai cambiamenti climatici in corso negli ultimi decenni, in quanto i periodi di siccità stanno diventando più prolungati e le precipitazioni sempre più concentrate, sia temporalmente che spazialmente, incidono sulle dinamiche delle falde acquifere e quindi sui livelli piezometrici.
Nelle aree costiere la situazione è ancora più delicata, perché tra pompaggi eccessivi, subsidenza per compattazione e innalzamento del livello marino, si aggiunge il rischio della risalita del cuneo salino, che impatta sulla salute della vegetazione e degli animali e sui rifornimenti idrici a uso irrigo, industriale e idropotabile.
In Europa il riconoscimento delle aree soggette a subsidenza può essere effettuato utilizzando i dati dell'European Ground Motion Service (EGMS) del Copernicus Land Monitoring Service (CLMS). Però, dato il ritardo con cui arrivano i dati di EGMS, una volta individuate le aree interessate, per un monitoraggio più immediato dovranno essere implementati servizi come quello della Regione Toscana, che successivamente al 2018 sono stati adottati anche in altre aree, in Italia e all'estero.



BIBLIOGRAFIA

Ezquerro et al. (2020) Vulnerability assessment of buildings due to land subsidence using InSAR data in the ancient historical city of Pistoia (Italy). Sensors 20, 2749

Festa et al. (2022) Nation-wide mapping and classification of ground deformation phenomena through the spatia lclustering of P-SBAS InSAR measurements: Italy case study. ISPRS J. Photogramm. Remote Sens. 189, 1–22 (2022).

Medici et al (2024) InSAR data for detection and modelling of overexploitation‐induced subsidence in the industrial area of Prato.pdf Scientific Reports 14:17950

Raspini et al. (2018) Continuous, semi-automatic monitoring of ground deformation using Sentinel-1 satellites. Sci. Rep. https://doi.org/10.1038/s41598-018-25369-w

Raspini et al. (2019) Persistent scatterers continuous streaming for landslide monitoring and mapping: The case of theTuscany region (Italy). Landslides 16, 2033–2044.

mercoledì 18 dicembre 2024

Il terremoto M 7.3 delle isole Vanuatu del 17 dicembre 2024 e la complessa interazione fra la placca australiana e quella pacifica


Alle ore 1.47 UTC del 17 dicembre 2024 e quindi alle 12.47 locali, le isole Vanuatu sono state scosse da un terremoto M 7.3 che ha provocato parecchi danni ed è documentato da parecchi filmati. Il sisma è avvenuto in un’area in cui la placca australiana subduce verso est sotto a quella pacifica, proprio al di sotto dell'arcipelago delle Vanuatu (l'antico nome indigeno che ha sostituito la denominazione coloniale Nuove Ebridi). La fossa delle Vanuatu, a ovest dell'arcipelago, è l'espressione superficiale del fenomeno. Le repliche, come si vede qui sotto a destra, si stanno ancora susseguendo per un fronte di oltre 70 km, normale per una terremoto così importante.
L'area in cui si incontrano le placche australiana e pacifica è tra le più attive al mondo dal punto di vista sismico: non solo negli ultimi 100 anni si sono verificati 24 terremoti di magnitudo 7 o superiore entro 250 km da questo evento (il maggiore è stato l'evento di magnitudo 7,9 a circa 86 km a sud-ovest nel dicembre 1950), ma come si vede nella carta qui sotto a sinistra, tratta dall'Iris Earthquake Browser, in tutta l’area che congiunge la Nuova Guinea alla Nuova Zelanda (escluse) negli ultimi 25 anni ci sono stati 269 terremoti con M uguale o superiore a 6.5: più di 10 all’anno (quindi il 2024, che ha registrato solo 5 terremoti con M superiore a 6.5 è stato un anno “decisamente tranquillo” da quelle parti, pensate un pò... ).

a sinistra i terremoti con M 6.5 e oltre dal 1999
a destra l'evento principale in celeste e le prime repliche in arancione

UN TERREMOTO ALL'INTERNO DELLA PLACCA IN SUBDUZONE E NON AL LIMITE FRA LE PLACCHE. In questo breve post userò spesso il concetto di “slab”: per i non geologi in un contesto di scontro fra placche, quando una placca scende sotto l’altra, lo slab è quella parte della placca in discesa che si trova già sotto l’altra placca. Uno slab è ben riconoscibile perché gli slab sono le uniche aree dove troviamo terremoti profondi.
È interessante notare come la sua profondità collochi questo sisma al di sotto del limite delle placche australiana e pacifica nella regione del Mar dei Coralli, quindi all’interno dello “slab” della placca australiana in subduzione. I terremoti che si verificano come questo all'interno di una placca subdotta, anziché al limite fra le placche, sono definiti terremoti intraslab. Altri terremoti intraslab recenti con Magnitudo importanti sono ad esempio il terremoto M 8.0 del 26 maggio 2019 nel Perù settentrionale (ipocentro a 114 km) e quello M 7.1 del 19 settembre 2017 nel Messico (ipocentro a 57 km, come quello delle Vanuatu). Quindi più che a delle dinamiche “esterne” (la collisione fra le due placche), questo terremoto è causato da sforzi interni allo slab in subduzione. Il tensore dimostra come il movimento sia avvenuto lungo una faglia normale obliqua, spia del fatto che almeno in quella zona lo slab è sottoposto a tensioni: probabilmente la sua parte più bassa sta cercando di "tirare giù" la parte più in alto (il concetto di "slab pull").

LA COMPLESSA GEODINAMICA DEGLI ARCIPELAGHI DI VANUATU E TONGA. La geodinamica di quest’area è decisamente complessa e interessante. Tralasciando la Nuova Guinea, dove la complessità raggiunge un livello parossistico al punto tale che ho sempre e accuratamente evitato di parlarne, tra l'arcipelago delle Vanuatu (precedentemente note come Nuove Ebridi) e quello delle Tonga l’interazione fra la placca australiana e quella pacifica ha portato alla formazione di alcune microzolle che - sempre per semplicità - evito di citare: nel complesso sono note nel complesso come SW Pacific Assemblage e tanto per dire in Van de Lageemat et al 2018 ne sono elencate una ventina...


L'interazione provoca una collisione che avviene alla non indifferente velocità di 8 cm e mezzo all’anno, e come vediamo nella figura qui sopra, per di più presenta polarità opposte:
  • nell'area dell'arcipelago delle Vanuatu la placca australiana subduce sotto a quella pacifica
  • nell'area dell'arcipelago delle Tonga, al contrario, è la placca pacifica a subdurre sotto quella australiana
Inoltre a est delle Vanuatu si notano diversi archi “fossili” ormai non più attivi (indicati dalle frecce gialle).
Come nella carta dell'Iris Earthquake Browser, anche le sezioni ottenute tramite Submap (un simpatico tool prodotto dall'università di Montpellier) evidenziano come ci siano terremoti a profondità molto maggiore alle Tonga rispetto alle Vanuatu (dove non ne troviamo sotto i 300 km); altra differenza importante la vediamo nella tomografia che illustra la differenza fra le velocità fra onde P e onde S: la litosfera è più fredda sotto le Tonga che sotto le Vanuatu; addirittura se alle Tonga la placca pacifica fredda in subduzione è chiaramente visibile (colore blu), sotto le Vanuatu manca o quasi l’impronta termica dello slab. Questo avviene perché lo slab delle Tonga (e anche il mantello immediatamente a est della zona di subduzione) sono formate da crosta e litosfera oceanica molto più vecchia rispetto alle Vanuatu. Inoltre la profondità minore a cui arrivano i terremoti dimostra che la subduzione nelle Vanuatu è iniziata da poco tempo (meno di 10 milioni di anni), quando ha sostituito quella di uno degli archi precedenti. 

carta da Van de Lagemaat et al 2018 che evidenzia
il "SW Pacific Assemblage" tra la sutura di Vitiaz,
la Nuova Caledonia e le Tonga settentrionali

PERCHÈ QUESTA SITUAZIONE? Fino a una quindicina di milioni di anni fa, come si vede dalla carta di van de Lagemaat et al (2018) la subduzione della placca pacifica sotto quella australiana era continua e oltre al segmento NS delle isole Tonga, precedeva un segmento all'incirca orientato Est-Ovest  tra le Salomone, la cosiddetta sutura di Vitiaz. Poi però è successo che, al consumarsi della placca pacifica, un enorme plateau oceanico, quello di Ontong Java, che si era messo in posto sulla crosta del pacifico circa 120 milioni di anni fa, è arrivato nella zona di scontro fra le placche. Questa crosta è più leggera e quindi si è interrotta questa subduzione,. Permanendo lo scontro fra le placche, allora a sud della sutura di Vitiaz la polarità tettonica si è invertita, e così in quelle zone è adesso la placca australiana a scendere sotto quella pacifica (Dong et al 2022).

BIBLIOGRAFIA

Dong et al (2022) Joint Geodynamic-Geophysical Inversion Suggests Passive Subduction and Accretion of the Ontong Java Plateau Geophysical Research Letters, 49, e2022GL100744.

Van de Lagemaat et al (2018). Southwest Pacific absolute plate kinematic reconstruction reveals major Cenozoic Tonga-Kermadec slab dragging. Tectonics, 37, 2647–2674.

lunedì 16 dicembre 2024

la incredibile biodiversità dei coccodrilloformi del passato - dalla strenna di Natale 2024 di Caffè-Scienza firenze e Prato


Dopo il successo del libro dell'anno scorso sulla astronomia al cui interno avevo parlato delle traiettorie termiche diverse di Venere, Terra e Marte, la strenna di Caffescienza di quest'anno sarà Bestie, Batteri e altre Banalità Biologiche, sempre edito da apice Libri. Anche quest'anno ho scritto un capitolo e volendo parlare di evoluzione convergente ho deciso di parlare della storia dei coccodrilli (anzi, dei paracoccodrillomorfi, gli arcosauri più vicini ai coccodrilli che a tutti gli altri arcosauri) perché se adesso questa genia presenta solo 25 specie, tutte dalle caratteristiche simili, nel passato la diversità dei coccodrillomorfi è stata pazzesca, realizzando appunto convergenze evolutive impressionanti: quadrupedi simili ai pelicosauri, bipedi simili a dinosauri, abili nuotatori marini concorrenti degli ittiosauri, coccodrilli terrestri e fluviali. Qui riassumo un po' il capitolo che ho scritto. Per la presentazione del libro, con tutti gli articoli e per prenotarne la versione cartacea, questo è il sito: https://www.caffescienza.it/bbbb

I coccodrillomorfi odierni comprendono coccodrilli, alligatori, caimani e gaviali, raggruppati nella famiglia dei coccodrillidi. Svolgono il ruolo di predatori apicali delle acque dolci tropicali; in mare si avventurano solo il grande coccodrillo australiano (Crocodylus porosus), la cui presenza è documentata la presenza fino allo Sri-Lanka e l’americano C. acutus, diffuso in buona parte delle isole caraibiche e in Florida. I coccodrilliformi attuali appaiono quindi delle semplici variazioni sul tema di un piano corporeo praticamente immutato da quando è comparso, all’inizio del Giurassico circa 200 milioni di anni fa: predatori anfibi da agguato, con un corpo corazzato a forma di botte, postura distesa o semi-distesa e una coda potente, caratterizzati da periodi di attività relativamente brevi che interrompono lunghe fasi di riposo (uno stile di vita che fra l’altro richiede pochissima energia). 

Qualche tempo fa ho parlato della nascita del genere Crocodylus, comprendente tutti i coccodrilliformi attuali a parte gaviali, alligatori e caimani, avvenuta nel Miocene tra 13.6 e 8.3 Ma), e come questo genere sia diventato rapidamente il clade dominante a livello mondiale. Basta vedere cosa è successo nelle Americhe, dove i nuovi venuti hanno rapidamente colonizzato il continente, abbattendo la biodiversità precedente, partendo da una piccola popolazione di C. niloticus dell’Africa occidentale (Hekkala et al 2011).
Per parlare dell’evoluzione convergente i coccodrilli in senso lato rappresentano un caso stupefacente di gruppo estremamente plasmabile in cui a più riprese si registrano convergenze evolutive spettacolari con animali completamente diversi e quindi sono un gruppo ideale per parlare di questo straordinario processo: la grande somiglianza fra tutte le specie attualmente esistenti contrasta con la incredibile diversità degli ambienti in cui vivono altri gruppi di rettili apparsi a partire dal Triassico come dinosauri-uccelli, lucertole e sauri in generale (varani compresi), tartarughe ed altri; il contrasto però è apparente: semplicemente il gruppo sta affrontando dal Terziario medio un serio declino evolutivo, dimostrato dalla ricca documentazione fossile dei loro parenti estinti: rispetto alle 25 specie attualmente viventi, i fossili ne documentano centinaia (almeno 600), che hanno occupato un'ampia gamma di habitat fluviali, terrestri e marini, con una vasta distribuzione geografica e con adattamenti e modi di vita estremamente diversificati. La diversificazione dei Coccodrilliformi non è stata lineare, ma si è svolta con eventi limitati a sottogruppi specifici in particolari ambienti e intervalli di tempo, contrassegnata da diversi passaggi fra ambienti terrestri, fluviali e marini e persino cambi di alimentazione (ce n’è persino uno erbivoro!). 
Riassumo quindi le cose qui (per i particolari dovete comprare il libro, così leggete anche gli altri, interessantissimi, articoli eheheheheh!!

I PARACROCODYLOMORPHA NELLA FIORITURA TRIASSICA DEGLI ARCOSAURI. Iniziamo dal Triassico, quando i Paracrocodylomorpha sono fra i protagonisti principali della  “rivoluzione triassica”: a partire da 250 milioni di anni fa e quindi dopo la “madre di tutte le estinzioni” al passaggio Permiano – Triassico, che ha provocato un massiccio turn-over faunistico, si sono affermati sulle terre emerse due gruppi di tetrapodi, i terapsidi (da cui discenderanno i mammiferi) e gli arcosauri (fra i quali coccodrillomorfi e dinosauri / uccelli), entrambi divisibili in un vasto numero di cladi, rappresentati da specie molto diverse per dimensioni, abitudini e ambiente di vita, che conquistarono praticamente tutte le nicchie ecologiche continentali possibili (Benton e Wu, 2022), anche facilitati dalla paleogegrafia: all’inizio del Triassico, quando la spopolata Pangea riuniva quasi tutte le terre emerse, a parte alcune masse continentali minori che poi, durante il Mesozoico, si sono aggregate all'Asia sudoccidentale e Orientale e che formano oggi parte della Turchia dell’area a sud del Caucaso, di Iran, Afghanistan, Indonesia e di buona parte della Cina.
I coccodrilliformi triassici (Paracrocodylomorpha) sono divisi in Poposauroidi e Loricati, gruppo questo al quale appartengono Coccodrillomorfi e Rauisuchidi. Poposauridi e Loricati sono già testimoniati all’inizio del Triassico, con una discreta varietà di forme. Fra questi alcuni come l’Arizonasauro avevano addirittura una vela dorsale simile a quella degli estinti pelicosauri del Permiano (che erano sinapsidi e quindi erano più vicini ai mammiferi che ai rettili), probabilmente con la funzione di scambiatore termico. I primi coccodrillomorfi compaiono nei reperti fossili durante il Carnico (inizio del Triassico superiore), circa 230 milioni di anni fa, in una fase caratterizzata da un discreto turnover faunistico, l’Evento Pluviale Carnico, derivando probabilmente da antenati rauisuchi. È il momento in cui si originano altri gruppi destinati ad un glorioso futuro, come i dinosauri. 
Fra questi il Poposaurus gracilis, che era stato preso per uno dei primi teropodi fino a quando, nel 1977, grazie a dei reperti che comprendevano parte del cranio, i paleontologi si resero conto di essere in realtà davanti a un parente stretto dei coccodrilli.

un generico fitosauro triassico evidenzia la convergenza
evolutiva dei coccodrilli fluviali con i loro predecessori triassici
MESOZOICO: COCCODRILLIFORMI NEI FIUMI, SULLA TERRAFERMA E NEI MARI. Dopo la successiva nuova grande estinzione di massa al limite fra Triassico e Giurassico sopravvissero solo alcuni loricati da cui discendono tutti i coccodrilli successivi. Questi comunque nel Giurassico hanno iniziato una radiazione evolutiva abbastanza consistente, diversificandosi e raggiungendo il picco massimo della loro diversità morfologica, con una varietà di forme e di ambienti di vita (Toljagic e Butler, 2013).
Nel Triassico la nicchia ecologica attualmente presenziata dai coccodrilli era stata appannaggio dei fitosauri, predatori semiacquatici quadrupedi di medie e grandi dimensioni, dotati di zampe corte, corpi larghi e pesanti con file di scaglie corazzate, lunghe code e lunghi musi dentati (toh, l’identikit dei coccodrilli attuali!). Ma i fitosauri si sono estinti al passaggio Triassico – Giurassico e così alcuni coccodrilliformi non solo ne hanno occupato la nicchia ecologica, ma sono andati ad imitarne quasi completamente la forma. Quindi all’inizio del Giurassico alcuni coccodrilliformi iniziano a fare davvero i “coccodrilli” come li conosciamo noi. 

un generico metriorinco, un coccodrilliforme
ben adattato alla vita in mare aperto
Fra questi, alcuni si sono anche spinti in mare: accanto a plesiosauri e ittiosauri nei mari giurassici nuotavano anche i Teleosauroidea. Questi erano ancora dei coccodrilli corazzati  che non si spingevano troppo in mare aperto. I Metriorhynchidea invece svilupparono un piano corporeo radicalmente diverso dai loro simili e adattato alla vita pelagica: scomparve l’armatura ossea in favore di una pelle liscia e senza squame; gli arti assunsero una forma a pagaia, e la coda divenne una vera pinna caudale simile a quella degli squali, con una appendice carnosa. Insomma, praticamente degli ittiosauri o quasi.
Sulle terre emerse i coccodrilliformi terrestri, classificati come Notosuchia, continuavano a prosperare sia in Eurasia che nei continenti meridionali. A dimostrare la loro enorme plasticità, c’erano pure forme insettivore, onnivore e addirittura erbivore, con gli adattamenti più vari (ad e- sempio indovinate a che animale attuale possa assomigliare il brasiliano Armadillosuchus ...). 

I COCCODRILLI ALL'INIZIO DEL TERZIARIO. Alla fine del Cretaceo l’evento K/T (il limite Cretaceo – Terziario) ha toccato relativamente poco le faune dei grandi fiumi tropicali, e quindi non sorprende come i coccodrilli fluviali se la siano sfangata meglio dei loro cugini terrestri, i quali furono decimati: fra di loro sopravvissero i soli Sebecosuchia i quali, in un regime di scarsa concorrenza (non c’erano più i teropodi e non erano ancora comparsi i gruppi moderni di mammiferi placentati carnivori), nel Paleocene hanno svolto egregiamente il ruolo di predatori terrestri di vertice (ne parlai qui). Nonostante che proprio un sebecosuchide, Dentaneosuchus crassiproratus, lungo oltre 4 metri, sia il più grande carnivoro europeo conosciuto dell’intero Terziario, questo clade si trova soprattutto in Sudamerica: nell’Eurasia i coccodrilliformi terrestri più diffusi erano le Planocraniidae, che rappresentano l’ennesimo esempio della plasticità dei coccodrilliformi, perché discendono da antenati fluviali simili ai coccodrilli attuali, tornati ad una vita terrestre allungando nuovamente gli arti per poter correre stando alti sul suolo per lungo tempo. Ecco, quindi, l’ennesimo esempio di cambio di ambiente a cui è seguita una convergenza evolutiva, andando ad assomigliare vagamente ai loro cugini Sebecosuchia

un tipico coccodrilliforme terrestre del terziario
IL DECLINO DEL TERZIARIO SUPERIORE. Nei fiumi, nelle paludi e nei laghi europei nel Terziario inferiore oltre a quelli terrestri, sono vissuti diversi coccodrilli fluviali, particolarmente tra Paleocene ed Eocene, quando il clima era estremamente caldo. Ma il Terziario superiore è un brutto periodo per i coccodrillomorfi: scompaiono quelli terrestri, mentre quelli fluviali diminuiscono e non di poco il loro areale, probabilmente a causa della diminuzione delle temperature. Estinti quelli terrestri a metà del Micene, anche i coccodrilli fluviali sono scomparsi in Europa dalla fine del Pliocene: le loro ultime tracce attualmente scoperte sono rappresentate da un dente nella Spagna meridionale, appartenuto ad un animale vissuto circa 4,5 milioni di anni fa, sempre affine al C. niloticus
Nelle Americhe i coccodrilli acquatici continuarono a vivere in un vasto areale (anche se pure qui hanno perduto i territori meridionali per il raffreddamento), mentre l’estinzione dei Sebecosuchia terrestri è avvenuta nel Miocene inferiore. In questo caso i dati evidenziano come non solo i Sebecosuchia, anche le altre linee di carnivori locali fossero già in crisi (Tarquini et al, 2022). Le cause sono ancora incerte, ed è probabile che insieme al raffreddamento climatico abbiano avuto un ruolo i cambiamenti ambientali dovuti a grandi cambiamenti tettonici (Cidade et al, 2019).  Inoltre, le vicende biologiche dell’America Meridionale sono state pesantemente influenzate a partire dal Miocene superiore dal ristabilimento di un collegamento fra le due Americhe, iniziato circa 7,3 milioni di anni fa. Saltuario all’inizio, il collegamento è diventato definitivo con la stabilizzazione dell’emersione dell’istmo di Panama, tra 3 e 4 milioni di anni fa. L’evento, noto come Grande Interscambio Biotico Americano, è stato in genere un disastro per le faune autoctone del Sudamerica, invaso dai placentati, sia carnivori (felidi e canidi) che erbivori (elefanti, antenati di lama ed altri).  Alla fine dell’interscambio risultano estinti molti gruppi di mammiferi erbivori autoctoni come litopterni e notoungulati e praticamente tutti i carnivori locali, a parte pochissimi alcuni ungulati autoctoni che sono riusciti a sopravvivere fino a poche migliaia di anni fa, estinguendosi nel Pleistocene terminale (ne ho parlato qui) e sono stati visti persino dai primi Homo sapiens arrivati nel continente. Solo gli opossum, qualche scimmia del Nuovo Mondo e qualche esponente delle Phorusrhacidae, come il famoso Titanis walleri, un uccello predatore alto anche 3 metri, rappresentano forme sudamericane che hanno colonizzato gli ambienti settentrionali. È però probabile che i sebecosuchidi si siano estinti prima dell’inizio di questo importante processo biotico,

albero dei coccodrilliformi (sintesi da vari articoli)
NB: l'immagine non è in scala con il tempo geologico 

IL CASO-AUSTRALIA: UNA GRANDE DIVERSITÀ DEI COCCODRILLI NEL TERZIARIO SUPERIORE. La biodiversità dei coccodrilliformi in Australia è rimasta molto alta anche nel Terziario superiore, dominata prima dalle Mekosuchinae, (gruppo tipico ed esclusivo dell’area) e dei gavialoidi. Poi anche lì sono arrivati gli esponenti del genere Crocodylus e buonanotte ai concorrenti.
La maggior parte delle Mekosuchinae erano “classici” predatori anfibi da agguato, ma gli esponenti del genere Quinkana in molte ricostruzioni sono stati indicati come animali predatori di ambiente terrestre. Si tratta quindi di un altro passaggio fra uno stile di vita anfibio ad uno stile almeno in buona parte terrestre. E siccome gli ultimi esemplari del terricolo genere Quinkana si sono estinti poco meno di 12.000 anni fa, quando gli aborigeni erano già arrivati da decine di migliaia di anni, questi potrebbero essere stati gli unici esseri umani ad aver visto dal vivo dei coccodrilliformi terrestri.
Comunque a causa della veloce deriva verso nord dell’Australia e del raffreddamento globale, i coccodrilliformi attuali sono limitati alla parte settentrionale del continente.

NB: in questo racconto mancano l’Africa e l’Asia equatoriale: questo perché la documentazione fossile nell’area a cavallo dell’equatore è quasi inesistente fino al Miocene

BIBLIOGRAFIA

Benton & Wu (2022), Triassic Revolution. Front. Earth Sci. 10:899541. doi: 10.3389/feart.2022.899541 

Cidade et al (2019). The crocodylomorph fauna of the Cenozoic of South America and its evolutionary history: a review. Journal of South American Earth Sciences 90, 392-411 

Hekkala et al (2011). Molecular assessment of population differentiation and individual assignment potential of Nile crocodile (Crocodylus niloticus) populations. Conserv. Genet. 11, 1435–1443 

Tarquini et al 2022 The multicausal twilight of South American native mammalian predators (Metatheria, 
Sparassodonta) Ecientific Reports (2022) 12:1224 

Toljagic & Butler (2013). Triassic−Jurassic mass extinction as trigger for the Mesozoic radiation of crocodylomorphs. Biol. Lett. 9, 20130095 

venerdì 6 dicembre 2024

il terremoto a largo della California settentrionale del 5 dicembre 2024


Il terremoto magnitudo 7.0 del 5 dicembre 2024 si è verificato a largo della costa della California settentrionale, davanti al Capo Mendocino. 
L'epicentro si trova a pochissima distanza della giunzione tripla di Mendocino. In una giunzione tripla si trovano in contatto te placche diverse, in questo caso la placche oceanica del Pacifico, quella continentale del Nord America e una terza placca oceanica, quella di Juan de Fuca/Gorda che pur essendo di ridotte dimensioni è molto attiva e molto studiata.

Il meccanismo focale indica un movimento lungo una faglia trascorrente, situata nelle vicinanze della zona di frattura Mendocino (che si chiama così proprio perchè è quasi perpendicolare alla costa californiana a largo di Capo Mendocino) o, ancora più probabilmente, proprio lungo la zona di frattura di Mendocino stessa.

Questa zona di frattura è particolarmente importante perché costituisce il contatto fra due porzioni dell'Oceano Pacifico dalla geodinamica completamente differente:
  • verso nord si evidenzia una dorsale oceanica con produzione di crosta oceanica, accanto alla quale c’è un margine continentale attivo
  • verso sud e fino al golfo di California si trova l'unica zona in cui il margine continentale occindentale delle Americhe è passivo, tornando ad essere attivo dal Messico centrale in poi, fino all'estremità dell'America del Sud
Una conseguenza importante è che a nord della zona di frattura Mendocino, tutta l'area oceanica a largo delle coste di California settentrionale, Oregon, Washington e Columbia Britannica compresa nella placca di Juan da Fuca è soggetta ad una intensa attività sismica. 
La sismicità dell’area è evidente come si vede da queste carte tratte dall’Iris Earthquake Browser. 

la sismicità e la situazione tettonica della costa fra California settentrionale e Canada.
la stella indica il terremoto del 5 dicembre lungo la zona di frattura Mendocino

Come ho scritto, il quadro tettonico a nord della zona di frattura Mendocino prevede una dorsale oceanica ai cui lati si crea nuova crosta e una zona di subduzione lungo il margine continentale, accompagnata da un classico sistema di vulcanismo di arco magmatico. Lo si vede sempre in queste carte che mettono a confronto la sismicità con M uguale o superiore a 5 con la situazione tettonica. Notate anche la differenza nella posizione della sismicità: mentre a nord della zona di frattura la sismicità nell'oceano Pacifico è enormemente più alta che in terraferma, a sud la sismicità invece sia quasi tutta nell'entroterra californiano, dove appunto il limite fra placca pacifica e placca nordamericana passa lungo la faglia di San Andreas.
La particolarità della situazione della placca di Juan da Fuca è che la nuova crosta che si forma sul lato della dorsale rivolto verso le coste degli Usa settentrionali e del Canada (e che quindi muovendosi verso E va in direzione del continente) ha una vita brevissima, di pochi milioni di anni, perché davanti al continente americano si immerge sotto la placca nordamericana, subducendo sotto di essa. Il risultato sono i vulcani della Cascadia, il più recente sistema di arco magmatico continentale che esista sulla Terra, e l’ultima fase di una complessa serie di collisioni di placche di vario tipo contro l’America Settentrionale iniziate già nel Paleozoico (Di Pietro, 2018). 
Invece a sud della zona di frattura di Mendocino la crosta è decisamente più antica (tra i 20 e i 40 milioni di anni).

a sinistra i terremoti M 7 e oltre intorno alla zona di frattura Mendocino
a destra il quadro tettonico con evidenziato il magmatismo di arco della Cascadia

Inoltre geologi e geofisici sono perplessi dalla mancanza recente di importanti terremoti di subduzione, l'ultimo dei quali è avvenuto prima dell'avvento degli europei, nell'anno 1700 (ne avevo parlato qualche anno fa). Il timore di un forte terremoto con relativo tsunami è quindi molto forte lungo quelle coste.
Ma se la zona di subduzione è attualmente quasi asismica, come vediamo sopra questo non è certo il caso della zona di frattura di Mendocino e dei suoi dintorni, dove dal 1994 sono stati registrati ben 6 terremoti con M superiore a 7. Da notare inoltre che il terremoto M 7.2 del 5 aprile 1995 fu seguito il giorno dopo da due afterschoks di M 6.5 e 6.6 (insomma, una bazzecola...)
Non è quindi un caso se la zona di frattura Mendocino è riconosciuta come una delle aree della California (mare compreso) dove la probabilità di subire eventi sismici è più alta (il che visto dove siamo è tutto dire). Lo si vede nella carta qui accanto, tratta da Helmstetter et al (2007).

In più si deve anche notare come la presenza della zona di frattura di Mendocino influenzi pesantemente anche, più in là, il continente americano: in questa carta tratta da si nota come in corrispondenza di essi cambino i movimenti delle stazioni GPS, che a sud di essa si muovono verso NW, mentre a nord il movimento è verso N. 

BIBLIOGRAFIA

Di Pietro (2018) Cascadia Volcanic Arc System in:  Geology and Landscape Evolution (Second Edition), Elsevier

Helmstetter et al 2007. High-resolution Time-independent Grid-based Forecast for M >= 5 Earthquakes in California. Seismological Research Letters, Seismological Society of America, 78/1, 78-86. 



lunedì 2 dicembre 2024

Freya Castle: una piccola roccia su Marte che potrebbe aprire grandi prospettive sul sottosuolo marziano


Perseverance, il rover marziano delle dimensioni di un'auto lanciato dalla NASA il 30 luglio 2020 e atterrato su Marte il 18 febbraio 2021, da allora sta girovagando nel cratere Jezero. Il 13 settembre 2024 gli scienziati del team che segue il rover sono rimasti sbalorditi quando Perseverance ha individuato una roccia a strisce bianche e nere diversa da qualsiasi altra mai vista su Marte prima, che è stata denominata Freya Castle. Tale ritrovamento potrebbe rappresentare la scoperta di qualcosa di particolarmente entusiasmante e cioè una vista sull'interno del Pianeta Rosso.

Freya Castle, come è apparso a Perseverance (immagine della NASA)
Freya Castel non è certo l’unica roccia insolita incontrata da Perseverance nei suoi vagabondaggi nel 2024. Ad esempio a luglio mentre esplorava un vecchio letto fluviale il rover ha trovato una roccia con strane macchie a pelle di leopardo, macchie che addirittura potrebbero essere correlate ad attività microbica. Date le implicazioni che comporterebbe una conferma di questo contesto comporterebbe, Perseverance ha preparato dei campioni della roccia in modo che una futura missione possa eventualmente riportarli sulla Terra per studiarli meglio nel quadro del programma Mars Sample Return

Freya Castle è stata trovata poco dopo che Perseverance ha iniziato la sua scalata sui ripidi pendii che portano al bordo del cratere Jezero. Lo scopo fondamentale di questa attività è la ricerca di rocce che potrebbero insegnarci qualcosa sulla storia antica di Marte, in particolare per identificare depositi carbonatici e di olivina lungo una formazione geologica chiamata Unità Marginale, situata sulle pareti del cratere e larga circa 45 km. E invece per prima cosa è stata trovata una roccia che potrebbe rivelarci delle notizie sull’interno del Pianeta Rosso: mentre il rover transitava su un terreno quasi banale, i membri del team hanno individuato in lontananza un ciottolo dalle caratteristiche apparentemente insolite e quindi hanno deciso di dargli un'occhiata più da vicino, con la quale la stranezza è stata confermata: Freya Castle, un ciottolo di circa 20 cm, è composto da una alternanza di strisce chiare e scure. Ovviamente, dato che le immagini vanno subito online, su Internet sono fioccate le interpretazioni più pittoresche. È comunque stato subito chiaro come il sasso sia completamente diverso da qualsiasi altro mai visto prima non solo nel cratere Jezero, ma probabilmente in tutto il pianeta ed è probabile che sia arrivata lì rotolando da una zona più alta.

Atoko Point nell'elaborazione della NASA a colori modificati
per migliorare il contrasto visivo e accentuare le differenze di colore.
INTERPRETAZIONE DI FREYA CASTLE. Non occorre essere delle volpi per pensare che sulla Terra una roccia così zonata sia il risultato di un processo igneo e/o metamorfico. Nel maggio 2024 Perseverance, sempre ovviamente all'interno del cratere Jezero, ha identificato in un ammasso denominato Monte Washburn, Atoko Point, una roccia luminosa e maculata di circa 45 cm x 35 cm. Le analisi hanno rivelato che Atoko Point è composto prevalentemente da pirosseno e feldspato, minerali comunemente presenti anche nelle rocce vulcaniche e metamorfiche sulla Terra. Insomma, è un qualcosa che si potrebbe definire un gabbro e cioè un liquido basaltico come quelli dei vulcani marziani, che però si è solidificato sotto la superficie. Da qui è decisamente breve il passo di pensare che la composizione di Freya Castle sia simile, anche se Atoko Point non ha una struttura zonata.

Diciamo che le possibilità sono due:
  1. ROCCIA IGNEA INTRUSIVA: una cumulite è una roccia che si forma in una camera magmatica quando sul suo fondo precipitano cristalli solidi, in genere a bande di minerali diversi. Succede in genere con magmi poveri in silice. Di fatto, come detto poco sopra, Atoko Point avrebbe tutte le caratteristiche di una roccia magmatica intrusiva come un gabbro
  2. ROCCIA METAMORFICA: sulla Terra gli gneiss rappresentano le più comuni rocce metamorfiche costituenti la crosta continentale. Sono caratterizzate da un'alternanza di letti ricchi in minerali lamellari – segnatamente miche – e letti formati in prevalenza da minerali granulari come quarzo e/o feldspati. e si formano a grande profondità
Personalmente propendo per la prima che ho detto: sotto i vulcani basaltici di Marte è possibile che nelle camere magmatiche si siano prodotte delle cumuliti. Mi pare invece più difficile la presenza di gneiss, visto che quelli sulla Terra sono un tipico risultato di una collisione continente – continente e quindi necessitano almeno dalle nostre parti di una tettonica a placche e anche perché non vedo sulla superficie marziana una presenza particolare di rocce ad alto contenuto di silice.
Insomma, sia Atoko Point che Freya Castle potrebbero essere rocce intrusive solidificate all'interno di una camera magmatica in condizioni differenti.

COME MAI FREYA CASTLE AFFIORA IN SUPERFICIE? Marte non ha avuto delle grandi spinte orogeniche, tantomeno una tettonica a placche, quindi non troviamo in superficie rocce che si sono formate in profondità, come succede normalmente sulla Terra, mentre questa roccia ha caratteristiche introvabili sulla superficie marziana e quindi potrebbe venire da una certa profondità. La soluzione migliore è che Freya Castle rappresenti un ejecta, quindi potrebbe far parte di quelle antiche rocce sollevate dalle profondità della crosta marziana al momento dall'impatto che ha formato Jezero, ora esposte appunto negli ejecta, i materiali che formano il bordo del cratere.
Ovviamente la speranza è quella di trovare altre rocce simili mentre Perseverance continua a salire verso il bordo di Jezero.

mercoledì 20 novembre 2024

L’onda di Raileigh prima dell’eruzione dell’Hunga -Tonga del 2022 che potrebbe essere la chiave per predire eventi del genere con un anticipo tale da avvisare le popolazioni vicine e una predizione di Jules Verne


Jules Verne, è noto per delle predizioni incredibili come l’astronave per la Luna che parte dalla Florida con 3 uomini e i retrorazzi, il sommergibile del Capitano Nemo molto simile a quello che ha conquistato il Polo Nord (il quale non casualmente si chiamava USS Nautilus), i palazzi di vetro con l’aria condizionata, la televisione ed altro (ci sono anche cose che non ha azzeccato ma vabbè..). Adesso è possibile che ne abbia azzeccata un’altra: in uno dei suoi più celebri romanzi, l’Isola Misteriosa, un vulcano sta risvegliandosi e a causa di una frattura l’acqua dell’Oceano Pacifico entra in contatto con il magma; di conseguenza il vulcano esplode distruggendo l’isola. Il fatto è che la fortissima eruzione dell’Hunga Tonga del gennaio 2022 potrebbe essere avvenuta come Verne descrisse la fine dell’Isola Lincoln.

Il nome del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha'apai alle isole Tonga è complesso perché le piccole isole di Hunga Tonga e Hunga Ha'apai fanno parte fanno parte dello stesso vulcano in quanto costituiscono le uniche parti emerse di quanto rimane del bordo di una caldera in gran parte sottomarina di circa 6 km di diametro (la trovo un pò esagerata questa cosa, ma d'altro canto, non avendo un nome geografico tipo Mugello o Valdarno superiore, la vallata dove c'è anche Firenze si chiama "bacino di Firenze, Prato e Pistoia", ma qui si tratta di toscani e quindi meglio evitare le solite proteste campanilistiche...)
Da quelle parti, tra la Nuova Guinea e la Nuova Zelanda passando per le isole Figi e Tonga, di vulcani attivi, spesso sottomarini (e in genere pure senza nome) ce ne sono parecchi, più o meno allineati fra loro. Devono la loro esistenza alla subduzione della placca del Pacifico sotto quella australiana. Sono quindi tipici vulcano di arco insulare (peraltro quello delle Tonga è un arco… diritto). Tale vulcanismo in genere si presenta con attività esplosiva e produzione di ceneri e lapilli più che di colate laviche. L’Hunga Tonga (chiamiamolo solo così) non fa eccezione e ha spesso fatto sconquassi: ovviamente prima dell’arrivo degli occidentali le datazioni non sono precise e quindi per esempio l’ultima eruzione “maggiore” è datata tra il 1040 e il 1180. La prima eruzione di cui esiste una testimonianza diretta è del 1912 (Cronin et al., 2017); dopo di questa ce ne sono state almeno 5, fino a quella del 2014 – 2015, durante la quale in meno di 3 settimane si è formata una terza isola, che accrescendosi si è poi unita a Hunga Ha‘apai.

L'ERUZIONE DEL GENNAIO 2022. La nuova attività è iniziata la mattina del 20 dicembre 2021 ed è proseguita con emissioni di ceneri e nuvole di gas; la colonna eruttiva è arrivata inizialmente a 12 km di altezza per poi diminuire ed è proseguito l’accrescimento dell’isola nata nel 2015. Poi la situazione è precipitata: il 14 gennaio 2022 è iniziata una forte eruzione nella parte subaerea che ha prodotto una colonna eruttiva alta 20 km, i cui prodotti sono ricaduti anche nelle isole vicine. Questa nuvola ha conquistato a mani basse il record mondiale per la produzione di fulmini: sono una cosa comune nelle nubi vulcaniche (in materia avevo scritto questo post). ma qui la rete del Global Lightning Detection network GLD360 ha registrato fino a 200.000 fulmini all’ora (qui il filmato della Reuters, è un pò lungo ma merita).
Il 15 gennaio 2022 con un nuovo parossismo la colonna eruttiva è arrivata “solo” a 15 km ma stavolta si è verificata l’esplosione che ha distrutto la nuova isola, ha innescato onde d'urto attraverso l'atmosfera e provocato uno tsunami ben rilevato in tutto l'Oceano Pacifico. L’eruzione si è presentata immediatamente al di sotto della superficie del mare e probabilmente questa è la circostanza che ha scatenato questi fenomeni.
Questo tsunami è stato un po' particolare: in caso di esplosione di un vulcano in genere si producono onde di tsunami ad alta frequenza, molto corte ed estremamente distruttive nei dintorni ma che non sono state capaci di propagarsi “decentemente” a distanza, come dimostra lo tsunami dello stretto della Sonda dovuto all’eruzione del Krakatoa nel 1883, distruttivo solo nelle vicinanze del vulcano. Invece si è trattato di uno tsunami dalle caratteristiche “normali”,  come avviene in caso di terremoti e frane sottomarine: in questi casi si producono onde a bassa frequenza che si propagano a grande distanza. Anche questa caratteristica rende l’eruzione del 2022 un po' particolare.

UN’ONDA SISMICA ANOMALA PRIMA DELL’ERUZIONE. Horiuchi et al (2024) analizzando i dati sismici delle stazioni di Figi e Futuna, entrambe distanti oltre 700 km dal luogo dell’esplosione, hanno notato un'insolita onda di Rayleigh. Nessun dubbio sul luogo di origine, ma i sismogrammi evidenziano come questa sia partita intorno alle 3:45 UTC; l'ora esatta di inizio dell'eruzione rimane dibattuta, anche se c’è un sufficiente consenso su un orario poco successivo alle 4:00 UTC.
L'onda stessa è la prima anomalia; la seconda anomalia è che le onde di Rayleigh sono il tipo più importante di onde di superficie e oltre a terremoti sono associate ad esplosioni (naturali e non) e a vari tipi di attività antropica e quindi accompagnano spesso eruzioni vulcaniche e terremoti, ma nell’attività vulcanica in genere le onde di Rayleigh sono impercettibili e vengono rilevate solo a breve distanza dal vulcano e non come in questo caso a oltre 700 km. 

COME POTREBBE ESSERSI ORIGINATA QUESTA ONDA DI RAYLEIGH? L’eruzione dell’Hunga-Tonga potrebbe non essere stata un evento istantaneo: questa onda precorritrice dovrebbe aver segnalato l'inizio di un processo sotterraneo culminato poco dopo nell'eruzione. Secondo Horiuchi et al 2024 questa onda sismica è il risultato di una frattura improvvisa all'interno di una porzione debole della crosta oceanica sotto la parete della caldera del vulcano. Tale rottura avrebbe permesso all'acqua di mare di mescolarsi violentemente con il magma in uno spazio vicino alla camera magmatica del vulcano, creando le condizioni che alla fine hanno innescato l'eruzione.
Quindi è facile interpretare questo evento come un precursore precoce insolitamente forte dell'eruzione secondo questa serie di eventi come illustra l'immagine da Horiuchi et al (2024):

1. il magma si trova ad alta pressione sotto alcune parti della zona debole circolare
2. la fratturazione genera il precursore intorno alle 03:45
3. magma, gas e fluidi magmatici e acqua di mare entrano nella zona fratturata nella frattura
4. l’interazione magma-acqua innesca l'eruzione esplosiva

Insomma, i fatti si sarebbero svolti esattamente come Verne ha descritto l’esplosione del vulcano dell’isola Lincoln.

RICADUTE POSSIBILI DI QUESTA IPOTESI. I vulcani insulari e quelli sottomarini sono estremamente pericolosi proprio per la loro potenzialità tsunamigenica, anche se in genere - come detto - senza il verificarsi di frane sottomarine i danni maggiori dovrebbero rimanere circoscritti ad un “intorno significativo”. Ma per chi sta in quell'intorno il problema può diventare parecchio grave. Se poi un vulcano è del tutto sommerso la sua sorveglianza è attualmente complicata. 
Però la formazione di una caldera è un evento raro dal punto di vista della storia umana, e quindi è stata osservata in modo scientifico in pochi posti. Un segnale precoce costituito dall’arrivo di una onda di Raileigh potrebbe quindi segnalare l’imminente esplosione.
Riconoscere tali segnali di eruzione precoce potrebbe offrire un prezioso lasso di tempo per lanciare una allerta tsunami, soprattutto ma non solo per le nazioni insulari e le comunità costiere vicine, in particolare quando il vulcano è sufficientemente lontano da non rendere osservabili i segnali di quello che sta accadendo.

Questa scoperta evidenzia il potenziale delle onde sismiche come indicatori precoci di eruzioni maggiori. Sarebbe perciò importante osservare segnali simili, che quindi potrebbero potenzialmente fungere da avvisi anticipati per eruzioni da vulcani oceanici remoti, con l’enorme vantaggio di avere un po' di tempo per preparare le coste al disastro: anche l’eruzione che ha distrutto nel romanzo di Giulio Verne l’Isola Lincoln sarebbe stata prevista perché probabilmente avrebbe generato una onda di Rayleigh qualche minuto prima dell’esplosione!


BIBLIOGRAFIA CITATA

Cronin et al (2017) New volcanic island unveils explosive past, Eos, 98, https://doi.org/10.1029/2017EO076589.

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