domenica 30 ottobre 2016

Alcune considerazioni sui terremoti dell'Appennino centrale


Questa foto di Paolo Galli, geologo della Protezione Civile che da fine agosto sta battendo l’area interessata dai terremoti appenninici, dimostra la drammaticità dell’evento di stamattina, il più violento fra quelli verificatisi dopo il terremoto dell’Irpinia nel 1980: oltre mezzo metro di rigetto sulla faglia per decine di km. Nessun morto, ed è già uno buona notizia. Ma quante delle case che sono crollate oggi erano ancora abitate dopo gli eventi precedenti? 
Sull’Appennino centrale ho scritto molto, per esempio qui ho parlato della sua storia sismica.
Intanto noto che per adesso non c’è stato un trasferimento degli eventi lungo un’altra faglia,  
A questo punto, siccome con altri membri “illustri” del gruppo facebook geologi.it stiamo scrivendo delle FAQ sui terremoti in generale (e soprattutto sull’uso del gruppo da parte degli utenti “non geologi”), mi sento di scrivere delle FAQ sulla situazione attuale.

prima di tutto un appello che Boris Benkhe ha pubblicato sulla sua pagina Facebook:
Chiedo a tutti quelli che conosco di essere prudenti nella diffusione di informazioni a proposito del nuovo terremoto in centro Italia, di astenersi da stupide polemiche e evitare di pubblicizzare siti catastrofisti. I problemi sembrano sufficientemente gravi già da soli. Nessuno ha bisogno di angosciarsi più del dovuto, a nessuno aiuta se ora si dice nuovamente "la magnitudo era questa e non quella" e balle simili, se si polemizza ancora sulle stesse idiozie di prima. Qui c'è bisogno di essere seri, e di essere uniti perché il problema terremoto, che ora ha colpito ancora una volta la stessa zona, ci concerne quasi tutti.

1. ANCORA ALLA RIBALTA LA FAGLIA DEL MONTE VETTORE. Anche il terremoto di stamattina si è verificato lungo la faglia del Monte Vettore, non ci sono dubbi. Quindi per adesso questa è l’unica faglia coinvolta. Il movimento anche in questo caso ha ribassato la parte ad occidente della faglia ed è avvenuto in posizione intermedia rispetto ai sismi del 24 agosto e del 26 ottobre.

I movimenti delle stazioni GPS italiane da [1]
2. COSA SUCCEDE NELL'APPENNINO CENTRALE. In quell’area si trova il confine fra due blocchi che si muovono in maniera diversa, come dimostrano le misure degli spostamenti di alcune stazioni dedotti usando il GPS: rispetto all’Europa a nord delle Alpi il blocco ad est si muove verso NE, quello ad ovest verso NW. Nuovi dati hanno permesso di capire che il movimento della zona ad est è più spostato verso E di quanto si pensava prima [1]. Di conseguenza si verifica una attività di estensione lungo delle faglie, come quella del Monte Vettore. I vari bacini orientati grossomodo N/S, come la piana di Castelluccio, sono dovuti all’attività di queste faglie. In questo momento è comunque esagerato dire che “l’Italia si sta spaccando”. Sarebbe molto interessante capire fino a che profondità sta succedendo tutto questo, perché potrebbe benissimo essere una cosa piuttosto superficiale senza radici profonde. La mia idea è che la cosa vada piuttosto in profondità, forse anche nel mantello. Ma non ho dati per affermarlo.

3. DURATA DELLA CRISI. Con il terremoto del 24 agosto è iniziata una nuova crisi sismica nell’Appennino centrale; le repliche della scossa principale hanno seguito la classica legge di Omori: ad una scossa principale seguono le “repliche”, in inglese "Aftershocks" (non mi piace il termine “scosse di assestamento”), che in genere diminuiscono in intensità e frequenza con l’andare del tempo. Il nome viene da quello di Fusakichi Omori (1868 – 1923), un geologo e geofisico giapponese, che ha proposto una relazione empirica che lega il tempo che trascorre con la diminuzione della loro intensità. Naturalmente ci possono essere delle repliche più forti, le quali a loro volta si trascinano un codazzo di repliche.
Questo spiega perché la sismicità di fondo rimane alta a distanza di settimane (e mesi) nell’area interessata da un evento principale.
Chiaramente i terremoti del 26 e del 30 ottobre hanno avviato a loro volta nuove sequenze di Omori

Dopo il 24 agosto nessun addetto ai lavori ha nascosto che nell’Appennino Centrale c’era una forte probabilità di avere anche in aree diverse scosse di una certa intensità. Purtroppo dove e quando non è dato sapere, fino a quando non si verificano. Né è possibile sapere quando cesserà questa fase di maggiore probabilità. L’Appennino centrale ha una storia sismica discretamente conosciuta grazie a tanti documenti e anche ad altri fattori, per esempio una discontinuità nelle costruzioni: quando abbiamo ad un certo punto una serie di nuove costruzioni più o meno contemporanee nella stessa zona è facile che quelle preesistenti siano crollate tutte insieme per un terremoto. Il caso del barocco nella Sicilia Orientale di fine 1600 – inizi del 1700 è un classico del genere, dovuto alla ricostruzione dopo il terribile terremoto del 1693.
La documentazione storica locale parla di scosse distruttive che in alcuni casi sono proseguite per mesi.

4. STORIA SISMICA DELL’APPENNINO CENTRALE. Esaminando il “catalogo parametrico dei terremoti italiani” dell’INGV [2], si notano dei momenti in cui il settore a cavallo fra Lazio, Umbria e Marche è stato colpito da una serie di eventi con M superiore a 5.5 ravvicinati nel tempo: limitandosi al periodo tra il XIII e il XVIII secolo, è successo per esempio tra il 1269 e il 1279 e negli anni 1348 – 49. Nella prima metà del XVIII secolo si sono verificate scosse intense circa ogni 10 anni (1719, 1730, 1741, 1747 e 1751), poi dopo qualche decennio di calma abbiamo terremoti nel 1781, 1785, 1791 e 1799. Comunque, ci sono anche degli eventi “isolati”, come nel 1298, 1328, 1599, mentre in tutto il XVII secolo se ne contano “appena” 3. 
Per cui l'equazione "se abbiamo un evento forte, allora ne verranno altri" è stata varie volte contraddetta. E speriamo che sia così anche stavolta
Da questi dati emerge l'impossibilità di sapere se avremo o no (e tantomeno entro quando) dei nuovi terremoti particolarmente intensi. Si sa solo che in questomomento è "più possibile" che in altri periodi.

5. FAGLIE “VECCHIE” E “NUOVE. per adesso tutte le scosse principali sono dovute a movimenti lungo la faglia del Monte Vettore. Cioè, non c’è stata la ripresa di attività su “nuove” faglie.
Vediamo ora cosa si intende dire “nuova faglia”: il prossimo eventuale terremoto su una faglia diversa da quella del Monte Vettore non sarà su una faglia che nasce con quel movimento, ma sarà una vecchia faglia che riprende a muoversi dopo che “per un pò” (centinaia o migliaia di anni) era stata ferma. Quindi per “nuova faglia” si intende “una faglia diversa da quella fino ad ora interessata dal movimento” che viene riattivata. Nuova quindi è in questo caso un sinionimo di “altra”.

6. PREVISIONE DEI TERREMOTI. Torno su questo assurdo punto: di apprendisti stregoni che millantano di prevedere terremoti ce ne sono tanti. Qualcuno è anche convinto di saperlo fare, altri sono dei semplici ciarlatani.
Tengo a precisare che prevedere un terremoto significa grossomodo che la struttura nazionale preposta alla protezione civile (in Italia il dipartimento della Protezione Civile della Presidenza del Consiglio) emetta un comunicato che grossomodo dica così: si avvisa che il giorno ics, la faglia ipsilon si muoverà provocando un sisma di Magnitudo m. A tal proposito alleghiamo la carta dello scuotimento prevista e l’elenco dei provvedimenti di Protezione Civile che vengono messi in opera.
Chiaro? Non è una previsione dire che “domani nell’area mediterranea c’è un forte rischio di terremoti”. Anche perchè una previsione è utile se dice quando e più o meno dove. Per intendersi, in questo caso avremmo dovuto evacuare "tutta l'area mediterranea"? Mi sfugge l'utilità di una "previsione" del genere (oltretutto è anche facile azzeccarci, basta intendersi sulla Magnitudo mantenendola bassa...)

In questo momento ci sono diverse vie che la Scienza sta seguendo per capire come fare.

- negli anni ‘60 del XX secolo la tettonica delle placche ha dato un significato generale ai terremoti e oggi sappiamo, specialmente dove esiste una buona documentazione storica, quali sono le aree più soggette a terremoti, di che tipo di regime tettonico si tratti (distensivo come nell’Italia centrale, compressivo come intorno a Creta o trascorrente come in California) e un’idea sull’intensità massima a cui possono arrivare i sismi. 
- questo consentirebbe (se ci fossero risorse, volontà politica e volontà popolare) di prevenire i danni dei terremoti, le cui vittime non sono dovute al sisma in se e per se, ma alla cattiva edilizia della zona interessata (e per cattiva intendo sia costruzioni non idonee a resistere alle sollecitazioni sismiche, sia costruzioni in zone che risentono localmente di più il terremoto, o per amplificazione locale delle onde sismiche o per la liquefazione del terreno. A San Giuliano di Puglia ad esempio importanti fenomeni di amplificazione sismica hanno interessato le aree di più recente costruzione, edificate, a partire dagli anni ’30, su un substrato più sensibile a questo fenomeno rispetto al paese vecchio e dove quindi il grado di danneggiamento è stato sensibilmente più elevato [4]. Oltrechè in Emilia nel 2012, importanti liquefazioni del terreno si sono verificate durante il terremoto di Christchurch del 2011.
- un passo successivo sarebbe quello di riuscire a selezionare le zone che hanno maggiori probabilità di subìre nel futuro più prossimo un evento significativo. Non è ancora una previsione, ma almeno in questo modo si possono scegliere le aree in cui intervenire prima. Sperando prima o poi di riuscire davvero a prevedere con un intervallo temporale e spaziale utile per la Protezione Civile

Per fare questo passo successivo occorre uno sforzo multidisciplinare. Anche il radon fa parte di questi sforzi, ma non nel modo in cui crede Giuliani. 
Ci sono diverse ricerche in corso e speriamo che diano il loro frutto.

7.  PIANETI E TERREMOTI. Altro capitolo dolente. È stato notato un addensamento statisticamente significativo di forti terremoti in coincidenza con la Luna piena o la Luna nuova già nel 2002 [5]. In questo caso la variazione dell’attrazione esercitata dal nostro satellite (ben nota con gli effetti mareali) non provoca il terremoto, ma funge da grilletto: la faglia era già prossima alla rottura e la variazione nella forza gravitazionale della Luna consente allo sforzo accumulato lungo il piano di faglia di superare l’attrito. In altre parole può anticipare di un po' di tempo un evento che si sarebbe verificato comunque. 
Questo filone è seguito anche da ricercatori italiani, anche perché rotazione terrestre e gravità lunare potrebbero svolgere un gioco importante si alcuni fenomeni (basta vedere la differenza fra le fasce di convergenza delle zolle con il piano di Benioff verso ovest con quelle in cui il piano di Benioff scende verso est)
Resta il fatto che, ancora, previsioni in base alla Luna non le fa nessuno, a parte i soliti visionari.
Quanto agli allineamenti planetari o ai rapporti con l’attività solare, quella si può considerare fuffa pura. 
   
8. POPOLAZIONE E TERREMOTO. Purtroppo la situazione è brutta anche dal punto di vista psicologico. Ci sono due categorie di persone: gli sfollati, a cui oggi è arrivata una mazzata pazzesca e quelli che stanno nelle zone limitrofe, in particolare verso il nord (ad esempio Foligno, tanto per intendersi). Non è facile vivere in questa situazione, specialmente sapendo che la Scienza non può escludere che altri eventi interessino le aree limitrofe con l’attivazione di nuove (ovviamente nel senso di altre!) faglie. Mi chiedo se sia stato attivato un supporto psicologico per aiutare queste persone a convivere con questa situazione che è davvero brutta

[1] Farolfi & Delventisette (2016) Contemporary crustal velocity field in Alpine Mediterranean area of Italy from new geodetic data GPS Solutions DOI 10.1007/s10291-015-0481-1
[2] INGV: catalogo parametrico dei terremoti italiani. sito:http://emidius.mi.ingv.it/CPTI/
[3] Mantovani et al (2015) Seismotectonics and present seismic hazard in the Tuscany – Romagna –Marche – Umbria Apennines (Italy) Journal of Geodynamics 89, 1–14
[4] Rodolfo Puglia. Analisi della risposta sismica locale di San Giuliano di Puglia – tesi di dottorato di ricerca in Ingegneria geotecnica – università di Palermo e Reggio Calabria
[5] Cochran et al 2004 Earth Tides Can Trigger Shallow Thrust Fault Earthquakes. Science, 306, 1164 – 1166

giovedì 27 ottobre 2016

A Firenze la cattedra UNESCO per la gestione del rischio geo - idrologico


Le tante iniziative inserite nelle celebrazioni per il 50° anniversario dell'alluvione di Firenze appartengono a due gruppi distinti: da un lato le celebrazioni di cosa è successo, dall’altro convegni in cui si parla di cosa è stato fatto per la salvaguardia del territorio del bacino dell'Arno e di cosa fare. La Cattedra UNESCO per la gestione sostenibile del rischio idrogeologico è stata significativamente attivata in questa ricorrenza sfruttando sia il ricordo di una delle catastrofi geo-idrologiche più conosciute del XX secolo, sia la presenza sul territorio di un significativo know-how su frane ed alluvioni, che viene dall’impegno dei dipartimenti di Scienze della Terra e di Ingegneria Civile ed Ambientale dell’Università.

Nel 1991 l’UNESCO ha deciso di promuovere la nascita di centri di eccellenza (Cattedre UNESCO) in grado di realizzare programmi di insegnamento e di ricerca avanzati in discipline connesse alle politiche di sviluppo nei paesi terzi, riunite in una rete denominata Unitwin. 
Le cattedre e il network che le raccoglie dovrebbero essere sia fucine di innovazione che ponte tra mondo accademico, società civile, comunità locali, ricerca e politica.
Una Cattedra UNESCO quindi si configura anche come un importante riconoscimento all'istituzione che la ospita.

A Petra i geologi fiorentini hanno evidenziato con il laser - scanner le aree a rischio crollo.
Nelle foto l'area a rischio è effettivamente crollata, come è successo anche in altre parti
L’Università di Firenze è da tempo impegnata in attività di ricerca, sviluppo e cooperazione per la previsione, la prevenzione e la riduzione del rischio geo – idrologico (cerco di non usare il comunemente accettato termine dissesto idrogeologico perché, oggettivamente, non ha senso). Al suo interno, l’attività del gruppo di Geologia Applicata del Dipartimento di Scienze della Terra ha ottenuto importanti riconoscimenti, quali la designazione di Centro di Competenza della Protezione Civile nazionale e il titolo di Centro Mondiale di Eccellenza del Programma Internazionale per le Frane dell’uffico per la prevenzione dei disastri naturali delle Nazioni Unite. Alcune di queste ricerche hanno riguardato la conservazione del Patrimonio Mondiale dell’Umanità (UNESCO World Heritage List), per la quale sono state svolte numerose missioni per la protezione dei beni culturali minacciati da rischi geologici in Paesi in via di sviluppo, fra cui Afghanistan, Kyrgyzstan, Giordania, Albania, Corea del Nord, Bolivia, Peru, Etiopia, Egitto ed altro. I siti di Machu Picchu in Perù e Petra in Giordania sono fra i più universalmente noti fra quelli studiati dai geologi fiorentini e un anno fa ho parlato della ricerca sulla conservazione della fortezza di Shahr-e Zohak in Afghanistan.

Le stazioni di rilevamento dei caratteri morfologici a Machu Picchu
Negli ultimi anni, limitandosi all’Italia, il gruppo di Geologia Applicata dell’Università di Firenze ha svolto e svolge lavoro di controllo su tanti movimenti franosi, alcuni dei quali ampiamente finiti sui giornali come l’acquedotto di Messina, le mura di Volterra e il crollo del lungarno Torrigiani a Firenze, del monitoraggio dei movimenti del vulcano a Stromboli e del relitto della Costa Concordia, unitamente a tanti altri interventi meno noti, come quello di Ricasoli. Queste attività e la caratteristica di essere uno snodo importante per le collaborazioni internazionali sull’argomento (quelle che fanno crescere significativamente il livello della ricerca) sono alla base di un riconoscimento importante per l’università di Firenze e cioè l’ottenimento della Cattedra UNESCO per la prevenzione e la gestione sostenibile del rischio idrogeologico, di cui si è svolta oggi l’inaugurazione. 
La Cattedra UNESCO è una iniziativa congiunta dei Dipartimenti di Scienze della Terra e di Ingegneria Civile e Ambientale. È molto significativo che i due dipartimenti lavorino in sinergia, un esempio importante di quello che dovrebbe succedere sempre, ciascuno con le sue peculiarità.  
Il titolare della Cattedra è il Professor Paolo Canuti, già professore ordinario di Geologia Applicata presso l’Ateneo Fiorentino. Nella sua carriera è stato uno dei Geologi applicati più noti nel mondo e ha ricoperto per questo l’incarico di Presidente del Consorzio Internazionale sulle Frane e autore di una nutrita serie di pubblicazioni, fra le quali spicca un articolo davvero storico in cui viene sancita una cosa che oggi pare ovvia e cioè l'associazione fra frane e piogge [1]. Dopodichè ha anche il merito di aver creduto nell’Università, fondando il gruppo di ricerca attualmente coordinato dal Prof. Nicola Casagli e che, come ho fatto notare, figura ai primissimi posti nella bibliografia scientifica in materia di frane. 


Naturamente il progetto coinvolge molti docenti dell’Ateneo fiorentino, ovviamente a maggioranza impegnati nei Dipartimento di Scienze della Terra e di Ingegneria Civile e Ambientale. 
In questo master verranno affrontate delle problematiche di interesse globale in cui l’Università di Firenze rappresenta, appunto, una struttura di eccellenza a livello internazionale (sarebbe bello che almeno in città tutto questo fosse risaputo, ma vabbè…) e siccome si tratta della prima cattedra di ricerca applicata che l'Italia propone in ambito UNESCO in questo settore i partner di progetto che si aggiungono alle strutture universitarie sono decisamente importanti: Dipartimento della Protezione Civile, ISPRA e struttura di missione Italiasicura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a cui si aggiungono alcune organizzazioni non governative internazionali, consorzi scientifici e altre cattedre e reti UNESCO. 

Governare il territorio significa renderlo più sicuro e meno vulnerabile e per questo occorrono sia una programmazione severa dal punto di vista urbanistico che tenga conto dei vincoli rappresentati dal rischio di frane ed alluvioni, sia un know-how che consenta di risolvere (o, quantomeno, di attutire) le criticità geologiche di un territorio. 
Chi mi conosce sa che mi sono sempre battuto a favore della ricerca scientifica e tecnologica a 360 gradi e non solo per una “sete di conoscenza” fine a se stessa (anche se importante): agli ossessionati dal PIL e dalla spesa pubblica ricordo che la ricerca produce innovazione e l’innovazione è, attualmente, l’unico sistema che consenta ad un Paese moderno di fare occupazione ed esportazione.
L'attività della cattedra può rappresentare una sicura opportunità di promozione del sistema Paese, con importanti ricadute anche per l'attività delle imprese italiane impegnate nel settore della prevenzione e della previsione del rischio, in quanto al Dipartimento di Scienze della Terra la ricerca applicata alle Scienze della Terra è stata spesso innovatrice (basti pensare ai lavori pionieristici sui rilevamenti con immagini radar). 

[1] Canuti, P., Focardi, P., and Garzonio, C. A.: Correlation between rainfall and landslides, Bulletin International Association Engineering Geology, 32, 49–54, 1985

L'attivazione della parte settentrionale della faglia del Monte Vettore negli eventi sismici del 26 ottobre


Scrivo una breve nota, e piuttosto frettolosa, su quanto è successo ieri, ma gli impegni sono tanti e devo scappare: oggi presentiamo la Cattedra UNESCO sulla gestione del rischio geo - idrologico, collaborazione fra i dipartimenti di Scienze della Terra e di ingegneria civile ed ambientale dell'università 
Noto che in questo periodo più che storia della Terra sto un pò troppo parlando di disastri: avrei altre cose da finire di pubblicare ma purtroppo la cronaca e le ricorrenze mi impongono queste priorità.


In questa immagine vediamo i tensori degli sforzi delle due scosse di ieri emessi dal GFZ di Potsdam: la vicinanza nel tempo e nello spazio e l’orientazione dei piani di faglia hanno subito fatto pensare che si trattasse di due eventi occorsi sulla stessa faglia.

Sulla situazione sismica devo fare alcune considerazioni:
1. fra il sisma della Valdelsa di martedì e quelli di ieri sera nell’Appennino centrale non ci sono connessioni dirette (se non il fatto che, ovviamente, tutto è in qualche modo legato facendo parte dello stesso erogene)
2. che dopo l'evento di Amatrice ci fosse un aumento della probabilità di avere altre scosse forti nell'area era noto: lo dice la storia sismica dell’Appennino tra Umbria e Marche
3. nessuno poteva prevedere questa scossa e nessuno l'ha prevista

Iniziamo da cosa è successo ieri. Questa carta è stata pubblicata sul gruppo di geologi.it da Paolo Galli, un geologo romano che lavora per la Protezione Civile e che si è fatto tutto il cratere del terremoto di agosto. È lui, per esempio, che ha mostrato per primo il movimento sulla parete del Monte Vettore. Uno che, insomma, lavora e divulga. Ce ne fossero…
La carta, prodotta meno di due ore dopo la seconda scossa, è la dimostrazione del  suo impegno e del fatto che le due scosse hanno riguardato la stessa struttura.
A NE i due epicentri di ieri sera (stelle nere). Quelli principali di agosto sono contrassegnati dalle stelle rose
Si vede che si è attivato il settore più settentrionale della faglia del Monte Vettore, alla cui parte meridionale si devono ascrivere invece le scosse di agosto.

Nella immagine qui sotto invece vediamo il sistema del Monte Vettore e, accanto, quello di Norcia, presa da [1]

Tutti questi sistemi di faglie dell'Appennino, che dal meridione d'Italia arrivano alla Toscana orientale, rappresentano la zona di giunzione fra due blocchi a direzione di movimento diversa: li vediamo nel sistema di riferimento dell’Europa Stabile in una immagine da [2]: il blocco ad est si muove verso NE, mentre quello occidentale verso NNW e che dimostrano come la placca adriatica si stia incuneando nell’Europa come fa l’India nell’Asia. Le conseguenze sono parecchie:
1. Nell’Appennino centrale e in Italia meridionale l’attività sismica si esplica attraverso faglie normali di significato estensionale
2. nel settore Emiliano – Romagnolo invece i due blocchi si scontrano e ci sono i terremoti compressivi come quelli del 2012
3. un’altra zona di compressione è il nordest italiano, con i terremoti compressivi della fascia pedemontana alpina, specialmente in Friuli ma non solo

Questo incunearsi (anzi, indentarsi... nomaccio..) della placca adriatica nell’Europa ha anche avuto come conseguenza lo spezzamento della catena alpina e l’allontanamento del settore alpino da quello dei Carpazi.
Notiamo anche che in questo momento la zona che nel passato geologicamente recente è stata oggetto di compressione (e cioè la costa adriatica) non è attualmente in compressione. Quindi l’Adriatico centrale non si sta attualmente chiudendo, come peraltro dimostrano i meccanismi focali dei terremoti, ripresi da [3]: l’unico settore realmente in compressione nella zona di convergenza che troviamo a N ed E della catena appenninica è dunque adesso quello padano.

Vediamo adesso alcuni aspetti della vox populi che non significano niente ma che vengono ripetuti spesso in questi giorni e cerchiamo di finirla con queste relazioni imaginarie fra pianeti, macchie solari, tempeste solari, terremoti e temperature e, financo, scie chimiche:

1. Caldo anomalo: non c’è nessuna correlazione fra le temperature atmosferiche e le condizioni meteo-climatiche del presente e i terremoti. Una connessione clima – tettonica c’è ma è quella del passato di quando si formavano queste rocce sedimentarie, visto che la sedimentazione è spesso influenzata dal clima (in particolare quella calcarea e quella delle evaporiti, rocce molto diffuse in fasi tettoniche piuttosto particolari quando queste ultime si verificano in aree calde e secche)
2. relazioni pianeti – terremoti: le elucubrazioni di Bendandi sono semplicemente demenziali (come valvole antisismiche ed altri dispositivi del genere). C’è invece una possibilità (ancora in studio) di relazione fra un certo tipo di sismi e le maree: un terremoto si verifica quando gli sforzi su una faglia vincono l’attrito e se siamo vicini al punto di rottura, anche una minima dimiuzione dell’attrito dovuta alle forze mareali nella fase di bassa marea (e bassa gravità) potrebbero diminuire l’attrito di quanto basta perché lo sforzo abbia il sopravvento e avvenga il movimento.
3. non mi vengano a dire, DOPO il terremoto, che qualcuno lo aveva previsto. Le previsioni si fanno prima, non si annunciano dopo… I fans dell’apprendista stregone sono avvisati
4. i terremoti non c’entrano nulla con la bufala delle scie chimiche, come invece affermano i soliti “ricercatori indipendenti” fuffari che hanno ricominciato ad imperversare

[1] Galadini e Galli (2000) Active Tectonics in the Central Apennines (Italy) – Input Data for Seismic Hazard Assessment Natural Hazards 22, 225–270
[2] Farolfi & Delventisette (2016) Contemporary crustal velocity field in Alpine Mediterranean area of Italy from new geodetic data GPS Solutions DOI 10.1007/s10291-015-0481-1
[3] Sani et al. 2016 Insights into the fragmentation of the Adria Plate, Journal of Geodynamics, in press

martedì 25 ottobre 2016

Per il 50esimo del '66: 4 - scenari attuali in caso di piena e il futuro


Concludo, con una settimana di anticipo (incredibile!) la serie di post dedicati alla alluvione del 1966, iniziata qui. Abbiamo visto come dopo l’evento l’espansione urbanistica non abbia tenuto conto delle “esigenze” dell’Arno. Quanto ai lavori per ovviare al problema, dopo il disastro ne erano stati ipotizzati tanti, ma gli interventi reali sono stati pochi: ad esempio di tutti gli invasi previsti dalla Commissione De Marchi ne è stato realizzato uno solo, Bilancino, che per giunta serve solo a regimare le magre e non le piene. Comunque almeno un’opera importante è stata fatta a Firenze città: l’abbassamento delle platee del Ponte Vecchio e e del ponte Santa Trinita, che ha aumentato drasticamente la portata del fiume, pur non arrivando ai livelli del 1966. Tale opera ha cambiato in parte gli scenari possibili in caso di piena, anche se, come ho già fatto notale, la città è ancora purtroppo a rischio. In questo post descrivo la situazione odierna e gli scenari futuri ricordando come ho scritto nel post precedente che il problema non è SE ci sarà un'altro evento capace di provocare, stando così l'alveo dell'Arno una alluvione, ma QUANDO avverrà. E ora, con la piena trentennale statisticamente vicina e con un minimo solare in arrivo, i rischi sono teoricamente abbastanza alti.

Per agevolare la lettura ai non fiorentini ricordo in che ordine sono i ponti del centro di Firenze:
ponte a San Niccolò (a monte, non visibile nell’immagine)
ponte alle Grazie
ponte Vecchio
Ponte a Santa Trìnita (rmi raccomando.. Trìnita, con l'accento sulla prima “i”, alla faccia del correttore che mi dà errore...)
Ponte alla Carraia
ponte Vespucci
ponte della Vittoria

Nel 1944 i tedeschi minarono e fecero saltare tutti i ponti fiorentini, tranne il Ponte Vecchio. Quello a Santa Trìnita e quello alla Carraia sono stati ricostruiti in base ai progetti originali della seconda metà del XVI secolo. Noto con piacere che avevano retto egregiamente a tutti gli eventi successivi alla loro costruzione, e anche, ricostruiti tal quali, anche al disastro del '66, dimostrando che chi li aveva progettati (Michelangelo, Ammannati e soci, e scusatemi se è poco...) ci aveva saputo fare: all'epoca, come ho evidenziato nel post precedente, complice la piccola era glaciale, le alluvioni erano molto più frequenti (praticamente ce n'erano almeno 6/7 al secolo) e quindi il problema veniva preso parecchio sul serio: i ponti vennero ricostruiti sotto Cosimo I con in mente la grande piena del 1557 che li aveva appena fatti crollare. Il moderno ponte Vespucci ha prestazioni inferiori!

COSA VA MEGLIO OGGI RISPETTO AL ‘66. Il sistema di previsioni meteorologiche è sicuramente ben più avanzato di prima (anzi, è uno dei migliori al mondo), quindi stavolta la città non sarà colta di sorpresa: oggi è possibile modellizzare con un preavviso ragionevole l'eventualità di un disastro del genere. Il conseguente allertamento attiverà lo svuotamento preventivo degli invasi di Levane e La Penna (Bilancino per le piene fa poco) e le strutture di Protezione Civile potranno attivarsi per consentire almeno di riuscire a spostare i beni mobili più preziosi (è il caso ad esempio dei manoscritti della Biblioteca Nazionale, che per motivi tecnici sono conservati nel sottosuolo e che dovranno essere spostati ai piani alti).
Tutte le alluvioni di Firenze sono partite dalla strettoia tra il Ponte alle Grazie e il Ponte Vecchio con l'Arno che si riversa verso Piazza San Firenze da Piazza dei Giudici. Per ovviare al problema, negli anni '70  è stato eseguito un importante intervento sull'alveo fluviale tra il Ponte Vecchio e il Ponte a Santa Trìnita, permettendo oggi il transito in Firenze di 3100 mc/sec con 1 metro di spazio fra ponte e pelo dell’acqua e fino a 3400 mc/sec al contatto, contro i 2500 di prima. È un innegabile miglioramento, ma siamo ancora lontani dai 4100 mc/sec del 1966.
Anche l’avanzata delle superfici boscate rispetto al 1966 potrà risultare in una, sia pure minore, diluizione delle piene

COSA NON VA. Fondamentalmente a parte Bilancino e i lavori in centro a Firenze, i cantieri per la messa in sicurezza dell’Arno a monte della città sono partiti solo nel 2014 (!): fino ad allora nulla era stato ancora fatto per quei 100 milioni di metri cubi di acque che la commissione De Marchi riteneva necessario stoccare.
Inoltre, a proposito di interventi urbanistici che non hanno tenuto conto delle necessità del fiume, nel Valdarno superiore sono stati costruiti a valle delle dighe di Levane e La Penna degli argini per proteggere la pianura, che veniva naturalmente inondata in occasione dalle piene. È un pericolo in più per Firenze, in quanto le acque che lì tracimarono nel ‘66 oggi rimarrebbero nell’Arno. Inoltre se da un lato sono aumentate le superfici boscate nelle parti alte del bacino, l’abbandono delle campagne, specialmente in area montana, ha purtroppo coinciso con la fine della manutenzione di tante opere idrauliche che li caratterizzano. Per cui alcuni versanti e sottobacini sono ben più a rischio di prima.

LA PORTATA DELL’ARNO. Solo il tratto cittadino a Firenze è in grado oggi di contenere fino a 3.400 mc/sec. In genere dalle dighe del Valdarno aretino in giù la portata è compresa fra 2.500 - 2.600 mc/sec, con punte minime di soli 1.600 - 1.700 mc/sec). A valle di Empoli si arriva ai 3.000, che vengono passati da Pontedera in poi grazie ai 1.000 mc/sec del canale Scolmatore, che si sommano ai 2.280 che possono passare da Pisa.
Ne consegue che Firenze, in caso di portate superiori (e nel ‘66 quella calcolata è 4100 mc/sec) si può salvare solo se il fiume esonda pesantemente nel Valdarno superiore e che anche se andasse bene in centro, a valle della città in molti casi ci sarebbero allagamenti importanti almeno fino a Pontedera.

In questa immagine del 4 novembre 1966 è chiaramente

visibile il risalto idraulico al ponte Santa Trinita: 
l'acqua è molto più bassa a valle del ponte che a monte
L’ARNO A FIRENZE. L’Arno, costretto negli argini disegnati dal Buontalenti, può solo cambiare la forma dell’alveo di magra al loro interno e lo ha fatto anche negli ultimi anni con una dinamica piuttosto forte.
Innanzitutto una preoccupante erosione della pila sinistra del ponte Vespucci, problema che necessita una rapida soluzione. A valle del ponte invece tra 2000 e 2015 si è in media depositato un metro di sedimenti fino alla traversa dell’isolotto, in corrispondenza delle Cascine. In quest’area troviamo un trend opposto a quello degli anni tra il ‘66 e il ‘90, contrassegnati al contrario da una forte erosione.

La modellistica, sia bidimensionale che tridimensionale, ha evidenziato come con una portata di 3000 mc/sec intorno a Ponte Vecchio e Ponte Santa Trinita la corrente arriva a 8 m/sec intorno ai ponti, dove si instaura un un risalto idraulico come questo fotografato nel ‘66 proprio a Santa Trinita. Inoltre la briglia tra Ponte alla Carraia e Ponte Vespucci (la pescaia di Santa Rosa) sarebbe invisibile. 
Ma la cosa peggiore è che se in queste condizioni i vecchi ponti reggono ancora, il sottostante Ponte Vespucci andrebbe in pressione spinto dalle acque (è stato costruito negli anni ‘50 senza considerare la memoria storica con cui invece nel XVI secolo furono ricostruiti quelli a monte)...

A proposito della pescaia di Santa Rosa, è stato ipotizzato di abbassarla. Il problema è che abbassandola di un metro l’Arno con portate di piena perderebbe solo 20 cm fino e soltanto fino al ponte a monte (santa Trinita), e non oltre a causa della discontinuità nella corrente provocata dalle pile del ponte stesso. Sarebbe dunque un lavoro inutile.

COSA SUCCEDEREBBE IN CASO DI PIENA. Teniamo presenti i 4100 mc/sec del 1966 (ricordando comunque le circostanze aggravanti di cui ho parlato nel post precedente). Le indagini eseguite con il modello in scala 1:60 realizzato negli anni ‘70 all’Università di Bologna e le successive modellazioni hanno evidenziato che:
- con portata di 2800 mc/s il centro della città è tranquillo: tra i ponti antichi e il fiume c’è oltre um metro e mezzo di spazio. Attenzione però che il livello del fiume sarebbe superiore al piano stradale del lungarno delle Grazie (in riva destra a monte dell’omonimo ponte) e solo la spalletta eviterebbe l’esondazione e, più in là, l’acqua arriverebbe a meno di un metro e mezzo dal ponte Vespucci. I problemi si accentuano a valle, in quanto l’Arno tracimerebbe nella zona delle Cascine a monte della traversa dell’Isolotto
- con portata di 3000 mc/s tra l’acqua e la cima della spalletta del Lungarno le Grazie ci sarebbero solo 50 cm. i franchi dei ponti a valle si mantengono ovunque superiori al metro, (tranne che per il Vespucci) e alle Cascine ci sarebbero 80 cm di acqua
- con 3200 mc/s inizia l’esondazione a monte di Firenze, prima che le acque giungano alla traversa di Varlungo. In centro l’acqua supera la spalletta del Lungarno delle Grazie dirigendosi verso via de’Bardi e Santa Croce. Il ponte alle Grazie presenta una luce libera di soli 0.5 m nella campata centrale, che diventa 0,7 sotto i ponti antichi. Le spallette dei lungarni  avrebbero ancora 1 metro a disposizione ma andrebbe in pressione nelle campate laterali il ponte Vespucci e il parco delle Cascine si ritrova con oltre un metro d’acqua

Quindi si nota una cosa importante: i lavori effettuati negli anni ‘70 hanno modificato in centro la localizzazione della prima esondazione, che prima avveniva con 2500 mc/sec in riva destra tra il Ponte alle Grazie e gli Uffizi e che ora si trova a monte di questo ponte sempre in riva destra con 3200 mc/sec. È un deciso miglioramento, ma purtroppo nella parte a valle della città, dalle Cascine in poi, il rischio più o meno rimane uguale: il fiume si è approfondito ma “guadagnerebbe” quei 700 mc/sec che invece sarebbero esondati in centro.
E la collocazione di argini artificiali nel centroi, se da un lato porterebbe a guadagnare altra portata in centro, ne scaricherebbe ulteriormente a valle, aumentando ulteriormente i problemi di quella zona.

COSA FARE. Secondo il Piano di rischio Idraulico del 1999 per evitare esondazioni dell'Arno sarebbe necessario trovare lo spazio per un volume dell’ordine di 350 – 400 milioni di m3 di acque, di cui circa 200 milioni di mc a monte di Firenze 
Ricordo ancora una volta, quindi, che il problema non è solo Firenze, ma tutto il corso dell’Arno a valle della città, fino almeno a Pontedera.
Il comitato tecnico scientifico internazionale di Firenze 2016 fa alcune osservazioni tanto logiche quanto piuttosto preoccupanti: la principale causa di questa situazione è evidentemente dovuta alla inadeguatezza delle difese idrauliche ed alla totale assenza di opere di regimazione e di laminazione delle piene: Firenze rimane ad elevato rischio di alluvione e che questo rischio cresce ogni giorno. Il problema non è se un’alluvione di pari entità o superiore a quella del 1966 colpirà ancora la città di Firenze, ma quando ciò accadrà. Il livello di protezione attuale non assicura una riduzione del rischio di inondazione a livelli commisurati al valore di una città quale Firenze, permanendo una forte esposizione che risulta inaccettabile, sia per il rischio di perdite di vite umane sia per il valore dei tesori d’arte che la città ospita.
Per tutta una serie di ragioni le perdite economiche sarebbero molto peggiori che nel 1966

Sono quindi evidenti tre cose:
- il reticolo fluviale del bacino dell’Arno non è in grado di contenere le acque piovane nel caso di un evento analogo a quello del 4 novembre 1966 (pioggia su quasi tutto il bacino, mediamente sull'ordine dei 160 mm di altezza, con punte, in determinate aree, di 250 - 300 mm, terreno interessato da piogge da più giorni, etc.), 
- le condizione più critiche sono a valle di Firenze, ove praticamente tutto il Valdarno Inferiore costituisce una grande area di espansione per le portate di piena tipo 1966. 
- a Firenze città più di così non si può fare

Da questo deriva la necessità di ridurre l’entità delle piene a monte. Una deduzione che era già stata fatta alla fine degli anni ‘60 dalla commissione De Marchi….

Una delle casse di espansione nel Valdarno Superiore
(fonte: autorità di bacino dell'Arno)
COSA SI STA FACENDO. Per arrivare quindi ad un rischio “accettabile” sono state finalmente avviate una serie di opere, ed altre sono in progetto. L’obbiettivo è laminare le piene non solo nell’alveo principale ma in diversi affluenti, sia a monte che a valle di Firenze: casse di espansione, sistemazione idraulica di alcuni alvei e l’innalzamento della diga di Levane.
Con queste opere, che dovrebbero concludersi entro il 2022, ci sarebbe ancora un certo rischio residuale (ricordo che è impossibile azzerare totalmente il rischio… la possibilità teorica che avvenga un qualcosa di ancora peggiore è difficile, quasi impossibile, ma non è “zero”..). Ma tra oggi e il 2022 ci sono 6 anni, un minimo solare, la ricorrenza dell’evento trentennale (i precedenti sono il 1966 e il 1992) e… l’apparato statale italiano.
Quindi incrociare le dita è ancora, nella migliore tradizione scaramentica italiana, obbligatorio. 

Non mi piace fare politica su questo sito e non ha senso che mi esprima in proposito (specialmente ora che c’è una dura campagna elettorale che non coinvolge direttamente le materie che tratto in questo blog e su cui quindi non posso che astenermi, mentre sul referendum a proposito delle trivelle ho ritenuto opportuno esprimere la mia opinione). 
Mi limito ad augurarmi che, essendo programmi che vanno ben oltre la durata non solo dei governi, ma delle legislature nazionali e locali, un prossimo governo, indipendentemente da chi andrà ad occupare le poltrone l’attenzione e l’impegno politico ed economico su questo versante, di recente aumentato, rimanga costante o, meglio ancora, possa ulteriormente aumentare.

giovedì 20 ottobre 2016

Per il 50° del '66 - 3: anatomia di un disastro


Dopo aver parlato nel secondo post della serie, delle alluvioni del passato a Firenze, in questo terzo post esaminerò con attenzione l'evento del 1966, focalizzandomi soprattutto su Firenze e sull'Arno. Anche se quella del 1966 è nota come "l'alluvione di Firenze", la mia città non è stata l’unica area che ha subìto eventi simili, ma per tutta una serie di motivi è il simbolo di quei giorni, per la risonanza mondiale che ebbe immediatamente e per il soccorso internazionale operato dagli “angeli del fango”. Ricordo che in Toscana uscì dagli argini in maniera devastante anche l’Ombrone grossetano (per i non toscani ci sono due “Ombroni”, quello pistoiese che scende dall’Appennino e sfocia in Arno a valle di Signa e quello grossetano che dalle pendici del Chianti senese sfocia in mare a sud di Grosseto). Per non parlare del Nordest tutto, dove si gonfiarono ed esondarono quasi tutti i fiumi, sia nelle vallate alpine che nella pianura veneta dell'acqua alta di Venezia. Grosseto e Trento sono state fra le altre città più colpite e a queste si devono sommare i loro dintorni, dalle vallate trentine alla pianura veneta e a quella maremmana e tanti nuclei urbani più o meno piccoli (impossibile elencarne anche solo i principali). Per questo io preferirei definire i fatti dei primi di novembre del 1966 come "l'evento alluvionale della Toscana e dell'Italia di Nord-Est"

Ogni alluvione fa storia a se: ci possono essere tanti fattori che, a parità di pioggia, possono rendere diversi due eventi, a partire dalle condizioni del fiume (che variano di continuo per natura stressa dei corsi d'acqua o per interventi antropici). Certo, oggi i fiumi non hanno la libertà di spostare il loro percorso che avevano una volta, ma quantomeno il loro alveo è soggetto a variazioni del fondo, tra zone di accumulo e di erosione (per esempio la forma del fondo dell'Arno a Firenze cambia di continuo). Un altro parametro importante sono le condizioni meteo preesistenti, che influiscono ad esempio sulla portata da cui si parte con il nuovo evento. Vedremo che proprio le condizioni preesistenti sono state importanti nel determinare quello che è successo.

le piogge del 3 e 4 novembre, da [1]
LE PIOGGE. L’evento del 4 novembre 1966 è, ovviamente, dovuto alle precipitazioni eccezionali che hanno investito l’alto bacino dell’Arno. In genere le piogge più forti in Toscana investono una fascia piuttosto stretta allungata in direzione SW – NE, come in questa immagine tratta da [1] che rappresenta proprio le precipitazioni del 3 e 4 novembre: l’evento è iniziato nel primo mattino del 3 novembre ed è durato circa 26-28 ore, interessando una fascia che va dalla Maremma e dall'Amiata al Chianti e al Pratomagno. Il picco dell’evento si è verificato tra il pomeriggio e la sera del 3 novembre; nella notte si è osservata una certa diminuzione, con un nuovo rinforzo nel primo mattino del 4, sia pure a livello inferiore rispetto al giorno precedente, ad eccezione del Mugello, dove il 4 piovve più del 3.
Da Empoli in su tra il 3 e il 6 novembre sono piovuti almeno 150 mm di pioggia, con punte di oltre 200 nelle zone più alte del crinale appenninico tra Pistoia e il Casentino, sul Pratomagno e nelle alture che separano il Valdarno superiore dalla Val di Chiana. Valori simili li abbiamo avuti anche in Maremma, con il bacino dell’Ombrone Grossetano che, appunto per questo, ha rappresentato in Toscana una seconda area di massima emergenza.
Per capire la portata straordinaria di queste piogge diciamo che in quelle poche ore è caduto in media un quinto di quanto in media dovrebbe piovere in un anno. E questo non in un’area ristretta come succede in un flash – flood, ma in tutta la fascia montana della regione e in Maremma (dove addirittura ha piovuto quasi la metà di quanto dovrebbe piovere in un anno).
Dopo la Toscana, la seconda area di massima crisi è stato il Nordest, dove in alcuni casi è addirittura piovuto ancora di più, oltre 300 mm nei bacini di Piave, Livenza e Tagliamento. In conclusione tra Veneto, Trentino e Friuli ha piovuto dal 25 al 35% di quanto piove in media in un anno.
È importante notare che i massimi delle piogge sono registrati nelle parti sopravvento delle catene montuose che hanno incontrato le nubi.
Nel contempo forti venti meridionali hanno percosso l’Adriatico, gonfiandone la parte settentrionale e provocando una marea eccezionale che a Venezia ha provocato la maggiore acqua alta mai registrata (1,92 metri), con il massimo che è avvenuto in corrispondenza di una teorica fase di bassa marea.

LA PIENA A FIRENZE. Le prime esondazioni avvennero a monte della città già la sera prima. Circa alle 1 di notte del 4 novembre l’Arno uscì dagli argini all'Anconella, nella prima parte del corso cittadino in riva sinistra. Alle 2 gli orafi erano sul Ponte Vecchio a cercare di salvare il salvabile; in centro le spallette sono state scavalcate alle 5 del mattino, in Piazza de' Giudici, a monte della strettoia del Ponte Vecchio, come è sempre accaduto nella storia.
Le esondazioni riguardarono un pò tutto il bacino, interessando il fiume principale nel tratto casentinese e nel Valdarno superiore e la maggior parte degli affluenti (segnatamente Ambra e Sieve). A valle della città Ombrone pistoiese e Bisenzio allagarono la zona di Signa; dopo Empoli, furono Elsa ed Era a provocare i danni maggiori: i bacini di questi fiumi si estendono molto verso sud e la loro parte alta, dove confinano con quello dell’Ombrone grossetano, si trovò nella striscia maggiormente perturbata.

Altezze massime raggiunte dalla piena. Si nota la differenza fra Duomo (rialzato) e Battistero (a livello del suolo)
a destra una simulazione dell'altezza massima delle acque a Santa Croce

In questa tabella vediamo l'altezza a cui sono arrivate le acque in varie parti del centro. Ricordo che Duomo e Santa Croce sono parecchio più alti del livello del suolo (l'altezza del piano della basilica di Santa Croce è stato costruito così in alto proprio in modo da evitarne l'allagamento durante le alluvioni "ordinarie", che ai tempi erano frequentissime, come ho evidenziato nel post precedente). In media siamo ad un livello di circa mezzo metro superiore a quelle delle altre due alluvioni maggiori (1333 e 1557), le uniche altre che hanno sicuramente allagato la parte della città costruita sulla vecchia area romana, più elevata anche perché poggia sulle fondamenta degli edifici preesistenti.
In più c’è stato il problema delle dighe: tra Arezzo e Firenze il corso dell’Arno è sbarrato da due dighe costruite a scopo idroelettrico, La Penna e Levane. Il 4 novembre i laghi erano purtroppo pieni e furono svuotati nel mattino del 4 novembre. Il loro contributo è stato determinante per allagare il Valdarno superiore, molto meno per Firenze, dove dopo l’esondazione a monte, hanno costituito una parte poco significativa del flusso.

La cosa più terribile del dopo - piena non fu tanto il fango, quanto le tracce dei vari livelli a cui si è attestata la piena sui muri e sulle automobili: infatti le acque penetrarono nei serbatoi del combustibile per il riscaldamento, e siccome la nafta è ovviamente più leggera dell'acqua, costituì, appena la corrente rallentò, lo strato superficiale della colonna d'acqua, lasciando i suoi segni che in molti casi rimasero visibili per anni (me li ricordo benissimo).

Diamo ora un pò di numeri: a valle delle dighe del Valdarno superiore l’alveo può contenere in media  2.500 - 2.600 mc/sec, con punte inferiori che arrivano fino a soli 1.600 – 1.700. Nel tratto cittadino di Firenze la portata era di 2.800 mc/sec (oggi con dei lavori è aumentata); da Empoli in poi siamo a 3.000, che vengono passati da Pontedera in poi, dove ai 2.280, limite massimo di quanto può passare da Pisa, si aggiungono i 1.000 del canale Scolmatore.
Come ho già spiegato, il fiume abbassa la sua portata perché una volta le acque in eccesso finivano nelle paludi e nelle campagne e quindi non proseguivano verso la foce.

Ebbene, le stime sulle portate del 4 novembre 1966 sono estremamente più alte: a monte di Arezzo, all’uscita del Casentino (Subbiano) eravamo già a circa 2.000 mc/sec nonostante fossero già esondati 10 milioni di mc nella valle. 
A questi, a monte di Firenze, si aggiunsero 300 mc/sec della Chiana (un contributo minore di quello che la vox populi vi attribuisce e neanche lontanamente comparabile con i 663 registrati nella piena del 1921), i 1.000 dell’Ambra e i 1.340 della Sieve. A questi va aggiunto il contributo del reticolo minore. Tra le foci di questi due fiumi esondarono nel Valdarno Superiore circa 70 - 80 milioni di mc.

ESONDAZIONI E LIVELLO DEL FIUME DURANTE UN EVENTO ALLUVIONALE: L'ESEMPIO DEL 1966. Quando si verifica un evento alluvionale la portata del fiume è governata da una serie di parametri fra i quali, appunto, sono molto importanti le esondazioni, che abbassano la portata del fiume a valle di dove avvengono: 1000 mc/sec sono “appena” 3,6 milioni di metri cubi /ora… pensate che portata ci sarebbe stata a Firenze se non fossero esondati in Casentino e Valdarno Superiore quei 100 milioni di mc...
L’influenza di reticolo minore ed esondazioni si possono ben esemplificare osservando la portata alla Nave di Rosano, situata a Pontassieve a valle della confluenza Sieve – Arno. In quel punto è stato attribuito un valore massimo di 3.540 mc/sec. Siccome il massimo delle piogge nel bacino della Sieve (ben più vicino a Rosano del Casentino) è stato successivo a quello principale, l’ondata di piena della Sieve è arrivata a Pontassieve sommandosi a quella proveniente dall’alto Arno: se in Mugello fosse piovuto con la stessa tempistica del Casentino e del Pratomagno ci sarebbero state due piene distinte. 
Ora, sommando i valori precedenti si ottengono oltre 4.600 mc/sec e ricordo che ci sarebbe pure da aggiungere iol contributo dello svuotamento delle dighe.
A Firenze invece la portata è stata di 4.100 mc

Da questo si capisce l'importanza delle tracimazioni e del reticolo minore durante un evento del genere:
1. a Pontassieve mancano, in riferimento alle sole aste principali (Arno casentinese, Chiana, Ambra e Sieve), quasi 1.000 mc/sec, chiaro indice del fatto che il fiume era abbondantemente esondato nel Valdarno Superiore
2. a Firenze l’Arno ha avuto una portata di oltre 500 metri cubi superiore a quella di Pontassieve, grazie al contributo di 3 torrenti (Le Falle, Sambre e Affrico / Mensola) neanche minimamente paragonabili a quelli principali, più qualche altro rio minore.
3. scendendo oltre Firenze, tutto il territorio fu interessato da una grave esondazione (oltre 100 milioni di metri cubi) nel Valdarno inferiore, da Empoli fino alla foce. All’epoca lo scolmatore di Pontedera non era ancora finito e se non ci fosse stata nessuna fuoriuscita dall’alveo nella città della torre pendente si sarebbero riversati oltre 7.000 mc/s di acqua, contro i 2200 che può smaltire!

IL TRAGICO BILANCIO DEL DISASTRO. Tra Toscana e nordest si sono contati più di 800 comuni interessati, con 112 morti e tante città colpite con oltre 10.000 abitazioni danneggiate.
Firenze città ha contato 17 morti furono, altrettanti quelli nelle zone limitrofe. 
I danni materiali furono gravissimi: alla fine risultarono distrutti o danneggiati 9.752 negozi, 8.548 botteghe, 248 alberghi, 600 insediamenti produttivi, 13.943 abitazioni, migliaia di automobili. L’evento lasciò disoccupate oltre 30.000 persone.
Se dal lato cittadino, oltre ai danni patiti dai privati, si devono aggiungere i danni incalcolabili al patrimonio artistico e culturale (e non solo a Firenze e Venezia!), anche nelle campagne la cosa è stata dura: 12.000 fra fattorie e case danneggiate, 50.000 capi di bestiame morti o macellati per le ferite, 16,000 macchine agricole distrutte, mentre l’erosione e la furia delle acque hanno fatto man bassa di vigneti, foreste e terre coltivate
Non c’è stato niente da fare… con tutta quest’acqua non poteva non succedere qualcosa.

IL PERCHÈ DELLA TRAGEDIA. Come si è arrivati a questo? Una depressione si è formata sulla Spagna e ha iniziato a muoversi verso Est. Le masse d’aria seguirono invece, come al solito, una traiettoria da sud o sudovest. La bassa pressione abbastanza pronunciata ha causato una evaporazione superiore al normale nel Mediterraneo occidentale, gonfiando così le nubi di acqua. Il problema fondamentale è quello che è successo poi: la perturbazione arrivando in Italia si è letteralmente bloccata a causa della presenza sui Balcani di un robusto anticiclone. Le grandi alluvioni italiane sono sempre state dovute al prlungarsi delle piogge a causa della presenza di un anticilone sui Balcani che blocca sul nostro Paese le nuvole.
La presenza di una depressione profonda e di un anticiclone altrettanto robusto ha aumentato il gradiente pressorio (cosa che nella carta si riflette nell’infittimento delle isobare). Isobare fitte significano vento piuttosto forte ed ecco il perchè dei venti sciroccali che hanno gonfiato l’Adriatico settentrionale, provocando l’acqua alta eccezionale a Venezia.

LE CIRCOSTANZE CHE AGGRAVARONO IL DISASTRO DEL 1966. Ho accennato all’inizio alla questione della diversità dei disastri anche a parità di piogge. E nel 1966 ci sono state diverse circostanze aggravanti che si possono ricondurre a tre filoni principali:
1. l’ottobre 1966 è stato piuttosto piovoso. Di conseguenza il livello dei fiumi era già più alto rispetto al solito e quindi la loro capacità di sopportare il forte afflusso di acque piovane era minore (e nel caso fiorentino gli invasi idroelettrici erano al colmo). Inoltre, oltre al fatto che più piove e più bassa è la percentuale di acqua che finisce nel suolo, il terreno erano già saturo di acque per le piogge precedenti. Quindi tutta che è piovuta se ne è andata via, perchè, appunto, un suolo saturo non ne può accogliere altra
2. l’intensità altissima e la vasta distribuzione della precipitazione (che nel caso dell'Arno ha riguardato tutto il bacino a monte di Firenze - a parte la Valdichiana - e il rinforzo del 4 novembre sul bacino della Sieve)
3. nei giorni precedenti aveva fatto freddo e sui monti c’era la neve, neve che il rialzo delle temperature dovuto ai venti sciroccali e le piogge hanno sciolto (è successo altre volte nella storia anche a Firenze): annoto che nel Trentino il manto nevoso in alcune zone era presente già da 800 metri di altezza

Un caso particolare è quello del Trentino, dove una alluvione era avvenuta in agosto, lasciando alcune aree in situazione di squilibrio e aumentando quindi i danni a valle.
Con questo, non si può dire che senza queste circostanze aggravanti non sarebbe successo niente, ma sicuramente non solo a Firenze l’esondazione sarebbe stata “un pò” minore.

Nel prossimo - e ultimo - post della serie, parlerò degli scenari di piena con la situazione attuale e quella futura 

[1] Malguzzi et al (2006) The 1966 ‘‘century’’ flood in Italy: A meteorological and hydrological revisitation. Journal of Geophysical Research 111, D24106, doi:10.1029/2006JD007111, 2006

lunedì 17 ottobre 2016

Per il 50° del '66 2: le alluvioni del passato a Firenze


Dopo il primo post, dedicato ai problemi idraulici del bacino dell'Arno nel XX secolo, in questo secondo post esamino le alluvioni del passato a Firenze. Ci sono da fare alcune precisazioni rispetto a quanto è comunemente noto, principalmente su quanto è successo prima del 1261. Inoltre si notano alcuni particolari interessanti sulla distribuzione degli eventi: un addensamento notevole in autunno, tra settembre e gennaio (cosa non certo inaspettata...) e un cambiamento assoluto della frequenza degli eventi che si è registrato a partire dalla seconda metà del '700. Le esondazioni dell'Arno non sono un fenomeno che riguarda unicamente Firenze, ma
interessano, in forma più o meno grave, tutte le piane lungo l'asta fluviale: lo testimoniano le
tante opere idrauliche che troviamo lungo il fiume; ma questo è un aspetto che può essere evidenziato soprattutto da esperti, mentre chiunque può notare un altro aspetto e cioè le targhe che si trovano continuamente a Firenze indicanti il livello a cui sono arrivate le alluvioni del passato, (non solo di quella del 1966). Di tali targhe ne ho viste anche nelle campagne e in altre città lungo il corso del fiume. Persino in una casa privata!

L'ARNO: UN PROBLEMA PER FIRENZE DALLA SUA FONDAZIONE. Che l’Arno fosse un problema per Firenze era noto fino dalla fondazione della città, avvenuta nel I secolo a.C. (anche se ci sono evidenti tracce di insediamenti preesistenti).
Addirittura, come ho già evidenziato, nel 17 d.C. una commissione di esperti del Senato romano (una Commissione De Marchi ante – litteram!) propose di intervenire sul corso del Clanis, fiume abbastanza importante all'epoca che percorreva in direzione sud la Val di Chiana, sfociando nel Paglia e quindi nel Tevere. C’era la convinzione che le acque provenienti dalla Val di Chiana fossero il problema maggiore alla base delle alluvioni che periodicamente interessavano Roma. La proposta era quindi quella di invertire il corso del Clanis facendolo finire nell’Arno, fiume che in epoca etrusca aveva aumentato la portata in quanto prima nella zona di Arezzo l'Arno si biforcava, una parte andava verso il tracciato attuale, un’altra verso la Chiana e quindi le acque che scendevano dal Casentino in parte erano tribuarie del Tevere.
Questa idea scatenò le apprensioni degli abitanti della giovane colonia in terra etrusca in quanto c'era la paura che le acque della Valdichiana diventassero un grosso problema per l'Arno. Da notare che questa paura sussisteva ancora nel XVIII secolo quando le bonifiche leopoldine di quell’area a Firenze venivano viste come il fumo negli occhi, ma è certo che almeno per l'alluvione del 1966 il contributo di quell'area è stato molto scarso (350 mc/sec).
Il fatto meriterebbe un approfondimento: come potevano gli abitanti di una città giovanissima, fondata meno di un secolo prima, nel 59 AC, avere queste paure? C'era forse stata una alluvione in quegli anni?
Fattostà che una delegazione di fiorentini andò a Roma, riuscendo ad evitare quello che per loro poteva essere un gravissimo problema.

La delegazione riuscì nell'impresa e il progetto fu bloccato. Poco tempo dopo, nel 65 DC, sotto il regno di Nerone fu eseguita un'opera minore: il Clanis fu fermato con una specie di diga nella zona di Fabro, il “Muro Grosso”, che dovrebbe fare anche parte di un sistema di chiuse citato da Plinio il Vecchio per consentire la navigabilità tra Tevere, Paglia e Chiana. Questa operazione si concluse con un generale insuccesso: da un lato Roma continuò ad essere periodicamente allagata dal Tevere, dall'altro a causa delle difficoltà di deflusso delle acque la Valdichiana ridiventò una terra malsana e paludosa fino alle bonifiche lorenesi del Settecentento.

IL TRATTATO DEL MOROZZI DEL 1762. La prima trattazione completa e specifica sulle alluvioni dell’Arno è “il Morozzi”, il libro Dello stato antico e moderno del fiume Arno e delle cause e de’ rimedi delle sue inondazioni, scritto da Ferdinando Morozzi (1723 – 1785) e stampata nel 1762. L’autore si avvalse, fra l’altro, anche degli scritti e della conoscenza diretta di Giovanni Targioni Tozzetti (1712 – 1783), che ringraziò esplicitamente nella prefazione, e attribuì correttamente alla deposizione dell’Arno la sedimentazione della pianura di Pisa, come – altrettanto esattamente – ipotizzò che nel passato le pianure fossero tutte aree paludose.
Notiamo innanzitutto che la stragrande maggioranza degli eventi si sono verificati fra settembre e gennaio. Stranamente l'unico mese in cui non si ricordano alluvioni è marzo, che invece è uno dei mesi più umidi.

Sulla storia delle alluvioni a Firenze si devono smentire due asserzioni tradizionali che si basano teoricamente sul Morozzi.
La prima è che gli eventi alluvionali vengano “registrati meticolosamente dal 1177”. Questo deriva da una non attenta lettura della fonte di questo elenco: il Morozzi stesso precisa che nel suo catalogo potrebbero esserci delle lacune, pur essendo comunque sicuro di aver potuto ricavare notizie su tutti gli eventi principali ma non escluse la mancanza di qualche evento minore. Inoltre di quanto è scritto non c'è certezza di alcuni eventi: per esempio non si ricava una sicurezza assoluta che nel maggio 1406 la piena produsse una esondazione, mentre a proposito del 1434 parla solo di fatti avvenuti a Empoli.
In qualche caso lui stesso sposta all'anno precedente certi avvenimenti supponendo degli errori di datazione nella cronaca che ha esaminato (per esempio attribuisce al 1378 dei fatti che secondo un cronista, lo Stefani, si sarebbero invece svolti nel 1379).
La seconda è che le alluvioni dell’Arno sarebbero iniziate nel 1177. All’inizio della trattazione l'Autore accenna ad alcuni eventi, per esempio parla di un disastro avvenuto durante il regno di Costantino IV (nel VII secolo), di quelli citati da Paolo Diacono nella storia dei longobardi e altri citati da altri Autori.
Sempre nel XII secolo, prima del 1177, Morozzi stesso fa accenno ad inondazioni avvenute nel 1139 e nel 1168. In particolare a proposito del 1168 riporta una fonte anonima secondo la quale l’Arno tra settembre e novembre sarebbe uscito dagli argini ben nove volte.
Anche questa seconda asserzione deriva da una non attenta lettura di quel testo: l'inondazione del 1177 è semplicemente la prima inserita in catalogo dal Morozzi, il quale precisa esplicitamente di tralasciare “quelle seguite nei tempi di mezzo” e giustifica questa scelta con la convinzione che quell’anno costituirebbe uno spartiacque urbanistico a causa della “correlazione alla fondazione del Castello di Altafronte e di altre fabbriche fatte in Firenze sulla riva dell’Arno”. In realtà questa correlazione è sbagliata, in quanto il castello ha influito poco in quanto la “stretta” del Ponte Vecchio era preesistente a queste operazioni.

L'INTERVALLO SOSPETTO FRA IL 1177 E IL 1261. Ho inoltre un dubbio sul periodo 1177 – 1261: infatti fra la la prima e la seconda alluvione elencate dal Morozzi passano oltre 80 anni. A prima vista mi sembrano troppi.
Provo ad ipotizzare una spiegazione.
La parte più antica della città, che corrisponde al castrum romano e che più o meno è stata ripresa dalle prime mura comunali, è oggi piuttosto rialzata dal resto della città. Lo si vede anche dalla carta dell’altezza delle acque del 1966 e, di fatto, è stata colpita solo dalle inondazioni principali (1333, 1557 e 1966).
Nella pre  - pubblicazione del rapporto definitivo scritto dal comitato tecnico internazionale “Firenze 2016” sulla protezione della città dal rischio alluvioni si legge che i romani avrebbero costruito Florentia in un rialzo della piana. In realtà questo rialzo è (almeno in buona parte) di origine artificiale: gli edifici ora sovrastanti l’area romana infatti poggiano su un livello di parecchi metri di detriti di vecchie abitazioni.
Durante la crisi dei “secoli bui” Florentia si è ristretta, ma alla ripresa della civiltà fu costruita in epoca carolingia una cerchia di mura che bene o male ricalcava quella romana. Anche la successiva cerchia antica di Cacciaguida citata nella Divina Commedia (nota meglio come Mura Matildine, da Matilde di Canossa) e costruita nell’XI secolo continuava bene o male a comprendere solo la zona un po' rialzata.
Quindi è possibile che prima della crescita esponenziale della popolazione cittadina, avvenuta durante il XIII secolo e che costrinse a ideare la terza cerchia muraria, la zona abitata rimanesse per lo più confinata al rialzo e che questo rialzo non veniva toccata dalle acque perché già a livello più alto del resto a causa dei detriti sottostanti e quindi.
Ergo, nessuno si ricordava piene dell’Arno (che non aveva neanche, fra l’altro, un corso ben definito fra due argini) il quale si limitava ad esondare negli stagni e nelle paludi intorno alla città, senza influire più di tanto sulla vita civile.

Nel 1177 crollò il ponte in legno che era al posto dell’attuale Ponte Vecchio: forse è per questo che quell’evento è così noto e altri che lo hanno preceduto e seguito non hanno lasciato tracce, mentre le nove fuoriuscite dell’Arno dall’alveo citate da Morozzi nel 1168 possono essere state delle esondazioni poco più che golenali, la cui memoria è stata tramandata perché colpì la ripetizione continua dell’evento.

IL CAMBIAMENTO NELLA FREQUENZA DELLE ALLUVIONI A FIRENZE DA METÀ DEL XVIII SECOLO. Per questi motivi preferisco modificare l'elenco del Morozzi togliendo l'evento del 1177 e partendo quindi da quello del 1261.
I disastri maggiori prima del 1966 sono avvenuti nel 1333 (sempre il 4 novembre), il 13 settembre 1557 e il 30 ottobre 1559. Non essendo in grado di dire nulla su possibili tempi di ripetizione delle alluvioni prima del 1261 e ponendo che sicuramente tutti gli eventi citati dal Morozzi sono reali (anzi, al limite ne manca qualcuno) si nota una caratteristica piuttosto strana: dalla metà del 1700 a Firenze il regime è cambiato, con una marcatissima rarefazione degli eventi, per la quale ci sono due spiegazioni principali,  una antropica e una naturale.
Nelll'elenco del Morozzi tra il 1261 ed il 1761 le alluvioni si sono susseguite a ripetizione, anche in tempi molto vicini fra loro: ben 55 eventi, di cui 30 definiti molto gravi. Si tratta di un ritmo elevatissimo, se guardiamo a quello che è successo dopo: meno di 10 anni fra un evento e l’altro (è il caso per esempio degli anni 1490 /1491 e 1543 / 44 / 47 / 50, a cui seguì l’evento “maggiore” del 1557). Dopo il 1761 ne abbiamo avute soltanto 3 in 200 anni a Firenze, mentre a Pisa sono continuate, altro particolare interessante.

PIENE DELL'ARNO E DEI SUOI AFFLUENTI. Precisiamo subito una cosa importante: una alluvione dell’Arno a Firenze non è un evento che si verifica a causa di una forte pioggia su un’area limitata: a causa della portata potenziale del fiume occorre che più sottobacini (Chiana, Casentino, Valdarno superiore, Mugello, Ambra) siano oggetto di forti precipitazioni.
Ho visto recentemente e personalmente gli effetti di alluvioni che hanno colpito i tributari dell’Arno (Ema, Ciuffenna, Bisenzio, Ombrone pistoiese, Stella, Mugnone, Faella): in diverse occasioni questi torrenti hanno procurato dei danni ingenti, ma le loro piene, devastanti a livello locale, sul fiume principale sono state praticamente ad effetto zero. Solo nel 1992, in occasione dell’alluvione del Mugnone, anche l’Arno rischiò di esondare perchè le piogge si erano diffuse un pò in tutto il bacino, ma alla fine esondarono solo alcuni affluenti (nel 1345 esondarono simultanemaente Arno e Mugnone, il quale invece nel 1966 non esondò).
Insomma, perchè esca dagli argini l’Arno, a parte il tratto casentinese più a monte dove ha delle caratteristiche e delle portate simili a quelle dei torrenti di cui ho appena parlato, bisogna che siano diversi i tributari che lo ingrossano.
E di fatto l’alluvione del 1966, come l’evento del 31 ottobre 1992, in cui il rischio esondazione è stato altissimo, sono dovuti a piogge incessanti lungo tutti i sottobacini a monte di Firenze (Mugello, Casentino, Val di Chiana, Valdarno superiore, Val d’Ambra).
Quindi per avere una piena che possa provocare una inondazione a Firenze ci vuole una perturbazione che diffonda piogge intense su tutto il bacino a monte.

LE IPOTESI SUI MOTIVI DEL CAMBIAMENTO DI FREQUENZA. Secondo alcuni autori questa sostanziale modifica è dovuta ad un nuovo equilibrio idrogeologico - idraulico più o meno stabile dovuto alle sistemazioni idrauliche e forestali lorenesi, grazie alle quali fu creato un reticolo di canalizzazioni in grado di evitare le alluvioni delle aree bonificate e che rallentava il deflusso delle acque nei corsi d’acqua.
Come spiegazione questa mi lascia piuttosto perplesso, innanzitutto perché nel tratto a monte di Firenze tali operazioni hanno riguardato solo la Val di Chiana e, al limite, hanno aumentato, anziché diminuito, il flusso di acque nell’Arno: infatti non solo a questo modo sono stati perse le paludi che fungevano da serbatoi per le acque, ma, aspetto non secondario, la maggior parte di queste acque scorreva eventualmente verso il Tevere attraverso il Paglia piuttostoché verso l’Arno.
Ed è questo l’aspetto per il quale sono state piuttosto malviste in città. Di fatto grazie a questo intervento nel caso degli eventi alluvionali consistenti le portate verso l'Arno sono arrivate a 350 mc/sec nel 1966 e 663 mc/sec. nel 1921.
Anzi, al contrario, direi che queste bonifiche nella parte a valle di Firenze sono alla base delle frequenti alluvioni che invece hanno colpito Pisa e a causa delle quali è stato costruito lo scolmatore di Pontedera nel XX secolo: se impedisci alle acque piovane di esondare e le scarichi nel fiume, ne aumenti la portata e quindi aumenti automaticamente il rischio di tracimazione a valle

Situazione meteo il 4 novembre 1966:
l'alta pressione dei Balcani blocca la perturbazione
Io propendo invece per una spiegazione climatica, e cioè la fine della Piccola Era Glaciale, a cui ha corrisposto una nuova situazione in cui sono diminuiti fortemente gli eventi che riguardano il bacino intero, mentre sono aumentati, grazie al riscaldamento globale, eventi importanti in piccoli bacini.
Oggi per avere un evento come quello del 1966 (ma è quello che è successo anche in Piemonte nel 1994, per esempio) occorre che il ciclone che porta le piogge sia bloccato e non riesca ad andare verso est a causa di una alta pressione nei Balcani: ne consegue che le precipitazioni si prolungano nel tempo nello stesso posto.
Mi domando se sia possibile che in una fase più fredda come quella della Piccola Era Glaciale questo fenomeno sia avvenuto più spesso.
Nel prossimo post, terzo della serie, esaminerò l'evento del 1966, che insisto a chiamare "evento alluvionale della Toscana e dell'Italia di Nord-Est" perché se Firenze è la città - simbolo, anche il resto della Toscana e il Triveneto hanno subìto immensi danni