lunedì 27 gennaio 2014

Un anniversario davvero "spaziale": Opportunity da 10 anni è a zonzo per Marte


Il 24 gennaio è passato sotto silenzio in Italia un anniversario molto significativo. A causa dei fusi orari la cosa in Europa è avvenuta il 25, ma insomma... ok.
Di che anniversario si tratta? Il 24 gennaio 2004 si posò sulla superficie marziana il rover della NASA Opportunity, che è ancora oggi attivo 10 anni dopo. Opportunity è arrivata qualche giorno dopo l'altro rover gemello, Spirit. Spirit ha cessato di funzionare ma anche in questo caso
più di 6 anni dopo l'atterraggio, ben oltre i 3 mesi previsti. Feci un post sui 5 anni di attività di Spirit che all'epoca sembravano una enormità, e ora a 5 anni di distanza si festeggia il decimo anno di Opportunity, mentre su Marte abbiamo un altro rover, Curiosity, che fa veramente impressione per quello che sta facendo.

Partiamo da lontano: su Marte erano già atterrate negli anni '70 le 2 sonde americane Viking (non dotate di possibilità di movimento) e le 2 sovietiche Lunokhod sulla Luna, dove si sono mosse eccome, dimostrarono le possibilità dei rover nell'esplorazione spaziale. La storia delle missioni sul Pianeta Rosso è sempre stata difficile e molte macchine, anche solo destinate ad orbitare intorno a Marte, non solo agli atterraggi, sono state perse. L'ultima, pochi mesi fa, è russa, la Phobos – Grunt. ("Grunt" è anche simpatico come termine visti i risultati). 

SUCCESSI E INSUCCESSI DEGLI ANNI '90 

Gli USA non fanno eccezione alla regola (anzi ne costituiscono il cuore). Senza andare tanto indietro nel tempo con i disastri, un eccellente apripista come Mars Pathfinder, al secolo Sojourner, negli anni 90 fece cose egregie, muovendosi intorno al punto di atterraggio da cui l'astronave base lo riprendeva. Per la prima volta immagini da Marte furono diffuse via Internet quasi in tempo reale; fu una cosa veramente eccezionale, una dimostrazione di quello che poteva diventare la Rete. Quando vidi le prime rimasi sbalordito. Questa foto ritrae Sojourner accanto a "Yogy", uno dei suoi più noti target.

In seguito si registrò il clamoroso fallimento del 1999 con l'accoppianta Mars Polar Lander e Mars Climate Orbiter (un rover e un veicolo orbitante). La discesa è difficile e soprattutto ingovernabile manualmente visto la distanza da Terra ed il tempo che ci vuole ad un segnale per partire dal veicolo e ricevere ordini ritrasmessi da Terra. All'epoca Marte era molto vicino, ma erano sempre una sessantina di milioni di km e quindi solo per andare e tornare un segnale ci avrebbe messo una decina di minuti.. un pò troppo per rispondere tempestivamente alla classica domanda “Houston abbiamo un problema”....
Il lander scese regolarmente fino a pochi metri dal suolo, poi secondo la versione ufficiale il software del veicolo interpretò come arrivo al suolo la vibrazione che ha accompagnato l'apertura delle “zampe” e quindi spense i motori prima del previsto, ottenendo un atterraggio non proprio morbido che ha evidentemente danneggiato il veicolo.
Contestualmente, per non farsi mancare niente, furono perse altre due piccole sonde che facevano parte del programma, le Deep Space 2, Scott e Amundsen, che avevano fatto il percorso dalla Terra a Marte nella nave madre insieme a Mars Polar Lander.

Risvolti molto più comici offrono le motivazioni della caduta del Mars Climate Orbiter: l'inchiesta stabilì che la causa fu una incomprensione: chi calcolava le forze lo faceva usando il sistema metrico decimale, mentre il programma leggeva i valori inseriti facendo riferimento ai Pound (le libbre inglesi) e non ai kilogrammi... 

Era ovvio che i conti non tornavano ma fino a quando il satellite non è precipitato nessuno si è accorto dell'errore, che fu scoperto dopo mesi di esami dei files.
Una debacle clamorosa: 4 veicoli su 4 persi.... da nascondersi....

Alle volte mi chiedo come facciano gli americani ad andare avanti con quell'insulso sistema metrico che si ritrovano.... 
 
Anche l'ESA comunque nel 2004 perderà una sonda che sia pure priva di movimento, era considerata talmente importante da meritare un nome importante, ma Beagle 2 (il riferimento era alla celebre nave di Darwin) non è mai entrata in funzione.

ARRIVANO SPIRIT E OPPORTUNITY

Comunque veniamo al 2003 quando una NASA un po' abbacchiata lanciò i due rover che arrivarono su Marte in sequenza – Spirit il 3 gennaio 2004 e Opportunity il 24 – per una missione che teoricamente doveva durare 3 mesi (ma non ci credeva nessuno che durasse così poco).
Per diversi anni i due Rover hanno vagabondato nelle zone a loro assegnate, e tutto è andato quasi bene salvo qualche impantanamento nella sabbia, risolto in maniera un po' avventurosa. 
Spirit non dà più segni di vita da un bel pezzo, dal marzo 2010, ma sono sempre stati oltre 6 anni, altro che 3 mesi.
Opportunity invece è ancora lì e continua imperterrito a lavorare appunto dopo 10 anni di onorato servizio che sono stati appunto festeggiati in pompa magna dal team che lo segue.
 
Anzi, questo rover è stato autore di una spettacolare marcia che lo ha portato fino ad oggi a percorrere quasi 40 km sulla superficie di Marte e vicina al record nella categoria, di 42 km, che ancora detiene dopo oltre 40 anni il sovietico Lunokhod 2 (peraltro compiuti sulla Luna in appena 4 mesi!). La maggior parte della distanza è stata coperta nel trasferimento dalla località di atterraggio nel Meridianii Planum a quella attuale, il Cratere Endeavour, una marcia amorevolmente guidata da Terra anche grazie alla nutrita schiera di satelliti che consentono di indicare l'itinerario più facile e zone interessanti lungo il cammino, che infatti ha avuto alcune deviazioni verso target specifici.
 
Oggi la ricerca è soprattutto rivolta alle argille, minerali che si formano solo in condizioni idrate e che quindi possono parlare con sicurezza di un passato umido di Marte. In questi mesi l'attività è momentaneamente ridotta perchè siamo nell'inverno marziano, la luce è poca i pannelli solari sono vecchi: il rover è fermo su un piano inclinato sulla parete nord del cratere Endeavour, un sito scelto con accuratezza nei mesi precedenti, in modo da evitare trasferimenti che costano energia e ricevere più radiazione solare possibile.

LA CHIAVE DEL SUCCESSO DI SPIRIT E OPPORTUNITY
  
Ma perchè questi gioielli della tecnica sono durati così tanto?
Come ho detto, era ipotizzabile che quella missione dovesse durare di più della novantina di giorni, anche se per esempio così non è avvenuto nel 2008 con Phoenix, una sonda che oltretutto non doveva muoversi.
Ci sono diverse motivazioni per questo.

1. Certamente la struttura delle macchine si è rivelata eccellente: vero che non c'è il problema – impellente sulla Terra – dell'umidità, ma ci sono comunque da sopportare temperature che scendono anche sotto i – 100°C. Tutti gli snodi e tutti gli strumenti di Opportunity sono ancora efficienti e questo dice molto. 
Anche gli strumenti e gli snodi di Spirit, ruota a parte, funzionavano bene ma poi fu proprio quella dannata ruota che provocò il dramma, impedendo un corretto posizionamento durante il quarto inverno marziano: il rover non fu così in grado di ricevere quel minimo di energia solare che poteva consentirgli di tenere all'erta almeno i sottosistemi di bordo.
Da notare che il problema del posizionamento invernale dei rover non era stato conteggiato in partenza... semplicemente all'inverno non ci sarebbero arrivati... Opportunity è al sesto....

2. Il sistema di sospensioni consente fino ad angoli di 45 gradi di mantenere sulle 6 ruote sempre la stessa pressione. Le ruote e i loro collegamenti al rover sono quindi al sicuro da sbalzi pericolosi. Spirit gli ultimi mesi se li fece a marcia indietro proprio perchè si era rotta quella ruota...
 

3. Dei riscaldatori atomici tengono calda la parte elettronica, consentendo per esempio alle batterie di restare sufficientemente calde. Non ho idea di quando finisca questa carica di meno di 3 grammi di ossido di plutonio. Certo senza quella la vedo dura...

4. Ma la cosa più straordinaria è stata la pulizia dei pannelli: era previsto infatti che la polvere atmosferica oscurasse i pannelli solari fino al punto di renderli inutili. Questo però non è successo e qui la NASA ha pescato il proverbiale jolly: non è stato merito dei progettisti ma dei “Dust devils”, i piccoli tornado che si formano sul suolo marziano: il vento ha dunque liberato dalla polvere i pannelli! Questo, nella foto NASA, è stato immortalato proprio da Spirit.

Quindi la Natura ha dato una mano alla Nasa.
E adesso aspettimao la fine dell'inverno marziano per rivedere Opportunity a zonzo intorno al cratere Endeavour
 

giovedì 16 gennaio 2014

Sperimentazione animale: il solito dibattito manicheo fra realtà, sogni e prospettive


Spesso ho detto che ci tengo all'ambiente e non solo perchè “mi piacciono i boschi, gli animali e acque e aria non inquinate”, ma anche perchè sono convinto che la sostenibilità ambientale sia un interesse dell'umanità (anche dal punto di vista economico...); e quindi lo sia anche di chi NON rispetta l'ambiente. E che proprio perche sono un "ambientofilo" la maggior parte degli ambientalisti non mi piace per niente ed essere chiamato ambientalista mi disturba non poco: il loro radicalismo è spesso impraticabile quanto foriero (se per caso venisse applicato) di problemi ancora peggiori. Dall'altra parte ci sono persone che proprio grazie a questi eccessi riescono nell'opinione pubblica a mettere in contrasto "ambiente" e "lavoro".
Oggi l'ambientalismo italiano (ma non solo l'ambientalismo) è percorso da una crociata animalista che ha ben poco di scientifico e la questione della sperimentazione animale è al centro dell'attenzione del pubblico.  Per questo vorrei fare alcune puntualizzazioni. 

I racconti di quanto è stato fatto nel passato a nome della Scienza sulla pelle degli animali è terribile, come alcuni tipi di caccia, allevamento o sfruttamento che ancora resistono nonostante tutto. Certe immagini e certi ricordi fanno semplicemente male all'Umanità. Punto e basta. Mi risulta che le contestazioni, anche nel mondo scientifico, si siano scatenate già nel XVII secolo. 
Annoto comunque che parimenti anche nei confronti dei suoi simili l'uomo non si è spesso comportato correttamente: eccidi, torture, esecuzioni efferate, proseguono nel mondo ancora oggi (purtroppo di tanti episodi non veniamo a conoscenza) e nella civile Europa sono recenti gli orrori della II guerra mondiale e, appena 20 anni fa, della guerra in ex-Jugoslavia. 

Un primo problema è terminologico: oggi con il termine “vivisezione” si comprende qualsiasi esperimento su animali, il che è una estensione illegittima e scientificamente scorretta del termine; per fortuna non mi risulta che attualmente animali vivi vengano fatti a pezzi per scopi scientifici, anche se – sempre a scopi scientifici – sono ampiamente usati per esperimenti, soprattutto nella ricerca medica e biologica. Unica sicura eccezione, secondo i giapponesi, è la caccia alla balena; dico "secondo i giapponesi" in quanto non mi risultano lavori scientifici su riviste internazionali scritti grazie a quella attività.... 

Perchè si usano roditori e conigli nella sperimentazione animale

In generale nella sperimentazione animale vengono usati scimmie, roditori e lagomorfi (conigli). Perchè proprio questi animali? Per questione di vicinanza genetica con Homo sapiens. È abbastanza intuitivo (creazionisti a parte....) che gli altri Primati siano geneticamente simili a noi e nostri parenti stretti, soprattutto le “Scimmie antropomorfe”, quelle che in Inglese vengono chiamate “apes”. 

Ma perchè i roditori e i lagomorfi? Perchè, insieme ai Primates e ad alcuni ordini poco diffusi (Scadentia e Dermoptera), Rodentia e Lagomorpha sono geneticamente gli animali più simili a noi: tutti insieme formiamo uno dei cladi basali dei mammiferi placentati, gli Euarcontoglires: i Primates condividono antenati comuni con questi altri ordini almeno fino a poco prima della fine del Mesozoico. A questi ordini va aggiunto anche l'ordine estinto dei Plesiadapiformes, più vicino a Primates che agli altri.
Gli altri mammiferi placentati appartengono ad altri cladi basali (Laurasiatheria, Xenarthra e Afrotheria) e sono molto più lontani geneticamente da noi di Roditori e Lagomorfi. 

Questo ovviamente non esclude che alcuni geni umani siano più simili a geni, per esempio, dei cavalli anziché dei roditori, se una mutazione genetica è avvenuta nei Roditori dopo la separazione fra i nostri e i loro antenati. Allo stesso modo, specularmente, ci possono essere dei geni più simili fra Roditori ed Equini che fra Roditori e Primati se le mutazionio sono avvenute nei Primati dopo la separazione con i Roditori. Ma sostanzialmente, essendo parenti pià stretti, è più facile trovare somiglianze fra i geni nostri e quelli dei Roditori che fra i nostri e quelli degli Equini. 
Altri fattori importanti sono le piccole dimensioni, la breve vita media e l'alta fecondità di Roditori e Lagomorfi: si possono osservare bene i fenomeni legati all'invecchiamento e i costi di produzione di nuovi cucccioli sono estremamente bassi. 
Fosse l'elefante l'animale geneticamente a noi più vicino, sarebbe difficile utilizzarlo un po' per le dimensioni, ma soprattutto per la vita media, paragonabile alla nostra, che non consentirebbe simulazioni legate all'invecchiamento. 

sperimentazione animale e opinione pubblica in Italia

È uscito un lavoro da parte di uno dei principali istituti di demoscopia in Italia, la IPSOS, dal titolo “Le opinioni degli italiani sulla sperimentazione animale”. 
L'indagine parte da una considerazione  piuttosto interessante perchè mostra come nell'argomento sperimentazione animale ci sia in Italia una certa ignoranza (come d'altra parte su tanti altri aspetti della Scienze, fattore che permette fra l'altro ad apprendisti stregoni o ciarlatani come Giuliani, di Bella, Vannoni e compagnia di ottenere un seguito che in altre nazioni si sognerebbero).
A riprova di questo, nel 2011 era stato dimostrato che “fornire informazioni è decisivo per cambiare opinione”. 
Questo perchè spesso si pensa che la sperimentazione animale (o, come viene impropriamente chiamata, la vivisezione, abbia a che fare soprattutto con prove di cosmetici e animali da pelliccia). Diciamo che la ricerca basata su questi fattori sarebbe "quantomeno discutibile". 
Ma in chi sa che la sperimentazione animale cerca la soluzione a malattie piuttosto difficili da curare (o attualmente impossibili da curare) la percentuale di favorevoli è nettamente più ampia.  L'ennesima prova che se l'Opinione Pubblica italiana fosse meno affetta da analfabetismo scientifico, si vivrebbe più tranquilli. 
Proprio per il miglioramento delle conoscenze da parte del pubblico su questa materia dal luglio 2011 ad oggi sono aumentati i favorevoli alla sperimentazione animale e diminuiti i contrari, a dimostrazine che l'informazione in materia sia fondamentale per far capire ed accettare il punto di vista scientifico (e dimostra la necessità di una più profonda comunicazione scientifica!). 
Quindi, avendo saputo i campi in cui interviene la sperimentazione animale, gli italiani ne hanno maggiormente capito l'importanza: nel 2011 il 51% degli intervistati la riteneva da “del tutto” ad “abbastanza” necessaria, contro il 47% che la riteneva “poco” o “per niente” necessaria. Oggi siamo a 61% contro 36%. 
Ed è necessario dunque prevenire una controinformazione antiscientifica dei contrari (fra i quali, con rare eccezioni, il tasso di scolarizzazione scientifica, in particolare in campo biologico e medico, è piuttosto basso). 

Animalisti e mondo scientifico: il dialogo impossibile

Il problema comunque esiste eccome. Purtroppo da parte degli animalisti non solo c'è una totale chiusura, ma le contestazioni anziché sullo scientifico, vanno sul personale, come dimostrano i fatti degli ulimi giorni, in cui  sono stati affissi manifestini che diffondevano nome e indirizzo di alcuni ricercatori, con l'epiteto di "vivisettore" (termine come detto completamente errato) e di assassino di animali.
E questo è gravissimo: le contestazioni andrebbero fatte solo ed esclusivamente in base a considerazioni scientifiche. 
È vero che ci sono dei ricercatori che stanno portando avanti istanze animaliste, ma purtroppo questi sforzi passano inosservati rispetto a queste intemperanze o ad azioni tipo il raid ai laboratori della facoltà di biologia a Milano, le tentate violenze ad un sit-in dei ricercatori etc etc, grazie alle quali il movimento animalista non può che perdere consensi nelle persone dotate di un cervello che ragiona. 
Cioè, in questo momento gli animalisti stanno puntando tutto su fattori emozionali (quando non su azioni illegali) anzichè su fattori scientifici, e questo o per pochezza scientifica o perchè non hanno una soluzione in mano. 
Se non fosse per quei pochi ricercatori che ci provano l'unica soluzione razionale sarebbe "non è possibile farne a meno”. 
Questa purtroppo è la realtà di oggi. 

Solo che in una nazione meno idiota ci sarebbe meno confusione e – soprattutto – si cercherebbe un approccio “laico” anziché la scelta di doversi schierare aprioristicamente per forza o a favore o contro la sperimentazione animale. 
Come spesso succede, vado controcorrente: penso che si debba per forza limitare al massimo gli esperimenti con animali e, parimenti, cercare di trovare alternative alla sperimentazione in vivo
Quindi da un lato si devono cessare esperimenti su animali per i quali ci sono alternative valide (coltivazione cellule in vitro e quant'altro): una cosa che definire ovvia è poco. 
Ma è altrettanto ovvio, dall'altro lato, che cessare esperimenti su malattie gravi perchè non è stata individuata una altenativa priva di esperimenti con animali sarebbe puramente demenziale. E nel frattempo comunque vanno esplorate le possibilità di una alternativa.

.... e ci risiamo con la "scienza ufficiale"

Mi si permetta ora una piccolo riferimento personale. Ho un'amica MOLTO animalista che apprezzo se non altro per il suo impegno, anche se non lo condivido. Peccato che essendo laureata in discipline umanistiche abbia poca dimestichezza con la Scienza e infatti ogni tanto dice cose che, eufemisticamente, mi lasciano “perplesso”. Il fatto che una persona intelligente come lei dica: 

mi rendo conto che il campo della ricerca scientifica è complesso, il cammino è ancora lungo e sappiamo che spesso si procede per tentativi e ogni nuova strada è accettata con diffidenza per non rischiare cialtronerie. Comunque dobbiamo accogliere con apertura e serietà ogni nuovo step perchè siamo circondati da persone che si ammalano e muoiono senza che la scienza e la medicina ufficiali diano grandi risultati, purtoppo.

è esemplificativo del modo di pensare di parecchie persone. 

I risultati in alcune (parecchie) malattie non ci sono, è vero. Il concetto di “medicina ufficiale” e di “scienza ufficiale” mi sono sempre stati fortemente antipatici (oltre ad essere sballati), ma che lo esprima una insegnante, anche se di materie letterarie, lo trovo senza senso... al solito ci sarebbe la cattiva scienza ufficiale che si avvale della sperimentazione animale e una buona che non la vuole usare per qualche motivo e che però usando metodi alternativi potrebbe ottenere risultati migliori... ma per favore... Vorrei che si smettesse una volta per tutte di dare di “ufficiale” a tutto quello che non ci piace. 

Ad esempio anche io contesto, come sa chi mi conosce personalmente, quella che è la storia (e soprattutto la paleogeografia) dell'Appennino Settentrionale tra il Mesozoico superiore ed il Terziario dei modelli attuali.
Solo che anziché prendermela con una presunta “geologia appenninica ufficiale” prendo atto che in questo momento lo “stato dell'arte” della ricerca sulla storia dell'Appennino Settentrionale non  mi convince per niente; ma anziché dare di “servo del potere geologico” a chi lo sostiene, continuo a raccogliere dati per far capire che forse quello che è sostenuto oggi non corrisponde alla realtà.
Nella Scienza si deve fare solo così e non si può agire maledicendo il prossimo, nella fattispecie i ricercatori che sostengono idee contrarie alle tue..

Gli obbiettivi condivisibili ma irraggiungibili dell'ambientalismo (almeno oggi)

In definitiva, si può dire che la sempre minor dipendenza da esperimenti su animali sia un obbiettivo da perseguire, altrettanto quanto i “rifiuti zero”, la sostenibilità energetica, la riduzione delle emissioni inquinanti di ogni tipo, la conservazione della Natura etc etc.
Tutte idee largamente condivisibili non solo da chi scrive o da chi ha particolarmente a cuore l'ambiente, ma su cui non si possono basare le politiche nazionali e locali (mi riferisco soprattutto a animalismo e rifiuti zero, ma non solo). 
Purtroppo molte di queste giuste istanze del mondo ambientalista sono allo stato attuale inapplicabili per come sono richieste e prospettate, mentre spesso le posizioni manicheistiche da parte dei loro stessi propugnatori  suscitano nel resto dell'opinione pubblica quantomeno una certa antipatia, se non, come nel caso dell'assalto ai laboratori dell'Università di Milano, uno sbalordimento per l'imbecillità dimostrata (e per i danni alla ricerca).
Alimentando la (erratissima) cognizione che o si crea lavoro o si protegge l'ambiente....

domenica 12 gennaio 2014

La storia delle principali opere idrauliche in Toscana - 5: epiloogo: una felice conclusione dopo tanti misfatti?


Con il post precedente ho concluso la storia delle opere idrauliche in Toscana, ma questa serie necessita di una conclusione per capire cosa ci aspetta il futuro, nel quale è necessaria qualche soluzione per non trovarsi a gestire un nuovo 1966 e neanche sentire lo stillicidio di danni dovuti a piogge spesso neanche eccessive. È chiaramente irrealistico pensare di poter tornare alla situazione palustre pre – romana (che fra l'altro non assicura al 100% dai rischi degli eventi alluvionali), nonostante sia venuto meno almeno uno degli aspetti principali per cui sono state realizzate le bonifiche, il rischio sanitario dovuto alla malaria: i territori bonificati negli ultimi 500 anni sono abbondantemente utilizzati per scopi agricoli o urbanizzati.
È accertato che non corrono rischi di sistemazione idraulica i pochi luoghi rimasti allo stato palustre o lagunare a causa della nuova sensibilità ambientale. Ma dall'altro lato mantenere le bonifiche, specialmente ma non solo nelle zone costiere, vuole dire operazioni continue di manutenzione dei fossi, dei canali e – ove esistenti – degli impianti idrovori, un argomento praticamente ignorato o quasi dall'Opinione Pubblica.
In ogni caso, la mitigazione dei danni delle piene in qualche modo va perseguita.
Ed ecco che mentre scrivevo questa serie di post è giunta una ottima notizia da parte della Regione Toscana. Preciso che fra i miei post e questa decisione non c'è nessun nesso, nel senso che avevo già iniziato il lavoro senza sapere cosa sarebbe successo.
Ma il rischio idrogeologico non è l'unico argomento: altre opere idrauliche sono state promesse o sono in arrivo che con il rischio idrogeologico hanno poco a che fare, ma avranno risvolti importanti nella vita e nell'ambiente.

OPERE IDRAULICHE PER IL TRATTAMENTO DELLE ACQUE 
E PER LA NAVIGABILITÀ DELLE ACQUE INTERNE

Iniziamo da opere che non riguardano la mitigazione delle piene, a partire da un aspetto ancora meno conosciuto: il trattamento delle acque.
Distretti industriali come il cuoio di Santa Croce o il tessile di Prato, grandi consumatori di acqua, si sono dotati di propri “acquedotti” con i quali le acque reflue vengono avviate a dei depuratori. Spesso queste opere possono condurre ad un riciclo delle acque depurate con ovvi vantaggi per falde e fiumi. 
Inoltre grandi collettori fognari portano ai depuratori, industriali o civili. In un tempo brevissimo anche l'area fiorentina in riva sinistra dell'Arno sarà collegata al grande depuratore di San Colombano.
È auspicabile che queste strutture "si parlino", per poter utilizzare quanto più possibile a scopi industriali o irrigui le acque trattate senza dover ricorrere a emungimenti dalle falde o dai fiumi.

Un'altro sforzo importante in corso è il collegamento fra i vari acquedotti esistenti: fino ad oggi è facile che ogni comune abbia il suo acquedotto (o addirittura pià di uno). Collegarli insieme vorrebbe dire non solo evitare disservizi in caso di problemi (inquinamento di una falda o guasti) ma anche disporre più razionalmente della “risorsa acqua”. In alcune aree, come quella fiorentina, i lavori sono piuttosto avanti. Da altre parti no.

Un progetto piuttosto importante riguarda lo Scolmatore dell'Arno, che dovrebbe assolvere al compito per cui nel '500 era stato costruito il “Canale dei Navicelli”, seppure in altra zona rispetto al primo: verrà reso navigabile fino a Guasticce e Vicarello, per un tratto di una decina di km, consentendo alle navi di arrivare all'Interporto Vespucci, alla piattaforma logistica del Faldo e ad altre grosse strutture che sono nate o nasceranno nell'entroterra livornese, il quale, essendo un'area bonificata nel '900 non ha una grande densità abitativa; sempre nel porto labronico dovrebbero essere eseguiti i lavori per l'adeguamento dei fondali delle varie darsene. Con questi lavori Livorno godrebbe di un porto efficiente servito da un retroporto grande come pochi in Italia.

IL FUTURO DELLA REGIMAZIONE DELL'ARNO: LE CASSE DI ESPANSIONE

Per quanto riguarda la regimazione dell'Arno è venuta alla ribalta negli anni '90 una nuova filosofia nell'affrontare questo problema: tramontata l'idea seguita alla Commissione De Marchi di costruire decine di invasi, idea costosa e spesso non troppo ben vista dalle popolazioni (basta vedere le polemiche in Mugello negli anni '70 e '80 sulla questione di Bilancino), si è affermato il concetto delle “casse di espansione”. Sono invasi costruiti in pianura a fianco dei fiumi, normalmente vuoti ma che vengono riempiti esclusivamente durante le piene. 

Con queste opere la localizzazione delle opere di laminazione si sposta dalle zone più alte dei bacini alle zone a valle. Il vantaggio è che le aree occupate dalle casse di espansione possono consentire usi diversi in tempi ordinari (per esempio parchi pubblici), mentre gli invasi no. Le casse di espansione fanno un po' le veci delle paludi di una volta. In questa foto vediamo la cassa di espansione realizzata tra Firenze e Campi Bisenzio a San Donnino, ovviamente  accanto al fiume Bisenzio che passa tra la cassa di espansione e la prima fila di case sullo sfondo.

Purtroppo reperire fondi (gli stanziamenti per il settore sono sempre stati cronicamente insufficienti) e battere la burocrazia in Italia non è uno scherzo e quindi siamo abbondantemente indietro con i tempi previsti per i lavori mentre dal 1966 sono passati quasi 50 anni e quindi il rischio di un altro “evento secolare” non è per niente zero.
È ovvio invece che non dovrebbero esserci tentennamenti sulla realizzazione di tutte queste opere, a cui è affidata la diminuzione del rischio – alluvioni in futuro. Ed è altrettanto ovvio che spendere oggi per prevenire è più economico che spendere domani per ripristinare i danni a case, industrie e strutture idrauliche.

REGIONE TOSCANA E RISCHIO IDROGEOLOGICO

Le alluvioni che si sono ripetute negli anni recenti hanno se non altro avuto il merito di far diventare la difesa del suolo una priorità. Priorità la cui necessità è ampiamente dimostrabile visto che ben il 20% del territorio è da considerarsi potenzialmente interessato da fenomeni alluvionali (senza contare quella esposta al rischio – frane!) e in questi anni i cittadini e il territorio toscano hanno pagato un prezzo altissimo per le alluvioni che hanno colpito a più riprese molte aree.

Una cosa che sorprende è che nel 2013 la Regione Toscana ha sancito legalmente il divieto di costruzioni in zone ad alto rischio idrogeologico.

Mi spiego perchè trovo "sorprendente" questo fatto:
- da un certo punto di vista si può dire “molto bene!”
- ma, dall'altro, è evidente che se ora è vietato, significa che prima era possibile (ad esempio, in certe zone ci sono dei palazzi costruiti non tantissimi anni fa in terreno golenale....). 
E siccome è improbabile che la Toscana sia stata l'ultima regione italiana a sancire questo concetto, il tutto significa che almeno da qualche parte in Italia ciò è ancora permesso.

Una situazione imbarazzante, che insieme alla ricorrente proposta di nuovi condoni edilizi, conferma la scarsa attenzione della classe politica alle esigenze del territorio. D'altro canto la demolizione del reticolo dei fossi nelle zone urbanizzate (ad esempio in Toscana quella seguita alla forte espansione nell'ultimo dopoguerra degli agglomerati urbani di Firenze e Prato) è una bonifica al quadrato, almeno dal punto di vista degli effetti sgraditi, che partono dai frequenti allagamenti di cantine e sottopassi, spesso purtroppo costati vite umane: è facile che siano dovuti alla inadeguatezza delle misure di scolo delle acque piovane a causa della intubazione con sezione insufficiente dei vecchi canali, se non alla loro completa eliminazione.

UN IMPEGNO CONCRETO NEL 2014 E SPERIAMO ANCHE NEL FUTURO

E veniamo alla notizia di cui ho accennato: per capire esattamente cosa fare e dove, è stato compiuto ad opera degli enti locali e dei consorzi di bonifica un esame della situazione che ha permesso di individuare gli interventi più necessari e urgenti. 
A seguito di questo la Regione Toscana ha stanziato oltre 50 milioni di euro per interventi per opere che saranno realizzate nel 2014 per la mitigazione del rischio idraulico e idrogeologico (per paragone, il governo nazionale ha stanziato per tutto il territorio nazionale appena 30 milioni...). 
Potrebbe essere un auspicio per un futuro meno disastrato? Speriamo prprio di sì!

Vediamo in dettaglio cosa dice la Regione Toscana: è stato redatto il “documento annuale per la difesa del suolo” in cui sulla base di requisiti di urgenza e cantierabilità sono stati scelti, selezionati e programmati 110 interventi di difesa del suolo da realizzare nel 2014.

Ci sono 3 aspetti importanti da considerare:
- la prima è che il “documento annuale per la difesa del suolo” verrà redatto ogni anno
- ma la seconda premessa è ancora più importante: si sa che in Italia un documento non lo si nega a nessuno, ed è facile promettere soldi; e invece al lato economico anche nei prossimi anni al settore sarà dedicata, come recita il comunicato della Regione Toscana, “una fetta di risorse molto ingenti”. Speriamo che sia vero....
- Il documento prevede anche fondi da destinare alla creazione di un parco progetti che potrà essere utilizzato per programmare gli interventi nel 2015.

Le opere previste comprendono sistemazioni di argini che necessitano di particolare manutenzione, casse di espansione, ripristino di briglie e altre strutture danneggiate dalle alluvioni degli ultimi anni etc etc..

Le intenzioni sono buone e c'è da augurarsi che il 2014 sia un anno di svolta dopo decenni di misfatti.
Ma occorre anche informare la popolazione sui rischi che corre e che correrà, in maniera seria e corretta. Altrimenti si lascia lo spazio a sensazionalismi da quattro soldi o, all'estremo opposto, a persone che hanno interesse a tranquilizzare dove invece c'è pericolo.

venerdì 10 gennaio 2014

La storia delle principali opere idrauliche in Toscana: 4 - lo Stato unitario


Dopo la terza puntata, che si riferiva all'epoca Granducale, nella narrazione della storia delle opere idrauliche in Toscana è ora la volta dei fatti (e dei misfatti, ovviamente!) avvenuti dopo l'annessione del Granducato di Toscana al Regno d'Italia, fino ad oggi che del problema se ne occupa soprattutto la Regione Toscana. Una storia con aspetti spesso molto tristi, culminati con il purtroppo non irripetibile disastro del 1966. L'urbanizzazione massiccia, specialmente nel secondo dopoguerra, ha avuto gravi conseguenze perchè non sono stati rispettate le esigenze del reticolo idraulico. Oggi alle bonifiche resistono in parte solo il Padule di Fucecchio, la piana di Castiglione della Pescaia e la laguna di Orbetello. Nelle piane bonificate le poche aree umide rimaste o ricreate spesso sono diventate oasi di protezione per gli uccelli migratori. Purtroppo ancora disastri come quello del 1966 sono in agguato, perchè come nel resto del Paese è stato fatto tanto di quello che non doveva essere fatto per un corretto assetto del territorio e pochissimo è stato fatto di quello che avrebbe dovuto essere fatto. Ma ci sono speranze che la situazione in futuro migliori. 

L'ALLUVIONE DEL 1844 E I LAVORI PER FIRENZE CAPITALE

A Firenze la memoria dell'alluvione che colpì tutto il bacino dell'Arno il 3 novembre 1844 (strano... primi di novembre...) fu offuscata dalle vicende storiche del momento, tra sollevazioni come quella del '48, guerre di indipendenza e altre vicende. Eppure, anche se si è trattato di un evento non al livello del trio terribile (1333 / 1557 / 1966), ha interessato una buona parte della valle dell'Arno e dei suoi affuenti, come è attestato dalla carta prodotta da Alessandro Manetti (1787 - 1865). In particolare si evidenzia come tutta la zona dell'Alveo del Bientina e del Padule di Fucecchio finirono sott'acqua. 

Firenze divenne la capitale del Regno d'Italia nel 1865 e fra le varie infrastrutture create a quei tempi bisogna inserire l'acquedotto, costruito su progetto del Poggi: la novità è che siamo davanti ad uno dei primi casi di città rifornite dall'acqua del fiume. Tale operazione si rese possibile solo grazie alla scoperta di nuove tecniche di potabilizzazione.
Oggi tutto il fabbisogno idrico della città e non solo, è assicurato dall'Arno, con evidenti benefici per una grandezza così significativa per la stabilità degli edifici come il livello della falda acquifera e minori problemi in caso di inquinamento (giova ricordare che negli anni 60 e 70 del XX secolo l'acqua della falda fiorentina sarebbe stata difficilmente utilizzabile a causa della presenza di sostanze nocive alla salute come la trielina). Fino a pochi anni fa esistevano anche dei pozzi ma poi fu scoperto che tanto era acqua di provenienza fluviale, dispersa nel sottosuolo all'uscita della città, quando l'Arno attraversa una zona di ciottolami.
Un aspetto importante dell'Arno a Firenze all'epoca dell'unificazione nazionale era la sua scarsissima profondità, dovuta al forte trasporto di sedimenti e al rallentamento della corrente a monte della stretta del Ponte Vecchio che ha determinato una zona di forte sedimentazione. Ci sono tante immagini che attestano il lavoro dei "renaioli", uomini che con delle imbarcazioni prendevano nel fiume la sabbia per scopi edilizi, con grande facilità data la bassissima profondità.
Questa situazione peggiorò notevolmente quando l'Appennino fu in gran parte disboscato e l'accelerazione dell'erosione provocò problemi a molte aste fluviali.



LE ULTIME BONIFICHE NELLA FASCIA COSTIERA FRA VIAREGGIO E LIVORNO

Per le sistemazioni idrauliche il primo periodo del Regno è stato senza storia, se non per aspetti marginali: Leopoldo II aveva perfezionato, specialmente in Maremma, l'opera di Pietro Leopoldo e quindi, oltre alla zona di Castiglione della Pescaia, nel territorio ex granducale restavano poche altre aree da bonificare, segnatamente quelle fra Pisa e Livorno.

Una altra eccezione era costituita dalla Versilia meridionale. Si erano appena concluse le operazioni nella Versilia Settentrionale (la questione del Lago di Porta) ma rimaneva ancora una estesa zona paludosa nei dintorni di Viareggio: nella zona di Massaciuccoli erano state eseguiti dei tentativi già nel XVI secolo con scarso successo; alcuni interventi sporadici si sono avuti nel XVIII secolo (per esempio un fosso di sfogo a mare a sud di torre del Lago, il "canale della Bufalina"). 

Il prolungarsi della situazione paludosa è dovuto a due motivi fondamentali:
- il territorio fino al 1849 apparteneva al Ducato di Lucca e non al Granducato di Toscana, per cui non poteva essere stato interessato dai lavori dei sovrani medicei e lorenesi
- l'area è caratterizzata da forti apporti di acqua dalle piovose Alpi Apuane e da un tasso di subsidenza particolarmente elevato, tanto che fu
persino tentato nel XVI secolo ad opera di esperti venuti dall'Olanda l'utilizzo di idrovore mosse da mulini a vento. Ma neanche così i risultati furono accettabili
 

Nel viareggino i primi progetti di bonifica del Regno d'Italia datano al 1885 e per effettuarli era stato definito l'impiego di idrovore a vapore. Queste operazioni godevano dell'appoggio dei principali proprietari terrieri ma incontrarono la resistenza dei piccoli proprietari e quindi ancora una volta la situazione rimase quella  naturale o poco più.
Le vere e proprie bonifiche nella zona tra Pietrasanta e Viareggio iniziarono nel 1918 per iniziativa privata e proseguirono negli anni '30. La meccanizzazione è stata la chiave del successo: in questo periodo sono state messe in funzione ben 7 idrovore e realizzato l'attuale reticolo di canali. Senza un apporto di macchinari, come dimostra anche il tentativo con mulini a vento, sarebbe stato praticamente impossibile concludere i lavori.

La storia dell'avanzamento e del ritiro delle zone bonificate nell'area pisana è una storia esemplare delle influenze reciproche fra variazioni climatiche e fasi storiche umane: durante l'età imperiale l'elevato grado di civiltà e le condizioni più aride del Periodo Caldo Romano permisero un inizio di bonifica, che però regredì nell'umido e socialmente depresso basso medioevo. L'alto Medioevo segnò un nuovo avanzamento dei lavori di regimazione da parte della potenza pisana (anche in funzione di evitare l'interramento del porto), complice anche il Periodo Caldo Medievale, ma poi tra le guerre pisane contro Genova e Firenze e l'inizio della più umida Piccola Era Glaciale la zona vide un nuovo avanzamento delle zone malsane.  

Come per la Versilia, anche nell'area intorno a Pisa solo la tecnologia moderna, con l'adozione delle idrovore, permise la definitiva sistemazione del territorio, coronando gli sforzi iniziati già in epoca romana. I lavori, progettati alla fine del XIX secolo, si possono ritenere conclusi solo negli anni '30, nel quadro dello sforzo delle bonifiche operato dal fascismo in tutto il territorio nazionale.

PROGETTI E OPERAZIONI SULL'ARNO ALL'INIZIO DEL XX SECOLO

Negli anni del Regno d'Italia fra le città toscane quella principalmente colpita fu Pisa. Non furono disastri terribili come nel 1966 ma siccome si sono ripetuti parecchie volte fu deciso che non si poteva più andare avanti così.

Negli anni '20 il ricordo delle alluvioni fu preso in maggiore considerazione e così fu presentato un progetto, che ricorda molto nel concetto quello seguito all'alluvione del 1966, in cui si prevedeva la creazione di una serie di invasi nelle aree montane e collinari in modo da regimare le piene; la proposta fu bocciata nel 1926 dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici in quanto non ne era stata ravvisata la funzionalità.
A quel periodo risalgono anche le ultime modifiche al Canale dei Navicelli.

L'ingegner Edmondo Natoni, fra l'altro autore dell'importante lavoro "Le piene dell'Arno e i provvedimenti di difesa", edito a Firenze da Le Monnier nel 1944, mise nero su bianco l'influenza di bonifiche e rettifiche sul regime dell'Arno e che il problema di Pisa poteva essere risolto con la costruzione di un canale che deviasse parte delle acque dell'Arno durante le piene. Progettò quindi lo scolmatore dell'Arno, a difesa della città della torre pendente ancora prima della seconda guerra mondiale. L'opera, lunga una trentina di km, parte con una chiusa a Pontedera e arriva a Calambrone, immettendosi nel Canale dei Navicelli, immediatamente a nord dell'estremità settentrionale del porto di Livorno.
Questa opera è stata completata
solo nel 1976, con il classico ritardo che contraddistingue i lavori pubblici dell'Italia del dopoguerra. Chissà se nel 1966 sarebbe stata utile...

IL XX SECOLO: LA COSTRUZIONE DELLE DIGHE

Fra le opere idrauliche del '900 in Toscana vanno anche citate numerose dighe, di cui la stragrande maggioranza sono utilizzate a scopo idroelettrico. Sono concentrate alle spalle delle Apuane – la zona della Toscana in cui le precipitazioni sono più abbondanti – nei bacini del Magra, del Serchio.
È interessante notare come le dighe per produzione idroelettrica sono 14 e piuttosto piccole, costruite tutte tra il 1910 e il 1957, quindi prima della nazionalizzazione dell'energia elettrica, avvenuta nel 1962.
Le ultime dighe realizzate, Montedoglio sul Tevere (1987) e Bilancino sulla Sieve (1994) hanno scopi di regimazione e riserva di acque e da sole contengono oltre i 2/3 delle riserve idriche superficiali della Regione.
 

Una storia particolare è quella del Lago di Santa Luce, nella valle della Fine, dietro i monti che bordeggiano la costa a sud di Livorno: costruita come riserva di acqua per la Solvay di Rosignano, una delle più grandi industrie della Toscana, grazie alla sua bassa profondità e alla topografia del territorio in breve si è trasformato in un paradiso per gli uccelli migratori, ricostruendo una piccola parte del vecchio paesaggio palustre.

IL SECONDO DOPOGUERRA E L'URBANIZZAZIONE SELVAGGIA 

L'urbanizzazione del secondo dopoguerra ha avuto ben poco rispetto della Natura e soprattutto dell'idraulica. Nella filosofia dell'uso del territorio dell'epoca i fiumi erano utili solo e talvolta come fonte di acqua, ma soprattutto erano considerati zone inutili e ostacoli. Dovunque in Italia (e in Toscana) fiumi e canali sono stati ristretti o intubati con sezioni idrauliche insufficienti; da questo non si sono salvati i canali che erano stati costruiti a scopo di bonifica. Un altro aspetto è che sono stati costruiti quartieri e zone industriali in luoghi dai toponimi che avrebbero dovuto far venire qualche sospetto (tipo: Padule, Pantano, Stagnacci, Foci etc etc). È interessante notare come molte di queste aree nel passato non erano state edificate proprio perchè in posizione depressa e alluvionabile, ma l'aumento della popolazione, la necessità di costruire edifici di varia destinazione e la pretesa di dominare la Natura hanno spinto ad utilizzare anche aree non del tutto idonee allo scopo.

La conseguenza è che buona parte delle urbanizzazioni realizzate nella seconda metà del XX secolo insistono in zone a rischio idraulico, e che con piogge anche non troppo consistenti ci sono come minimo allagamenti di sottopassi o cantine.
Da questo deriva che con una gestione diversa del territorio dal punto di vista idraulico
alcuni eventi alluvionali non si sarebbero mai verificati o avrebbero potuto comportare effetti di minore entità.  

Negli ultimi tempi, complice il riscaldamento globale in atto, questi problemi si sono acuiti specialmente nei piccoli bacini, in particolare in quelli vicini al mare, più esposti al rischio di flash flood. Versilia, Lunigiana, Grossetano – tanto per rimanere in Toscana – sono fra le vittime più illustri del problema. 

L'ALLUVIONE DEL 1966 E LA REGIMAZIONE DELL'ARNO

Ma il '900 è anche – e soprattutto – la terribile alluvione del 1966. Una gran parte dell'Italia fu colpita ai primi di novembre da questo evento che però, per tanti motivi, è passato alla storia, in tutto mil mondo, come “l'Alluvione di Firenze”. Da quell'anno in città il 4 novembre è sempre un giorno di riflessione e ci stiamo preparando alle "celebrazioni" per il 50° anniversario con un apposito comitato. Purtroppo i risvolti pratici di questa mobilitazione annuale non sono ancora ad uno stato di efficienza decente.

Risalgono a questa tragedia le prime istanze sulla cessazione delle azioni di urbanizzazione selvaggia e iniziarono i primi timidi tentativi di salvaguardia del territorio nazionale, anche tramite la “Commissione De Marchi”.
Per l'Arno fu proposta una “cura” simile a quella ipotizzata nel 1926, con una serie di invasi che dovevano servire in prima battuta per laminare le piene ma avrebbero anche consentito in parte di regimare le magre.
 

Perchè finora si è parlato di piene ma anche le magre comportano dei problemi. "ieri" la questione principale era l'impossibilità della navigazione fluviale; oggi l'attenzione è rivolta alla domanda di ossigeno da parte della fauna ittica: minori volumi di acqua significano maggiori densità di pesce e quindi una maggior richiesta di ossigeno per unità di volume. Così spesso alle magre corrispondono anossie generalizzate e conseguenti morie di pesci. Inoltre c'è il problema degli scarichi industriali che diventano una componente troppo elevata delle acque fluviali

Inoltre la dipendenza dall'Arno della città di Firenze e dei comuni limitrofi per scopi idropotabili rappresenta un aspetto di non secondaria importanza, un aspetto che arrivò ad un parossismo drammatico nel 1985, quando una siccità lunghissima diminuì talmente tanto il livello del fiume da non consentire più i prelievi di acqua a scopo idropotabile e si verificarono morie significative in molte zone dell'Arno e dei suoi affluenti. 


La situazione fu tamponata grazie ai laghi dei Renai a Signa, un'area in cui le escavazioni di inerti per costruzione avevano formato una serie di laghetti, tuttora esistenti e in parte riconvertiti a parco pubblico (e anche in altre parti, ancora in concessione a privati). Il fondo di questi laghetti è in parte al di sotto del livello della falda acquifera. Fu costruito il “tubone”, un acquedotto di emergenza che riuscì a risolvere i problemi di approvvigionamento della città prima che le piogge autunnali ripristinassero la portata dell'Arno.

Gli invasi previsti dal piano erano quasi tutti a monte di Firenze, specialmente tra Valdichiana e Valdarno, sia sull'Arno che su alcuni affluenti, ma ce ne dovevano essere anche altri a valle, nella parte alta di alcuni affluenti.
Di tutte queste strutture l'unica entrata in funzione, dopo una gestazione lunga e tortuosa, è rappresentata dal lago di Bilancino, nella parte più alta del Mugello, una diga in terra che ha formato un bacino di circa 5 km quadrati.
Di fatto questo resta l'unico lavoro importante realizzato dopo l'alluvione del 1966, oltre al dragaggio del fondo dell'Arno nella zona di Firenze, con la quale è stata un po' aumentata la portata del fiume in caso di piena. Questa operazione ha comportato dei lavori ai piloni dei ponti ricostruiti dopo la II guerra mondiale e, ovviamente, anche a quelli del Ponte Vecchio che fu risparmiato dalla distruzione. Ricordo che il Ponte a Santa Trìnita e il Ponte alla Carraia sono stati ricostruiti conformemente ai progetti rinascimentali.


 VERSO L'EPILOGO DELLA STORIA: BUONE NOTIZIE?

Oggi finalmente una legge regionale vieta espressamente le costruzioni in zone ad alto rischio idrogeologico: una inversione di tendenza che non può che soddisfare. Ma altre buone notizie, casualmente, sono arrivate proprio in questi giorni mentre sto scrivendo questa storia. Ne parlerò nel prossimo post che quindi avrò una conclusione meno pessimistica di quanto si poteva pensare fino a poche settimane fa. 
No, non torneranno le paludi.... nè i fiumi verranno nuovamente lasciati liberi di fare il loro corso, ma si tenterà di porre rimedio almeno in parte alle conseguenze dei guasti operati negli ultimi secoli al reticolo fluviale.

giovedì 2 gennaio 2014

La storia delle principali opere idrauliche in Toscana 3: da Matilde di Canossa al Granducato


Con il post precedente sono arrivato al Basso Medioevo, quando il clima umido e piovoso e le sue conseguenze politico - economiche e sociali (decadenza della civiltà, potere politico debole e frammentato fra creazione di stati effimeri in guerre locali o a portata più ampia come quelle con i bizantini) comportarono non solo la cessazione delle sistemazioni idrauliche (a parte qualche caso sporadico molto localizzato) ma anche una nuova ripresa delle aree palustri. 
Vediamo in questo terzo post come il miglioramento delle condizioni sociali e i nuovi poteri, comunali prima e granducali poi, abbiano costituito un importante punto di svolta, creando le condizioni per le bonifiche e le rettifiche fluviali che noi oggi conosciamo. 

Questa famosa carta di Leonardo da Vinci illustra una situazione rinascimentale in cui la differenza con il basso medioevo è che fino all'XI secolo non c'era il lago della Valdichiana accanto al Trasimeno. Si vedono molto bene i laghi nella piana toscana (Bientina e Fucecchio) e una serie di laghi e lagune costiere (bassa valle del Magra, Porta, Massaciuccoli, Coltano, Campiglia Marittima, Orbetello).
L'alto Medioevo, con la sua estrema frammentazione politica, non ha consentito in genere di effettuare opere idrauliche di largo respiro, ma solo opere locali.

LE OPERE DELLA CONTESSA MATILDE E IL RESTINGIMENTO DELL'ARNO 
IN CORRISPONDENZA DI FIRENZE

All'inizio del periodo caldo medievale,  e dunqua alla ripresa della civiltà, Matilde di Canossa (1046 – 1115), che dominava un feudo particolarmente esteso, in un'area che andava da Mantova a Grosseto, decise di spostare il centro nevralgico della Toscana da Lucca a Firenze. Per farlo ingrandì Firenze, e per proteggerla fece costruire in riva destra dell'Arno un fortezza che poi prese il nome di “Castello di Altafronte”, nella zona ora occupata in parte dagli Uffizi e soprattutto dal “Museo Galileo” (nei cui sotterranei è ancora visibile la base di una delle torri). 
Nell'occasione Matilde e i suoi ingegneri hanno commesso un errore gravissimo: il Castrum romano fu costruito leggermente spostato rispetto all'Arno odierno, mentre mettere il castello in quella posizione ha significato ridurre la larghezza del fiume, il quale non può essere allargato dal lato opposto perchè rasenta le colline.  
Ovviamente nulla da dire da un punto di vista estetico per quella che diventerà nel futuro l'area degli Uffizi e del Ponte Vecchio (a parte gli edifici degli anni '50 a seguito della distruzione nel 1944 da parte delle forze tedesche delle costruzioni vicine) ma da un punto di vista dell'idraulica fluviale è stata davvero una Caporetto: da quel momento infatti nasce il problema fondamentale per le alluvioni fiorentine che sono tutte iniziate proprio lì, con le acque che tracimano a monte della strettoia di Ponte Vecchio, verso via dei Castellani e Piazza San Firenze (ovviamente in riva destra perchè in riva sinistra ci sono subito le colline).
L'immagine da GoogleMaps evidenzia come il corso del fiume si stringa nella zona del Ponte Vecchio per poi riallargarsi:


È interessante notare che il Ponte Vecchio fu distrutto dalla terribile alluvione del 1333, come il Ponte Santa Trìnita, mentre il Ponte alle Grazie (che fino alle distruzioni della II guerra mondiale era il più antico di Firenze, il "Ponte a Rubaconte") che è 500 metri più a monte e dove l'Arno è molto più largo (allora più di adesso!), ha resistito a quel disastro.

È possibile che sulla carenza di opere di regimazione e bonifica prima del XIV secolo abbia influito la diminuzione delle precipitazioni che ha caratterizzato il periodo caldo medievale, e solo l'inizio della più fresca e più umida piccola era glaciale, con la estrema piovosità degli anni compresi fra il 1315 e il 1320,  potrebbe aver fatto nuovamente sentire il bisogno di opere del genere. 
Resta il fatto che per avere qualcosa di importante bisogna aspettare l'avvento di un potere forte, ben strutturato e dominante una zona molto estesa al posto della estrema frammentazione politica caratteristica del periodo comunale: la Repubblica Fiorentina, divenuta poi la monarchia medicea.
Opere idrauliche di portata più locale sono state comunque effettuate nella zona di Pistoia dove sono attestati lavori tra il XII e il XIV secolo, appunto durante l'epoca comunale.

L'IMPALUDAMENTO DELLA VALDICHIANA DALL'XI SECOLO 
E I RIMEDI NEI SECOLI SUCCESSIVI

La Valdichiana è un caso molto particolare: il nuovo impaludamento si perfeziona nell'XI secolo, cioè durante la fase di ripresa della civiltà, di temperature più alte e di clima più secco tipiche del "periodo caldo medievale". Sicuramente una buona parte di questo riavanzamento delle paludi è da addebitare agli orvietani, che nel 1055 risistemarono lo sbarramento sul Clanis presso Fabro (il “Muro grosso”) costruito dai romani, originariamente parte del sistema di chiuse che consentivano ai natanti di passare dal Clanis al Tevere. Il loro obbiettivo era di  impaludare nuovamente la vallata per diminuire le possibilità di movimento degli eserciti perugini e senesi; la cosa riuscì loro benissimo, e non solo nel settore meridionale chiusino. 
Però, stando ad un ottimo lavoro del Dr. Amedeo Bigazzi, che in fatto di storia delle bonifiche intorno ad Arezzo penso che sia oggi una delle figure più autorevoli, già nel 1047, cioè qualche anno prima, la palude interessava il fondovalle. È certa, comunque, una avanzata delle zone umide nella seconda metà dell'XI secolo praticamente fino ad Arezza, e la Valdichiana ridiventò quell'area lacustre e palustre che dal periodo etrusco in poi era stata bonificata.  

Intorno al 1150 i frati del monastero delle Sante Flora e Lucilla di Arezzo costruirono la Chiusa dei Monaci come pescaia sul Canale Maestro della Chiana, con la funzione di regolamentare il deflusso delle acque delle paludi. Questa chiusa divenne la struttura più importante per cercare di ovviare all'impaludamento della Valdichiana. In una seconda occasione, nel 1388, fu abbassato il livello della soglia della chiusa nel tentativo di migliorare l'efficenza di questa struttura.
In seguito, durante le prime fasi della piovosa piccola era glaciale, la Chiusa dei Monaci, fu distrutta e ricostruita varie volte durante le piene. 

Altri lavori hanno interessato a più riprese la zona, specialmente nella parte aretina, ma non sono serviti ad una sistemazione generale dell'area. 
Ricordo comunque che i fiorentini, come ho sottolineato durante la trattazione delle bonifiche romane, hanno sempre, storicamente, avuto paura della Valdichiana come un potenziale pericolo di innesco di piene dell'Arno, e si sono spesso opposti all'ulteriore abbassamento del livello della chiusa, specialmente da quando Arezzo, nel XIV secolo, entrò a far parte della Repubblica Fiorentina.

Alla fine del XV secolo si registrano nella zona meridionale della Valdichiana, nei dintorni del lago di Chiusi lavori ad opera dello Stato della Chiesa che fecero affluire sempre meno acqua nel bacino del Tevere e sempre di più verso la Valdichiana, tanto per aumentare i disagi. Lo spartiacque teorico era nei dintorni di Foiano ma dato il minimo dislivello la sua posizione era molto "dinamica".

FIRENZE SI ESPANDE E IL MUGNONE VIENE DEVIATO PIÙ VOLTE

Con la costruzione della quinta cerchia muraria di Firenze (la prima comunale) nel 1175, il Mugnone venne leggermente spostato vero occidente, sfociando dunque nell'Arno a Piazza Ognissanti, cioè meno di 1 km più a valle. Un secolo dopo, durante la costruzione della cerchia muraria definitiva, tra il 1284 e 1333, quella corrispondente in riva destra agli odierni viali di circonvallazione, il torrente fu nuovamente spostato lungo le mura, andando a sfociare nella zona dell'attuale Ponte della Vittoria.

Il primo duca ereditario di Firenze, Alessandro dè Medici, (1510 – 1537) che governò dal 1530, avviò un programma di bonifiche della zona ad occidente della città, iniziando i lavori che hanno poi portato alla formazione di uno dei parchi urbani più grandi d'Italia (Le Cascine) in quello che era un acquitrinio lungo l'Arno a valle della città: l'obbiettivo era di ingrandire le proprietà di famiglia, specialmente per una questione di prestigio; a dimostrazione della situazione paludosa, il primo nucleo era detto “Cascine dell'Isola"

Nel 1534, nel quadro dei lavori per la ”Fortezza da Basso” e anche per dare continuità territoriale fra la città e la tenuta di famiglia deviò ulteriormente il Mugnone per farlo confluire con il Terzolle (è la parte oggi che scorre lungo il Viale Redi, qui raffigurata). Quindi Mugnone e Terzolle sfociavano insieme nella zona dove ora c'è la passerella pedonale che attraversa l'Arno circa a metà delle Cascine e che collega il parco ad un quartiere della città che, con un nome che tradisce la sua origine, si chiama “L'Isolotto”. Successivamente con l'ulteriore ingrandimento del parco il corso del Mugnone fu ancora deviato verso valle nella posizione in cui è oggi

BONIFICHE E RETTIFICHE SI ESTENDONO CON COSIMO I

Il successore, Cosimo I (1519 – 1574), estese a vaste aree del Ducato quello che fece Alessandro a Firenze, intraprendendo un vasto programma di bonifiche e rettifiche fluviali la cui eredità si vede ancora oggi. L'obbiettivo era di incamerare nel patrimonio o vendere le terre così ottenute. Con la “contribuzione idraulica” ottenne da un lato ottimi incassi e dall'altro un forte incremento della produzione agricola.

Precedentemente Leonardo da Vinci disegnò parecchie carte dell'Arno e progettò addirittura di deviare l'Arno verso Prato e Pistoia, passare Serravalle con un sistema di chiuse e proseguire verso Fucecchio. Lo scopo era prettamente commerciale: creare una via navigabile per efficentare i trasporti. Alcuni disegni in materia sono contenuti nel celebre Codice Atlantico.

L'alluvione del 1557 è stata una delle più gravi della storia della città, come si vede in questa colonna posticcia dentro il refettorio di Santa Croce, davanti al celebre affresco dell'Ultima Cena di Taddeo Gaddi (la triade delle grandi alluvioni è 1333 - 1557 e 1966). Con l'occasione a Firenze furono risistemati gli argini e compiuti altri lavori. Ma il problema restava sempre la strozzatura del Ponte Vecchio.

Nel 1563 fu ampliato il “canale di Ognissanti” che divenne il “Fosso Macinante” (il nome deriva dai mulini che vi erano posti), un corpo d'acqua ancora oggi esistente a fianco delle Cascine. Il fosso partiva dalla pescaia di Santa Rosa e arrivava (come oggi) fino a San Donnino e al Bisenzio (oggi c'è un bypass sotto il Mugnone). È l'embrione del canale ideato da Leonardo da Vinci. Purtroppo non sono riuscito a capire come il Fosso Macinante incrociava all'epoca il Mugnone.

Nel '500 si registrano anche i primi tentativi da parte della Repubblica di Lucca di bonificare la piana versiliese, con scarsi risultati. 
In Versilia, tra lo stato lucchese e quello massese c'era una enclave di Firenze, corrispondente all'odiero territorio dei comuni di Forte dei Marmi, Pietrasanta e Stazzema. Anche qui Cosimo I voleva procedere ad una bonifica totale del lago di Porta ma l'operazione si è definitivamente conclusa solo nel XIX secolo: l'aumento delle precipitazioni della Piccola Era Glaciale aveva provocato dei problemi e fra le comunità di Pietrasanta (sotto Firenze) e Montignoso (sotto Lucca fino al 1847, quando passò a Parma) nacquero diverse questioni (che ovviamente erano di carattere internazionale), perchè le continue modificazioni dell'estensione del lago e delle paludi non assicuravano un confine certo (nel XVIII secolo fu anche sfiorata una guerra tra Granducato e Lucca). 
La storia è molto complicata e per brevità basta osservare che si procedette a numerose opere idrauliche, specialmente da parte di Pietrasanta, più ricca grazie ai marmi, per diminuire i danni delle frequenti alluvioni e cercare di colmare il lago.

L'IMPATTO DELLE BONIFICHE E DELLE RETTIFICHE MEDICEE

Le bonifiche e le rettifiche fluviali se da un lato, strappando terreni a paludi e corsi d'acqua, hanno apportato consistenti benefici economici, dall'altro sono state un disastro per la difesa del territorio dalle alluvioni: alvei dritti significano più velocità e meno volume, quindi possono contenere meno acqua e la perdita delle paludi che funzionavano da casse di espansione ha ulteriormente ingigantito il problema. In sostanza le bonifiche hanno diminuito le magre dei fiumi (aumentandone quindi le doti di navigabilità) ma hanno ingigantito l'effetto delle piene.
Da queste rettifiche si salvò il Bisenzio perchè Galileo Galilei scrisse la “Lettera di Galileo Galilei sopra il fiume Bisenzio a Raffaello Staccioli”, lavoro che non riesco a trovare (non risulta neanche nel catalogo della Biblioteca Nazionale di Firenze...). 
Ovviamente quando il grande scienziato scrisse questa lettera Cosimo I era già morto ma i suoi discendenti continuavano l'operazione. Insomma, Galileo riuscì ad impedire la rettifica del Bisenzio. Voglio trovare quella lettera e commentarla!

PISA E LIVORNO, PORTI E ACQUEDOTTI

Alla fine del XVI secolo Ferdinando I volle costruire un imponente acquedotto, proveniente dalla valle di Asciano, sullo stile di quelli romani, per rifornire Pisa in quanto l'acqua dei pozzi cittadini era qualitativamente scadente, in particolare dal punto di vista batteriologico. La progettazione iniziò nel 1584, ma i lavori finirono sotto il successore di Ferdinando, Cosimo II, nel 1613. È un'opera lunga oltre 6 km che è stata usata fino alla seconda guerra mondiale, anche se dal 1925 è operativo l'acquedotto che fornisce alla città l'acqua dei pozzi di Filettole.  

Un particolare curioso sull'acquedotto: nel 1780 il Granduca Pietro Leopoldo, di cui parlerò diffusamente per altre questioni idrauliche, emise un divieto di qualsiasi attività di taglio del bosco e di coltivazione nella Valle di Asciano, per evitare problemi all'acquedotto:
S.A.R. considerando che la conversione d’ogni genere di Boscaglie esistenti nella Valle di Asciano sommamente interessa il mantenimento di polle dell’acqua destinata a somministrare una bevanda salubre alla città di Pisa e suo territorio, che ne mancherebbe senza questo aiuto".
"Vuole che resti proibito in tutta l’estensione della suddetta Valle d’Asciano il tagliar piante, disboscare, cavar ciocchi, fare deggj e ridurre nuovo terreno a coltivazione, confermando in queata parte quanto faccia di bisogno le veglianti Leggi dell’Offizio dei Fossi da Pisa con tutte le pene in esse comminate contro i trasgessori.
Vuole inoltre che resti proibita nella suddetta Valle la diramazione delle piante tanto selvatiche che domestiche senza espressa licenza del Provveditore del predetto Offizio de Fossi che non dovrà accordarla prima d’essersi assicurato che la diramazione predetta non possa arrecare pregiudizio dei Bottini delle prese dell’acqua.
Nonostante fosse già esistente un villaggio citato da documenti del X secolo Livorno rimase un villaggio non troppo importante fino a quando l'interramento del porto pisano non decretò la necessità di una nuova area portuale. Divenne quindi una città (e anche importante) in epoca medicea, dopo una serie di vicissitudini sullo sfondo delle guerre di Pisa con Genova prima e con Firenze poi. 
Ancora una volta fu Cosimo I a promuovere  lavori sistematici e apposite leggi che, perfezionati dai successori, risultarono in una prospera e cosmopolita città. A Cosimo I si deve anche il canale dei Navicelli (ancora in uso) che collega Livorno a Pisa dove si unisce ancora all'Arno, nella zona di "Porta a Mare". L'Arno all'epoca era ancora navigabile fino a Signa e quindi il canale forniva un ottimo supporto alle attività portuali. 

L'espansione di Livorno era difficile per lo stato acquitrinoso del terreno praticamente a livello del mare. Quindi tutta la costruzione della città è stata un'opera di bonifica. In particolare nel XVII secolo furono usati gli stessi metodi usati a Venezia e il quartiere così costruito infatti si chiama Venezia Nuova.

LE BONIFICHE LORENESI

La seconda serie di bonifiche data all'epoca dell'inizio della dinastia lorenese. In particolare Pietro Leopoldo (1747 – 1792) che fu un eccellente Granduca di Toscana fra il 1765 e il 1790 (quando divenne – suo malgrado – imperatore d'Austria), avviò un grande programma riformatore a 360 gradi e nel settore di cui ci occupiano promosse bonifiche importanti in Valdichiana (dove le “Leopoldine” sono i cascinali più diffusi) e nella zona tra Lucca e Pontedera, prosciugando il Lago di Bientina, che continuava a persistere nonostante da oltre un millennio non fosse più alimentato dal Serchio. Non fu bonificato, dall'altro lato delle colline delle Cerbaie, il padule di Fucecchio, dove sfocia la Nievole: ancora oggi gli acquitrini si estendono nella piana compresa tra le Cerbaie ed il Montalbano, come si vede da questa foto presa da Massarella, sulle Cerbaie.



Vittorio Fossombroni (1754 – 1844) è stato il principale artefice dell'operazione, in particolare, lui nato ad Arezzo, di quelle della Valdichiana, che destarono la consueta preoccupazione a Firenze e furono un “affare internazionale” essendo non priva di conseguenze per territori appartenenti allo Stato Pontificio. 
Il suo lavoro proseguì anche con il successore di Pietro Leopoldo, Ferdinando III (1769 – 1824), secondogenito di Pietro Leopoldo, che governò il Granducato fino alla sua morte, ovviamente tranne durante l'intervallo napoleonico. 
Fossombroni è stato uno dei massimi esperti del settore a livello mondiale. È curioso che la sede regionale dell'Ordine dei Geologi e di quello provinciale dei Dottori Agronomi e Forestali siano a Firenze proprio in via Fossombroni!

Fossombroni, che ha l'onore di essere raffigurato in una statua sul sagrato della basilica di San Francesco ad Arezzo, è stato un importante stratega della bonifica per colmata, un sistema che si può usare quando c'è a disposizione un corso d'acqua che trasporta sedimenti e la zona da bonificare si trova ad un livello inferiore a quelle circostanti: si blocca il fiume e quindi si fa ristagnare la sua acqua, che così lascia i suoi sedimenti che a poco a poco colmano la depressione. Il sistema fu comunque scelto prima dell'avvento di Fossombroni rispetto a quello della bonifica per prosciugamento già nel 1769, seguendo le proposte di Tommaso Perrelli (1704 – 1783). Leonardo Ximenes (1716 - 1786), il famoso e influente gesuita – scienziato, aveva invece proposto l'altro sistema classico per le bonifiche, quello di far scolare via le acque, utilizzando in questo caso la Chiusa dei Monaci abbassandone ulteriormente il livello.
Non so se la storica opposizione dei fiorentini allo scolo delle acque chianine abbia influito sulla scelta della “soluzione Perrelli” al posto di quella di Ximenes. Da notare che Ximenes viveva a Firenze mentre Perrelli era aretino...
 
Leopoldo II, il famoso “Canapone” (1797 – 1870), penultimo Granduca di Toscana tra il 1824 e il 1859 continuò ad avvalersi del Fossombroni ma il problema fondamentale fu che ormai di zone “facili” da bonificare ce n'erano poche, in particolare in Maremma. La parte più lontana dal mare della piana di Grosseto fu bonificata con successo, quella invece di Castiglione della Pescaia si rivelò non fattibile (e non lo è ancora oggi), ma prima di rendersene conto ci furono spesi diversi quattrini, tantochè il Giusti scrisse nella celebre e satirica “legge penale degli impiegati”
Se un real Ingegnere o un Architetto
ci munge fino all’ultimo sacchetto,
per rimediare a questa bagattella
si cresca una gabella

È evidente come ogni riferimento al Fossombroni come “real ingegnere” sia puramente voluto!

Nel frattempo durante il regno di Canapone ci fu a Firenze una alluvione, nel 1844, ma le vicende storiche e il passaggio successivo al Regno d'Italia, con il periodo di Firenze capitale, offuscarono la memoria di questo evento. 

LUCCA E L'ACQUEDOTTO DEL NOTTOLINI 

Nel XIX secolo un'altra importante opera idraulica fu costruita a Lucca: l'acquedotto del Nottolini, dal nome dell'ingegner Lorenzo Nottolini che ne fu il progettista. Come quello mediceo di Pisa è costruito sullo stile degli acquedotti romani. Concepito durante il regno di Maria Luisa di Borbone, i lavori duraron o oltre 20 anni e fu completato nel 1851, quando il ducato di Lucca era già stato annesso al Granducato di Toscana. Oggi è sostituito da una conduttura che vi passa accanto.

Nel prossimo post (il quarto della serie) parlerò di quello che è successo durante il Regno d'Italia.