giovedì 30 giugno 2016

Le deformazioni e la storia della placca indo-australiana nell'Oceano Indiano orientale



Qualche tempo fa ho scritto un post sulla complessa storia dell’apertura dell’Oceano Indiano, in particolare di quello Occidentale. Oggi parlo invece della parte nordorientale di questo bacino, perché presenta delle caratteristiche molto peculiari dal punto di vista geostorico, sismico e tettonico, caratteristiche evidenziate in particolare dal famoso terremoto dell’11 aprile 2012, il più forte evento trascorrente e intraplacca mai registrato. In particolare, riagganciandomi al post precedente a questo, si nota come anche nell’Oceano Indiano orientale la deformazione è guidata da faglie che arrivano nelle profondità del mantello superiore e quindi è influenzata pesantemente da situazioni strutturali preesistenti.


L'Oceano indiano di NW, con i 3 grandi eventi intraplacca degli ultimi anni 
I TERREMOTI INTRAPLACCA NELL'OCEANO INDIANO ORIENTALE. L’11 Aprile del 2012 un fortissimo terremoto ha interessato l’oceano Indiano a largo delle coste di Sumatra, caratterizzato da una serie di aspetti che hanno fatto parecchio “rumore”:
  • l’aumento della sismicità di fondo in tutto il mondo nelle due settimane successive
  • la magnitudo di 8.7, un record assoluto per una faglia trascorrente, e un valore che si pensava di non poter neanche raggiungere per un evento di questo meccanismo
  • la posizione dell’epicentro, in mezzo all’oceano e lontano dal limite fra la zolla indo - australiana e quella euroasiatica

Insomma, un terremoto piuttosto - come dire - originale....
È stato un evento molto complesso, con 4 rotture di 4 faglie diverse in poco meno di 3 minuti (l’evento è durato in tutto 160 secondi), tutte trascorrenti. All’inizio sembrò una rottura di una faglia orientata NNE-SSW ma la realtà è invece molto più complessa e sembra quasi superare la fantasia di un regista specializzato in film catastrofici [1]:
  • la rottura iniziale avvenne a NE su una faglia orientata WNW–ESE che è finita dopo circa circa 50 secondi, lungo un segmento lungo 150 km
  • 40 secondi dopo l’inizio dell’evento, e quindi 10 secondi prima della fine della prima rottura, la radiazione sismica comincia ad essere emessa da una faglia perpendicolare alla prima
  • a 70 secondi dall’inizio finisce la seconda rottura e ne inizia una terza, parallela a questa, che prosegue fino a 145 secondi dall’inizio
  • a quel punto entra in gioco una quarta rottura, su una faglia parallela alla prima, per altri 15 secondi

Due ore dopo un altro forte evento (M 8.2) ha interessato un’area adiacente.
Il terremoto dell’11 aprile 2012 non è stato negli ultimi anni l’unico sisma importante in mezzo all’oceano Indiano orientale lontano dai limiti di zolla riconosciuti: altri 2 eventi piuttosto forti lo hanno interessato di recente:
  • il terremoto delle isole Cocos del 18 giugno 2000 (Mw 7.9)
  • e, pochi mesi fa, il 2 marzo 2016 un altro evento di M 7.8 ha interessato un’area più o meno a metà strada fra i due eventi precedenti

Carta da [3] con le faglie del bacino di Warthon.
Le aree tratteggiate sono quelle in cui troviamo
ancora tracce della dorsale oceanica non più attiva 
Anche il terremoto delle isole Cocos è consistito in due sub-eventi con la rottura di due piani di faglia ortogonali fra loro, di cui il maggiore è avvenuto in una vecchia zona di frattura, formatasi quando in questo bacino era attiva la formazione di crosta oceanica [2].
Il terremoto del marzo scorso ha poca bibliografia, perchè è troppo recente. L’USGS riporta un meccanismo trascorrente orientato WNW - ESE, perfettamente in armonia con gli altri due.

Sulle faglie NNE - SSW ci sono ipotesi diverse: per alcuni Autori si tratta di faglie nuove, per altri della ripresa del movimento sui vecchie faglie trasformi.
La spiegazione di questa serie di terremoti in qualche modo anomali sta nella complessità della geologia regionale di quell’area e nel fatto che la zolla indo - australiana non è esattamnte un tutt’uno.
Nel Bacino di Warthon le faglie sono in numero impressionante; lungo alcune di esse troviamo deformazioni nei sedimenti recenti, per cui si sono mosse poco tempo fa o sono ancora in attività, mentre altre presentano deformazioni solo nei sedimenti al di sotto di un certo livello e quindi la loro attività è cessata da tempo. 
Le faglie orientate WNW - ENE sono impostate sui segmenti della valle assiale di una vecchia dorsale medio - oceanica che ha formato la crosta a E della dorsale di 90°E: in quest'area l'attività è cessata circa 35 milioni di anni fa e in buona parte questa croista piuttosto giovane è già stata subdotta sotto l’Indonesia. Le vediamo in questa carta da [3], dove ho evidenziato con il reticolo le tracce rimaste della dorsale mediooceanica di Warthon.
E ora attenzione ad un apetto interessante: nell’area la profondità della Moho è poco meno di 10 km e lo spessore crustale è solo di 3.5–4.5 km. Ne segue che, tanto per ritornare nell’argomento del post precedente, anche in questo caso le faglie che vediamo in superficie arrivano molto in profondità, interessando il mantello superiore.

La carta di [5] con la placca del Capricorno
e le 3 aree di margine "diffuso"
all'interno della placca indo - austrlaiana
LA STORIA DELL'OCEANO INDIANO ORIENTALE. Già John T. Wilson in un leggendario articolo del 1960 inserì un limite fra la zolla indiana e quella australiana che oggi non appare realistico, ma all’epoca l’espansione dei fondi oceanici era solo predetta e la conoscenza delle caratteristiche della superficie terrestre coperta dal mare erano piuttosto scarse.
Comunque fin dalle prime campagne oceanografiche qualcuno capì che nell’Oceano indiano le cose non tornavano molto, e già nel 1985 fu proposto che la parte indiana e quella australiana della zolla fossero due entità distinte [4], ribadendo, seppure in modo un pò diverso, il pensiero di Wilson. Il problema è che non si trova un limite certo. Venne proposto quello che era impensabile all’inizio della storia della Tettonica delle placche, ma oggi ormai accettato anche altrove: che alle volte il limite fra due zolle non sia netto, ma “diffuso”.
Nella carta che ho messo all’inizio del post si vedono alcune caratteristiche salienti di quest’area:
  • la subduzione della litosfera dell’Oceano indiano tra il golfo del Bengala e l’Indonesia fino alle Piccole Isole della Sonda
  • la dorsale di 90°E che è la traccia del punto caldo delle Kerguelen, che parte dai basalti di Rahjimahal nell’India orientale. La traccia del movimento della zolla indoaustraliana tra Rahjimahal e le Kerguelen si interrompe all’altezza delle Andamane perchè una parte è andata in subduzione nella fossa sotto questo arcipelago
  • i 3 terremoti che ho indicato sopra più la terribile scossa di Sumatra del 2004 e un forte evento pochi giorni prima di quello delle Cocos del 2000

Quest’altra carta qui accanto è del 1998 [5] e individua la placca del Capricorno come una sub-placca di quella Indo - Australiana e 3 aree di “margine di placca diffuso” (DPB) che la circondano, e precisamente:
  • una piccola area a W dello Sri - Lanka che accomoda una estensione
  • una grande area a S delle Chagos, anche questa accomodante una estensione
  • un’area ancora più grande a NE che invece accomoda una compressione

130 Milioni di anni fa, quindi nel Cretaceo inferiore, iniziò l'attività della dorsale indiana di SE e il blocco formato da Australia e Antartide si separò da quello formato da India e aree associate (Seychelles, Sri Lanka, Madagascar, Laxmi ridge). Questa separazione è avvenuta poco dopo (o durante) le fasi inziali della attività del plateau delle Kerguelen ed è parzialmente ancora oggi visibile nel bacino di Warthon.
Nel Terziario inferiore tre principali avvenimenti interessano l’area:  
  • lo scontro fra India ed Eurasia
  • la separazione fra Australia e Antartide
  • la cessazione della formazione di crosta oceanica nel bacino di Warthon circa 35 milioni di anni fa

In particolare la fine dell’espansione del bacino di Wathon sancisce l’unione della placca indiana con quella australiana. In queste due carte, tratte da [6], si nota la situazione prima e dopo la cessazione dell’espansione nel bacino di Warthon.
Carte da [6]:
sopra: nell'Eocene è ancora attiva la dorsale di Warthon: 
l'India si separa da Australia e Antartide ancora unite
sotto: la dorsale di Warthon si esaurisce, nasce la dorsale dell'Oceano Indiano sudorientale
e si separano Australia e Antartide mentre si ferma il moto tra India e Australia

LA PLACCA INDOAUSTRALIANA È UNA PLACCA UNICA O NO? Le cose non finiscono qui e, soprattutto, la domanda è se la zolla indoaustraliana possa ancora essere considerata un elemento unico (e se lo è stato davvero negli ultimi 35 milioni di anni)
Innanzitutto tutta l’area intorno ai due lati della dorsale di 90°E è sottoposta a compressione, ma le condizioni sono molto diverse [7]
  • ad Ovest la deformazione forma dei sovrascorrimenti con delle faglie orientate E-W (ben visibili nel Golfo del Bengala, dove questa situazione è iniziata circa 8 milioni di anni fa) e la compressione è praticamente in direzione N-S
  • ad Est, e quindi a sud dell’Indonesia, la direzione massima dello sforzo è ruotata rispetto all’altra parte, in direzione NW-SE e usa per quello le vecchie zone di frattura nate durante la formazione della crosta oceanica del bacino di Warthon

In buona sostanza è ormai accettata l’esistenza della subplacca del Capricorno, che occupa la parte SW della placca indoaustraliana tra la dorsale dell’Indiano centrale e quella di 90°E, lungo la quale c’è il margine diffuso con la zolla australiana.

Da ultimo mi si coinsenta una osservazione: nella carta del bacino di Warthon si vede come i segmenti della vecchia dorsale sono molto corti quanto sempre più lontani fra loro avvicinandosi alla Dorsale dei 90°E. Insomma, il rigetto di queste faglie trasformi è enorme rispetto alle lunghezze dell'asse della dorsale, al punto tale che se si guarda solo la carta dell'età degli oceani la dorsale sembra avere un orientamento N-S anzichè E-W: siccome siamo accanto alla zona di debolezza rappresentatata dalla dorsale di 90°E sono portato a pensare che queste faglie trasformi siano state riprese come faglie trascorrenti che assorbono la diversa velocità della parte indiana della placca indo - australiana rispetto a quella che si trova a sud dell'Indonesia 



[1] Yuo et al  (2012) En echelon and orthogonal fault ruptures of the 11 April 2012 great intraplate earthquakes Nature 490. 245 - 249
[2] Robinson et al (2001) Simultaneous Rupture Along Two Conjugate Planes of the Wharton Basin Earthquake Science 292, 1145 - 1148
[3]J acob et al (2014) Revisiting the structure, age, and evolution of the Wharton Basin to better understand subduction under Indonesia Journal of Geophysuical Research: Solid Earth 119, 169–190
[4] Wiens et al (1985) A diffuse plate boundary model for Indian Ocean Tectonics Geophysical Research letters 12, 429 - 432
[5] Gordon et al (1998), Evidence for long-term diffuse deformation of the lithosphere of the equatorial Indian Ocean: Nature, v. 395, p. 370– 374
[6] Muller et al (2016) Ocean Basin Evolution and Global-Scale Plate Reorganization Events Since Pangea Breakup Annu. Rev. Earth Planet. Sci. 44, 107–38
[7]Qin e Singh (2015) Seismic evidence of a two-layer lithospheric deformation in the Indian Ocean Nature Communications DOI 10.1038/ncomms9298



giovedì 23 giugno 2016

Le cicatrici che la tettonica delle placche lascia nel mantello e la loro influenza sugli avvenimenti tettonici successivi


Una delle cose più curiose della tettonica a zolle è il ripetersi nelle stesse aree di cicli di apertura e chiusura di bacini oceanici. Negli anni passati è diventato normale pensare che in molti casi la crosta reagisce riattivando faglie preesistenti come reazione a nuove situazioni tettoniche: come un manufatto si rompe per dei suoi difetti, che causano delle debolezze, anche le vecchie faglie sono state normalmente considerate come linee di debolezza e di rottura preferenziale. Però certe cose non tornavano molto, in particolare la forte attività sismica all'interno di alcune placche. Di fatto, solo di recente è stata prestata attenzione al ruolo nella tettonica a zolle delle tante "cicatrici" presenti nel mantello, ricordo di margini di zolla ormai non più attivi da centinaia di milioni di anni, dei quali spesso esiste una traccia superficiale. Un lavoro sperimentale su materiali in laboratorio ha dimostrato che le discontinuità nel mantello superiore possono guidare la deformazione a livello crustale e superficiale (e, soprattutto, che sono quelle profonde la causa di quelle superficiali). Ci sono alcuni esempi interessanti nel passato e nel presente.

La Pangea nel Permiano: una zona di taglio interessa
l'area della catena ercinica da poco formatasi, da [1]
OCEANI CHE SI APRONO E SI CHIUDONO “DI CONTINUO”Nel Carbonifero il continente meridionale di Gondwana si è saldato alla Euromerica formando il nucleo della Pangea. L'unione del Gondwana con la Laurasia (nome assunto dalla Euromerica dopo l'aggiunta dei blocchi che ora compongono buona parte dell'Asia) è durata pochissimo, come ho fatto notare in questo post: l’area orogenica è stata quasi immediatamente interessata nel Permiano dalla formazione di una faglia trascorrente (sul cui rigetto ancora ci sono opinioni contrastanti), e a partire dal Triassico ha subito uno smembramento da cui sono nate le attuali aree mediterranea e caraibica. Di fatto in quei momenti è iniziata la storia dell’Oceano Atlantico, che ha iniziato ad aprirsi in direzione E-W proprio lungo la giovane catena ercinica, frammentandola nella sua parte meridionale. Poi però l’apertura dell’oceano è proseguita in direzione N-S e vediamo come, in particolare, l’apertura dell’Atlantico Settentrionale abbia diviso la fascia orogenica paleozoica caledoniana, che troviamo in entrambe le sue sponde (con gli Appalachi negli USA e le Caledonidi in Scozia e Norvegia.
Questo episodio non è altro che l'ultima separazione fra Laurentia (il nucleo dell’America Settentrionale) e parecchie zone ora comprese nell’Europa, in particolare quelle che fanno parte di Baltica, che hanno visto nel passato ripetuti cicli di unione e separazione.
Questo si è verificato, come ho raccontato qui, anche all’interno di Baltica stessa oltre 2 miliardi di anni fa.
Il Mar Rosso e la Rift Valley si sono aperti lungo una delle fasce che compongono l’orogenesi panafricana, quella che ha formato il Gondwana.
In sostanza, in molti casi è provata una serie di aperture e chiusure di oceani più o meno fra le stesse masse continentali che erano andate precedentemente in collisione, e quindi certe aree della superficie terrestre sono più interessate di altre dagli eventi della tettonica a placche.

Dorsali oceaniche, faglie trasformi e trascorrenti, zone di subduzione e collisioni continentali spiegano i processi di deformazione rigida lungo i limiti delle varie placche che formano la litosfera terrestre. Di fatto i limiti di zolla rappresentano le fasce sismiche principali e più attive della Terra, ma non spiegano né le deformazioni, né la sismicità che in alcuni casi troviamo all’interno delle zolle. E neanche perché ad un certo punto una zolla si frattura fino alla formazione, talvolta, di un oceano.
È il famoso dilemma di “prima l’uovo o prima la gallina?” e cioè il continente si rompe perché vi arriva sotto materiale dal mantello inferiore o l’arrivo del materiale è dovuto alla decompressione provocata dalla rottura?

La distribuzione delle suture dell'ultimo miliardo di anni, in un lavoro del 1977 [2]
CICATRICI NEL MANTELLO: i dati di riflessione sismica hanno identificato in molte aree del mondo la presenza di vecchi piani di subduzione nella parte superiore del mantello, quella che forma insieme alla crosta alla litosfera. Le troviamo ad esempio nel Canada, nelle Alpi, nei Pirenei, nel Mare del Nord e nei suoi dintorni. Queste strutture arrivano parecchio in profondità; la loro presenza era già nota negli anni ‘90, ma fino ad oggi non hanno ricevuto la stessa attenzione che è stata rivolta alle discontinuità più superficiali.
Insomma, il mantello superiore è tutt’altro che omogeneo e queste discontinuità, che riflettono le onde sismiche. sono di tre tipi, ben sintetizzati da Steer, Knapp e Brown nel 1998 [3]:

  • riflettori inclinati, come la struttura di Flamman, in Scozia, che è il residuo della zona di subduzione al lato della catena caledoniana. Alcuni di questi sono antichissimi, come quello sotto il golfo di Botnia
  • riflettori diffusi o isolati, di difficile interpretazione
  • riflettori orizzontali: potrebbero essere delle vecchie Moho, ma è probabile che siano la spia della presenza di corpi magmatici in profondità. Per esempio una struttura molto grande del genere a NE della Scozia potrebbe rappresentare le radici dei basalti della provincia magmatica dell'Atlantico settentrionale (NAIP), che al passaggio Paleocene - Eocene hanno preceduto l’apertura dell’Atlantico settentrionale o di quelli dello Skagerrak, messi in posto all'inizio del Carbonifero.

Una delle fasi della deformazione nel modello di
Heron et al 2016 [4] e rappresentazione della litosfera
Un gruppo di ricerca inglese ha illustrato con un articolo su Nature Communications, il cui primo autore è Philip J. Heron, i risultati di una serie di esperimenti in laboratorio con dei blocchi che simulano la litosfera terrestre, che hanno dimostrato come le discontinuità nel mantello superiore possano influenzare la tettonica a larga scala [4].
Insomma, le zone di sutura continuano ad avere nel tempo un potenziale preferenziale di tornare nuovamente ad essere limiti di zolla rispetto al resto della litosfera, e in qualche modo guidano i fenomeni che accadono in superficie.  
Questo non risolve purtroppo il dilemma dell'uovo e della gallina, che probabilmente ha soluzioni diverse caso per caso: in alcuni casi è la rottura che provoca il richiamo di materiale mantellico, mentre in altri è il materiale mantellico in risalita che provoca la rottura. Però, sicuramente, questa visione sposta considerevolmente il problema dal punto di vista della sua localizzazione, trasferendolo a profondità maggiori di quelle della crosta.

UN ESEMPIO PRATICO ATTUALE. Gli autori di questo lavoro passano poi sul pratico, portando un esempio piuttosto stringente, al limite settentrionale del Tibet, quello con il bacino del Tarim. Si tratta di un lineamento decisamente importante perchè corrisponde alla sutura lungo la quale si sono scontrati il blocco del Tarim e quello del Tibet nel Paleozoico superiore.
La cicatrice lasciata nel mantello superiore e cioè il contatto fra le due zolle è rimasta e così, quando l’India ha iniziato ad incunearsi nel continente asiatico la vecchia sutura ha ripreso la sua attività ed è diventata la faglia di Altyn Tagh, una trascorrente sinistra che assorbe gran parte della deformazione con un rigetto di centinaia di km: in pratica l’India preme sul Tibet, il quale a sua volta scorre lungo il vecchio limite di zolla con il Tarim, in direzione NE.
Se si considera tutta l’area come facente parte della placca euroasiatica si tratta dunque di un esempio di sismicità intraplacca, anche se il tutto avviene su un vecchio limite fra zolle.
Il limite Tibet - Tarim e la faglia di Altyn Tagh, da [5] 

ALTRI POSSIBILI ESEMPI ATTUALI. A questo punto mi metto io a proporre alcuni esempi che in qualche modo ricalcano quello di Heron e soci.
Il primo ci viene proprio dalla cronaca sismica recente. Parlo della sequenza sismica che ha scosso il Giappone meridionale nell'aprile scorso, di cui ho parlato qui. La sismicità di Kyushu si esplica intorno alla linea tettonica mediana. Come nel caso della faglia di Altyn Tagh anche qui abbiamo una vecchia cicatrice di uno scontro fra zolle che viene ripreso come faglia trascorrente

Il secondo è di pochi anni più vecchio: già nel 1984 alcuni Autori avanzarono l’idea che la zolla indo - australiana si stia rompendo per le diverse condizioni tettoniche tra la sua parte occidentale, con l’India che si incunea nel continente Euroasiatico, la zona centrale che si sta scontrando con l’Eurasia in Indonesia e quella orientale, dalle dinamiche complessissime tra Nuova Zelanda, isole Tonga e Nuova Guinea [6]. Una conferma di questa ipotesi è venuta con il terremoto del 11 aprile 2012, dalla magnitudo record per un evento trascorrente (8.7!), il quale non è avvenuto proprio lì per un puro caso, ma perché lì c'è una dorsale medio-oceanica ormai inattiva (e dalla vita breve), che ovviamente è l'espressione superficiale di una cicatrice profonda
Probabilmente sono le stesse tensioni che provocano dei forti terremoti all'interno dell'Australia, che negli ultimi 40 è stata colpita da una serie di numerosi eventi a M spesso superiore a 6 (questi eventi avvengono in pieno deserto, e quindi nessuno se li fila fra i media non scientifici e non lasciano un forte ricordo). In questa figura vediamo due carte:

  • a destra una carta strutturale del continente - isola
  • a sinistra quella della sismicità ricavata con l’Iris Earthquake Browser: sono indicati i sismi a M uguale o maggiore di 5 dal 1970.


Si può facilmente notare come questi eventi si addensino lungo degli orogeni antichissimi

  • nella parte centrale del continente lungo l’orogene di Paterson, vecchio di oltre 500 milioni di anni
  • nella parte SW lungo l’orogene di Albany–Fraser e quello di Pinjarra, che di anni ne hanno oltre un miliardo
Evidentemente queste zone ancora oggi mostrano una certa debolezza che si manifesta in quanto la zolla indo - australiana ha parecchie tensioni interne.e i motivi dei grandi terrmotn nuovo studio sulle radici profonde della riattivazione di vecchie strutture: Non ho trovato grossi dati in rete ma immagino che anche a questi orogeni corrispondano nel mantello sottostante delle cicatrici.

E VENIAMO ORA ALL'ITALIA. C'è dalle nostre parti qualcosa di simile? In un Paese dove geologicamente c'è praticamente di tutto, di faglie che riprendono vecchie debolezze il nostro territorio è probabilmente fra quelli più forniti, ma ce n'è in particolare una, la scarpata ibleo - maltese che ci interessa per questo ragionamento: oggi provvede a limitare la zona di subduzione dell'arco Calabro - Peloritano come transfer fra la crosta continentale siciliana e il piano di subduzione dell'arco calabro - peloritano, ma già nel Triassico aveva la sua funzione di collegamento fra la crosta continentale e quella jonica. 
Già questo secondo particolare ci dice che siamo davanti ad una struttura ben radicata in profondità (e, probabilmente, l'apertura di quel settore della Tetide è avvenuto lungo una linea di debolezza ancora preesistente). Anche la scarpata ibleo - maltese, quindi, ha i numeri per essere l'espressione superficiale di una cicatrice ben più profonda.

[1] Muttoni et al 2003 Early Permian Pangea ‘B’ to Late Permian Pangea ‘A’Earth and Planetary Science Letters 215 (2003) 379-394
[2]Burke, Dewey e Kidd (1977) World distribution of sutures — the sites of former oceans. Tectonophysics 40, 69-99
[3] Steer et al (1998). Super-deep reflection profiling: exploring the continental mantle lid. Tectonophysics 286, 111,121
[4] Heron et al (2016). Lasting mantle scars lead to perennial plate tectonics. Nature communications DOI: 10.1038/ncomms11834
[5] Gillespie et al (2015). Mesozoic reactivation of the Beishan, southern Central Asian Orogenic Belt: Insights from low-temperature thermochronology. Gondwana Research (in press)
[6] Wiens et al (1986). Plate tectonic models for Indian Ocean “intraplate” deformation. Tectonophysics 132, 37-48 

venerdì 17 giugno 2016

Il paradosso "del Sole debole" e la Terra delle origini: i gas-serra spiegano perchè il nostro pianeta non era ghiacciato


Una stella come il Sole aumenta progressivamente la sua radiazione con il tempo. Questo fatto apparentemente contrasta con la storia terrestre, che parla di oceani liquidi anche in tempi lontani in cui con la atmosfera attuale la Terra sarebbe rimasta una sfera ghiacciata o poco di più. La soluzione sta nelle condizioni diverse del nostro pianeta durante l’Archeano, in particolare della sua atmosfera. Ma le ipotesi di una pressione molto maggiore di quella odierna sono state smentite da studi recenti. Quindi la partita si gioca tutta sulle possibilità della Terra di allora di assorbire più calore rispetto ad oggi e sulla presenza in quantità molto maggiori di gas serra come metano e CO2 rispetto a quelle attuali.

LA TERRA DELL'ARCHEANO: OCEANI LIQUIDI CON UN SOLE DEBOLE. La storia antica della Terra presenta un problema non di poco conto: come fa vedere il grafico qui accanto, con l’atmosfera attuale e una irradiazione solare più debole il pianeta sarebbe stato irrimediabilmente coperto dal ghiaccio fino a circa 1 miliardo e mezzo di anni fa. Invece la vita era già presente almeno 3.8 miliardi di anni fa, quindi oltre 2 miliardi di anni prima e sicuramente esistevano oceani liquidi.
È il cosiddetto “paradosso del Sole debole”: Sagan e Mullen nel 1972 dimostrarono che il Sole sta aumentando la sua potenza irradiativa perché nel suo nucleo aumenta la densità a cusa della fusione degli atomi di idrogeno per produrre atomi di elio [1].
Come se ne esce?
Le soluzioni sono due:
  • una albedo minore, cioè la capacità della Terra di assorbire il calore solare maggiore di quella odierna
  • una maggior percentuale di gas - serra nell’atmosfera

Per quanto riguarda la questione albedo Minik T. Rosing insieme ad altri autori ha proposto nel 2010 due condizioni importanti che potrebbero aver fatto sì che la Terra assorbisse più calore di quello che può assorbire adesso [2]:
  • i mari assorbono più energia delle terre emerse e a quell’epoca i continenti erano significativamente meno estesi di oggi
  • la mancanza di nuclei di condensazione biologici nell’atmosfera, per cui la copertura nuvolosa era minore

La questione dei gas atmosferici è più complessa. Innanzitutto bisogna notare che a partire da 2.5 miliardi di anni fa ci sono stati dei cambiamenti significativi nella loro composizione, modificando totalmente l’ambiente subaereo: l’atmosfera, che fino a quel momento era riducente, si è trasformata in ossidante grazie all’aumento dell’ossigeno. Ci sono ampie prove di questo, in particolare i (pochi) sedimenti di allora ancora visibili, nei quali sono diffusi minerali che non si possono assolutamente formare nelle condizioni subaeree attuali. Prima o poi parlerò su Scienzeedintorni di quello che è conosciuto come il Grande Evento Ossidativo.
Quindi il tutto verte su composizione e pressione dell’atmosfera dell’Archeano, l’eone conclusosi 2 miliardi e mezzo di anni fa con l’inizio dell’eone paleoproterozoico. 

Nell’atmosfera archeana dovevano fare da padrone il CO2 (come su Venere e Marte ancora oggi) e l’azoto. Inoltre, con le condizioni riducenti dell’epoca, poteva essere presente anche il metano, sia pure in piccole quantità (lo abbiamo tuttora nell’atmosfera marziana, dove processi geologici continuano a produrlo). Insomma, prima del grande evento ossidativo l’atmosfera era priva di ossigeno.
Fino a qualche anno fa era opinione diffusa che la pressione fosse a quei tempi molto maggiore di quella odierna e la Terra era più calda di come lo sarebbe stata con l’atmosfera attuale erano concentrate sulla presenza di gas serra in forte quantità come il metano [3] o di CO2 e di una pressione che soltanto per l’Azoto era tra una volta e mezzo e due volte e mezzo superiore a quella attuale: ne sarebbe risultato un aumento medio rispetto alle temperature ottenibili con l’atmosfera odierna di quasi 5 gradi [4]. 

GLI STUDI SULLA PRESSIONE ATMOSFERICA NELL’ARCHEANO. Tutte queste idee si basavano su modelli o intuizioni, però di dati reali sulla pressione atmosferica dell’epoca non ce n’erano. Questi dati hanno finalmente incominciato ad arrivare negli ultimi anni. Il risultato è che l’ipotesi che la Terra dell’archeano avesse una pressione atmosferica molto superiore a quella odierna è sbagliato.
Nel 2012 un gruppo di ricercatori esaminò le impronte di gocce di pioggia nei tufi sudafricani di Ventersdorp, vecchi di 2.7 miliardi di anni. Utilizzarono degli esperimenti su ceneri vulcaniche fresche e alterate simili a quelle sudafricane, facendovi cadere delle gocce di pioggia, dimostrando che la pressione atmosferica sulla superficie terrestre dell’epoca non poteva essere molto più elevata di quella odierna (al massimo il 10% in più): i dati non possono arrivare a delle conclusioni molto precisa ma, insomma, la pressione totale doveva essere compresa fra 0,5 e 1,1 atmosfere, quindi molto al di sotto di quanto ipotizzato fino ad allora [5].

Questo valore è stato confermato l’anno dopo, quando un gruppo internazionale, studiando la composizione isotopica di azoto e argon in 3 quarzi idrotermali di età compresa fra 3 e 3,5 miliardi di anni fa raccolti in Australia, ha mostrato che la pressione parziale dell’azoto non eccedeva gli 1.1 bar ma che addirittura poteva essere non superiore a 0,5 bar, e possedeva una composizione isotopica simile a quella attuale. Quanto al CO2, fu stimato un valore massimo di 0,7 bar. Quindi, evitando di considerare gli apporti minimi di altri gas come l’argon, 3 miliardi di anni fa la pressione atmosferica doveva essere compresa fra 0,5 e 1,2 atmosfere [6].

Microfotografia delle bolle di gas
contenute nei basalti di Boongal, da [7]
Un lavoro appena uscito ha analizzato le bolle di gas contenute nelle lave basaltiche di Boongal, al solito in Australia, nel Pilbara, anche queste vecchie di 2,7 miliardi di anni [7]. I basalti di Boongal, deposti più o meno al livello del mare, sono ben conosciuti ed inquadrati dal punto di vista tettonico.
Soprattutto i ricercatori hanno trovato alcune colate che presentano le condizioni ideali per studiare la paleobarometria attraverso le dimensioni delle bolle, una volta accertato che i vari processi sedimentari e tettonici che queste rocce hanno subìto nella loro storia non le hanno deformate. La dimensione delle bolle: 
  • nella parte alta della colata è influenzata dalla sola pressione atmosferica 
  • alla base della colata è controllata sia dalla pressione atmosferica che dal peso della lava soprastante 
  • è indipendente dal valore assoluto della quantità di gas contenuta nel magma

Così, conoscendo la densità della lava basaltica e il suo spessore, è possibile dedurre la pressione atmosferica se la colata è sottile e se non è stata raggiunta da altre lave prima del suo raffreddamento.
Ebbene, secondo questi risultati, non solo la pressione atmosferica dell’epoca doveva essere inferiore a 1 atmosfera, ma il valore più probabile era intorno a 0,5.

PRESSIONE ATMOSFERICA NELL’ARCHEANO E TEMPERATURE DELLA TERRA. Ma allora come se ne esce?
Direi tutto sommato molto bene: nell’atmosfera attuale la pressione parziale dell’azoto è di circa 0,78 atmosfere, quella dell’ossigeno 0,12. Gas serra come metano e CO2 sono presenti in quantità trascurabili: anzi, il metano teoricamente non può resistere in una atmosfera ossidante come la nostra, mentre la pressione del CO2 è di appena 0.0004 atmosfere.
Quindi con “un pò” di CO2 (anche solo 0,2 atmosfere, che è pur sempre un valore 500 volte superiore all’attuale!!), un pò di metano che all’epoca in una atmosfera riducente poteva tranquillamente persistere,  e considerando la maggiore capacità di assorbimento del calore solare da parte del nostro pianeta, si capisce come mai anche con un Sole molto più debole di quello attuale la Terra è riuscita a mantenere acqua liquida.

C’è anche da notare il rapporto fra le due fasi del Grande Evento Ossidativo e le glaciazioni che vi hanno più o meno corrisposto, segno che l’ossidazione dell’atmosfera ha diminuito l’effetto - serra e questo può essere dovuto sia alle difficoltà che le molecole di metano hanno trovato nella nuova situazione, sia alla diminuzione del CO2 a causa della comparsa delle forme di vita fotosintetiche e di una maggiore alterazione delle rocce continentali. Ma questa è un’altra storia che prima o poi vorrei raccontare.
Comunque, queste osservazioni contengono un monito evidente per l'oggi, perché, guardando la composizione atmosferica, sono l'ennesima dimostrazione dei rischi connessi alle emissioni antropiche di gas - serra; parlando invece della albedo, la perdita di superfici ghiacciate e quindi bianche a favore di acque e terre emerse, decisamente più scure, aumenta l'assorbimento dei raggi solari alle alte latitudini.

[1] Sagan e Mullen (1972). Earth and Mars: Evolution oE Atmospheres and Surface Temperatures. Science 177, 52-56
[2] Rosing et al (2010) No climate paradox under the faint early Sun. Nature 464, 744 - 747
[3] Kasting & Siefert (2002). Life and the evolution of Earth’s atmosphere. Science 296, 1066–1068
[4] Goldblatt et al. (2009). Nitrogen-enhanced greenhouse warming on early Earth. Nature Geosci. 2, 891–896 
[5] Som et al (2012) Air density 2.7 billion years ago limited to less than twice modern levels by fossil raindrop imprints. Nature 484, 359–362 
[6] Marty et al (2013) Nitrogen isotopic composition and density of the Archean atmosphere. Science 342, 101–104
[7] Som et al (2016) Earth’s air pressure 2.7 billion years ago constrained to less than half of modern levels Nat. Geosci. DOI: 10.1038/NGEO2713

martedì 14 giugno 2016

Velocità GPS, tettonica e sismicità in Italia: un quadro coerente


Una delle grandi difficoltà della Geologia, almeno agli inizi, è stata quella di immaginare i grandi spostamenti della crosta terrestre, che non sono certo apprezzabili a scala umana. Gli spostamenti delle stazioni GPS costituiscono un metodo molto importante per evidenziare i movimenti attuali e hanno permesso una sostanziale conferma delle ricostruzioni geologiche, fornendo ulteriori precisazioni altrimenti difficilmente immaginabili. È da poco uscita una rivisitazione delle velocità GPS delle stazioni del territorio italiano, nella quale sono stati riesaminati i dati vecchi, sottoposti ad una nuova e più perfezionata ricalibrazione, e ne sono stati sfruttati di nuovi. Questa ricerca ha cambiato un pò le cose e fornisce lo spunto per una serie di considerazioni sulla tettonica attuale e recente dell’Italia.

Se prendiamo la Terra di solo 30 milioni di anni fa l’assetto generale dei continenti è piuttosto simile a quello odierno (anche se le loro posizioni sono leggermente diverse). Fanno eccezione alcune aree, fra le quali quella che ha la palma di essere la più irriconoscibile senza avere degli studi geologici alle spalle è il Mediterraneo occidentale, che da allora ha visto l’apertura dei vari bacini che lo compongono (Alboran, Baleari, Ligure - Provenzale e Tirrenico) e l’assemblaggio con una forte rotazione della penisola italiana. 
Ricostruire la storia dell’area mediterranea da quando iniziò nel Triassico la sua frammentazione in una serie di microplacche comprese tra l’Eurasia e l’Africa sarebbe una impresa molto difficile di suo anche senza questa frammentazione recente e le incertezze pesano anche sulla situazione odierna. Anche per questo è importante ricostruire i movimenti attuali intorno e nel Mediterraneo. 

Un ricevitore GPS su un manufatto
Fonte: INGV
UNA RIVISITAZIONE DEI DATI GPS DISPONIBILI. A questo scopo dei ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze e dell'Istituto Geografico Militare hanno determinato un nuovo campo di velocità GPS sfruttando la discreta mole di dati satellitari sulla posizione di 113 stazioni permanenti nel territorio italiano ottenuti fra il gennaio 2008 e il giugno 2014 [1]. Queste stazioni fanno parte della Rete Dinamica Nazionale (RDN) e appartengono a diversi enti pubblici quali ASI, INGV, catasto, regioni ed enti locali. L'IGM le utilizza per materializzare il sistema di riferimento nazionale.
Sono dunque 6 anni e mezzo di registrazioni continue. Annoto che sono state eliminate le dislocazioni dovute ai principali eventi sismici del periodo, questo perché in questi studi contano i movimenti e non le deformazioni. 
In cosa consiste la novità? Innanzitutto nelle misure GPS di questo tipo va risolto un fondamentale problema di misurazione: le antenne sono molto più grandi delle misure che si vogliono calcolare, che sono dell’ordine del millimetro (e anche meno!); pertanto la misura deve essere necessariamente riferita ad un punto specifico dell’antenna: oggi sono a disposizione delle ricalibrature più accurate di queste posizioni. Inoltre la NASA ha provveduto a ricalcolare anche tutte le orbite dei satelliti dagli anni ‘90 in poi. Il risultato è un quadro delle velocità un pò diverso da quello conosciuto fino ad oggi. 
Bisogna anche notare come tutte le ricerche sulle velocità GPS in Italia fino ad oggi sono state basate su misurazione di postazioni temporanee appositamente realizzate, con acquisizione di dati discontinua; in questo lavoro invece è stata utilizzata una metodologia diversa, attraverso l’utilizzo dei dati di tante stazioni fisse che li acquisicono in continuo (un dato ogni 30 secondi), fornendo una continuità temporale fino ad oggi non ottenibile. 

Iniziamo precisando cosa si intende per “velocità”: le stazioni hanno una velocità assoluta, data dallo spostamento nel reticolo geografico della superficie terrestre, ma ciò che interessa è la differenza nella velocità fra le stazioni, che varia a seconda dello scenario in esame: si definisce quindi la velocità residuale, che è la differenza fra la velocità di una stazione e quella media presa come riferimento
Se prendiamo lo scenario di riferimento dell’Europa Stabile (la parte continentale a nord del sistema Alpi - Carpazi e dei Pirenei), la velocità residuale è la differenza fra la velocità della stazione che si sta esaminando e quella della parte stabile del continente europeo (che si sposta mediamente verso NE di 2 cm/anno essenzialmente per l’apertura dell’Oceano Atlantico e del Mediterraneo occidentale e per la rotazione antioraria della penisola italiana). 
Ebbene, le stazioni dell’area mediterranea e, specificamente, dell’Italia mostrano delle velocità residuali rispetto all’Europa Stabile diverse a seconda della zona in cui si trovano, evidenziando la presenza di deformazioni in atto nell’area mediterranea; ma non solo: queste velocità residuali mostrano una grande coerenza, individuando una serie di blocchi caratterizzati da valori abbastanza omogenei, il che a sua volta evidenzia degli spostamenti fra tali blocchi.

Le velocità GPS del territorio italiano rispetto all'Europa Stabile, da [1]
LE VELOCITÀ GPS IN ITALIA. La figura qui sopra riassume il quadro delle velocità residuali rispetto a quella dell’Europa Stabile. È facile notare come l’asse appenninica costituisca un confine netto fra una zona lungo il Tirreno piuttosto stabile nei confronti dell’Europa e un settore orientale che invece presenta una decisa componente verso NE di 3–5 mm/a. Alpi Occidentali, Corsica, Sardegna e lo stesso Mar Tirreno mostrano basse velocità residuali come la fascia tirrenica (l’area coperta dal mare è stata trattata mediante una interpolazione e non con dati diretti). 
Scendendo nella penisola, la situazione rimane simile, anche se le differenze di velocità aumentano progressivamente andando verso sud fino alla Calabria, dove già articoli precedenti suggerivano che lungo quella linea in cui si allineano i terremoti più forti ci fosse un loro forte scollamento, con la parte a Est che si muove verso NE rispetto a quella lungo la costa tirrenica. 
Ma dove le velocità sono più forti è in Sicilia: come la parte antistante del continente africano, l’isola si muove verso NNW a circa 5 mm/anno rispetto all’Europa Stabile, ad eccezione della zona più nordorientale che invece si muove verso NE a circa 3.5 mm/anno come il settore tirrenico calabrese. La separazione è lungo la Linea di Taormina, che dalla cittadina jonica arriva al Golfo di Patti e rappresenta il limite fra Arco Calabro - Peloritano (l’area appenninica a sud del Pollino - quindi il settore calabrese e della parte NE della Sicilia) e la Catena Siculo - Maghrebide. Pertanto la maggior parte della Sicilia e l’insieme Calabria - Sicilia di NE si allontanano fra loro ad oltre 2 millimetri / anno in direzione EW. 

Le velocità GPS con riferimento allo scenario mediterraneo, sempre da [1]
Le frecce indicano il movimento dell'Europa Stabile in questo scenario di riferimento
È stato poi istituito un sistema di riferimento ad hoc (lo “scenario mediterraneo”), che fornisce un risultato più facilmente interpretabile per il territorio italiano: lo vediamo in quest’altra figura. Le frecce nel riquadro in basso rappresentano il movimento relativo dell’Europa Stabile, che rispetto a questo sistema di riferimento si muove verso SW. 
La catena alpina e il blocco sardo - corso si muovono verso sud, mentre buona parte della penisola si muove verso nord. 
Anche in questo caso si conferma che il confine fra i due settori nella parte settentrionale della penisola si colloca all’incirca lungo l’asse attuale della catena appenninica; poi, all’altezza delle Marche, inizia a convergere verso il Tirreno, raggiungendolo più o meno al confine fra Lazio e Campania. 

I MOVIMENTI INTORNO ALL’APPENNINO SETTENTRIONALE. In entrambi gli scenari, dunque, l’asse appenninico si dimostra uno spartiacque fra due settori a comportamento contrastante, segno che il limite di zolla che ha originato la catena è ancora attivo.
 C’è un aspetto apparentemente contraddittorio: il versante tirrenico mostra nello scenario europeo velocità simili a quelle della catena alpina mentre il versante adriatico e la pianura padana orientale hanno una velocità maggiore, pur essendo più vicini all’Europa Stabile. 

L'indentazione della placca adriatica a E delle Alpi
Questa apparente contraddizione riflette uno dei fatti principali della geologia europea, il processo, noto come indentazione della placca adriatica, con cui questa microzolla si incunea nel continente europeo: fatte le debite proporzioni, è più o meno come l’India si incunea nel continente asiatico. I risultati principali di questo sono l’allontanamento del settore carpatico da quello alpino della catena e la sismicità del Friuli (ho parlato specificamente di questa situazione geotettonica in un post dedicato al terremoto del Friuli ). 

Per quanto riguarda lo scenario mediterraneo, anche in questo caso Alpi, Sardegna, Toscana e settore tirrenico seguono più o meno la velocità dell’Europa stabile, mentre al centro della penisola non sfuggirà a chi si occupa di geologia dell’Italia come il limite fra i blocchi a comportamento diverso coincida più o meno con la linea Ancona - Anzio, il lineamento che divide l’Appennino Settentrionale da quello centrale. Un’altra caratteristica tipica intorno a questo lineamento è il comportamento verticale: la parte ad ovest è in deciso sollevamento, quella a est in abbassamento. 

Inoltre è molto probabile che la convergenza fra zolla adriatica e settore toscano della placca europea presenti una forte componente laterale e questo, se avviene da parecchio tempo, spiegherebbe fra l’altro la presenza del nucleo metamorfico apuano e della Toscana meridionale: si tratta di rocce metamorfiche che sono tornate in superficie molto rapidamente dopo il loro metamorfismo ed è un fenomeno che avviene comunemente in caso di forti trascorrenze [2]. 

I MOVIMENTI NELL’ITALIA MERIDIONALE. C’è un accordo sostanziale fra le velocità residuali ricavate in questo articolo e la sismicità dell’Italia meridionale che vediamo in questa carta, da [3]: 
  • i terremoti distensivi lungo la costa tirrenica calabrese (in nero)
  • le compressioni nella piattaforma continentale settentrionale sicula (in blu)
  • le trascorrenze nella Sicilia centrale e un po' più a sud (in rosso)

Inoltre la divergenza della Calabria e della parte nordorientale della Sicilia rispetto al resto dell’isola sta aprendo il Rift siculo - calabrese, la struttura tettonica più attiva dell’area italiana [4]. Il rift è mostrato in quest'altra immagine. È poco visibile perché tranne che nella zona dello Stretto di Messina in realtà è formato da due semi - rift, per cui in Sicilia si vede il semi - rift sudoccidentale, in Calabria quello destro nordorientale. 

La presenza su un lato di questo rift dell’Etna suggerisce che questi movimenti superficiali continuino molto in profondità, causando una decompressione nel mantello e una via preferenziale per la risalita di magmi di origine profonda come quelli etnei.

Sulla origine del rift ci sono poche ipotesi. C’è ad esempio chi parla di rotazioni differenziate fra l’Arco Calabro - Peloritano. 
Mi chiedo se il forte sollevamento della Calabria, ampiamente documentato nel  quaternario dalla posizione dei depositi pliocenici, possa aver rigonfiato la crosta fino a promuovere questa estensione. 

I nuovi dati costringeranno a rivedere un pò lo stato dell’arte della ricerca sulla tettonica dell’Italia e delle aree limitrofe, perchè il ricalcolo delle velocità ha apportato alcune modifiche a quanto si conosceva: in particolare ci sono ben 30° di differenza in senso orario nelle velocità dell’Appennino centrale 

[1] Farolfi & Delventisette (2016). Contemporary crustal velocity field in Alpine Mediterranean area of Italy from new geodetic data GPS Solutions DOI 10.1007/s10291-015-0481-1

[2] Roeske et al (editors) (2007). Exhumation Associated with Continental Strike-Slip Fault Systems. Geological Society of America Special Papers 434 
[3] Palano et al (2012). GPS velocity and strain fields in Sicily and southern Calabria,Italy: Updated geodetic constraints on tectonic block interaction in the central Mediterranean. Journal of Geophysical Research 117 B07401, doi:10.1029/2012JB009254 
[4] Catalano et al (2008). Active faulting and seismicity along the Siculo–Calabrian Rift Zone (Southern Italy) Tectonophysics 453, 177 – 192 



venerdì 10 giugno 2016

La sottile relazione fra cicli solari, piogge (e frane e alluvioni...) in Italia

Il clima terrestre e le sue variazioni sono governati da una serie di fattori geologici (emissioni dai vulcani, posizione dei continenti e delle catene montuose), atmosferici (quantità di copertura nuvolosa, tenore di gas – serra) e astronomici (parametri orbitali e cicli solari): tutti insieme contribuiscono a stabilire le condizioni climatiche e meteorologiche sulla superficie terrestre. Queste variazioni sono diventate più sensibili da quando, 2 milioni di anni fa, si sono formate le grandi calotte polari permanenti anche nell'emisfero boreale dopo che quella Antartica era già presente da oltre 30 milioni di anni. Nell'emisfero australe la corrente circumpolare blocca gli scambi termici con le latitudini australi più basse, mentre nell’emisfero settentrionale l’Oceano Atlantico disposto nord - sud costituisce invece un ottimo corridoio per gli scambi termici fra le basse e le alte latitudini boreali e il ciclo solare, con le variazioni di intensità della radiazione che comporta, ha un effetto piuttosto importante su questo sistema, regolando persino la quantità delle piogge nel Mediterraneo.  Vediamo come succede, con una postilla su possibili relazioni fra queste grandezze e una estate che stenta a decollare.

LE GRANDEZZE CHE INFLUENZANO LE VARIAZIONI CLIMATICHE PERIODICHE IN EUROPA.

Qualche anno fa scrissi un post sulla Oscillazione Artica, un indice che viene determinato confrontando nell’emisfero boreale la pressione atmosferica delle alte latitudini con quella delle medie e che ha una certa influenza sulle temperature. Non c’è una relazione deterministica fra Oscillazione Artica e temperature, ma in genere quando questa ha un valore alto dalle nostre parti le temperature sono più alte della media e viceversa. Mi ricordo che all’epoca le previsioni della NOAA (quelle attuali sono queste) la davano parecchio in calo: era gennaio e pensai che forse sarebbe venuta una bella ondata di freddo, il che si verificò davvero! Da allora osservo spesso sul sito della NOAA l’andamento di questo indice.
L’Oscillazione Artica è piuttosto irregolare, mentre ci sono altri due indici atmosferici che invece si propongono con una certa regolarità, la AMO (Multidecadal Atlantic Oscillation) e la NAO (North Atlantic Oscillation).
Il fatto curioso è che specialmente la NAO viene governata da fattori astronomici e non solo dalla stagione.

Come è noto la posizione del Sole nel corso dell'anno determina l’avvicendarsi delle stagioni e questo grazie la sua influenza sulla posizione delle figure atmosferiche principali; ad esempio il centro dell'anticiclone delle Azzorre si muove lungo un asse N/S nell'Oceano Atlantico e raggiunge il punto più a nord tra Giugno e Luglio e quello più a sud tra Gennaio e Febbraio, perchè si sposta nel corso dell'anno seguendo con un leggero ritardo la posizione  del Sole allo zenit. Il movimento è provocato dalle differenze stagionali nell'angolo di incidenza dei raggi solari e quindi della posizione dell'area di massimo riscaldamento.
Allo stesso modo ci sono differenze climatiche importanti che dipendono dalle variazioni dell'intensità della energia che arriva sulla Terra dovute ai cicli solari undecennali di attività. Questi cicli furono scoperti all'inizio del XIX secolo dal grande astronomo William Herschel in un modo piuttosto curioso: trovò che le variazioni nel numero di macchie solari erano in sintonia con i prezzi del grano in Gran Bretagna e ciò gli suggerì una relazione fra intensità dell'attività solare e condizioni climatiche. È ormai chiaro che in genere al diminuire della attività solare aumenta a scala globalel a copertira nuvolosa .

L'INFLUENZA DEI CICLI SOLARI SUL CLIMA NELL'ATLANTICO SETTENTRIONALE E IN EUROPA

Il clima europeo è influenzato dalle variazioni della AMO e della NAO. La AMO è un indice ricavato dalle temperature delle acque superficiali dell'Atlantico Settentrionale ed indica il loro scostamento da un valore medio. Si noti che questo valore medio viene raggiunto solo durante le fasi di variazione da una AMO negativa a una AMO positiva e viceversa: in genere l'indice si pone su valori molto più alti o molto più bassi del normale.
La figura 1 mostra l'andamento della AMO dal XX secolo a oggi. Si nota come una fase ad anomalia “calda” è stata presente tra gli anni '30 e gli anni '60 del XX secolo, mentre una fase ad anomalia “fredda” ha caratterizzato il periodo tra la metà degli anni '60 e gli '80.
I fattori che influenzano la AMO sono ancora oggetto di dibattito: apparentemente la lunghezza dei suoi cicli, molto più lunga, è incompatibile con quella dei cicli undecennali solari e viene messa in relazione a variazioni nel sistema delle correnti dell'Atlantico Settentrionale in cui una corrente calda (quella del Golfo) scorre in superficie verso nord e correnti fredde scorrono in profondità verso sud.
Inoltre non ci sono dubbi che sul fatto che le principali eruzioni vulcaniche abbiano un effetto regolatore sulla AMO [1], visto che ce l’hanno a livello globale (ne ho parlato in diversi post - per esempio qui). 

Ma l'indice che più domina ed influenza il clima europeo è la NAO (North Atlantic Oscillation), un coefficiente definito nel 1997 in base alla differenza fra la pressione normalizzata a Gibilterra e a Stykkisholmur in Islanda [2]. La NAO segue un ciclo di durata simile a quello solare, anche se come nel caso dei movimenti annuali dell’anticiclone delle Azzorre, la risposta della NAO ai cicli solari è leggermente sfalsata [3]. 

In buona sostanza, con una NAO positiva si rafforzano sia l'anticiclone delle Azzorre che le depressioni islandesi. Faccio una precisazione: dico “le depressioni” perchè mentre l’anticiclone delle Azzorre è statico ed è sempre lo stesso, nell’Atlantico settentrionale le depressioni si formano di continuo e si muovono più o meno velocemente verso est (o sudest), susseguendosi nel tempo: quindi abbiamo “sempre” UNA depressione dell’Islanda ma non è mai la stessa. 
Una maggiore forza di queste figure atmosferiche è indubbiamente in relazione con la maggiore radiazione solare perchè maggiore è il riscaldamento equatoriale, maggiori sono gli scambi termici con l’Artico e quindi si capisce perchè i massimi della NAO si verificano dopo i massimi solari e i minimi si verificano dopo i minimi solari. Bisogna considerare anche nel bilancio del riscaldamento solare che l’Artico “incassa” meno calore delle medie e basse latitudini sia perchè i raggi solari lo colpiscono con un angolo minore, sia perchè essendo bianca per il ghiaccio, la superficie del mare e delle terre fa rimbalzare via buona parte della (poca) radiazione che lo colpisce. 

Quindi più la NAO è alta, più le perturbazioni stanno verso nord e quindi il clima è più umido e più caldo del normale sul nord Europa e più secco e più fresco nell’area mediterranea. Al contrario una NAO debole porta precipitazioni inferiori alla media e clima più secco nell’Europa Settentrionale, mentre aumenta le piogge in Europa meridionale, ad esempio in pianura padana [4], in Calabria [5] e anche per la penisola iberica, dove è in stretta correlazione con il numero di frane che si verificano in Portogallo in un'area vicino a Lisbona [6]. 
La NAO governa anche lo spessore degli anelli di crescita degli alberi [7] e pertanto proprio studiando la dendrocronologia si possono avere buone indicazioni delle sue alternanze nel passato.

CICLI SOLARI ED EVENTI METEORICI ESTREMI IN ITALIA

Le variazioni di intensità delle precipitazioni ed altre variazioni indotte da AMO e NAO hanno avuto un forte impatto nella vita sociale italiana. Ad esempio il boom dello sci di massa durante gli anni '70, oltre alla pubblicità fornita dalle eccellenti prestazioni di alcuni atleti di nazionalità italiana, è stato favorito da autunni piovosi e freschi promossi dalla fase fredda dettata in quegli anni dalla AMO, grazie ai quali fu ottenuta una copertura nevosa ottimale.
La NAO invece, strettamente dipendente dal ciclo solare, è alla base dell'alternanza fra treni di annate più freschi e piovosi, che si annidano intorno ai minimi in alternanza a treni di annate più calde e meno piovose intorno ai massimi e pertanto si può affermare che i cicli solari governano il tempo in Italia e altrove in Europa.

Come corollario, in un Paese come il nostro, le fasi in cui il valore dell’Oscillazione dell’Atlantico Settentrionale è bassa, corrispondendo a piogge copiose, sono anche quelle durante le quali avviene un maggior numero di eventi alluvionali e franosi [8]. 
La figura 3, di Nicola Casagli, correla i numeri delle vittime di catastrofi idrogeologiche in Italia con i cicli solari. Si può notare che le alluvioni non presentano una distribuzione casuale nel tempo ma tendono a raggrupparsi in cluster temporali, annidati intorno ai minimi. Fra queste catastrofi sono considerati anche eventi fondamentalmente di natura antropica (i disastri delle dighe di Gleno, Vajont e Stava), perchè i problemi sono stati innescati da periodi anomalmente piovosi.
Si può notare anche che la serie di annate piovose si allunga proseguendo nei dintorni del massimo quando questo è debole come nel 1970 e in quello attuale: ed è la debolezza del ciclo solare n.24 ora in atto che ha prolungato il periodo di piogge correlato al minimo del 2008 e la storia italiana è punteggiata da una fitta serie di disastri idrogeologici che hanno investito un po' tutto il Paese.

A me sembra pure di trovare una correlazione fra il tipo di alluvione e la AMO, perchè le modalità di questi disastri negli ultimi anni sono nettamente diverse da quelle di prima; gli eventi tipo quella del Po del 1951 e del 1966 (che non si limitò all’Arno!) hanno riguardato estesi bacini investiti da precipitazioni diffuse e continue, mentre quelle attuali sono il  riusultato di piogge fortissime in un luogo limitato e per un tempo limitato.
Oltre al riscaldamento globale (che ha aumentato a dismisura le temperature delle acque del Mediterraneo, facilitando l’evaporazione) è possibile che le modalità di svolgimento degli eventi degli ultimi anni siano correlate alla presenza di una AMO particolarmente alta, mentre le grandi alluvioni possano coprrispondere a valori della AMO più bassi. 

COROLLARIO SU QUESTI GIORNICon questo non voglio entrare nel tema “l’estate sarà calda o fredda”: queste cosiddette previsioni mi lasciano piuttosto perplesso.
Però mi domando se il tempo di questi primi giorni di giugno, contrassegnato da forti pioggie e temperature abbastanza basse rispetto alla media sia una conseguenza della attività solare particolarmente scarsa che stiamo osservando, dato che come si vede in questo grafico della NOAA, anche la NAO è particolarmente bassa

[1] Knudsen et al (2014). Evidence for external forcing of the Atlantic Multidecadal Oscillation since termination of the Little Ice Age. Nature communications DOI: 10.1038/ncomms4323J
[2] Jones et al (1997). Extension to the North Atlantic Oscillation using instrumental pressure observations from Gibraltar and south-west Iceland. Int. J. Climatol., 17, 1433–1450 
[3] Scaife et al (2013). A mechanism for lagged North Atlantic climate response to solar variability. Geophysical Research Letters 40, 434–439
[4] Zanchettin, A. Rubino, P. Traverso and M. Tomasino 1,2 (2008) Impact of variations in solar activity on hydrological decadal patterns in northern Italy. Journal of Geophysical Research, vol. 113, D12102, doi:10.1029/2007JD009157 
[5] Ferrari et al (2013) Influence of the North Atlantic Oscillation on winter rainfall in Calabria (southern Italy) Theor Appl Climatol 114:479–494 DOI 10.1007/s00704-013-0856-6
[6] Zezere et al (2005): Shallow and deep landslides induced by rainfall in the Lisbon region (Portugal): assessment of relationships with the North Atlantic Oscillation. Natural Hazards and Earth System Sciences, 5, 331–344, 2005
[7] Piraino e Roig-Junent (2013) North Atlantic Oscillation influences on radial growth of Pinus pinea on the Italian mid-Tyrrhenian coast. Plant Biosystems http://dx.doi.org/10.1080/11263504.2013.770806
[8] Canuti et al 1985: Correlation between rainfall and landslides, Bulletin International Association Engineering Geology, 32, 49–54