giovedì 18 dicembre 2025

L’infestazione del bostrico nelle Alpi Orientali: oltre ai problemi forestali aumenta erosione e rischio-frana nelle aree rimaste senza alberi


una sezione di un tronco di abete rosso 
che presenta le gallerie scavate da coleotteri
Nelle Alpi del Nord-Est italiano a seguito della tempesta Vaia è scoppiata una pullulazione di un insetto, il bostrico, che sta provocando gravissimi danni al patrimonio boschivo alpino. Oltre al danno al patrimonio boschivo a cui le Autorità locali stanno cercando di fare fronte con diverse misure, un altro aspetto che va considerato è il degrado dei versanti: senza la copertura vegetale il poco suolo rischia di essere dilavato dalle piogge e nelle zone sottoposte al taglio degli alberi morti e/o malati si possono produrre delle frane, cosa che purtroppo ho già potuto appurare personalmente. Il rischio quindi è quello di un cambiamento totale nell’aspetto di interi, e non sempre ristretti, settori delle vallate alpine. Ovviamente le mie competenze forestali sono scadenti e quindi non posso che ringraziare l’amico dottore forestale Savero Lastrucci per le utili correzioni al testo sulla parte di sua competenza.

L’ABETE ROSSO E IL SUO NEMICO PER ECCELLENZA: IL BOSTRICO. L’abete rosso è onnipresente lungo le valli del nord-est italiano. Oltre al pregio estetico di un albero decisamente “bellissimo”, Picea abies ha un legname largamente usato nell’edilizia ed è particolarmente apprezzato per gli strumenti musicali, a cui conferisce una qualità del suono inarrivabile da altri legni specialmente quando si tratti di “legno armonico”; spiccano al proposito gli abeti di alcune zone come la Val di Fiemme, la quale ha l’indiscutibile onore di essere l’area di provenienza dei materiali usati da Antonio Stradivari per i suoi leggendari violini.
Purtroppo la popolazione di abete rosso delle Alpi orientali è in questo momento messa a dura prova da un insetto, il bostrico tipografo o bostrico dell'abete rosso (Ips typographus), noto in letteratura scientifica anche con il nome inglese di bark beetle: questo coleottero si nutre degli abeti rossi scavando delle piccole gallerie all'interno della corteccia, succhiandone la linfa.
In primavera i coleotteri maschi sopravvissuti all’inverno penetrano nelle piante e costruiscono una camera nuziale, in cui si accoppiano in genere con due-tre femmine. Queste scavano poi gallerie lunghe fino a 10-15 cm e parallele all’asse del tronco, dove depongono in media 80 uova, da cui escono delle larve che, nutrendosi, scavano anche esse delle gallerie di 5-6 cm sempre nell’area sottocorticale in cui passare la linfa; al termine dello sviluppo si trasformano in adulti, dando vita a una nuova generazione che potrà insediarsi su altre piante. Ciò può avvenire nello stesso anno, se le condizioni climatiche lo consentono (bisogna quindi sperare in estati che finiscono alla svelta), oppure nell’anno successivo se sopravvivono allo svernamento (e anche qui, le basse temperature non li aiuterebbero)
Un abete attaccata dal bostrico è irrimediabilmente condannato perché l’attività dell’insetto interrompe il flusso della linfa, portando inevitabilmente a morte la pianta in breve tempo.
L’infestazione potrebbe essere riconosciuta già all’inizio grazie all’emissione della rosura dal foro di ingresso (la polvere di legno scavato, proprio come succede nelle case con i tarli). Altri sintomi della infestazione in corso sono la caduta di aghi verdi e la perdita di resina, prodotta dalla pianta nel tentativo di difendersi dall’attacco.
Ci sono due fattori che purtroppo rendono difficile riconoscere il problema:
  • le piogge cancellano la rosura alla base dell'albero
  • è facile che l’attacco inizi nella parte più alta dell'albero
Per questo è frequente che le tracce del problema si evidenzino solo quando l’infestazione è ormai in uno stato già molto avanzato e quindi è troppo tardi per rimediare.
Normalmente il bostrico colonizza singole piante indebolite o sotto stress, ma essendone la popolazione cresciuta a dismisura ormai vengono attaccati anche alberi sanissimi. Inoltre non è stato ancora trovato un rimedio per combatterlo, come peraltro succede per la Xylella in Puglia. Ma a differenza della Xylella, arrivata dalle Americhe, il bostrico non è un nuovo infestante proveniente da chissà dove: era già un componente dell’ecosistema alpino con uno sviluppo contenuto e in equilibrio, spesso indirizzato verso piante già parzialmente sofferenti o deboli; la sua esplosione la si deve alla tempesta Vaia, che ha convolto il nord-est, e che ha fatto aumentare la disponibilità di “cibo” per questi coleotteri. La maggiore disponibilità temporanea di legname ha fatto aumentare innaturalmente questi insetti che, mancando poi risorse alimentari, hanno aggredito le piante sane provocando l’attuale squilibrio ai danni dei popolamenti forestali.

le "macchie" di abeti morti sono comuni nei versanti delle Alpi orientali,
come qui, in una zona tra la Val di Fiemme e la valle dell'Adige
 


L’ORIGINE DELL’INFESTAZIONE: LA TEMPESTA VAIA. Come qualcuno ricorda, tra il 27 e il 30 ottobre 2018 un’area depressionaria particolarmente profonda ha provocato una fase di maltempo addirittura peggiore di quella del 1966 nell’Italia di Nord Est. Lo scirocco ha scatenato piogge superiori ai 700 mm in 3 giorni, con le ovvie, conseguenti, alluvioni; quanto al mare Adriatico settentrionale, oltre alla forte mareggiata, queste sono le condizioni in cui i venti lo gonfiano e quindi a Venezia si è verificata una acqua alta paragonabile a quella del 1966.
Oltre all’Acqua Alta epocale, un altro aspetto tristemente noto della perturbazione sono stati i venti: una serie continua di raffiche con velocità superiore ai 200 km/h che hanno causato ingenti danni sulle Alpi orientali, in particolare al patrimonio boschivo, una grossa fetta el quale è rappresentata dalle conifere. Queste piante, in maggioranza abete rosso, non sono certo state aiutate dal loro apparato radicale, poco profondo ma soprattutto ben esteso orizzontalmente (in rete si trovano immagini e filmati terrificanti). Le piante, abbattute, sono a lungo rimaste sul terreno e quindi hanno costituito un ambiente ideale per la proliferazione incontrollata del bostrico, che quindi si è diffuso a dismisura. Oggi in tutto il Trentino, l’Alto Adige e il Friuli anche uno spettatore disattento riconosce immediatamente le aree colpite: in mezzo alle distese di abeti rossi si vedono chiazze più o meno grandi di alberi secchi o aree già disboscate dove le piante malate e/o morte sono state tagliate nei versanti.
A questo proposito, quella del taglio e del disboscamento è una questioni delicata e complessa: non sempre è un bene tagliare le piante morte, mentre al contrario in altre situazioni talvolta vengono tagliate anche piante sane. Al proposito proclamo la mia incompetenza in materia e quindi non posso (né voglio) entrare in un dibattito che compete solo ed esclusivamente al mondo forestale e non al sottoscritto. Dove gli abeti sono stati tagliati, evidentemente c’erano le condizioni per farlo.

LE PROSPETTIVE. Sembra che adesso, dopo 6 anni, l’infestazione sia diminuita, in analogia con l’andamento di altri episodi di pullulazioni del bostrico che caratterizzano i paesi centro-europei, guarda caso anche queste innescati da fenomeni che hanno abbattuto abeti rossi: gli episodi durano in media 5-6 anni, con la massima infestazione nel 2° e 3° anno e una riduzione progressiva in quelli successivi. Ovviamente un po' giocano i predatori (anche il Bostrico per fortuna ne ha, sono diversi e probabilmente a loro volta stanno godendo della situazione), ma anche le condizioni climatiche.
Siccome nella lotta contro il coleottero gli abeti sono aiutati da bassa temperatura ed estati umide, la lotta in Italia è più complessa proprio a causa del clima: temperature più alte comportano un maggiore tempo di attività estivo dell’insetto e una minore mortalità invernale; inoltre gli abeti sarebbero favoriti da estati umide come quelle dell’Europa Centrale, mentre nel versante italiano l’influenza del clima mediterraneo provoca spesso dei periodi siccitosi ben più graditi dai coleotteri che dalle piante, la cui resistenza, appunto, è maggiore in caso di estati fresche e piovose.
Per fortuna nelle Alpi le più recenti condizioni climatiche hanno ridotto la durata della fase di espansione.
Insomma, ottimisticamente si può dire che:
1. la fase acuta dell’infestazione è già passata (lo dimostrano i dati, confortati dalla casistica analoga)
2. ma che, purtroppo, il problema è ancora in atto e che a causa del clima durerà ancora, per un tempo maggiore che negli eventi analoghi a nord delle Alpi.



RIMEDI. Qui per fortuna di abeti ce ne sono tantissimi e quindi la loro scomparsa non è all’ordine del giorno, ma in ogni caso vediamo ancora una volta qual’è uno dei problemi maggiori delle monoculture: basta che si diffonda incontrollatamente un parassita (già presente o importato, cosa questa purtroppo molto facile oggigiorno, come dimostra il caso Xylella ) e sono dolori. Ovviamente Picea abies non potrà essere sostituito, per questioni paesaggistiche (il connubio Abete rosso – paesaggio è ormai troppo radicato) ed economiche (difficilissimo sostituirlo per edilizia e strumenti musicali), però a questa pianta dovranno essere affiancate altre specie che non vengono attaccate dal malefico coleottero, per esempio il larice (sperando che non si adatti e diventi “bravo” ad attaccare anche queste). Ma gli enti preposti, per esempio nella Provincia di Trento, stanno pensando anche alla prospettiva di impiantare specie arboree diverse, che meglio si adatteranno ai cambiamenti climatici in corso.

alcuni esempi di dissesti dovuti all'abbattimento di abeti morti tra Val di Fiemme e val di Fassa
IL BOSTRICO È ANCHE UN PERICOLO PER L’EQUILIBRIO DELL’ASSETTO IDROGEOLOGICO. I versanti alpini sono spesso acclivi,  e con un suolo non troppo spesso. Queste condizioni favoriscono le conifere le cui radici si estendono orizzontalmente e non vanno in profondità rispetto a quelle delle angiosperme. 
Ma l’eventuale taglio delle piante malate, morte o che stanno per essere attaccate comporta anche una grave conseguenza nell’assetto del territorio: nei versanti che così diventano direttamente esposti agli agenti atmosferici aumenta la possibilità che si verifichino delle frane (lo stesso avviene anche in caso di versanti interessati da gravi incendi boschivi). Queste frane porterebbero via una gran parte del suolo e il resto verrebbe dilavato dalle prime piogge. Ne ho già viste alcune passando per le valli di Fiemme e di Fassa.
Inoltre la forte disponibilità di luce al suolo dopo il taglio favorisce il rapido sviluppo di vegetazione erbacea o arbustiva concorrente, che può ostacolare la germinazione e lo sviluppo delle plantule di rinnovazione e non ha le stesse capacità di trattenere il suolo.
Si rende quindi necessaria una immediata riforestazione delle aree dei versanti che sono state sottoposte al taglio degli abeti, per non rendere quei versanti privi di suolo: in questo caso la vegetazione dei versanti si trasformerebbe in un insieme di piante pioniere (in genere arbusti e non alberi), con un cambiamento paesaggistico ed ecologico drammatico.


martedì 16 dicembre 2025

Spezzoni di crosta continentale in mezzo agli oceani


Carta da Balasz et al (2025): i blocchi continentali a W dell'Australia sono diversi
ma vengono indicati per semplicità solo Gulden Draag e Broken Ridge
In linea generale sulla Terra esiste una dicotomia fra crosta continentale e crosta oceanica, nettamente diverse fra loro e questa differenza si riflette anche nel mantello sottostante. Qualche anno fa ho parlato della transmogrificazione e cioè di come secondo Morgan e Vannucchi (2022) aree apparentemente a crosta continentale siano in realtà dei blocchi di crosta oceanica e relativa litosfera sottostante rimasti intrappolati e come anche il Mediterraneo orientale possa avviarsi a diventare una cosa simile.
Esiste però anche la situazione contraria: blocchi di crosta continentale intrappolata all’interno di crosta oceanica.


I blocchi continentali all'interno degli oceani sono divisibili in due categorie:
  • i microcontinenti, blocchi di dimensioni significative, in genere ai lati dell’Oceano Atlantico e soprattutto dell’Oceano Indiano
  • piccole “schegge” di crosta continentale all’interno di alcune delle prnicipali faglie trasformi negli oceani.
Entrambi questi tipi di crosta continentale sono il seguito di un rifting continentale, un processo fondamentale della tettonica a placche, che separa un continente in due masse continentali differenti attraverso un progressivo assottigliamento della crosta e della sottostante litosferica, che infine porta alla formazione della dorsale medio-oceanica, dove si genera nuova crosta oceanica e alla formazione di un oceano. In questa carta, tratta da Balazs et al (2025) vediamo i principali settori di crosta continentale in mezzo agli oceani.

I MICROCONTINENTI non erano stati “previsti” quando fu ideata la tettonica a placche e alla loro scoperta hanno costituito un luogo di dibattito sul loro significato. Che siano “strascichi” dell’apertura dei relativi oceani è ancora ben evidente, per esempio, a proposito del microcontinente di Jan Mayen e ben descritto da Gaina et al (2009):
  • nella carta da Gaina et al (2009) in rosso
    le dorsali oceaniche non più attive
    l'apertura dell'Oceano Atlantico settentrionale in prossimità del limite Paleocene-Eocene si verificò lungo tre dorsali di espansione interconnesse, la dorsale di Reykjanes, la dorsale di Aegir e la dorsale di Mohns. La direzione iniziale di espansione era NNW-SSE e determinò un movimento obliquo tra la Groenlandia orientale e il Mare di Barents.
  • Circa 35 milioni di anni fa, all'inizio dell'Oligocene, l'espansione cessò nel Mare del Labrador e la Groenlandia divenne parte della placca tettonica nordamericana. In seguito a questa riorganizzazione, la direzione di espansione cambiò di 30°, passando da NW a SE
  • Durante l'Oligocene, l'espansione del fondale marino terminò lungo la dorsale di Aegir e si verificò un salto di dorsale verso la dorsale di Kolbeinsey. Questo cambiamento nella direzione di espansione separò anche il microcontinente di Jan Mayen dal margine orientale della Groenlandia.
Più complessa la questione dei microcontinenti nell’Oceano Indiano, oceano che comprende diversi sottobacini e frammenti continentali originatisi dal Gondwana e trascinati da diversi eventi di spostamento delle dorsali. Ovviamente i frammenti erano in origine posizionati nelle aree dove nel Cretaceo si sono divise India, Antartide e Australia, ma è più difficile ricostruirne storia ed esatta collocazione perché l’apertura che ha iniziato la formazione dell’oceano è ben più antica di quella dell’Atlantico settentrionale (oltre 120 milioni di anni contro 55) e l’espansione dei fondi oceanici ha allontanato molto fra di loro questi frammenti che però, non a caso, si trovano più verso i lati dell’oceano e non in mezzo ad esso. Quelli ben conosciuti sono:

SEYCHELLES: nel Giurassico medio, l'Africa si separò dall'Antartide orientale e dal blocco India-Seychelles-Madagascar, che a sua volta si separò dall'Antartide orientale e dall'Australia. Successivamente India e Seychelles si separarono fra loro. La precedente vicinanza delle Seychelles all’India è documentata dalle rocce magmatiche che mostrano una forte affinità con i basalti del Deccan, messi in posto al passaggio fra Cretaceo e Paleocene e che hanno appunto preceduto il distacco fra i due blocchi (Ganerød et al, 2011).

KERGUELEN: queste remote isole ospitano una delle più importanti Large Igneous Provinces della storia, che oltre all’arcipelago comprende lave presenti in India (i trappi di Rajmahal) e nell’oceano (la dorsale di 90°E), mentre secondo Olierook et al (2016) i basalti australiani di Bundbury e quelli trovati in alcun blocchi a W dell’Australia sono troppo antich per fare parte della provincia, anche se è stata proposta una superprovincia che comprende diverse subprovince. La cosa interessante è che nella parte centrale dell’arcipelago l’Elan Bank mostra chiaramente di essere un frammento dell’orogene dell’Eastern Ghats Belt, in India, che non a caso è vicino ai trappi di Rajmahal.

AD W DELL’AUSTRALIA: lì di questi blocchi se ne trovano diversi e all’inizio degli studi sulla tettonica a placche la loro natura è stata dibattuta. In alcuni, come Gulden Daag Knoll, Naturaliste Plateau e Batavia Knoll sono state riconosciute rocce appartenenti a quelle fasi orogeniche che hanno unito il Gondwana riconosciute in Antartide e in Australia (es: Gartner et al, 2017). 
I plateau di Wallaby e Zenith con le loro imponenti successioni di basalti mostrano chiaramente la loro appartenenza a una crosta continentale interessata da un rift che l’ha assottigliata e soggetta al vulcanismo correlato all’apertura. Tutti questi blocchi sono attualmente sommersi
Broken Ridge è un caso un po' diverso, perché era probabilmente unito al microcontinente delle Kerguelen.
In queste carte tratte da Olierook et al (2016) si vede l’evoluzione di tutti questi blocchi.




FRAMMENTI CONTINENTALI INTRAOCEANICI LUNGO LE FAGLIE TRASFORMI.
Se la formazione di microcontinenti è “abbastanza logica” in un quadro di rift continentale a cui segue l’apertura di un oceano, appare più incredibile la presenza di piccole “schegge” di crosta continentale in mezzo agli oceani, lungo alcune faglie trasformi. Le dorsali medio-oceaniche sono segmentate e collegate da faglie conosciute come faglie trasformi, tradizionalmente descritte come margini trascorrenti che assecondano i movimenti orizzontali derivati dalla espansone dei fondi oceanici lungo le dorsali. Un aspetto fondamentale di queste strutture è l’energia del rilievo, con scarpate alte anche diversi kilometri.
Le faglie trasformi in alcun momenti della loro storia sono soggette a sforzi compressivi, che provocano il sollevamento di alcuni blocchi (per esempio gli isolotti di San Pietro e San Paolo a largo del Brasile) lungo la trasforme di San Paolo. Questi isolotti fanno parte di un massiccio peridotitico, quindi materiale della crosta oceanica. Ma in alcuni casi questi massicci sono formati da crosta continentale. Quelli più conosciuti si trovano nell’Atlantico settentrionale, dove sono rappresentate da dorsali ancora non frammentate (quella della Groenlandia orientale e quella di Terranova), mentre si trovano delle schegge di dimensioni molto ridotte nell'Atlantico centrale (zona di frattura Romanche), nel Mar Rosso (l’isola continentale di Zabargad), nell’Oceano Indiano (Davie continental sliver, tra Madagascar and Africa) e ad E della Nuova Gunea nel bacino Woodlark.

DAL RIFT ALLE SCHEGGE CONTINENTALI NEGLI OCEANI. Per capire come funziona il processo di formazione di queste schegge Balasz et al 2025 hanno realizzato una modellazione, che ricorda le ricostruzioni geologiche proposte per la storia del rift nell'Atlantico centrale o nell'Africa orientale e in Madagascar. 
Il processo inizia quando la crosta viene interessata dalle tensioni che portano alla formazione di un rift, in un’area caratterizzata da zone di debolezza ereditate da precedenti fasi tettoniche.
Il modello di riferimento simula una velocità totale di divergenza delle placche di 1,9 cm/anno. 
  1. dopo 13 milioni di anni di attività del rift inizia a formarsi crosta oceanica in alcuni segmenti collegati da una zona di taglio obliqua che presto evolvono in vere dorsali oceaniche.
  2. dopo altri 2 milioni di anni la zona di taglio evolve in un bacino con il fondo costituito da litosfera continentale sempre più assottigliata e che si restringe.
  3. dopo altri 3 milioni di anni rimane un ultimo ponte continentale che collega i nuovi margini continentali alla deriva formati precedentemente lungo il rift e che presto formerà queste schegge.
  4. a questo punto sono passati 18 milioni di anni e per una sere di motivi i due segmenti adiacenti della dorsale medio-oceanica si propagano in modo da cercare di sovrapporsi l’uno all’altro nella zona della faglia trasforme. È una fase transitoria che però induce il sollevamento della scheggia crostale continentale rimasta intrappolata, che poi continuerà ad essere trasportata durante l’espansione dell’oceano.
È importante notare che queste schegge continentali mantengono uno spessore minimo di circa 5-7 km, con al di sotto un sottile residuo di mantello litosferico continentale.

Qui è disponibile il video del modello, che comunque mostro: 




BIBLIOGRAFIA

Balasz et al (2025) Presence of continental slivers in oceanic transform faults determined byrift inheritance. Nature Geoscience 18, 1303-1310

Gaina et al (2009) Palaeocene–Recent plate boundaries in the NE Atlantic and the formation of the Jan Mayen microcontinent Journal of the Geological Society 166, 601–616

Ganerød et al (2011). Palaeoposition of the Seychelles microcontinent in relation to the Deccan Traps and the Plume Generation Zone. in Late Cretaceous – Early Palaeogene time. In Van Hinsbergen et al (eds) The Formation and Evolution of Africa: A Synopsis of 3.8 Ga of Earth History. Geological Society, London, Sp. Pub. 357, 229–252.

Gardner et al (2015). Discovery of a microcontinent (Gulden Draak Knoll) offshore Western Australia: Implications for East Gondwana reconstructions. Gondwana Research 28, 1019–1031

Morgan e Vannucchi (2022). Transmogrification of ocean into continent: implications for continental evolution. PNAS 119/15 e2122694119

Olierook et al (2016). Bunbury Basalt: Gondwana breakup products or earliest vestiges of the Kerguelen mantle plume? Earth and Planetary Science Letters 440, 20–32











mercoledì 10 dicembre 2025

il terremoto M 7.6 a largo della costa settentrionale di Honshu del giorno 8 dicembre 2025 e perchè è stata lanciata una allerta tsunami per i prossimi giorni


geodinamica dell'area giapponese
Il terremoto M 7.6 dell’8 dicembre 2025 a largo della costa pacifica settentrionale di Honshu è stato decisamente un evento sismico importante. Per dare un’idea della sua forza, il Servizio Geologico degli Stati Unti ha segnalato immediatamente la possibilità di liquefazioni del terreno sulla terraferma nonostante che l’epicentro (o, meglio, il punto di rottura iniziale) sia distante un centinaio di km dalla costa. D’altro canto anche i filmati sullo scuotimento danno un’idea di cosa sia successo a una distanza così grande dall’epicentro.
Vediamo qui a sinistra la situazione dal punto di vista tettonico: tra placca euroasiatica, placca nordamericana e placca pacifica alcune microplacche prima considerate parte della placca nordamericana (la questione è ancora dibattuta). L’evento sismico è probabilmente avvenuto proprio nell’interfaccia fra la placca pacifica in subduzione e la sovrastante placca continentale di Okhotsk e ha provocato il ferimento di almeno 33 persone.

TSUNAMI ASSOCIATO AL TERREMOTO. Subito dopo il terremoto sia l'agenza meteorologica giapponese che lo Tsunami Pacific Warning Center della statunitense NOAA hanno decretato l'allerta tsunami. Lo tsunami c’è stato eccome e ha raggiunto un’altezza di 80 cm nella zona epicentrale. Un’altezza importante perché, come spiega bene il mio amico Filippo Bernardini, se un'onda "normale" interessa solo la parte superficiale della colonna d'acqua, uno tsunami interessa l'intera colonna dal fondale alla superficie. Se uno tsunami è alto 80 cm vuol dire che l'intera colonna d'acqua si alza di 80 cm, il che implica che l'energia in gioco di un'onda normale di pari altezza non sia neanche lontanamente paragonabile a quella dello tsunami.

I MEGATERREMOTI. Un megaterremoto è un evento sismico la cui Magnitudo risulta uguale o superiore a 8.5.  La stragrande maggioranza dei  terremoti più forti avvengono lungo le zone di subduzione e quindi essendo eventi di tipo compressivo, quando avvengono lungo faglie a basso angolo, sono denominati terremoti di thrust. Quindi i megaterremoti sono praticamente tutti dei megathrust
Qui ho parlato dei megathrust e di come e dove possono scatenarsi: se alcune zone di subduzione sono regolarmente interessate da terremoti così forti, altre invece non ne presentano. 
Una regola della geofisica è che più ampia è l’estensione del piano che si rompe, maggiore è l’energia liberata dal sisma (e difatti i megathrust si caratterizzano per la vastità dell’area interessata dal movimento). Quindi Blethery et al (2016) hanno fornito una spiegazione elegante per questa differenza: tutti i megathrust più recenti si trovano dove la curvatura dell’interfaccia fra la placca superiore e quella che le scorre sotto è poco pronunciata, ad esempio proprio nel sistema Giappone settentrionale – Kurili – Kamchatka, tra le Aleutine, l’Alaska e la Cascadia, in America meridionale e nel sistema Andamane, Sumatra – Giava; invece non sono conosciuti megaterremoti nei sistemi dove la curvatura del piano di scorrimento è più accentuata, ad esempio nelle zone di subduzione di Filippine, Salomone, Izu-Bonin, nelle South Sandwich e neanche tra Nuova Guinea e Nuova Zelanda nel sstema Santa Cruz, Vanuatu e Tonga – Kermadec, dove peraltro la sismicità è davvero impressionante!). Vediamo appunto nella figura 2 la differente geometria del piano di subduzione tra il Giappone settentrionale (dove la curvatura è bassa) e le isole Vanuatu, dove la curvatura è più pronunciata e nonostante la sismicità sia estremamente alta (dal 1971 64 eventi a M 7 e oltre) ci sono solo 4 eventi a Magnitudo 8 o superiore e il massimo è 8.2. 
Nella figura, ottenuta grazie a SUBMAP, un interessante tool della Università di Montpellier, si nota chiaramente la differenza di curvatura fra una subduzione capace di generre dei Mmegathrust e una che non è in grado di farlo. 
Naturalmente i megathrust sono gli eventi in grado di produrre gli tsunami più importanti, data l'estensione molto vasta del fondo marino che viene interessata dal movimento.

la cartellonistica spiega il nesso fra il terremoto M7.3 che ha preceduto il megaterremoto 
del 2011, e i possibili effetti di un nuovo megaterremoto dopo il terremoto M 7.6 dell'9 dicembre 2025
L’ALLERTA-MEGATHRUST EMANATA DALLE AUTORITÀ GAPPONESI. Poche ore dopo il terremoto dell’8 dicembre l'agenzia meteorologica giapponese ha emesso una allerta megaterremoto, esortando gli abitanti delle aree prossime alla costa del Pacifico delle isole di Hokkaido e della parte settentrionale di Honshu a rimanere vigili per tutta la prossima settimana e a preparare piani di evacuazione nel caso in cui dovessero abbandonare le proprie case. 
Vediamo perché di questa mossa che ai non addetti pare una previsione, ma in realtà in senso stretto non lo è: i dati non indicano la previsione di un terremoto estremamente forte, ma il fatto che nelle prossime due settimane ci sia una maggiore possibilità che un evento del genere si verifichi, il che è molto diverso.

Il terremoto in cui si sono registrati più morti in Giappone è quello M 8.0 della regione del Kanto nel 1923 con un bilancio che oscilla tra 105 e 140.000 persone.
I megaterremoti più recenti lungo la fossa di Honshu in Giappone sono avvenuti negli anni 1933,1952, 2003 e, appunto, 2011, quando morirono quasi 20.000 persone, soprattutto a causa dello tsunami.
Si capisce come mai l’eventualità di un megathrust costituisca un serio problema nel Paese del Sol Levante, anche perché ci sono discrete probabilità che il prossimo avvenga entro 30 anni.


 fig.5 la sequenza principale del 30  luglio 2025 a largo della Kamchatka
e la sequenza che l'ha preceduta 10 giorni prima
Ma perché è stata lanciata questa allerta, che come si vede, è ampiamente pubblicizzata da apposita cartellonistica? Molto banalmente perché entrambi gli ultimi due megathrust avvenuti nel sistema di fosse tra Kamchatka, isole Kurili e Giappone sono stati preceduti da eventi sismici significativi con epicentri molto vicini a quelli dei successivi megathrust (ricordo che con eventi di questa portata, che interessano segmenti lunghi anche centinaia di km, l’epicentro è il punto dove inizia la rottura):
  1. nella figura "C" qui sopra si vede come il terremoto M 9.1 delle coste settentrionali di Honshu dell'11 marzo 2011 sia stato preceduto due giorni prima da una sequenza iniziata con un M 7.3 e proseguita con almeno altri 21 eventi di M uguale o superiore a 5.0, di cui 2 M6.0, e uno M 6.5
  2. nella figura qui accanto si vede come il terremoto M 8.8 del 30 luglio 2025 a largo della Kamchatka sia stato preceduto 10 giorni prima da un evento a M 7.4 e quasi un anno prima dal terremoto M 7.0 del 17 agosto 2024.
Rimanendo in Kamchatka, il terremoto del 4 novembre 1952 non sembra essere stato anticipato come quello del 2025 da un importante foreschock (anche se, ricordiamoci, il registro dell’USGS che ho consultato potrebbe essere lacunoso, mancando sicuramente di tutti gli eventi a M inferiore a 6.3 e non so se manca qualcosa di più forte). Però il terremoto M 7.0 del 6 novembre 1951 alle isole Kurili ha innescato una sequenza sismica che ha interessato il segmento immediatamente a sud di quello interessato dal successivo megathrust del 1952

Sui terremoti più vecchi non mi pronuncio, perché i dati che ho non sono sufficienti e purtroppo i lavori in merito che ho trovato sono ancora a livello di pre-print e quindi non ne voglio parlare.
Siamo come ho detto prima, non su una previsione, ma su una possibilità basata sulla storia sismica recente. Ma non c’è automatismo fra eventi molto forti e megathrust: dal 1971, l’anno da cui partono i suoi dati, l’Iris Earthquake Browser segnala 25 terremoti con M 7 o superiore lungo i circa 760 km circa del tratto della subduzione corrispondente alla fossa di Honshu e alla fossa di Chishima (quella davanti a Hokkaido, che prosegue nell fossa delle Kurili); di questi, 4 sono associati o associabili al terremoto M 9.1 del 201, ma se due di questi hanno “anticipato” i megathrust del 2011 e del 2025, gli altri 20 terremoti con M elevata (diciamo sopra a 7, figura 3A) non hanno preceduto un megathrust. 
Tutto ciò evidenzia come non ci può essere certezza biunvoca in proposito: insomma, se appare estremamente probabile che un megathrust sia preceduto da un evento sismco importante con M superiore a 7, la probabilità che il singolo evento a M 7 e oltre anticipi un megathrust è molto bassa: uno su 20 dal 1971. Una minima possibilità in più forse ci sarebbe notando, come si vede dalla figura “3A”, come la sequenza attuale si collochi in un vuoto (sia pure minimo) della sismicità a M 7+ dal 1971 ad oggi

I TERREMOTI DI NOVEMBRE E DI DICEMBRE 2025 LUNGO LA FOSSA DI HONSHU A CONFRONTO. La sequenza sismica iniziata ieri 8 dicembre a largo di Honshu è iniziata circa un mese dopo che se ne è verificata un’altra circa 150 km a SSE di questa. Le due sequenze sismiche recenti a largo della costa orientale di Honshu, visibili nella figura 3B, hanno però caratteristiche differenti:
  • quella di adesso è una classica sequenza con un evento principale e le sue repliche
  • nella sequenza di novembre invece gli eventi più forti sono avvenuti 2 giorni dopo il suo inizio

BIBLIOGRAFA CITATA

Blethery et al (2016). Mega-earthquakes rupture flat megathrusts. Science 354, 1027-1031

Zhao et al (2018). Timing of Okhotsk Sea Plate Collision With Eurasia Plate: Zircon U-Pb Age Constraints From the Sakhalin Island, Russian Far East. Journal of Geophysical Research: Solid Earth, 123, 8279–8293