domenica 26 febbraio 2017

Darwin day 2017: 5 equivoci sull'evoluzione


Era da un po' che non mi occupavo di evoluzione, anzi di evoluzionismo. Colgo quindi l'occasione dell'appena passato Darwin Day, anche grazie ad un bell'articolo su wired che fa il punto su alcuni concetti completamente errati e perché a causa delle vicende americane attuali, quello di quest'anno è forse il più significativo Darwin Day degli ultimi tempi. Preciso che su Scienzeedintorni si parla di politica se e solo in rapporto ai temi del blog e non dal punto di vista generale; pertanto sulle elezioni e sulla politica americana in senso lato non metto bocca: mi occupo solo del fatto che fra le conseguenze dell'elezione di Trump c'è purtroppo l'assist al fondamentalismo religioso antievoluzionista, il quale sta riprendendo piede anche in Europa, continente da cui era stato bene o male espulso quasi dappertutto. Soprattutto, il rischio per la Scienza dalla nuova coppia presidenziale USA, con il presidente impegnato fra i negazionisti di un effetto antropico sui cambiamenti climatici e un vicepresidente antievoluzionista militante è reale. Quindi ancora una volta, la Comunità Scientifica deve riaffermare pubblicamente l’attualità degli studi e dell’insegnamento dell’evoluzione attraverso gli eventi inseriti nel Darwin Day il 12 febbraio, anniversario della nascita di Charles Darwin. 

Per la Scienza negli USA si preannunciano tempi duri: da un lato i climascettici, dall’altro gli antievoluzionisti sono due fronti che hanno tutto l'interesse a delegittimare la comunità scientifica in senso lato, per delegittimare a cascata i risultati delle ricerche che li smentiscono (o, in genere, li ridicolizzano). 
Di fatto dopo le elezioni negli Usa i tentativi di indebolire l’insegnamento dell’evoluzione hanno conosciuto un nuovo impulso e anche in Europa, a lungo considerata relativamente immune a questo tipo di antiscienza, il creazionismo continua ad avanzare. Pertanto 150 anni dopo Darwin la battaglia contro l’arretratezza mentale (almeno dal punto di vista scientifico) degli antievoluzionisti, è ancora da vincere, nonostantechè la pubblicazione de “l’origine delle specie” sia stata uno spartiacque fra il “prima” in cui la mancanza di un “motore” dell’evoluzione rendeva possibile il dibattito ad un “dopo” in cui nessun uomo di Scienza che ha studiato dopo il 1859 ha potuto dubitare dell’evoluzione (tranne pochi casi, isolati e senza seguito, come in Italia... Zichichi). 
Parlando di evoluzione occorre innanzitutto capire che stiamo parlando di un processo attivo attualmente come lo è stato nel passato. Il fatto che sia attivo ci consente (anzi, ci obbliga) ad applicare anche in questi studi il criterio dell’attualismo che in Geologia è stato codificato già alla fine del ‘700: seguendo quello che James Hutton stabilì e cioè che i fenomeni geologici che operano adesso hanno sempre agito con la stessa intensità nel passato dei tempi geologici, si può dire che anche i fenomeni biologici (evoluzione in primis) procedono adesso come hanno proceduto nel passato.
Oggi sappiamo che ci sono stati momenti in cui l’evoluzione si è accelerata (in particolare durante le varie “radiazioni evolutive”), o dopo le estinzioni di massa, ma d’altro canto anche gli eventi geologici hanno vissuto ad impulsi, per esempio quelli legati ai cicli di formazione e distruzione dei supercontinenti. Però queste sono sfaccettature secondarie.
Il post di Wired che ho citato parla di 5 errori comuni sull’evoluzione che quindi mi piace esaminare, perché, come vi è scritto, alcuni aspetti dell’evoluzione sono fraintesi e anche grazie a tali fraintendimenti gli antievoluzionisti possono trovare alcuni (sbagliati) appigli.
Ai 5 punti considerati dal post ne aggiungo un altro a cui comunque era stato fatto un accenno e lo metto per primo,  come “punto zero” per  rispetto del post che mi ispira e per semplicità in un eventuale confronto.

O. SIGNIFICATO DI EVOLUZIONE. Darwin non parlò mai di “evoluzione” ma di “discendenza con modificazioni”. È una distinzione particolarmente importante perché nel XIX secolo quando fu introdotto il termine "evoluzione" questo serviva per mettere l’Uomo al vertice della biosfera (e, calandosi nel periodo vittoriano, della supremazia dell’uomo inglese su quelli europei in primis e sul resto dell’umanità poi). Con il termine evoluzione quindi la darwiniana asettica “discendenza con modificazioni” diventava tacitamente un “progresso”. In realtà ciò non è sempre vero: certamente la “corsa agli armamenti” fra preda e predatore fa sì che certi standard (riflessi, corsa, veleni ed immunizzazione dai veleni etc etc) migliorino, e in genere forme di vita più performanti soppiantino quelle meno performanti una volta che entrino in una determinata nicchia ecologica: l’estinzione delle faune autoctone del Sudamericane quando si è formato l’istmo di Panama è un esempio classico, come lo sono in tutto il mondo le specie invasive portate dall’uomo. Ma non c’è un finalismo in tutto ciò, né una specie meno “progredita” dal punto di vista fisiologico verrà soppiantata necessariamente da una più progredita o intelligente: ad esempio un coccodrillo è “meno perfetto” di un mammifero, se guardiamo a intelligenza, complessità strutturale, comportamento e quant’altro, ma nel suo ambiente non ha rivali. Quindi lì è più performante di qualsiasi mammifero che abbia tentato di spartire con lui la nicchia ecologica di "predatore fluviale d'apice in zone equatoriali". Invece i coccodrilli di abitudini più terricole che sfruttando l’estinzione dei dinosauri hanno popolato la Terra nel primo Paleocene sono scomparsi appena uccelli e mammiferi carnivori si sono organizzati con forme capaci di fare loro concorrenza (vedi questo post). 
Insomma, c’è una netta differenza fra un prodotto della tecnologia e un essere vivente: nessuno comprerebbe per un uso quotidiano una automobile di 50 anni fa, che per certi versi è diversa da quelle attuali come un rettile lo è da un mammifero, mentre i rettili sono ancora in “servizio regolare”.
Anche la teoria dell’evoluzione si è … evoluta nel tempo e oggi le idee di Darwin sono state “decisamente migliorate”: ad esempio non c’è più il gradualismo esasperato grazie agli “equilibri punteggiati” di Gould e Eldredge; insomma, mentre animali “poco evoluti” come i molluschi bivalvi godono di ottima salute, nessuno può insegnare la biologia come nell’immediato dopo – Darwin (se non parlando di storia della Scienza).

1. L’EVOLUZIONE NON SPIEGA (NÈ SI SOGNA DI SPIEGARE!) L’ORIGINE DELLA VITA. Con l’evoluzione si spiega la storia della biodiversità da quando la vita è apparsa sulla Terra e come questa si è modificata con il tempo, ma non come la vita sia nata, un problema scientifico aperto (e che non sarà facile risolvere). Il motivo è molto semplice, proprio perché applichiamo il criterio dell’attualismo: non ci sono dubbi che pressioni e meccanismi evolutive abbiano guidato le modificazioni nel tempo degli esseri viventi fin dalla loro comparsa. Ma l’attualismo non si può applicare ai processi che hanno coinvolto quei composti chimici che alla fine si sono auto-organizzati in sistemi molecolari in grado di replicarsi e mantenere un metabolismo, semplicemente perché non ne esistono più e non possono essere direttamente studiati. Per parlarne, supponendo che in qualche modo anche questi composti siano stati soggetti a pressioni ambientali di vario tipo, si parla di evoluzione chimica durante questa fase pre-biotica. Ma è una cosa diversa dalla evoluzione in senso biologico.
Ovviamente su questo (da loro voluto) equivoco gli antievoluzionisti ci sguazzano, perché “secondo loro l’evoluzione è un falso proprio perché, appunto, non spiega l’origine della vita”, citando (a sproposito come sempre e decontestualizzando al solito la frase) qualche scienziato; spesso tocca al famoso astronomo Fred Hoyle, quando ripeteva che “se un tornado passasse sopra un deposito di rottami, quali sono le probabilità che il risultato sia un Boeing 747 perfettamente funzionante?”.  Ovviamente e scaltramente, evitano di citare il resto e cioè che Hoyle vedeva la vita sulla Terra non in quadro esclusivamente terrestre (tantomeno creazionista!) ma nella prospettiva della panspermia: i germi della vita sono sparsi per tutto il cosmo e si sviluppano dove trovano le condizioni opportune. Ovvio che Hoyle, quindi, non si sognava con quella frase di fare l’antievoluzionista, mentre molti creazionisti lo hanno adottato (i primi per disonestà intellettuale, poi sono arrivati i creduloni).

2. NON CI SIAMO EVOLUTI PER CASO. Diversi creazionisti attribuiscono ai biologi l’asserzione secondo la quale il cambiamento degli esseri viventi sia dovuto al puro caso. Siamo alle solite: il “primo” lo dice al “secondo”, che ci crede e lo dice al “terzo” che ovviamente ci crede anche lui e via discorrendo, in un circuito privo di confronti con l’esterno (se non per sputare sentenze). Diciamo che il caso in diversi aspetti “funziona” ottimamente; anzi, è il motore primo dell’evoluzione: le mutazioni sono effettivamente casuali (o, almeno, non risulta per adesso esistere un trend nelle mutazioni). Ma se qualche mutazione “funziona” e quindi si fissa, mentre altre che non funzionano non si fissano questo non è certo un caso, a meno che il portatore della mutazione favorevole abbia avuto delle cause contingenti che non gli hanno permesso la riproduzione (ad esempio predazione, scarso sex appeal, catastrofe naturale o epidemia). Nel caso dei falchi la pressione evolutiva ha selezionato le  mutazioni che hanno prodotto la loro proverbiale visione, mentre un falco con una mutazione che gli conferisce una vista scadente “non funziona” e non è un caso se poi non si riproduce… quindi la selezione naturale addirittura fa l’opposto, cioè si oppone al caso quando questo produce disastri. Insomma, esiste un filtro che corregge le casualità delle mutazioni e che addirittura è in grado di accelerare l’evoluzione, diffondendo quelle mutazioni che permettono agli individui di lasciare più discendenti.
D’altra parte la forma del corpo è in qualche modo abbastanza logica: soprattutto notiamo che una caratteristica di base di tutti i phyla che appartengono ai bilatera, cioè tutti gli Animalia a parte poriferi, cnidari (celenterati) e qualcos’altro è che la parte pensante, i sensi con organi appositi (vista) e l’ingresso del cibo siano “davanti”, mentre l’ano è dietro. Quindi l’evoluzione ha premiato le mutazioni che hanno prodotto questo piano corporeo, sicuramente più logico di uno con il cervello in mezzo e gli occhi dietro.

3. L’EVOLUZIONE È OSSERVABILE. Nella concezione darwiniana l’evoluzione era lenta e graduale. Poi si è visto che ci sono dei momenti in cui la biodiversità aumenta rapidamente. Prendiamo ad esempio i dinosauri teropodi che, originatisi nel Triassico, sono sopravvissuti almeno in parte alla estinzione al passaggio fra Triassico e Giurassico: la divisione basale fra Carnosauri e Celurosauri è avvenuta all'inizio del Giurassico. E questo vale anche all'interno dei Celurosauri, la cui biodiversità è a sua volta immensa, a partire dalle dimensioni, fra giganteschi tirannosauri, oviraptororidi, therizinosauri dagli artigli enormi, ornitomimosauri, dromaeosauri dagli artigli simili a falci e, buon ultimi, i piccoli teropodi antenati degli uccelli. Ebbene, tutti questi gruppi si sono originati tra il Giurassico inferiore e quello medio, nei primi 30 milioni di anni di una storia che ne conta 135. Identiche caratteristiche temporali contraddistinguono la storia dell'altro ramo dei dinosauri, gli ornitischi. 
Pensiamo poi, per esempio, ad un caso che ci riguarda molto da vicino, l’evoluzione dei Primati: sfruttando lo scontro scontro fra i due continenti, alcuni gruppi passando dall’Eurasia in Africa sono stati protagonisti di una radiazione evolutiva incredibilmente complessa e veloce, che ha fissato la sistematica basale degli antropoidi.

Ma se veloci dal punto di vista del tempo geologico, a scala umana sono sempre processi molto lenti; tuttavia esistono molti casi nei quali è possibile osservare l’evoluzione in diretta o quasi: la resistenza dei batteri agli antibiotici è forse l’esempio più classico, ma ci sono alcuni adattamenti dovuti ai cambiamenti climatici nei vertebrati dimostrano una velocità evolutiva sorprendente. Un caso eccezionale è quello delle lucertole di Pod Mrcau: in pochi anni una popolazione di lucertola classica italiana si è trasformata in qualcosa di completamente diverso. 
Per rimediare al problema, gli antievoluzionisti hanno tirato fuori una delle loro solite fantasie, i baramini, cioè forme ancestrali create da Dio (a livello credo di “ordine” o di “famiglia”) che poi si differenziano, come cercano di differenziare fra evoluzione intraspecifica (che ammettono all’interno dei baramini) ed evoluzione interspecifica (quella che fa “nascere” una specie da un’altra, che non ammettono). Un classico esempio del vecchio metodo pre – galileiano in cui le idee avevano il privilegio sui fatti.



4. GLI ESSERI UMANI NON HANNO SMESSO DI EVOLVERSI. Le differenze fra le varie popolazioni riflettono l’adattamento al clima e all’ambiente in generale, oltre ad essere un riflesso delle preferenze sessuali. Proprio quest’ultimo aspetto spinge a dire che anche nei Paesi più progrediti l’evoluzione continua ancora oggi, nonostante la lotta per la sopravvivenza sia in certe aree ormai un retaggio del passato. È comunque vero che certe mutazioni che provocano malattie genetiche o altri disturbi, sono spesso eliminate perché i portatori non giungono all’età della riproduzione o, se vi arrivano, non trovano partner per farlo. Ma quello succede ovviamente anche nelle altre specie.  



La velocità della corsa del Ghepardo è stata ottenuta sacrificando
altre caratteristiche che sono diventate dei problemi: ad esempio
la necessità di fermarsi dopo la caccia con la preda accanto
5. L’ADATTAMENTO PERFETTO NON ESISTE. Un essere vivente che vive nelle stesse condizioni ambientali dei suoi antenati senza che ci sia stata una sostanziale alterazione antropica di quello che lo circonda viene spesso indicato “perfettamente adattato” all’ambiente. A me il concetto di “perfezione” ha sempre dato una reazione fastidiosa: nessuno può discutere che un certo essere sia adatto all’ambiente in cui vive (ancora meglio: che nella sua nicchia ecologica sia particolarmente performante) e che probabilmente se lo mettiamo in un ambiente diverso potrebbe fare la fine del proverbiale “pesce fuor d’acqua”. Ma la perfezione non è un concetto applicabile agli esseri viventi e l’adattamento ad un certo tipo di vita sarà un compromesso fra tante esigenze: ad esempio lo sviluppo di una vista eccezionale al buio negli antenati ha comportato che quasi tutti i mammiferi vedano la vita in bianco e nero (solo uomini e pochi altri primati hanno sviluppato nuovamente la visone a colori). Insomma in quell’essere dalle abitudini notturne progenitore dei mammiferi è stata premiata la vista al buio rispetto a quella dei colori diurni: ma a questo modo di notte si muoveva parecchio bene. 
Tornando agli esseri umani, la postura eretta con andatura bipede, è stata celebrata come un esempio di “evoluzione come progresso” per tutta una serie di motivazioni sulle quali non c’è spazio per parlarne qui. Ora, per correre occorre avere un bacino stretto e un bacino largo che consente di correre poco nella savana poteva essere piuttosto rischioso. Ma le femmine con il bacino stretto non potevano certo partorire. Quando poi la capacità cranica è aumentata drasticamente i problemi si sono fatti ancora maggiori. Da qui nasce la soluzione neandertaliana di una testa a forma un po' ovale (ovviamente con l’asse più lungo nella direzione del parto) e quella di sapiens in cui il neonato ha la testa molto ridotta e il cervello ancora poco funzionante. La soluzione di sapiens è quindi un compromesso che permette sia l’uscita della testa che la capacità di corsa alle femmine, ma al prezzo di un lungo periodo di totale dipendenza dalla madre del neonato, la quale quindi si sarà salvata dai predatori ma deve svolgere una serie di difficili e assidui compiti.

Per non parlare poi di quei teologi che farneticano di “genomi perfetti” come quello di cui ho parlato qui.
  
EPILOGO. Insomma, a dispetto di proclami idioti sul fatto che l’evoluzionismo è in crisi, dal punto di vista scientifico l’evoluzione gode di una salute invidiabile ed è il sistema che “regge” tutte le Scienze della Vita (biologia, zoologia, botanica, paleontologia, embriologia e quant’altro). Purtroppo per assurde pretese di retroguardia di una parte anche influente di persone (per le quali l’evoluzione è in contrasto con il credo religioso o che sostengono certe idee per mero consenso elettorale) tutti gli anni tocca ricordare che nel XIX secolo è vissuto un certo Charles Darwin, il quale ha spiegato al mondo il perché dell’evoluzione (anche se sarebbe meglio chiamarla “discendenza con modificazioni”) ...

sabato 18 febbraio 2017

La bufala della scoperta della Zealandia: non è avvenuta oggi, e 22 anni fa è stata definita come unione di masse già conosciute

In questi giorni i giornali italiani stanno ripetendo una gran bufala sulla scoperta della Zealandia, un continente sommerso. Intendiamoci, la bufala non è la scoperta della Zeelandia, ma il fatto che sia stata scoperta ora… insomma “ultime notizie: Dio crea il cielo e la Terra”. La questione fondamentale nasce da un interessante articolo: Zealandia: Earth’s Hidden Continent, uscito sulla rivista GSA today articolo, che fra parentesi essendo "open" chiunque può scaricare e leggere. Anche se evidentemente capire cosa sia questo articolo e cosa ci sia scritto è un optional. 
Infatti: 
- bastava leggere l’articolo, dove a un certo punto (nell’introduzione… non nelle ultime righe… ) si legge esplicitamente che The name Zealandia was first proposed by Luyendyk (1995) as a collective name for New Zealand, the Chatham Rise, Campbell Plateau, and Lord Howe Rise. Siamo nel 1995, cioè 22 anni fa e a quell’epoca, appunto, le parti che la costituiscono erano già ampiamente note.
- è evidente che c’è gente che non capisce la differenza fra un articolo di ricerca e un articolo di review: questo infatti non è un articolo di ricerca che presenta una nuova scoperta, ma un articolo di review in cui viene esposto lo stato dell’arte sulla ricerca in un certo settore: specificamente, dunque, sulla Zealandia.

Anche io su scienzeedintorni ho parlato di questo continente alcune volte: nel 2011, quando scrissi in post sulla storia della Nuova Zelanda dopo il terremoto di Christchurch:  nel 2015 quando parlai della scoperta di una serie di vulcani spenti sottomarini tra Australia e Nuova Zelanda che datano proprio a quando Australia e Zealandia si sono separati e in questo autunno dopo l’ultimo importante sisma nell’isola dei Kiwi.

Insomma, niente di nuovo sul fronte degli antitipodi. Ma la notizia di una nuova straordinaria scoperta fa notizia.E soprattutto click…

martedì 14 febbraio 2017

La diga di Oroville: la diga non corre nessun rischio di cedimento: il problema è nell'invaso


Nota iniziale: questo post è pubblicato alle 12.30. Chiaramente la situazione è fluida (in tutti i sensi) e quindi può cambiare velocemente...
Vorrei brevemente fare un po' di ordine sulla questione della diga di Oroville, la più alta degli Stati Uniti (230 metri), costruita nel 1968 a scopo di produzione energia elettrica, come riserva di acqua e di regimazione del fiume Feather (già quando era solo in costruzione, riuscì nel 1964 a limitare i danni di un nesondazione avvenuta a monte).

Innanzitutto, contrariamente a quanto affermato da organi di stampa italiani, la diga sta benissimo. Chi scrive che rischia di cedere la diga non ha capito una beata minchia (scusate il termine, ma prima di parlare certa gente dovrebbe chiedere ad un esperto…). 
Ma allora dove stanno i problemi?
Le dighe hanno una “valvola di troppo pieno” un po' come quella che abbiamo nei sanitari: se chiudiamo il tappo e poi andiamo a fare qualcos’altro dimenticandoci il rubinetto aperto, il foro di “troppo pieno” impedisce che l’acqua trabocchi dal lavandino o dalla vasca da bagno con spiacevoli conseguenze. Anche le dighe, quindi, sono attrezzate in questo modo.
In questa immagine vediamo la diga, il canale principale di scolo (“spillway”) e la zona del canale secondario che è in erosione.
Che cosa è successo?


Ricordo che se un lago aumenta di livello la quantità di acqua in entrata è maggiore dell’acqua in uscita e viceversa e allora quando il servizio meteorologico avverte dell’arrivo di intense precipitazioni, gli invasi delle dighe vengono alleggeriti, cioè viene abbassato il livello del lago in modo da evitare che si riempia troppo. Però la portata di una diga in uscita più di tanto non può essere, per cui ci sono dei sistemi di “troppo pieno”.
In California dopo una delle più drammatiche siccità della sua giovane storia, sono arrivate delle precipitazioni molto intense, regolarmente preavvisate dal servizio meteorologico.
Dalle informazioni che ho ricevuto è stata sottostimata la quantità di acqua che sarebbe arrivata nel bacino (mi pare di aver capito che ci sia di mezzo anche una legislazione di emergenza a causa della siccità, ma non sono sicuro di questo). Il livello del lago è cresciuto di 15 metri in pochi giorni.


L’invaso è fornito di due scarichi di troppo pieno. Il primo è quello che si vede a sinistra della diga, un canale in cemento che però già mercoledì 8 ha accusato dei problemi: nella immagine del California Department of Water Resources si vede nel cerchio a destra che il cemento del fondo del canale si è rotto. l’acqua dunque ha iniziato ad erodere il terreno sottostante. Una situazione difficile per cui il funzionamento di questo canale è stato sensibilmente ridotto. Quindi l’acqua, stante che le piogge continuano, ha continuato a salire fino ad arrivare al livello in cui inizia a tracimare in un secondo canale di scolo di emergenza, che si trova guardando la foto a sinistra del primo.

E qui sta il secondo problema. 
Qualche anno fa diverse organizzazioni non governative avevano evidenziato che il secondo sfiato non aveva il fondo cementato e che quindi, in caso fosse stato necessario usarlo (e fino ad oggi non era mai successo) la cosa avrebbe comportato grossi rischi perché l’acqua avrebbe eroso il fondo e, soprattutto, la soglia.
Si, la soglia, perché se lo sfiato ordinario ha una chiusa che regola la portata in uscita (e infatti in questi giorni sono state scattate foto sia del canale vuoto che del canale pieno), lo sfiato di emergenza non ha una chiusa, ma semplicemente si mette in funzione perché l’acqua del lago trabocca dalla soglia
Da notare comunque che il livello del lago non può arrivare al livello della diga perché gli sfiati sono circa 6 metri più bassi: rimane quinid un franco minimo di 6 metri fra la diga e il livello delle acque del lago.

E qui casca l’asino: l’acqua è tracimata dalla soglia e la sta erodendo. Il rischio quindi è che il lago inizi a svuotarsi un po' troppo velocemente se l’erosione procede in maniera incontrollata.
Dalle ultime notizie sembra che la situazione, anche grazie ad una breve interruzione delle piogge, stia migliorando: il momento che il livello del lago scende sotto quello dello sfiato di emergenza cessa il pericolo di erosione.
Pertanto sono state evacuate quasi 200.000 persone che non potranno tornare a casa fino a quando permarrà il rischio di erosione della zona di tracimazione del canale di scolo.

RIPETO: IL PROBLEMA È NELLA ZONA DI TRACIMAZIONE CHE PORTA AL CANALE DI SCOLO DI EMERGENZA E NON DELLA DIGA CHE GODE DI OTTIMA SALUTE

sabato 11 febbraio 2017

La bufala dell’uso del sistema di allerta terremoti in Italia: perché (e quando) funziona in Giappone e perché non può funzionare da noi.


Tante sono le bischerate che si sentono sui terremoti in Italia, a partire da chi continua a sostenere che INGV abbia abbassato la Magnitudo dell'evento (anche a novembre in Nuova Zelanda il servizio locale aveva sbagliato - e non di poco - all'inizio, sottovalutando il dato e di parecchio: ma lì non ci sono stati gli scomposti strepiti che abbiamo da noi quando una Magnitudo viene corretta da... 6.2 a 6.4). Ci sono poi "le trivelle" e compagnia cantante. Ho veramente la nausea per questo. La moda di questi ultimi giorni è quella del sistema di allarme per i terremoti di cui si è dotato il Giappone: mi è toccato già intervenire più volte per spiegare perché questo sistema non può funzionare in Italia: semplicemente perché si tratta di un sistema centrato per terremoti molto diversi per Magnitudo e distanza epicentrale rispetto a quelli italiani. Voglio quindi riepilogare la questione anche su Scienzeedintorni.

Questa raffigurata qui a fianco non è che l’ultima delle idiozie che sono state dette a proposito del sistema di allarme che hanno i giapponesi in caso di terremoto. La prendo ad esempio: stavolta viene da una precisa parte politica, ma, come parecchie idiozie italiche, è trasversale da destra a sinistra passando per i grillini (e anche alla ggggente). Un personaggio molto attivo nei Social Network a proposito dei terremoti ha dichiarato che "ogni istituto scolastico dovrebbe essere dotato di una piccola stazione sismica, di un vero "early warning system" come in Giappone, che appena riceve le onde primarie di un terremoto potenzialmente pericoloso avvii il piano di emergenza in maniera autonoma attivando un segnale acustico".
Quanto dichiarato è semplicemente sbagliato, in quanto i terremoti italiani sono molto diversi da quelli giapponesi per i quali è stato idato questo intelligente sistema di allarme. Vediamo perché.

LE CARATTERISTICHE DELLE VARIE ONDE SISMICHE. Intanto vediamo di distinguere i vari tipi di onde sismiche:

Onde P e onde S - dal sito di INGV
  • onde P (primarie): al loro passaggio le rocce si comprimono e si dilatano continuamente. Sono anche dette longitudinali perché fanno oscillare le particelle di roccia che attraversano nella direzione in cui si propagano si propagano come le onde sonore nell'aria
  • onde S (secondarie): non causano variazioni di volume al loro passaggio; si propagano allo stesso modo di una corda agitata orizzontalmente e l'oscillazione delle particelle di roccia avviene trasversalmente rispetto alla loro direzione di propagazione

Una cosa interessante è che le onde P si propagano anche nei fluidi, dove le onde S non si propagano.

Quando le onde P e le onde S incontrano la superficie terrestre da quel punto si propagano altre onde:
  • le onde di Rayleigh: un modello di come funzionano sono le onde che che si propagano dal punto in cui un sasso cade in uno stagno
  • le onde di Love: fanno vibrare il terreno sul piano orizzontale. Il movimento delle particelle attraversate da queste onde è trasversale e orizzontale rispetto alla direzione di propagazione delle onde

Le onde di Rayleigh e quelle di Love sono quelle che provocano i danni dei terremoti ma per questa trattazione ci servono solo le onde P e le onde S.

Quanto detto ovviamente si riferisce ai primi treni in arrivo, perché come le onde luminose, anche le onde sismiche sono soggette a riflessioni e rifrazioni quando cambiano il mezzo in cui passano e quindi più elevata è la Magnitudo di un evento, più a lungo i sismografi continueranno a ricevere onde da lui prodotte, che percorreranno le vie più disparate ma che avendo fatto più strada, essendo riflesse e rifratte hanno perduto la loro forza e vengono registrate solo dalla strumentazione. 
Proprio lo studio delle onde riflesse e rifratte è il sistema migliore per studiare l’interno della Terra.

Ci sono poi altre due caratteristiche fondamentali da prendere in esame e cioè:
  • siccome i terremoti sono prodotti da scorrimenti violenti e veloci lungo un piano di faglia, le onde P sono meno intense (meno alte) delle onde S. Come ho fatto notare in questo post sull’esperimento nucleare nordcoreano del gennaio 2016, se invece il terremoto è generato da una esplosione (per esempi di un ordigno nucleare) le onde P sono più forti delle onde S
  • a causa della differenza di velocità dei due treni d’onda principali, più lontano è il terremoto, più distanti nel tempo saranno gli arrivi dei due principali treni di onde. Per capire quanto distante sia avvenuto un terremoto la discriminante più intuitiva è la differenza fra il tempo di arrivo delle onde P e delle onde S: maggiore la distanza, maggiore la differenza fra l'arrivo dei due treni principali.

Quindi l’idea dei giapponesi è semplice: sfruttare la differenza fra i tempi di arrivo delle onde P e delle onde S, per cui i sismografi (e soprattutto gli accelerometri) riconoscono che è arrivato un forte treno di onde P e danno l’allarme permettendo alla popolazione (ben addestrata… i giapponesi sono “un pò” più disciplinati di noi italiani) di prendere le opportune misure per mettersi in salvo prima dell’arrivo, qualche decina di secondi dopo, delle distruttive onde S.
Tutto semplice, ma con un particolare di non trascurabile importanza, osservabile in questa carta tratta dall’Iris Earthquake Browser, che illustra per quali terremoti il sistema di allarme sia stato concepito: si tratta di eventi a Magnitudo molto più elevata di quella degli eventi principali italiani (oltre 7) e che avvengono a decine di km dalla costa, sul mare.

Questi terremoti si producono nella zona dove la placca pacifica scorre sotto quella continentale e nel conseguente prisma di accrezione giapponese, la fascia attualmente in compressione a causa della collisione fra le due placche.
Nell'immagine seguente vediamo il sismogramma del terremoto del 2011, reperito sul sito di EMSC: gli arrivi dei due treni d’onda avvengono a circa 50 secondi di distanza, un tempo abbastanza lungo per permettere in molti casi di mettersi in sicurezza. 
Non solo, ma siccome il treno delle onde P finisce prima dell'arrivo delle onde S la popolazione avverte in questo modo 2 scosse distinte.
In Italia è successo per esempio nel terremoto M 5.6 del 28 ottobre 2006 nel Tirreno: ci sono precise testimonianze secondo le quali “ci sono state due scosse, di cui la seconda più forte della prima”. È chiaro che invece si tratti di persone che hanno distinto l’arrivo del treno di onde P da quello delle onde S.

Quindi in Giappone un terremoto importante nella zona interessata dagli effetti della collisione fra le placche sarà anche forte, ma a 100 km dalla costa (e a 30 di profondità), i due treni d'onda saranno ben distinguibili e il treno delle P viene avvertito con un forte anticipo rispetto a quello che provoca effettivamente i danni.

Osserviamo poi questo secondo sismogramma, che si riferisce al terremoto M 6.8 del 17 gennaio 1995, noto come “terremoto di Kobe.
La città e i suoi dintorni hanno patito danni e vittime impressionanti, eppure si trattava “solo” di un M 6.5, oltre 1000 volte meno intenso di quello del 2011 (ripeto che la Magnitudo è in scala logaritmica, per cui un evento M 7 è oltre 30 volte più intenso di uno con M 6 e così via). 
A differenza del terremoto del 2011, quello di Kobe  è avvenuto sulla linea mediana, come quelli della primavera scorsa, di cui ho parlato qui.
L’ipocentro è sotto la terraferma a 16 km di profondità. In quel caso il sistema di allarme è stato completamente inutile, perché fra l’arrivo delle onde P e quello delle onde S sono passati appena 5 secondi, un tempo difficilmente utile per mettersi in salvo, tra inerzia del sistema, arrivo delle onde sonore delle sirene e prontezza dell’essere umano a capire cosa stia succedendo e decidere, sia pure in maniera istintiva, cosa fare.

Tanto per fare un raffronto ferroviario: i sensori sismici delle ferrovie giapponesi avvertono l'arrivo delle onde P e immediatamente parte il processo per far fermare i treni (magari i veloci Shinkansen non saranno ancora proprio fermi ma saranno sicuramente correranno a velocità ben inferiori ai 250 / 300 km/h a cui viaggiano normalmente). Durante il terremoto superficiale del 15 aprile 2016 invece un treno è deragliato proprio a causa delle onde sismiche: troppo poco lo sarto fra l'arrivo dei due treno d'onda principali per permettere di operare un rallentamento.

In Italia (ed in particolare negli eventi da agosto in poi) siamo nella situazione della linea mediana: eventi superficiali e sotto i nostri piedi. 
Quindi tale tipo di allarme da noi non servirebbe assolutamente a niente. L'unica difesa possibile è la costruzione di edifici in grado di resistere alle sollecitazioni dei terremoti, cosa tecnologicamente possibile.
Altri discorsi sono fuffa

mercoledì 8 febbraio 2017

La collisione fra India ed Eurasia: i dati petrografici, geologici e paleontologici concordano che l'inizio sia avvenuto all'inizio dell'Eocene


Mi sono occupato spesso su Scienzeedintorni della collisione fra India ed Eurasia, argomento per me affascinante, a causa dei suoi aspetti geologici e faunistici estremamente interessanti (e infatti sono anche iscritto alla sezione di Geologia Himalayana della Società Geologica Italiana). Dal punto di vista tettonico è ancora un evento parecchio dibattuto, sia per le diverse interpretazioni della storia dell’arco intraoceanico del Kohistan – Ladakh (si è scontrato prima con l’India o prima con l’Eurasia e in che epoca?) che per l’età della chiusura definitiva. Dal punto di vista biogeografico l’interscambio fra India ed Eurasia è stato fondamentale per tanti gruppi, specialmente per i mammiferi placentati, con ampi riflessi anche per la storia dei Primati. Un punto fermo è la comparsa di mammiferi placentati moderni in india all’inizio dell’Eocene, il che suggeriva una datazione di poco antecedente quantomeno per la datazione di un primo contatto fra le due masse. Un lavoro appena uscito su Earth and Planetary Science Letters ha accertato che, almeno nella zona del Kohistan – Ladakh, lo scontro definitivo è avvenuto proprio in corrispondenza delle prime testimonianze di placentati moderni in India. Quindi la perfetta armonia fra i dati geologici e quelli paleontologici fornisce un punto fermo, almeno dal punto della tempistica degli eventi nell’area NW della catena.

Carta schematica dell'Himalaya, da [2]
HIMALAYA E DINTORNI: UNA GEOLOGIA COMPLESSA E ANCORA NON DEL TUTTO CHIARA. La collisione fra India ed Eurasia è un fenomeno particolarmente dibattuto a causa della presenza nel settore orientale di un arco magmatico intraoceanico (sul tipo delle attuali Marianne) nell’oceano che divideva le due masse continentali, il Kohistan – Ladakh. La conseguenza è una struttura più complessa di quella di un orogene “normale”: quando due masse continentali si scontrano dopo la chiusura di un oceano troviamo una sola sutura, che separa le rocce pertinenti ai due continenti e che contiene le serie oceaniche, comprese le ofioliti, resti della crosta, di quell’oceano; nell’Himalaya occidentale ci sono due suture diverse, una fra l’Eurasia e il Kohistan - Ladakh (la sutura di Shyok o Main Karakoram Thrust, che separa il Kohistan dal Karakoram ) e la seconda che separa il Kohistan dall’India, la sutura dell’Indo e dello Tsangpo (nome cinese del Brahamaputra). 

Nel settore orientale invece c’è una sola sutura, tra l’India e il blocco di Lhasa, dove troviamo le serie della Tetite Himalayana, che corrisponde grossolanamente alla valle dello Tsangpo.

Quindi la situazione complessiva 100 milioni di anni fa circa era la seguente, da nord a sud:
  • Eurasia, con i margini continentali di tipo andino, sede di vulcanismo (ad est il blocco di Lhasa che vi si era appena unito lungo la sutura di Bangong–Nujiang e a ovest l’arco magmatico del Karakorum)
  • Paleotetide
  • Arco del Kohistan – Ladakh nella parte occidentale (a ovest della faglia del Karakorum)
  • Neotetide
  • India 

L’arco del Kohistan è protagonista di una questione fondamentale ancora irrisolta per la storia della catena: si è scontrato prima con l’India e poi insieme sono finiti contro l’Eurasia (ipotesi “India prima") oppure l’India si è scontrata con l’Eurasia quando il Kohistan era già unito all’Eurasia (ipotesi “Asia prima”). Annoto che entrambe le posizioni sono sostenute da ricercatori molto autorevoli e quindi non mi è possibile prendere posizione, anche se l’ipotesi “Asia prima” personalmente mi piace di più dal punto di vista geologico, mentre quella “India prima” risolverebbe meglio certe questioni biogeografiche (a partire dalla presenza in india di fossili come Deccanolestes. Per un riassunto vedi questo post.
Anche per la tempistica ci sono dei dubbi: tradizionalmente lo scontro definitivo è datato fra 60 e 50 milioni di anni fa, ma per alcuni Autori della scuola “India prima”, la massa formata da India e Kohistan – Ladakh uniti sarebbe finita contro l’Eurasia solo tra 40 e 23 milioni di anni fa. Questo per la parte NW. ma anche per quella a SE ci sono delle diatribe in corso.

C’è poi il problema della “Greater India. Con questo termine si indica la parte della placca indiana che è stata subdotta sotto il Tibet a partire dall’inizio della collisione fra i due continenti, che ha provocato un raccorciamento probabilmente ben maggiore di quello documentato dalla geologia di superficie, che è di circa 2300 km. I dati, specialmente quelli paleomagnetici, suggeriscono però un dato superiore, per cui si pensa che una parte del continente indiano sia finito sotto l’Eurasia (il che spiegherebbe anche l’esagerato spessore crustale sotto il Tibet). Quindi l’India era più grande di quello che si vede ora. Di quanto è ancora in dubbio. 
A complicare la situazione negli ultimi anni è stato proposta nella zona orientale la presenza di una collisione in due stadi: la placca indiana sarebbe stata divisa fra un microcontinente Tibeto – Himalayano e l’India propriamente detta, con in mezzo una crosta oceanica (il “bacino indiano”). Circa 50 milioni di anni fa il microcontinente si sarebbe scontrato con l’Asia, dopodiché è andato in subduzione il bacino indiano e tra 25 e 20 milioni di anni fa ci sarebbe stato lo scontro definitivo fra India e Himalaya. 
Per cui la crosta continentale sotto quella asiatica apparterrebbe al microcontinente tibeto – himalayano e si spiegherebbero meglio dei fenomeni avvenuti in quel periodo e cioè una fase di intense deformazioni, il rapido sollevamento che ha portato alla esumazione delle rocce cristalline della Grande Himalaya e l’intensificazione della circolazione monsonica [1].

Gli zirconi della Tetide Himalayana, del Gangdese 
e del Kohistan divisi in classi di età, da [2] 
LA DATAZIONE DELLA COLLISIONE NEL KASHMIR. La collisione finale, almeno nel Kohistan, è stata recentemente datata da un gruppo che ha esaminato dei sedimenti deposti fra il Cretaceo e l’Eocene nella zona che stava fra il Kohistan - Ladakh e l’India, in particolare i cristalli di Zircone [2].
Lo zircone si forma durante la cristallizzazione di vari magmi (poco in quelli basaltici, molto in quelli con tenore di silice elevato come quelli andesitici e dioritici) ed è particolarmente resistente perché la sua temperatura di fusione è ben superiore a quella dei magmi, anche se può subire alcuni processi di alterazione in condizioni di elevato metamorfismo. Inoltre la presenza di inclusioni di uranio e piombo consente di datare i cristalli se non hanno subìto particolari processi di alterazione. La durata nel tempo degli zirconi in ambiente terrestre è talmente elevata che se ne trovano molti di età superiore ai due miliardi di anni. Il cristallo più vecchio attualmente datato è proprio uno zircone, il campione 01JH36-69, un granulo detritico proveniente da una arenaria dell’Australia occidentale, la cui età oscilla fra i 4400 e i 4370 milioni di anni [3].
Nella geologia asiatica è una pratica comune studiare le età degli zirconi, perché ogni unità ha una sua “impronta zirconica” caratteristica:
  • nelle rocce magmatiche o metamorfiche permettono di definire a quale unità appartiene un blocco un’altra
  • nelle rocce sedimentarie sono usate per definire le aree di provenienza dei materiali

La seconda metodologia è stata applicata nel lavoro di cui sto specificamente parlando adesso agli zirconi dei sedimenti che affiorano nel Kashmir a circa 100 km E di Srinagar e che appartengono alla “Tetide Himalayana”, deposti nell’area che divideva l’India dal Kohistan o, meglio ancora, nella parte allora sommersa della piattaforma continentale indiana di NW. Sono stati studiati i termini più giovani della serie, le formazioni di Kong e Chulung, dell’Eocene inferiore (55 – 50 Ma), che contengono zirconi di diverse età. 
In questo grafico vediamo per confronto le età degli zirconi nei sedimenti della Tetide Himalayana, dell’arco del Kohistan e dei graniti del Gangdese. Quelli della Tetide Himalayana derivano dalle croste continentali di Asia e India (probabilmente più la seconda della prima, ma sono indistinguibili fra loro): gli zirconi hanno età molto vecchie perché nelle croste continentali ci sono o rocce molto antiche (per esempio quelle dello scudo indiano) o sedimenti provenienti da rocce molto antiche. Di fatto il raggruppamento intorno a 2500 milioni di anni fa è il ricordo di una fase tettonica acuta fra le cause del grande evento ossidativo di quel periodo (ne ho parlato qui), quello intorno ai 1700 Ma ad un altra fase tettonica acuta, quello a 1000 corrisponde alla formazione del supercontinente rodinia e quello intorno a 500 alla formazione del Gondwana.  Gli zirconi del Kohistan e del Gangdese sono invece tutti recenti perché derivano dalla cristallizzazione di magmi provenienti dal mantello dovuti alla collisione fra le placche indiana e Euroasiatica.

Gli zirconi divisi in classi in base al rapporto fra età (ricavata con il metodo U/Pb) e εHf
Gli zirconi sono stati classificati in un diagramma in cui sono discriminate la loro età (ottenuta con la datazione radiometrica U/Pb) e il valore εHf, che descrive la fluttuazione del frazionamento degli isotopi dell’Afnio dovuto alla evoluzione magmatica. Nel diagramma oltre a quelli delle formazioni esaminate (pallini rossi e arancioni) sono considerati i dati della letteratura scientifica per gli zirconi presenti nelle aree adiacenti, limitatamente a quelli mesozoici e terziari, che possono essere divisi in famiglie ben distinte: 
  • euroasiatici: Gangdese, altri vari del blocco di Lhasa, Karakorum
  • kohistan
  • oceano tetideo (si tratta di zirconi provenienti dalle grandi province magmatiche giurassiche di Rajmahal e Comei – Bundbury)

La presenza di zirconi di provenienza asiatica (formatisi negli archi mesozoici del Gangdese e del Karakorum) nei sedimenti delle formazioni di Kong e Chulung dimostra che in quel periodo la chiusura dell’oceano si era già verificata e, quindi, che la collisione era avvenuta (almeno nel settore occidentale 54 milioni di anni fa, all’inizio dell’Eocene. Questa è una età “minima” nel senso che sicuramente in quel momento la collisione era già avvenuta (poteva essere succesos anche un pò prima). 
Comunque questi dati se da un lato accertano la tempistica, sono ancora non capaci di accertare se il Kohistan si è scontrato prima con l’India o prima con l’Eurasia.

LO STRAORDINARIO ACCORDO CON I DATI BIOSTRATIGRAFICI. Questa datazione è straordinariamente in accordo con i dati della biostratigrafia a mammiferi dell’India. Nel Mesozoico e nel Paleocene del subcontinente indiano ci sono tracce evidenti di mammiferi primitivi (multitubercolati e  gondwanateri): al solito si tratta soprattutto di denti e di qualche osso frammentario, ma nessuno scheletro completo. Sono forme ben compatibili con la situazione geotettonica: resti di gondwanateri sono distribuiti tra il Cretaceo superiore e il Paleocene di India, Sudamerica ed Antartide. Non esistono, al momento, tracce di marsupiali, però alcuni reperti fanno pensare alla presenza di forme molto affini ai placentati, come il Deccanolestes (da alcuni autori ritenuto addirittura più vicino a Primati e roditori che ad altri placentati).
Negli ultimi 20 anni si è visto che l’inizio dell’Eocene corrisponde proprio ad una importante serie di cambiamenti faunistici, documentata nelle serie sedimentarie del subcontinente indiano nord occidentale. Eccezionali i ritrovamenti nella miniera di Vastan, nel Gujarat, dove si trovano esemplari molto basali di diversi ordini di mammiferi placentati. 
Nei continenti settentrionali (in particolare nell’Asia orientale) queste forme sono comparse poco prima, durante l’intenso riscaldamento che si è verificato al passaggio Paleocene – Eocene, il PETM (Paleocene – eocene Thermal Maximum). Ne ho parlato qui

I dati geologici e geocronologici sono quindi straordinariamente in accordo con quelli biostratigrafici, dimostrando che almeno nella zona NW l’India e l’Eurasia si sono scontrate già all’inizio dell’Eocene. Ovviamente non si può escludere che andando verso SE la chiusura sia avvenuta più tardi.

[1] van Hinsbergen et al 2012 Greater India Basin hypothesis and a two-stage
Cenozoic collision between India and Asia PNAS 109, 7659–7664
[2] Najman et al 2017 The Tethyan Himalayan detrital record shows that India–Asia terminal collision occurred by 54 Ma in the Western Himalaya Earth and Planetary Science Letters 459, 301–310
[3] Valley et al 2014 Hadean age for a post-magma-ocean zircon
confirmed by atom-probe tomography Nature Geoscience 7, 219-223
[4] Bajpai 2010 Timing of Earliest India-Asia Contact: Evidence of Terrestrial Vertebrates from Cambay Shale, Gujarat, Western Peninsular India 25th Himalaya-Karakoram-Tibet Workshop


mercoledì 1 febbraio 2017

L’attività del Dipartimento di Scienze della Terra di Firenze per la sicurezza dei soccorritori di Rigopiano


Per garantire la sicurezza degli operatori che hanno lavorato a Rigopiano il gruppo di Geologia Applicata del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze ha progettato in poche ore un sistema di monitoraggio del rischio – valanghe che ha unito due attrezzature molto diverse e complementari frutto di tecnologie molto avanzate. Al di là della rapidità dell’intervento in condizioni logistiche molto difficili se non proibitive, questa vicenda dimostra per l’ennesima volta l’importanza che riveste il settore ricerca & sviluppo: senza questi metodi innovativi e senza un gruppo che fa ricerca scientifica e tecnologica sui movimenti del terreno i soccorsi a Rigopiano sarebbero stati molto più difficili.

La tragedia di Rigopiano è stata sicuramente una delle vicende più toccanti degli ultimi anni: nel pomeriggio di mercoledì 18 gennaio 2017 una valanga si è abbattuta sull'albergo sui monti abruzzesi in provincia di Pescara, forse a causa della eccezionale nevicata (nonostante la coincidenza temporale chi se ne è occupato direttamente è invece piuttosto scettico sul possibile ruolo delle scosse di terremoto del giorno precedente). In questo post non voglio entrare nel dibattito sulla storia e sulla ubicazione della struttura, ma su un aspetto importante e poco conosciuto dei soccorsi: la sicurezza degli operatori. Questo perché l’operazione Rigopiano è stata una delle più difficili e rischiose fra quelle affrontate dalla Protezione Civile (in tutte le sue multiformi sfumature: Forze Armate, VVFF, Forze dell’Ordine, personale sanitario etc etc): si trattava di scavare fra neve e macerie, in condizioni proibitive, sia logistiche (difficoltà di raggiungere il sito, distanza dai centri abitati e le strade pesantemente innevate), sia ambientali (il freddo e il rischio che altre frane o valanghe si abbattessero su chi stava operando, e, in più, la necessaria attenzione dovuta alla eventuale presenza di superstiti). 
Il rischio di nuove valanghe era reale: anche se dopo l'evento di neve ne è caduta poca (15 cm al massimo), la possibile presenza di masse non ancora cadute ma che rischiavano di farlo era reale, per non parlare degli effetti sulla copertura nevosa che avrebbe potuto arrecare un eventuale aumento delle temperaure. Però non si poteva certo aspettare in quanto, come è stato dimostrato, anche a distanza di giorni sono stati ritrovate delle persone vive. 

LA RICHIESTA AL DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA TERRA DELL’UNIVERSITÀ DI FIRENZE. La sera del giorno successivo all’evento il Centro Operativo Misto di Protezione Civile istituito a Penne per il coordinamento dei soccorsi ha constatato la necessità di un sistema che garantisse l’incolumità dei soccorritori nei confronti del rischio valanghe e ha chiesto al gruppo di Geologia Applicata del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze, centro di competenza della Protezione Civile soprattutto per lo studio dei movimenti franosi, se fosse possibile installare un sistema per l’allertamento rapido dei soccorritori.
Il gruppo è abituato a muoversi velocemente, perché gli interventi del genere devono essere rapidi e, soprattutto, giungono all’improvviso. Fra quelli degli ultimi anni posso citare i monitoraggi su episodi che sono balzati alle cronache italiane e non solo, come il relitto della Costa Concordia, le frane di Volterra, l’acquedotto di Messina e il Lungarno Torrigiani a Firenze e la continua attività di monitoraggio a Stromboli.

Il problema era veramente difficile: non si trattava del monitoraggio di un versante in frana, caso in cui i precursori di un nuovo distacco vengono avvertiti in tempi abbastanza lunghi ai fini della Protezione civile, ma di una situazione in cui il tempo utile di preavviso di una nuova valanga è solo di un minuto: ne consegue che in meno di 60 secondi dall'inizio dell'evento i soccorritori si dovevano mettere in sicurezza. Inoltre le temperature basse e la costante presenza di nebbia complicavano il tutto. 
Insomma, la strumentazione a disposizione non andava bene per le valanghe fondamentalmente per due motivi: 

- i tempi di innesco delle frane sono troppo più lunghi di quelli delle valanghe e i tempi di acquisizione delle immagini da parte di un classico radar per le frane (radar interferometrico) sono troppo lenti per le valanghe
- le lunghezze d’onda utilizzate da un laser – scanner che monitora le frane non sono utili quando si monitora della neve

Era quindi necessario trovare una strumentazione con frequenze e tempi di rilevamento adatti allo scopo. Ma la situazione richiedeva la massima urgenza in quanto, come è stato dimostrato dai fatti, c’erano delle vite da salvare e non si poteva certo aspettare la mattina successiva. La decisione è stata quindi quella di capire immediatamente cosa potesse essere possibile fare e quindi la notte è stata in gran parte passata a cercare di risolvere il problema.

COME È STATO AFFRONTATO IL PROBLEMA. Un grande vantaggio è stato costituito dalla presenza della iTem, una spin-off accademica dell’Università di Firenze (e, più precisamente, anche questa del dipartimento di Scienze della Terra, realizzata dal gruppo di Geofisica Applicata), che costruisce sensori appositamente concepiti per riconoscere le valanghe, basati sulla identificazione delle onde sonore infrasoniche prodotte da una valanga: la presenza di più sensori permette di localizzare la sorgente del rumore e quindi dove è avvenuta la valanga.
Il sistema dà certezze dopo meno di 2 minuti che una valanga è effettivamente scesa ed è molto utile ai fini della Protezione Civile per diversi aspetti:
- può dare delle indicazioni importanti per stabilire o correggere i livelli di allerta: se non vengono registrate valanghe una allerta può essere declassata, mentre se vengono rilevate valanghe in un periodo di bassa allerta, questa viene corretta verso l’alto 
- spesso le zone montane sono caratterizzate da scarsa visibilità: un sistema del genere è in grado di indicare con precisione se e dove si sono verificate delle valanghe, il che è utile sia in caso di soccorsi, sia quando vengono programmati per sicurezza dei distacchi artificiali per verificare che siano avvenuti effettivamente

Pertanto questo sistema era estremamente necessario per monitorare a livello generale il livello del rischio – valanghe nella zona, ma non era sufficiente da solo, perché se i 2 minuti necessari all’individuazione della valanga non sono un problema in sede di monitoraggio in zone senza persone, diventavano troppi per poter dare il segnale di evacuazione rapida nella zona dell’intervento.
Nella notte quindi, studiando il caso, Casagli e il suo team hanno preso informazioni, riuscendo a parlare, nonostante l’ora con diverse persone e aziende e spulciando le informazioni in Rete. La mattina di venerdì 20 alle 8.00 è stata data la conferma: esisteva la tecnologia giusta, un radar doppler per valanghe costruito dalla Geopraevent di Zurigo, una startup specializzata negli interventi in alta montagna.
Questo radar è naturalmente capace di lavorare h24 in tutte le condizioni meteo e di luce. Alimentabile con pannelli solari o celle a combustibile, riesce a riconoscere movimenti di massa a 2 km di distanza e grazie al confronto con i modelli del terreno, è in grado di determinare il cammino della massa in caduta pochi secondi dopo l’inizio dell’evento.
La Geopraevent si è resa immediatamente disponibile e ha provveduto subito ad inviare l’attezzatura e i tecnici di supporto.
Verso le 11 il sistema è già progettato: 

- l’array infrasonico di iTem per il supporto alla previsione e per il pre-allarme. 
- il radar di Geopraevent per l’allertamento rapido entro 10 secondi dal distacco della valanga

Però, stante le condizioni ambientali, oltre ad una nutrita serie di strumentazioni tecniche è stato necessario provvedere anche a ciaspole ed attrezzature di sicurezza varie. Nonostante tutto, la sera di venerdì è stato raggiunto il centro operativo, da dove il giorno dopo le attrezzature sono state portate dove dovevano essere installate, in spalla in quanto le proibitive condizioni meteorologiche impedivano il volo degli elicotteri.
ll radar doppler è diventato operativo sabato 21 gennaio dalle ore 18:30. 
L’Array infrasonico è diventato operativo domenica 22 dalle ore 16:30.

L’orientazione della antenna del radar, puntata verso la parte alta del canalone, è stata stabilita sulla base delle simulazioni effettuate su un modello digitale del terreno. Ma siccome, passata la valanga, il terreno non è più lo stesso e i modelli digitali rappresentano solo la memoria del passato è stato ricostruito un nuovo modello digitale sfruttando alcune foto scattate dalla Protezione Civile.
Il sistema ha funzionato fino a quando la macchina dei soccorsi è rimasta in loco, garantendone la sicurezza.

CHIOSA FINALE: LA NECESSITÀ DI FARE RICERCA & SVILUPPO. Come conclusione si può notare come la ricerca scientifica e tecnologica sia stata fondamentale per questa operazione, i cui protagonosti sono stati:
- uno spinoff universitario
- una startup che si muove in un settore particolare e, volendo, piuttosto estremo
- un gruppo in seno ad un dipartimento universitario che facendo ricerca sui metodi di previsione, monitoraggio e sistemazione di frane e altri movimenti del suolo ha conseguito un elevato livello di know-how in proposito e ha sfruttato al meglio le attrezzature prodotte dalle due realtà di cui sopra

Si conferma ancora una volta che la ricerca è il motore fondamentale dell’innovazione e che le sue ricadute in termini pratici possono essere le più varie.  
Speriamo che la classe dirigente italiana (di cui la classe politica è una parte) capisca finalmente tutto ciò:
- finanziando il settore ricerca & sviluppo perché questo è l’unico modo che abbiamo per creare occupazione: non si può  pensare di creare occupazione facendo “le solite cose”
- togliendo i lacci burocratici che affliggono l’università, come quelli che nel post precedente ho raccontato e che si riferiscono proprio agli ostacoli demenziali che il Prof. Casagli e il suo gruppo hanno dovuto superare anche in una occasione in cui il tempo era più che denaro