venerdì 21 febbraio 2014

Un nuovo vulcano candidato per l'evento del 536 d.C. : l'Ilopango (El Salvador)


Negli anni intorno al 536 è avvenuto un immane disastro a livello mondiale. Fonti bizantine e cinesi, in particolare, assicurano che il sole sia rimasto oscurato per 18 mesi (insomma, per circa un anno e mezzo...) da una nebbia scura e secca (la somma di ceneri e aerosol di Zolfo). Ho cominciato ad interessarmi di questa faccenda molto per caso: qualche anno fa alla fine delle vacanze estive in una bancherella a Castiglioncello trovai “Catastrofe” di David Keys. Nella copertina lessi di una eruzione vulcanica che aveva sconvolto il mondo. Avendo finito i libri da leggere che mi ero portato, visto il prezzo di realizzo e la voglia di farmi due risate nei confronti di un catastrofista decisi di comprarlo. Però capii subito che proprio delle bischerate non erano e che questo fenomeno ha cambiato in parte il destino dell'umanità. La cosa che sorprende è che quello del 536 d.C. sia una evento tanto massiccio quanto praticamente sconosciuto, un evento che andrebbe studiato molto meglio; eppure negli studi storici nessuno ha considerato l'instabilità politica e sociale provocata da quei 18 mesi che sconvolsero il mondo. Il primo indiziato, ancora negli anni '80, secondo Stothers e Rampino è stato il Rabaul, in Nuova Guinea. Ed è la soluzione che mi era sempre piaciuta anche a me, pur con qualche dubbio. Keys ed altri pensano, secondo me completamente a torto al Krakatoa. Recentemente è stato indicato come fortemente indiziato il vulcano Ilopango, in El Salvador. E se anche non esiste una certezza matematica, diciamo che le prove a carico di quest'ultimo sono decisamente interessanti.

Ci sono testimonianze talmente attendibili in tutto il mondo da levare qualsiasi incertezza sul fatto che nel 536 sia successo qualcosa di eccezionale e transitorio. Ringrazio l'amico Davide Biosa, un finissimo letterato, che ha spulciato la letteratura bizantina, trovando dei passi molto interessanti. Ad esempio un testimone diretto, Procopio, nella “Storia delle guerre di Giustiniano” scrive che “il Sole irradiò la sua luce con una brillantezza simile a quella della Luna per un anno” e che “dal momento in cui questo è avvenuto, gli uomini non furono più liberi da guerre, pestilenze e da eventi mortiferi”. Una Cronaca Siriaca posteriore indica che il fenomeno durò dal 24 Marzo 536 al 24 Giugno 537. In quel periodo il mare sarebbe stato perennemente in tempesta.

Un avvenimento gigantesco, eppure totalmente sconosciuto ai più. Evidentemente non ha interessato gli storici, come è noto legati a guerre, regnanti, vicende politiche e cose del genere, ma che hanno sempre e completamente ignorato i fatti naturali. 
Ignorare l'evento del 536 è il più classico degli esempi su un certo modo di fare la Storia che non mi vede per niente d'accordo; a notevole aggravante per gli storici ci sono le sue conseguenze che perdurarono negli anni successivi e hanno avuto una importanza tremenda nella storia dell'Umanità, avendo avviato tutta quella serie di migrazioni e rimescolamenti etnici e politici che hanno caratterizzato da un capo all'altro l'Eurasia dei secoli successivi.

Tra questi effetti si può addebitare anche la peste che ebbe luogo tra il 541 ed il 543 (la cosiddetta “peste di Giustiniano”, dal nome dell'imperatore d'Oriente all'epoca in carica); le ricerche di un folto team internazionale, coordinato da Hendrick Poinar della canadese McMaster University, hanno dimostrato che la causa, come per altre epidemie successive, è stata la diffusione di un ceppo del batterio Yersinia pestis. Dopo l'evento principale, che in Mediterraneo ed Europa provocò la morte di decine di milioni di persone, successivi focolai sono persistiti almeno per altri 200 anni.
Normalmente le pestilenze si scatenano in corrispondenza di periodi in cui per qualche motivo le popolazioni sono più deboli; le cause possono essere eventi naturali (fasi troppo piovose o siccitose a cui si associano sempre diminuzioni dei raccolti) o eventi antropici come guerre; lo scenario seguito alla catastrofe del 536 è chiaramente compatibile con lo scatenarsi di una pestilenza.

UNA ERUZIONE VULCANICA COME CAUSA PIÙ PROBABILE

Sull'origine di questo fenomeno i ricercatori hanno puntato subito gli occhi su una grande eruzione vulcanica; questo è supportato dalle osservazioni sulla abbondanza di composti dello Zolfo nei ghiacci depositatisi in quegli anni in Antartide e in Groenlandia; questi livelli ad alto tenore di Zolfo sono comuni nei ghiacci e si depositano inequivolcabilmente in corrispondenza di eruzioni vulcaniche di particolare imponenza; un altro fattore è la descrizione di una “nebbia secca”, cioè composta di pulviscolo e non di umidità, fatta da parecchi Autori. 
In effetti si è trattato di un insieme di ceneri finissime e aerosol di zolfo. Una cappa del genere, derivata dall'eruzione dell'islandese Laki del 1783, arrivò a Parigi dove fu descritta da Benjamin Franklin, all'epoca nella capitale francese per trovare una alleanza fra il giovane stato americano e la Francia in funzione anti - inglese. 

Non sarebbe la prima, né l'unica volta, in cui una eruzione vulcanica esplosiva ha provocato sconquassi a livello globale: ad esempio appena 75.000 anni fa l'umanità ha rischiato l'estinzione a causa dell'esplosione a Sumatra del Toba, a causa della quale si è formato un lago lungo 100 kilometri. Nell'occasione si calcola che siano stati emessi in atmosfera ben 2800 km cubi di materiali e la cappa di aerosol e cenere oscurò il sole per almeno un decennio. Venendo a tempi recenti, si deve ricordare il 1816, l'”anno senza estate” innescato dall'eruzione del Tambora del 1815, che causò anche la famosa carestia in Irlanda durante la quale morirono decine di migliaia di persone. Nell'occasione furono emessi circa 50 kilometri cubi di ceneri.

Una prima caratteristica degli anni successivi al 536 è la ridottissima dimensione degli anelli di accescimento degli alberi. Accade normalmente che i dati siano contrastanti: se alcune zone registrano valori in diminuzione, in altre magari succede il contrario. Uno spostamento delle precipitazioni o una leggera anomalia nelle condizioni climatiche possono avere ripercussioni opposte anche fra zone limitrofe, non solo quando la distanza è maggiore. Negli anni dopo il 536 il basso valore di accrescimento degli anelli registra condizioni molto difficili in tutto l'emisfero settentrionale. 
Si vede bene da questo grafico tratto dal fondamentale lavoro del 2008 di Larsen et alNew ice core evidence for a volcanic cause for the AD 536 dust veil” che mostra i dati di Europa e Asia Settentrionale. Si nota nel grafico più basso, quello della “media” che gli anni dopo il 536 costituiscono il momento di minimo accrescimento degli alberi. Altri due valori molto bassi sono attorno al 1600, in piena piccola era glaciale ma soprattutto in corrispondenza di una importante eruzione del vulcano islandese Hekla (la predominanza di dati ricavati in Europa Settentrionale incide moltissimo sulla media), e ai primi del 1800, in corrispondenza dell'eruzione del Tambora.
È quindi un'altra conferma indiretta della natura del problema.

LA RICERCA DEL COLPEVOLE: IL RABAUL (NUOVA GUINEA) È IL PRIMO INDIZIATO

Ma qual'è il vulcano colpevole? I pionieri della ricerca sono stati Richard Stothers e Mike Rampino, geologi della NASA: nel 1984 Stothers su “Nature” propose come colpevole del misfatto il Rabaul, vulcano situato in Nuova Britannia, un'isola accanto alla Nuova Guinea. In Nuova Britannia ci sono ben 5 vulcani che hanno sviluppato eruzioni particolarmente violente negli ultimi 10.000 anni. 

Altri Autori (come anche Keys) suggeriscono una eruzione del Krakatoa, il vulcano dello Stretto della Sonda tra Giava e Sumatra che ha avuto una esplosione particolarmente violenta nel 1883. Ma non ci sono segni di una attività esplosiva particolare di quel vulcano nel VI secolo d.C. Keys in particolare pensa ad un errore nelle datazioni storiche, attribuendo al 536 l'eruzione che le fonti indicano essersi svolta nel 416.

L'eruzione della Ignimbrite di Rabaul era “comoda” per vari motivi: innanzitutto con la datazione delle età dei frammenti vegetali coinvolti nell'evento; purtroppo il metodo del Carbonio 14 fornisce risultati con una forbice molto elevata rispetto alle necessità: infatti veniva riportato “540 d.C. ± 90 anni”. il range era quindi piuttosto largo ma il 536 si trova proprio giusto nel mezzo. Inoltre le datazioni con il Carbonio 14 tendono ad indicare età leggermente più vecchie della realtà: per questo spesso troviamo in letteratura le età considerate con due grandezze diverse, gli “anni 14C” e gli “anni di calendario”:.
Un'altro aspetto positivo è che le eruzioni all'equatore hanno una maggiore facilità di disperdere i propri aerosol nella totalità della stratosfera.

L'unica perplessità riguardava le dimensioni dell'evento: la letteratura scientifica al proposito è scarna ed il valore che viene comunemente riportato è circa 11 km cubi: se li paragoniamo ai 50 km cubi emessi dall'indonesiano Tambora nel 1816, che provocarono "l'anno senza estate" e la carestia in Irlanda, i conti non tornano: appaiono francamente un po' pochi per un fenomeno della portata di quello del 536, e lo appaiono pure se si paragonano ai circa 20 km cubi provocati dalla eruzione del Krakatoa nel 1883. 
Pertanto avevo due idee in proposito: o l'eruzione è sottostimata o, essendo avvenuta in un golfo, ci sono stati dei coinvolgimenti di acqua marina che hanno amplificato la portata dell'evento.
In ogni caso il Rabaul fino all'altro ieri è rimasto il maggior indiziato.

Sono venute fuori anche delle spiegazioni alternative: ad esempio nel 2009 al meeting autunnale della Unione dei Geofisici Americani un gruppo di studiosi ha affermato di aver trovato nel golfo di Carpentaria tracce di un impatto meteoritico riferibile al VI secolo d.C. Una spiegazione simile potrebbe dare conto della nube di polvere ma non certo dell'anomalia nella quantità di Zolfo presente nei ghiacci e non ha mai incontrato il favore della comunità scientifica. 

UN NUOVO, AUTOREVOLE, INDIZIATO: L'ILOPANGO (EL SALVADOR)

Però c'è un'altra soluzione, nel senso che è entrato nella lista come principale indiziato un altro vulcano. Me lo ha fatto notare Raffaello Cioni, vulcanologo del Dipartimento di Scienze della Terra di Firenze. L'Ilopango, vulcano in El Salvador, che ad un certo punto tra il V e il VI secolo d.C. produsse una eruzione niente male: dove prima si ergeva una montagna alta almeno 2000 metri, oggi c'è una caldera di 10 kilometri di raggio, parzialmente riempita da un lago. Nell'immagine si vede il lago ed un'isola frutto di attività più recente.  Era stato calcolato che l'evento abbia coinvolto 18 kilometri cubi di materiali. L'eruzione ha provocato la formazione della “Terra Blanca Joven”, un orizzonte – guida tipico della stratigrafia archeologica mesoamericana.

Il fatto che sia un pò più a nord dell'equatore non è molto significativo ma il vero problema sta nella datazione “ufficiale” dell'evento: 450 ± 30 anni... un po' troppo vecchia per le “esigenze” del 536. Ancora nel 2010 Shigero Kitamura trovò risultati simili.
Rispetto al Rabaul il quantitativo di prodotti emessi è un po' maggiore, 18 km cubici, ma rimane lo stesso il mistero di come un quantitativo minore dei 50 emessi dal Tambora del 1816 abbia provocato tutto questo macello.

Poi spunta un particolare interessante: la “Terra Blanca Joven” segna anche una forte discontinuità a livello della civilizzazione. Quindi siamo sicuri che almeno da quelle parti ha rappresentato un “problema” di grande importanza a livello umano.
Però complici l'età un po' troppo antica e un quantitativo non eccezionale di ceneri disperse in atmosfera, nessuno, insomma, poteva pensare all'Ilopango come il colpevole dell'evento del 536.

Questo fino al 2012, quando un gruppo di ricerca guidato da Robert Dull dell'università del Texas ha revisionato l'eruzione. 
Innanzitutto ne ha ricalcolato le dimensioni: con 84 km cubi di prodotti emessi ne ha fatto di gran lunga la più grande eruzione avvenuta in tempi storici (l'eruzione che distrusse Pompei produsse appena poco più di 1 km cubo di materiale).
Poi ha effettuato nuove datazioni radiometriche con il metodo del radiocarbonio su tronchi di alberi contenuti nella “Terra Blanca Joven”. Al solito non sono risultati molto precisi, nel senso che l'età varia in un range notevole, tra il 440 e il 550 d.C.

L'anno 535 è, dunque, dentro questo intervallo ed è quindi da quelsto punto di vista la correlazione ilopango – 535 è possibile. Secondo Dell una conferma viene dalla stratigrafia delle anomalie di zolfo nelle carote glaciali, in particlare da certe caratteristiche composizionali (però c'è anche l'evento citato da Stothers e Rampino del 472, che forse si accorda meglio con i dati radiometrici).
Comunque le dimensioni dell'evento e la documentata influenza sulla vita umana, almeno nel Centroamerica ne fanno sicuramente un indiziato molto forte.

NUOVE DATAZIONI SCAGIONANO ULTERIORMENTE IL RABAUL

Ma... e il Rabaul?
Quanto alla ignimbrite di Rabaul, oggi viene considerata la causa di una anomalia dello zolfo registrata nelle carote glaciali nel 635 d.C. Anche in questo caso è stata rivisitata la cronologia del Carbonio 14 trasformando gli “anni 14C” in “anni di calendario”.

L'ILOPANGO APPARE UN SOSPETTATO MOLTO PROBABILE

Diciamo quindi se ancora non ci sono certezze assolute, è altamente probabile che l'evento del 536 d.C. e i suoi “effetti collaterali” siano stati innescati dalla eruzione dell'Ilopango nella quale si è formata la "Terra Blanca Joven", anche considerando che secondo gli studi di Dell & c. questa eruzione abbia emesso un buon 30% in più di prodotti rispetto all'eruzione del Tambora del 1816.
Inoltre c'è la questione della forte discontinuità nelle vicende umane in corrispondenza della Terra Blanca Joven in tutte le Americhe, che quindi si può facilmente correlare ai problemi sociali associati all'evento del 536 in Eurasia.

domenica 16 febbraio 2014

Una nuova area come i Burgess Shale, dove si sono conservate le parti molli di organismi di oltre 500 milioni di anni fa


La notizia del ritrovamento di un'altra serie di rocce del Cambriano medio in cui si sono conservate le parti molli di una vasta serie di animali dell'epoca della Esplosione del Cambriano è uno di quei fatti che possono cambiare significativamente le conoscenze su quel delicato periodo in cui si sono differenziati i circa 36 phyla di animali pluricellulari oggi riconosciuti. La scoperta è avvenuta in Canada, a poche decine di kilometri da dove affiora la più classica delle rocce di questo genere, i Burgess Shales.

C'è un certo entusiasmo su una delle scoperte che potrebbero diventare fra le più importanti della paleontologia degli ultimi anni: giusto nell'ultimo numero di Nature Communications è stato annunciato il ritrovamento in Canada di una continuazione dei mitici Burgess Shales.
I Burgess Shales furono scoperti in Alberta nel 1909 da Charles Doolittle Walcott. Walcott rappresenta una delle più eminenti figure di scienziato naturalista a cavallo fra il XIX ed il XX secolo, e ha ricoperto durante la sua carriera diversi incarichi prestigiosi, a partire dalla presidente dell'USGS e di altre importanti istituzioni. A dispetto degli incarichi non è stato certo un uomo “di sedia”, bensì l'autore di alcune (e massacranti) delle principali spedizioni scientifiche che hanno posto le basi delle conoscenze geologiche e bio – zoologiche del Nordamerica.
In una di queste spedizioni Walcott fece la scoperta dei Burgess Shales: lui stesso l'ha descritta più volte, probabilmente in modo un po' romanzato, ma i suoi racconti sono importanti perchè rappresentano un bel quadro di come lavoravano i pionieri dell'esplorazione scientifica.

I Burgess Shales sono stati – ovviamente – celebrati svariate volte da tanti Autori, a partire dal da me amatissimo Stephen J. Gould (ma anche recentemente da Telmo Pievani, un personaggio che se non ci fosse andrebbe inventato), e forniscono una eccezionale finestra su uno dei più fondamentali periodi della storia della vita sulla Terra, la cosiddetta “Esplosione del Cambriano”.
Citata molto spesso a sproposito dagli antievoluzionisti (ma come fanno essi a citare qualcosa di scientifico a proposito?) l'esplosione del Cambriano rappresenta ancora un po' un enigma.
Innanzitutto non è sicuro che sia stata una esplosione, nel senso che magari questo fenomeno ci appare improvviso per la scarsezza dei reperti e magari è invece durato qualche decina di milioni di anni.
Fattostà che per qualche motivo (o molto più probabilmente per una serie di concause) all'inizio del Cambriano sono comparsi animali pluricellulari complessi (prima o poi sarebbe bene fare il punto sulla situazione, e cioè sulle varie ipotesi formulate al proposito).
Una cosa simile era già successa ai tempi della fauna di Ediacara, quando si erano appena conclusi gli episodi di “Terra palla di neve” in cui tutto il globo era ricoperto dai ghiacci. Solo che le faune del tipo Ediacariano sono scomparse nel nulla (una estinzione di massa del tardo neoproterozoico?) mentre quelle dell'inizio del Cambriano hanno sviluppato in un tempo che ci appare talmente breve da essere appunto chiamato “esplosione” tutti i phyla animali viventi.

Chi investiga la vita di un passato così lontano ha due problemi principali:
1. la scarsa quantità di rocce dell'epoca arrivate più o meno integre ai giorni nostri
2. la cronica mancanza all'epoca di organismi con parti dure

Ed è in questo che sta la grandezza dei Burgess Shale: grazie a condizioni assolutamente favorevoli in queste rocce sono conservate anche le parti molli degli animali (tessuti, branchie, occhi e quant'altro). Quindi si riesce a superare il problema numero 2. E non è poco.
Oltrechè in Alberta, rocce e fossili simili sono presenti nello Utah e in Cina; è interessante notare come tutte quante appartengano ad una finestra temporale molto ristretta, tra Cambriano inferiore e Cambriano medio, diciamo all'incirca una quarantina di milioni di anni. E al netto della scarsità di rocce dell'epoca, i sedimenti del tipo Burgess Shales rappresentano una percentuale molto significativa delle rocce di quel periodo, il che rende chiaro come oltre a condizioni locali, doveva esserci qualcosa a livello globale che ha consentito in quei tempi (e solo in quelli!) la conservazione così accurata di parti molli di organismi viventi.
Ovviamente si tratta esclusivamente di organismi marini, e la ricerca sulle motivazioni si è rivolta verso il quadro generale del chimismo delle acque marine dell'epoca. È inoltre da notare come l'ambiente di sedimentazione dei Chengjiang Shales della Cina Meridionale fosse un po' diverso da quello canadese, specificamente perchè tra un livello fossilifero ed un altro si trovano intercalati sedimenti marini di mare piuttosto profondo.

Un team internazionale diretto da Robert R.Gaines ha pubblicato su PNAS nel 2012 dei risultati interessanti. Il processo di fossilizzazione è iniziato con un seppellimento molto rapido in un fango privo di ossigeno. Condizioni simili sono comuni anche oggi in ambienti particolari e quindi questo non basta a spiegare la cosa. 
Quello che in particolare contraddistingue le facies tipo Burgess è la comparsa quasi immediata di un cemento calcareo nel sedimento, mentre al di sopra si deponeva rapidamente un sedimento - sempre calcareo - che, formando un pavimento impermeabile, ha praticamente sigillato tutto quello che stava al di sotto.
Come mai è successo questo? Secondo questa ricerca all'epoca gli oceani erano caratterizzati da un chimismo molto particolare: un tenore di carbonato di calcio disciolto molto elevato mentre c'erano poco ossigeno e poco zolfo. 
La mancanza di ossigeno impedisce l'attività aerobica, mentre lo zolfo è fondamentale per la nutrizione di alcuni batteri anaerobici e quindi se ce n'è poco ci sono pochi batteri di questo tipo. In pratica nessuna forma di vita era in grado di andare a nutrirsi delle parti molli degli animali finiti nel fango: il pavimento calcareo che si era formato, il cemento che era penetrato nel sedimento e la scarsezza di ossigeno e/o zolfo ne impedivano fisicamente e fisiologicamente il passaggio; e neanche ci potevano arrivare le classiche sostanze ossidanti che provocano la degradazione chimica delle sostanze organiche.
Proprio a causa di queste specifiche condizioni in diversi siti nel mondo le rocce del Cambriano inferiore e medio presentano sedimenti in cui sono evidenti le parti molli di organismi viventi.

La scoperta resa nota nell'ultimo numero di Nature Communications è molto importante, dunque, come una qualunque scoperta di rocce così antiche, anzi, molto di più: con il “Marble Canyon” siamo di fronte ad un prolungamento della zona di affioramento dei Burgess Shales o ad una zona molto simile a quella, e per di più – sembra – di dimensioni ancora maggiori. La località esatta è tenuta segreta per giustificati motivi: al di là del fatto che non vedo nulla di male se un privato possiede dei fossili, è particolarmente importante in questo caso che la Scienza ne abbia a disposizione il maggior numero possibile, data la loro estrema importanza per capire i rapporit fra i vari phyla e la loro differenziazione.


Fra i tantissimi fossili di Burgess è da ricordare Pikaia, rimasto a lungo il più antico esponente del phylum Cordati, quello a cui appartengono anche i vertebrati. Le scoperte degli ultimi anni in Cina hanno permesso di trovare cordati (se non proprio vertebrati primitivi) anche più antichi di Pikaia. Magari a Marble Canyon si potrà trovare qualcosa che getti nuova luce sulle origini dei cordati e – addirittura – dei vertebrati. In effetti, già negli studi preliminari, sono stati trovati oltre a vari artropodi, anche dei cordati, simili a quelli cinesi. 

martedì 4 febbraio 2014

Alleviare il rischio idrogeologico: prevenzione ordinaria, opere davvero utili ma soprattutto occorre una maggiore consapevolezza da parte di autorità e cittadini


Questa immagine di Pisa risale alla piena dell'Arno del 31 gennaio 2014. La posto per una riflessione significativa a imperitura memoria: senza il canale Scolmatore dell'Arno, quell'opera che in caso di piena preleva dall'Arno una fetta consistente di acqua subito a valle di Pontedera, Pisa e dintorni non si sarebbero certo salvati da un bagno non richiesto. Questo è uno splendido esempio di cosa fare per mitigare il rischio alluvioni. Certo, in questo caso si tratta di un'opera enorme e costosa, un canale lungo una trentina di km, progettato espressamente dall'Ingegner Edmondo Natoni negli anni '30 a questo scopo. Ma quanti danni ha evitato, stavolta e in altre occasioni? Ho l'impressione che l'investimeno si sia già ripagato (e continuerà a farlo in futuro).

Ci siamo lasciati nel post precedente con una situazione sconfortante di una Italia in cui basta che piova un pò di più e buonanotte a tutti. Parliamoci chiaro: le alluvioni in quanto tali non si potranno mai evitare e purtroppo l'attuale domanda umana di uso del territorio non consente, almeno in Italia, di vivere solo in zone a basso rischio idrogeologico, anche perchè, come abbiamo visto, una buona parte delle aree di pianura senza l'intervento antropico sarebbero delle paludi.

Allora si deve convivere con ragionevole sicurezza con questo rischio; in alte parole, cerchiamo di quantomeno mitigare i danni delle alluvioni: il progetto delle varie casse di espansione nel bacino dell'Arno e dei suoi affluenti è un buon esempio di come si può mitigare le piene dei fiumi cercando un sostituto delle vecchie paludi.

ARGINI, CASSE DI ESPANSIONE  E CONSORZI DI BONIFICA

Quello dell'Arno è un progetto "ad ampio respiro" ma nel quotidiano ci sono dei provvedimenti di ordinaria manutenzione ,delle azioni elementari da fare, a partire dalle attività che dovrebbero svolgere i consorzi di bonifica: tenere i fossi più puliti da materiali che possono ostruire le arcate dei ponti ed effettuare una corretta manutenzione degli argini, per la quale spesso "non ci sono i soldi", salvo poi dover stanziare ad ogni rotta una cifra ingente per gli aiuti alla popolazione colpita.
Ovviamente la collaborazione dei cittadini è gradita (meno discariche incontrollate o pronte segnalazioni di inconvenienti, ad esempio...).


La base di partenza del "problema argini" è che purtroppo i fiumi nelle pianure sono spesso prensili, cioè il loro fondo è ad un livello più alto della piana in cui scorrono. Ne consegue che al primo problema su un argine si crea una rotta con conseguente allagamento della piana,. 
Da notare che una rottura di un argine trasforma una qualsiasi piena, anche non di elevata portata, in un disastro, nonostante che in buona parte dei casi se non si fosse rotto l'argine il fiume non sarebbe mai esondato. In questi giorni sul Secchia in Emilia e a Ponsacco in Toscana infatti non c'è stata esondazione sopra gli argini, ma delle "semplici" rotture. 

Che sia colpa delle nutrie che vi scavano gallerie, che siano problemi di materiali, problemi di danni arrecati per altri motivi non mi interessa. La questione, banalmente, è che manca quella sufficiente attenzione che andrebbe messa nel problema. Vedremo in fondo perchè.
Un argine malmesso è una bomba pronta a scoppiare!


PREVISIONE, GESTIONE E COSTO DELLE EMERGENZE 

È importante (ed abbastanza semplice da ottenere con i sistemi informatici geografici) capire quali siano le zone a rischio, l'entità delle popolazioni e delle strutture coinvolte e conseguentemente predisporre adeguati piani di protezione civile.
A questo molti comuni hanno provveduto ma c'è la sensazione che almeno alcuni di questi piani siano solo sulla carta e lacunosi: non possono essere solo un mero elenco di mezzi e uomini a disposizione.

In Italia siamo bravi e fortunati perchè il sistema di allerta della Protezione Civile funziona bene: rari sono i "falsi positivi" (allerta risultate poi infondate) e ancora meno le mancate previsioni. Quindi i piani "anti - alluvione" riescono a scattare prima dell'emergenza, guadagnando tempo prezioso. 
In particolare le previsioni sono utili per poter effettuare opportune manovre delle dighe: svuotare gli invasi prima significa depotenziare le piene, potendo trattenerne una buona parte nei laghi.
Le previsioni purtroppo non possono contemplare eventi secondari improvvisi come le rotture di argini: in questo caso i soccorsi non possono che arrivare quando l'emergenza è in corso. E se non si può prevedere bisogna prevenire.

Per altri rischi il nostro Paese si è dato un’organizzazione ed è stata creata consapevolezza, pensiamo per esempio a cosa è stato fatto in Italia per i rischi da incidente sul lavoro e per gli incidenti stradali.

Il problema sta proprio nell’assenza di percezione della dimensione del problema e lo scarso impiego di risorse per risolverlo ne è solo la logica conseguenza
Questa assenza di percezione fa si che solo in pochi casi siano stati emanati provvedimenti elementari quali il divieto di costruzione nelle zone a rischio (sembra ovvio ma si sta continuando a farlo in moltissime Regioni!).

Proviamo a dare alcuni numeri che mostrano come il costo del dissesto idrogeologico e quanto le risorse stanziate dallo Stato per la sicurezza del territorio, la mitigazione dei rischi e la protezione dei cittadini siano del tutto insufficienti. Si tratta di dati ufficiali presentati da ISPRA, il contenitore in cui è confluito l’ex-Servizio Geologico d’Italia. 
In Italia si verificano in media 7 eventi eventi disastrosi per anno connessi a frane ed alluvioni. Essi producono, in media, danni per circa 3 miliardi di Euro ogni anno (poco meno del 2 per mille del PIL). Considerando i danni indiretti la stima sale a 4-5 miliardi di Euro per anno (poco meno del 3 per mille del PIL). 
Circa il 10% del territorio è a rischio e più dell’80% dei comuni è interessato da almeno un’area a rischio estremamente alto, dove non dovrebbe essere consentito costruire né ricostruire. 
In media lo Stato spende circa un miliardo all’anno per riparare i danni causati dal dissesto idrogeologico, circa un terzo dei danni effettivamente prodotti. 

Per gli interventi di prevenzione e di difesa del suolo, lo Stato spende in media, secondo i dati del Ministero dell’Ambiente, 400 milioni di Euro all’anno (lo 0,25 per mille del PIL), ovvero un terzo di quanto lo stesso Stato spende in riparazione dei danni, un ottavo dei danni effettivamente provocati, un dodicesimo dei danni totali diretti ed indiretti.
Tali dati fanno pensare, soprattutto se comparati con altre categorie di spesa pubblica, per esempio il 3,3% (per cento non per mille!) del PIL destinato alla Difesa Nazionale e il 3,2% destinato all’Ordine Pubblico e alla sua Sicurezza. Se lo Stato investisse per la previsione e la prevenzione del rischio idrogeologico anche un solo punto percentuale del PIL, vivremmo sicuramente in un Paese più sicuro e con maggiore benessere sociale

COME SE NE ESCE? 
UNA MAGGIORE ATTENZIONE PER IL RISCHIO IDROGEOLOGICO

Si tratta in altre parole di costruire comunità resilienti, cioè capaci di resistere agli eventi naturali subendo danni minimi; per questo è necessario intervenire sulle ristrutturazioni edilizie, ma anche nella pianificazione del territorio, nella pianificazione di protezione civile ma soprattutto, bisogna insistere nell’educazione al rischio di cittadini e amministratori: nessun intervento potrà mai funzionare se il rischio non è conosciuto e percepito. 


Insisto che un buon adeguamento strutturale sia la costruzione delle casse di espansione, ideate per contenere una parte delle acque di piena: in questo modo si rende di nuovo accessibile alle acque una parte dell'ex territorio paludoso.
Resta il fatto che alle volte le prestazioni degli argini di questi manufatti lasciano un pò a desiderare e c'è chi sospetta la mancanza di un chiaro controllo sui materiali impiegati per costruirne gli argini. I risultati purtroppo si vedono, ad esempio la cassa di espansione sul Panaro, entrata in funzione senza un collaudo, ha già qualche zampillo verso l'esterno al primo riempimento.

E’ chiaro: nel settore della sicurezza del cittadino c’è una diversa percezione della dimensione dei problemi anche in termini di risorse. Il rischio idrogeologico pur essendo una minaccia per la sicurezza dei cittadini non viene percepito come tale, se non nei pochi giorni dopo i disastri
Per cui costruire un ponte o organizzare una sagra paesana conta più che impiegare risorse per sistemare un versante, anche perché la “gggente” si accorgerebbe del problema solo e soltanto se questo versante ad un certo punto frana. e allora giù contestazioni contro chi non ha fatto nulla per evitare il problema. 
Invece dopo un evento meteorologico importante nessuno va a ringraziare l'Ente locale perchè non pensa che se quel versante non fosse stato messo in sicurezza sarebbe franato. 
E quindi come abbiamo visto i finanziamenti dedicati alla prevenzione sono due ordini di grandezza inferiori rispetto ad altri settori della sicurezza


Devono essere i cittadini a richiedere sicurezza del territorio alle amministrazioni e a vigilare sul territorio stesso per segnalare abusi e violazioni che possano aggravare le condizioni di rischio. Se tutti sono indifferenti perché non conoscono i problemi, neanche i rischi della propria abitazione, non andremo molto lontano. 
La mancata percezione dei rischi legati ad un errato sfruttamento del territorio  è quindi il problema maggiore.

Finalmente sta finendo quella ubriacatura tipica dell'ottimismo sulle possibilità dell'uomo di governare la Natura, tipico di una certa mentalità del dopoguerra che ha iniziato a franare negli anni '80, quando ancora la gente chiedeva "come mai oggi non si riesce a fermare un vulcano?". Quella mentalità ha avuto tragiche conseguenze: tombamento di corsi d'acqua, costruzioni in luoghi sbagliati etc etc. 
Ed il drammatico è che questa mentalità (che fa la pari con quelli che il trasporto pubblico non serve a niente, soprattutto le ferrovie) continua a permeare la classe dirigente.

Occorre sensibilizzare fino dalle scuole su questo problema, per fare dei cittadini responsabili grazie ai quali le esigenze del territorio divengano un bisogno comune.



domenica 2 febbraio 2014

Del perchè oggi ci sono tante alluvioni


Vorrei parlare di cose più amene ma purtroppo anche in questi giorni siamo alle solite: acqua a catinelle e terreni e paesi sott'acqua. E come sempre ne sento di tutti i colori. Purtroppo - come sottolineo molto spesso - è staro fatto tanto di quello che non andava fatto e poco di quello che andrebbe fatto per l'assetto del territorio. La storia che ho appena raccontato sulle opere idrauliche in Toscana dagli Etruschi ad oggi è esemplificativa al riguardo perchè i problemi in parte derivano proprio dalle modifiche antropiche all'assetto idraulico, spesso realizzate credendo di fare cosa giusta. Dal dopoguerra ad oggi poi, in una ubriacatura di irresponabilità, difficilmente si è tenuto conto dell'assetto del territorio per decidere insediamenti residenziali o produttivi. Quindi mitigare gli effetti delle alluvioni è possibile affrontando il problema da due lati, uno di regimazione delle acque tenendo conto delle esigenze dei fiumi e, dall'altro lato, costruendo in zone meno a rischio possibile

Geografia e geologia associano al termine "pianura" l’aggettivo "alluvionale" (o al limite "costiera"). Un aggettivo spesso omesso ma insito nel concetto stesso di pianura. Definiamo una pianura alluvionale di qualsiasi dimensione, dalla Valpadana alla Valdelsa, come una zona più bassa e pressochè pianeggiante in mezzo a delle alture, ricoperta e riempita dai sedimenti trascinati e depositati dai fiumi. 
In altre parole: quando camminiamo in una pianura, siamo in una zona sulla quale un pò di tempo fa c'era un alveo fluviale o sulla quale un fiume, esondando dal suo alveo, ha depositato i sedimenti che trasportava.


IL DISEGNO ATTUALE DI FIUMI E COSTE: POCA NATURA E TANTA INFLUENZA UMANA

Noi siamo abituati a vedere i fiumi nascere, ricevere gli affluenti e sboccare in mare. 
Questa configurazione è quasi totalmente artificiale: in natura un fiume, dopo una ripida discesa dal monte, arrivando nella pianura si impaluda, si divide in più rami, ed è libero di divagare pigramente a suo piacimento in lungo ed in largo per tutta la valle, dove zone asciutte si alternano ad acquitrini e laghi (tra gli ultimi esempi di laghi di questo tipo c'è il Trasimeno). 
In questa immagine vediamo i meandri del Syr Daryia in Kazakhstan, un tipico esempio di cosa dovrebbe fare un fiume che scorre in una pianura.
Ma nonostante tutto, anche quando i fiumi godevano di queste libertà, sconosciute nell’Italia di oggi, le alluvioni catastrofiche erano all’ordine del giorno: in una sezione verticale di un terreno di pianura si vedono dei livelli di materiale anche molto grossolano (ciottoli se non massi) intercalati nelle argille e nelle sabbie. 
Ebbene, queste sono le tracce di importanti eventi alluvionali che hanno interessato la zona (in generale che più grandi sono gli elementi che compongono il sedimento, maggiore è stata in quel punto l’energia della piena). 


Lo stesso discorso vale per le coste lungo le pianure: consideriamo la laguna veneta una eccezione, ma in realtà è proprio quello che ci si dovrebbe aspettare dove il mare incontra una pianura costiera: in casi del genere al posto di un linea di costa precisa e definita troviamo in natura una fascia costituita da una successione di stagni, dune, cordoni litorali, insomma una laguna. 
E se la pianura è vasta, come quella padana o semplicemente la bassa valle dell’Arno, il limite fra le acque dolci e quelle salmastre sarebbe molto più sfumato di quello che vediamo oggi. 

Questa famosa carta di Leonardo da Vinci dimostra come in Toscana ancora ai suoi tempi i laghi e le lagune occupavano gran parte del territori.
Le bonifiche hanno fatto guadagnare spazio alle attività umane (soprattutto all'agricoltura) e hanno spesso consentito l'eliminazione di malattie come la malaria, ma nel contempo hanno tolto alle acque la possibilità di fermarsi da qualche parte e quindi, i fiumi si ritrovano a dover "gestire" anche quella percentuale di acqua che durante le fasi più acute di piena si sarebbe fermata nelle paludi e nelle lagune
La costruzione delle "casse di espansione" e cioè zone che possono essere allagate in caso di piena è finalizzata proprio a "catturare" una parte dell'acqua in eccesso, rilasciandola a piena finita. 

Inoltre queste aree in generale sono topograficamente depresse e, soprattutto per quelle costiere, esposte ad un abbassamento naturale del suolo, la subsidenza, dovuto al progressivo compattamento dei sedimenti sotto il peso di quelli sovrastanti. 
A questa componente naturale se ne aggiunge una seconda antropica, dovuta agli eccessivi prelievi idrici e, ove presenti, alle estrazioni di petrolio e gas. 
È evidente quindi che queste aree sono ad alto rischio alluvionale. Pensate che zone come la Versilia o la piana tra Pisa e Livorno sono state bonificate solo grazie alla meccanizzazione delle bonifiche tramite idrovore, senza le quali ci sarebbero ancora giganteschi acquitrini. 

L’uomo è inoltre drasticamente intervenuto nella forma dei fiumi: 
- li ha ridotti in alvei sempre più stretti, impedendogli di muoversi a piacimento e diminuendone la portata utile in caso di piena 
- ma, fatto questo ancora più grave, li ha rettificati, riducendone la lunghezza anche a un terzo di quella originaria.

In questa immagine ho evidenziato con una striscia rossa una possibile rettifica Si vedono bene degli effetti negativi molto pericolosi:
- l’aumento della velocità della corrente per l’aumento della pendenza e la mancanza di curve (che notoriamente la rallentano) 
- la diminuzione totale del volume di acqua contenibile dall'alveo 

Altra spiacevole conseguenza è la diminuzione della distanza fra gli sbocchi dei vari affluenti e quindi aumenta la probabilità che le varie piene degli affluenti si riversino quasi contemporaneamente nel corso principale, con esiti disastrosi. 

DEFORESTAZIONE, CEMENTIFICAZIONE, DIGHE E REGIME DEI FIUMI

Le DEFORESTAZIONI hanno comportato gravi effetti sull'idrologia, in particolare hanno aumentato il rischio di alluvioni.
- in un versante deforestato non solo aumentano le frane ma siccome non ci sono più le radici delle piante a trattenerne una certa quantità, l'acqua piovana si scarica a valle in un tempo molto più breve rispetto a quello che le sarebbe occorso in un versante coperto da alberi
- la conseguenza è che l'acqua rilasciata dalle piogge transita nel fiume in un lasso di tempo più stretto, aumentando ovviamente la portata del corso d'acqua
- inoltre il ruscellamento rapido non consente di rifornire le falde e quindi la portata delle sorgenti sarà molto più legata agli eventi pluviali ed il polmone costituito dall'acqua penetrata nel sottosuolo che rifornisce i fiumi durante i periodi di magra sarà più esiguo.
- un'ultima conseguenza negativa è gli alvei si riempiono di sedimenti, con una drastica diminuzione della portata potenziale del fiume.  

È chiaro, dunque, che la deforestazione sia sinonimo di aumento del rischio alluvioni ed è addirittura possibile che con piante a rallentare il ruscellamento sui pendii e con alvei meno colmati da sedimenti alcuni eventi alluvionali potrebbero semplicemente non verificarsi
Per evidenziare la pesante incidenza potenziale della deforestazione è interessante vedere come in molte aree del Mediterraneo si colmano lagune ed avanzano delta durante il periodo siccitoso tra il XII e il IX secolo AC concausa del crollo della civiltà del bronzo, in cui le precipitazioni erano scarse. 
Oggi in Italia l'espansione delle zone boscate sta diminuendo questa componente. 

La CEMENTIFICAZIONE DEL TERRITORIO non è da meno: l'area dove si cementa non ha più la possibilità di assorbire la pioggia, facoltà che è prerogativa esclusiva di zone con suolo o con roccia fratturata. In una città, ad esempio, soltanto i giardini hanno questa possibilità. Pertanto o il sistema fognario è efficiente oppure l'acqua resta ferma, a meno che non scorra per gravità lungo strade in pendenza. E in ogni caso, è tutta acqua che ti ritrovi nei fiumi mentre senza cementificazione almeno una parte sarebbe entrata nel suolo.

Le DIGHE sono spesso chiamate a sproposito come concause di alluvioni da stampa e voci popolari. 
In realtà le manovre di apertura delle dighe in previsione di forti precipitazioni aumentano la disponibilità degli invasi a ricevere le piogge e quindi consentono di ridurre la portata delle piene.
Inoltre i bacini trattengono tutti quei materiali (soprattutto tronchi di albero), che spesso bloccano la corrente sotto i ponti causando tracimazioni improvvise e diffuse.


Quindi le dighe sono preziose risorse tecniche a disposizione per diminuire la portata durante le piene e distribuire acqua nei periodi di magra. Per una città come Firenze, il cui acquedotto preleva esclusivamente acqua dall'Arno, la presenza a monte di diverse dighe costituisce una fonte di tranquillità per gli approvvigionamenti idrici durante i periodi di magra. La diga di Bilancino è un ottimo esempio di invaso costruito per questi scopi.

C'è da dire, comunque, che le dighe qualche disturbo ai fiumi lo provocano: siccome intrappolano la maggior parte del sedimento che il fiume trascina, a valle il corso d'acqua potrà avere delle caratteristiche più erosive e questo lo scontano soprattutto i ponti, che si ritrovano così i piloni troppo in superficie rispetto a quando sono stati costruiti (in alcuni casi il fenomeno è molto veloce, bastano poche decine di anni perchè succeda).

L'ITALIA, UN PAESE “NATURALMENTE” A RISCHIO 

L'Italia dal punto di vista della difesa del suolo in caso di piogge offre delle specificità peggiorative caratteristiche rispetto alla situazione classica europea: 

  1. siamo uno dei Paesi più difficili che si possano immaginare, circondato da mari piuttosto caldi e con un rilievo giovane
  2. è per la natura stessa del nostro territorio che i processi dominanti nell’evoluzione naturale del paesaggio siano frane e alluvioni
  3. quest'ultimo aspetto è importante perchè determina due fattori di rischio molto gravi: le nostre colline sono belle (anzi, inimitabili!) ma spesso composte da materiali che più che rocce litificate sono sedimenti ancora non consolidati l'idrografia si sviluppa in tanti bacini piccoli piuttostochè in pochi bacini grandi; e bacini idrografici piccoli sono molto più soggetti a piene improvvise, zone nelle quali un “Flash Flood” diventa devastante, specialmente nelle zone costiere

A questo si aggiungono importanti concause antropiche: 

  1. l'abbandono delle montagne e delle fasce collinari, il degrado del reticolo idrografico minore e l'insufficiente manutenzione delle opere idrauliche di regimazione riducono i tempi di concentrazione delle piene, il che ovviamente favorisce il dissesto
  2. siamo una Nazione ad alta densità di popolazione 

Una situazione del genere imporrebbe particolari precauzioni dal punto di vista dell'uso del territorio. E invece fra tutte le Nazioni europee la nostra è probabilmente quella in cui il rispetto per l'ambiente è minore
Rispetto per l'ambiente qui è inteso non in senso “ambientalista” ma piuttosto in senso “tecnico”: spesso in caso di disastro non si può neanche parlare di “irresponsabilità” perchè un irresponsabile è perfettamente consapevole di stare facendo uno sbaglio; si deve parlare di pura ignoranza, da parte del cittadino come da parte dell'amministratore locale o nazionale in quanto spesso nessuno è in grado di percepire la gravità di certe azioni. 

Specialmente dal dopoguerra l'uso del territorio è stato caratterizzato l’edificazione incontrollata nelle aree a rischio sulle frane, negli impluvi, nelle aree golenali dei fiumi: si è costruito tantissimo nelle zone di pertinenza fluviale e sui versanti instabili e adesso ne paghiamo le logiche conseguenze. 
I vari condoni edilizi (e la perenne richiesta di nuovi) sono un altro segno della scarsa propensione a tutti i livelli ad un uso corretto del territorio.

Non ci si può allora stupire che, come sono messi, a fiumi e torrenti siano sufficienti pochi giorni (se non ore) di pioggia per esondare: quando piove una certa quantità di acqua (e non si può evitare che succeda ....) è perfettamente logico che in qualche modo una certa percentuale di essa dovrà pure defluire. 
Allora i fiumi escono dal loro alveo, o meglio da quel poco che gli abbiamo lasciato, sommergendo quanto incautamente gli abbiamo costruito intorno. 

Nel prossimo post parlerò un pò di quelli che possono essere i rimedi a questa grave situazione