giovedì 29 marzo 2012

geopolitica e risorse petrolifere. 1. la disputa delle Falklands


Nell'occasione del trentennale della Guerra delle Falklands, iniziata il 2 Aprile 1982, vorrei parlare un po' di geopolitica applicata alle risorse petrolifere, in particolare di alcune dispute in corso che hanno come obiettivo i diritti di sfruttamento delle piattaforme continentali. Una volta i problemi erano sulla pesca, oggi con le tecnologie di perforazione offshore, la questione si è spostata dai pesci agli idrocarburi. Oltre alla questione Falklands che affronterò in questo post, ne scriverò altri per alcune situazioni particolarmente interessanti.

Il punto fermo che regola le relazioni internazionali sullo sfruttamento delle acque costiere è la convenzione di Montego Bay del 1982. In questa sede le acque prospicienti alle coste sono state divise in 3 settori:

1. le Acque territoriali, considerate parte dello stato costiero
2. le Acque della piattaforma continentale, zona di libero passaggio per chiunque, ma il cui sfruttamento, sia in materia di pesca che di risorse minerarie sul fondo marino e sotto di esso, è di esclusiva pertinenza dello stato costiero limitrofo
3. Qui sorge un problema, in quanto la larghezza della piattaforma continentale è variabile e soprattutto ci sono differenze notevolissime tra piattaforme continentali di un margine passivo, larghe e sismicamente poco attive, derivate dalla rottura di un continente e dalla conseguente apertura di un oceano, e  piattaforme dei margini attivi, strette e perseguitate da terremoti e vulcani in quanto sede di scontro fra una zolla oceanica e una continentale. Per questo, e soprattutto pensando alla pesca delle nazioni del margine andino sudamericano, la stessa convenzione ha istituito delle “zone economiche esclusive”: lo sfruttamento da parte del Paese rivierasco può arrivare fino a 200 miglia marine dalla costa, indipendentemente dalla minore larghezza della piattaforma continentale

La convenzione non lo dice espressamente, ma è chiaro che se la piattaforma fosse più larga di 200 kilometri, i diritti di sfruttamente sarebbero comunque attribuiti allo stato costiero anche oltre questa distanza convenzionale (e come vedremo a largo dell'Argentina il limite della piattaforma continentale è quasi sempre superiore a questo valore)

Vediamo ora la prima di queste crisi più o meno latenti, ricordando che questa è la situazione al Marzo 2012 cominciando appunto dalla questione delle Isole Falklands.

Le isole Falklands sono un arcipelago con due isole maggiori e qualche centinaio di isolette minori. Rappresentano l'unica zona oggi emersa della estesa piattaforma continentale a largo dell'Argentina e sono al centro di una guerra che, dopo aver avuto pesanti conseguenze umane proprio 30 anni fa, è oggi combattuta esclusivamente con le armi della diplomazioa.
Estese più o meno quanto l'Emilia Romagna, presentano le stesse rocce del basamento africano e quelle che in Argentina di solito non si vedono perchè ricoperte da sedimenti che vanno dalla fine del Paleozoico ad oggi. Ci sono anche dei filoni basaltici giurassici formatisi in corrispondenza dell'apertura dell'Oceano Atlantico meridionale.
Quando ancora non c'era la tettonica delle placche, i pochi ma agguerriti sostenitori della deriva dei continenti avevano nelle Falklands un punto di forza: secondo loro queste isole erano in qualche modo state lasciate indietro dal Sudamerica nel suo moto verso ovest: dicevano questo perchè non avevano ancora la percezione del fatto che in realtà il continente si estende per parecchio tra la costa e la scarpata continentale (circa 160 km a nord, ma siamo a oltre 300 km nell'Argentina centrale per arrivare al migliaio nella zona delle Falklands).
La fauna è particolarmente interessante: uccelli marini, pinguini compresi, foche e mari piuttosto pescosi. Quando il mare durante i massimi glaciali era più basso dalla terraferma arrivò un canide, il Warrah, estinto per la caccia già nel XIX secolo. Descritto da Darwin come "Canis antarcticus" rappresentò una delle prime osservazioni che portarono il naturalista inglese alla formulazione dell'evoluzione delle specie in quanto le popolazioni delle due isole maggiori si distinguevano nel colore e nelle dimensioni. 

Le isole Falklands da un punto di vista umano hanno una storia un po' confusa, a cominciare da chi fu il primo europeo a scoprirle. Fattostà che ad un certo punto c'erano due colonie, una francese nell'isola orientale e una inglese in quella occidentale (il ricordo della colonia francese si trova ancora nel nome di “Port Louise”). Gli spagnoli acquistarono la colonia francese nel 1767, ponendola sotto l'amministrazione di Buenos Aires, tentando di espellere gli inglesi dalla zona che questi ultimi controllavano; ci riuscirono manu militari nel 1770 ma la cosa finì male perchè gli inglesi non la presero bene e una guerra fu evitata con un accordo diplomatico che riportò lo status quo di prima di questa azione.
Durante la guerra di indipendenza americana gli inglesi lasciarono provvisoriamente l'isola (previa installazione di una targa per ricordare che il territorio era loro) ma ci tornarono in seguito. Da allora le cose si fanno molto complicate, fra partenze e arrivi di coloni inglesi e spagnoli o argentini (anch'essi andando via hanno posto una targa simile a quella inglese, tanto per affermare anch'essi la sovranità sulle isole), sbarchi per naufragi che diventano occasione per rivendicare le isole e altre storie.

Nel frattempo l'Argentina era diventata uno stato indipendente (1816). Un punto fermo è il 1840, quando gli inglesi stabiliscono definitivamente la colonia. Da allora l'Argentina rivendica il possesso delle Falklands (o, come le chiamano loro, Malvine: il nome deriva da Saint Malò, la cittadina atlantica da cui provenivano i coloni francesi, detti Malouines). Complessivamente succede poco fino al tragico 1982, quando l'Argentina invase le isole: iniziò una breve ma sanguinosa guerra (900 morti accertati) dopo la quale i militari sudamericani si dovettero ritirare. Il fine dei militari argentini era puramente patriottico e mirava soprattutto a compattare la popolazione e distrarla dalla situazione politica ed economica: nessuno infatti pensava al petrolio, all'epoca. 
Resta il fatto che oggi gli abitanti delle Falklands sono inglesi e non ne vogliono proprio sapere di finire sotto l'Argentina (che comunque ha dichiarato – almeno formalmente – di volerne rispettare usi, lingua e tradizioni)

L'Argentina è un Paese esportatore di petrolio, ma soprattutto esporta più gas naturale del Venezuela, pertanto nel settore è il N.1 dell'America Latina. Le risorse maggiori sono in Patagonia dove le zone interessanti coprono una vasta parte del territorio, anche se secondo alcune fonti tutto l'offshore atlantico potrebbe contenere parecchi giacimenti. Sulla terraferma, al nord dovrebbero esserci buoni quantitativi di gas nei gas-shales che si estendono anche in Uruguay e Brasile. Curiosamente esporta greggio ma importa prodotti raffinati

Ora veniamo alle Falklands: le rivendicazioni sull'arcipelago da parte dell'Argentina sono continue e soprattutto oggi c'è tensione a causa della scoperta di grandi giacimenti di petrolio intorno alle isole, in una zona che Londra, come si vede dalla carta qui a destra, ha dichiarato come zona di proprio sfruttamento esclusivo e che si collega abbastanza bene con quella della Georgia del Sud e le Sandwich Australi, anch'esse sotto dominio britannico. Si nota comunque che Londra non ha collegato le due zone mentre tutta la fascia è rivendicata dall'Argentina.

L'Argentina è spalleggiata ufficialmente dagli altri Paesi del Sudamerica (la questione è stata esaminata nel vertice di Cancun del 2010): oggi anche il Brasile vieta la sosta nei propri porti alle navi dirette alle Falklands.
In questi giorni il governo argentino ha inviato al London Stock Market e al suo omologo Newyorkese la diffida a trattare idrocarburi provenienti dai campi delle Falklands, in quanto secondo Buenos Aires si tratta di petrolio estratto illegalmente. Londra ovviamente è di avviso completamente opposto.

In questo momento non si vedono sbocchi per la situazione essendo un accordo fra le due nazioni improponibile. Gli inglesi hanno intanto rinforzato per precauzione lo schieramento militare mentre gli argentini hanno vivacemente protestato per una visita alle isole effettuata dal Principe William.



lunedì 19 marzo 2012

L'origine degli europei tra cacciatori - raccoglitori paleolitici e agricoltori neolitici


Chi siamo e da dove veniamo noi europei? È un'idea ormai comunemente accettata che il genoma europeo rappresenti un mix fra i vecchi cacciatori - raccoglitori autori delle celebri pitture rupestri e nelle grotte e gli agricoltori venuti dal mediooriente. Oggi grazie ai marcatori genetici è possibile capire meglio come si sono svolte le vicende che hanno portato all'assetto della popolazione europea agli albori della storia.


Se c'è la fortuna di avere materiale archeologico ben preservato da cui ottenere delle buone sequenze di DNA, le ricerche genetiche offrono una serie di spunti importantissimi per capire come è avvenuto il popolamento dell'Europa. Dato l'alto tasso di variabilità genetica all'interno di ogni popolazione umana, si può avere un quadro statisticamente rappresentativo della situazione solo con un numero sufficiente di reperti.

Il DNA mitocondriale viene trasmesso esclusivamente per linea femminile e quindi non è sottoposto a rimescolamenti; inoltre è una sequenza molto più breve di quello nucleare. Per questi motivi è molto usato negli studi genetici.

Un gruppo coordinato dall'ormai “mitico” Svante Paabo ha compiuto una ricerca, pubblicata suPlosOne (primo firmatario Qiaomei Fu), su una serie di popolazioni europee attuali confrontandole con materiali archeologici provenienti dai due grandi gruppi che hanno contribuito al popolamento dell'Europa: i cacciatori – raccoglitori del Paleolitico, discendenti dai primi sapiens arrivati in Europa meno di 50.000 anni fa e gli agricoltori neolitici arrivati nel continente dal Medio Oriente da 7.000 anni fa in poi. La ricerca ha ottenuto indicazioni estremamente interessanti.

Il confronto parte da due aplogruppi (sequenze di DNA) diversi, l'aplogruppo H e l'aplogruppo U.

H è un aplogruppo che si ritiene originato in Medio Oriente circa 30.000 anni fa. U invece è un aplogruppo con diverse variazioni interne ed è sorto circa 55.000 anni fa. Ha una diffusione piuttosto vasta ma la caratteristica maggiore è è che nelle popolazioni di cacciatori – raccoglitori europei del Paleolitico la sua frequenza è oltre l'80%.
U è molto composito ed in particolare U5 sembra essere sorto in Europa durante l'Aurignaziano, più o meno a ridosso dell'ultimo massimo glaciale. Anche fra gli agricoltori neolitici europei U è presente, ma con una percentuale molto più ridotta, il 12% (inoltre queste due popolazioni sono caratterizzate da versioni leggermente diverse di U).


Il genoma dei cacciatori – raccoglitori è molto meno vario di quello degli agricoltori, come si vede qui sopra da questo diagramma contenuto nel lavoro del gruppo di Paabo: sono presenti appena 4 aplogruppi, con una stragrande preponderanza di U (che sommato al K, una sua derivazione, copre ben l'87% della frequenza). Negli agricoltori invece sono significativamente presenti 8 aplogruppi: la frequenza di H, il più diffuso, è quasi il 30%, con ben altri 5 aplogruppi con frequenza superiore al 10%. H, così diffuso negli agricoltori, non è invece documentato fra i cacciatori – raccoglitori.

La bassa varietà del genoma dei cacciatori – raccoglitori dimostra che sono una popolazione estrema e molto differenziata, rimasta abbastanza isolata: è normale che nelle popolazioni più lontane dai centri genetici ci sia una riduzione della diversità genetica.

Le analisi riescono a darci delle indicazioni molto importanti sul popolamento dell'Europa. U mostra un chiaro aumento della popolazione tra 20 e 10 mila anni fa, legato al ritiro dei ghiacci avvenuto dopo l'ultimo massimo glaciale, durante il quale gli uomini erano stati costretti a frequentare soprattutto rifugi mediterranei, spesso situati in pianure oggi sotto il livello del mare come l'Adriatico settentrionale, oppure nella Francia Meridionale. La risalita della temperatura ha provocato uno spostamento verso nord delle fasce climatiche per cui le steppe hanno guadagnato spazio verso nord ma ne hanno perso verso sud per la risalita delle foreste mediterranee favorite anche da un aumento della piovosità. In generale l'Uomo del Paleolitico prediligeva gli animali degli spazi aperti a quelli di boschi e foreste e allora i cacciatori – raccoglitori oltre a dover abbandonare per la risalita del livello marino molti dei rifugi dell'Europa Meridionale hanno seguito le loro prede che si spostavano assieme alla steppa. Dallo stabilizzarsi del clima al passaggio Pleistocene – Olocene in poi la densità di popolazione è rimasta costante fino all'avvento degli agricoltori medioorientali. È significativo il fatto che tra 6 e 5.000 anni fa le popolazioni di cacciatori – raccoglitori subiscano un netto calo, in concomitanza con l'arrivo degli agricoltori.
In contrasto, H mostra un netto aumento della popolazione che lo possiede a partire circa da 9000 anni fa, con un importante picco di incremento datato a circa 7000 anni fa.

Le ultime testimonianze dei cacciatori – raccoglitori europei risalgono a circa 4.000 anni fa e questo dato è interessante se comparato con i dati genetici: da quel momento U è in leggera ripresa e la sua espansione è molto simile a quella di H. Segno questo di una assimilazione dei discendenti dei vecchi abitanti dell'Europa da parte dei nuovi arrivati.

Una cosa molto interessante è la distribuzione attuale di U, quasi sempre inferiore al 20%. ci sono però dei massimi, fra i quali uno in particolare molto forte nel Caucaso e un'altro nelle zone nordiche dove l'agricoltura non è mai arrivata. Valori minimi si trovano in Romania, Spagna e Grecia. Curiosamente in Bulgaria e nei Balcani c'è un a frequenza più alta che in buona parte dell'Europa centrale e nelle Isole Britanniche.

lunedì 12 marzo 2012

Le tempeste magnetiche del 1859 e i loro riflessi sui telegrafi: e se oggi si verificasse un altro "Evento Carrington"?

Il nuovo massimo undecennale di attività del Sole sta arrivando e si vedono i primi effetti, con le prime forti tempeste magnetiche degli ultimi giorni. Nella serie di tempeste solari massicce dell'ottobre – novembre 2003 ci furono gravi malfunzionamenti dei sistemi radio (anche con blocchi durati parecchie ore), black-out nella distribuzione di energia elettrica, la momentanea sospensione dell'attività di diversi satelliti (alcuni purtroppo non sono più ”resuscitati” a causa dei gravi danni arrecati dalle intense radiazioni ) e i trasporti aerei finirono nel caos, in quanto difficoltà di comunicazioni e alto livello di radiazioni costrinsero le compagnie aeree a modificare le rotte che dovevano andare nelle zone polari e abbassando tutti i voli ad una quota di sicurezza.
Dovremo dunque convivere con fenomeni come quelli registrati nei giorni scorsi,  più possibili rispetto anche a solo un anno fa e questa situazione di rischio perdurerà per almeno un annetto. Ma c'è da augurarsi di evitare un qualcosa tipo la Tempesta Solare del 2 settembre 1859, il cosiddetto "evento Carrington"


Le tempeste magnetiche (o tempeste solari) si originano a partire dai brillamenti solari (ne vediamo uno qui accanto). Di solito i brillamenti sono associati a macchie solari e sono ben visibili lungo il cerchio del sole. In pratica consistono di eruzioni che formano delle protuberanze arcuate a cui segue dalla zona coronale della stella una massiccia espulsione di massa: miliardi di tonnellate di materiale ionizzato. Nel periodo di attività solare massima ci sono più macchie solari e più brillamenti, quindi più tempeste solari che, sulla Terra, senza le perturbazioni operate nei confronti di apparecchiature costruite dall'uomo, si rifletterebbero solo nelle Aurore Boreali.
Il Sole presenta anche altri cicli a scala più lenta, che influenzano anche (ma solo in parte!) il clima e le temperature globali: la Piccola Era Glaciale, il periodo caldo medievale e le altre alternanze climatiche degli ultimi 10.000 anni hanno una origine solare. Oggi oltre alla fase più “calda” del Sole, anche le emissioni antropiche di CO2 contribuiscono generosamente al riscaldamento globale.

Venendo ai cicli undecennali, che vennero scoperti anche grazie alle variazioni del costo del grano in Inghilterra che, come osservo Herschel padre, mostravano un andamento ciclico particolare (in quanto negli anni meno caldi il prezzo era più elevato in quanto la produzione era minore), ci stiamo avvicinando ad un nuovo massimo.
Le previsioni di qualche anno fa erano per un massimo “particolarmente forte” ma sono state un po' ridimensionate. Resta il pericolo che forti tempeste magnetiche colpiscano la Terra provocando interruzioni momentanee del funzionamento di sistemi che si basano sull'elettromagnetismo, dalle comunicazioni, ai satelliti alla distribuzione di energia.
Bisogna annotare che non c'è un legame diretto fra intensità della tempesta e risentimento sulla Terra: una tempesta molto forte può dare effetti praticamente nulli come una di media intensità fare un bel “chiasso”. Questo perchè sono fenomeni molto direzionali e quindi per subire degli effetti particolari bisogna avere la sfortuna che il brillamento ed il conseguente invio ad altissima velocità di plasma solare siano diretti proprio nella zona dove orbita la Terra.

Nella prima metà del XIX secolo erano state ben definite le macchie solari e i brillamenti, ma prima che venissero effettuate registrazioni magnetiche ancora il concetto di “tempesta magnetica” era lontano dall'essere definito.
Il legame fra brillamenti e tempeste magnetiche è stato definitivamente accertato durante la terribile “doppia” di tempeste che si verificò tra fine agosto e primi settembre del 1859, quando c'è stato un mix sconvolgente fra potenza e direzione.
Fu così che Richard Christopher Carrington (all'epoca astronomo importante ma ufficialmente proprietario di una fabbrica di birra che lo impegnava troppo per occuparsi come voleva di astronomia) e Balfour Steward, direttore dell'osservatorio astronomico di Kew misero insieme le loro osservazioni (l'uno osservò con il telescopio il brillamento del 1 settembre, l'altro effettuava misurazioni magnetiche continue) e trovarono la correlazione fra brillamenti solari, aurore boreali e tempeste magnetiche.
In base alle misurazioni dei nitrati intrappolati nel ghiaccio antartico (che aumentano vistosamente durante le tempeste magnetiche) si è visto che eventi come i due del 1859 sono estremamente rari (almeno negli ultimi 450 anni, l'intervallo di queste analisi)

Fino a pochi decenni prima del 1859 non erano conosciuti né i brillamenti né le macchie solari, svelati proprio nella prima metà del secolo da illustri astronomi passati alla storia come gli Herschel, Carrington, De la Rue e tanti altri, tantomeno le tempeste magnetiche perchè non c'era nessuna macchina umana che ne venisse influenzata.
L'elettromagnetismo è una acquisizione abbastanza recente e siccome le Aurore Boreali e quelle Australi rappresentavano l'unico fenomeno visibile prima dell'era delle “macchine elettriche” nessuno aveva la possibilità di conoscere altri aspetti – oggi così preoccupanti – delle tempeste magnetiche.

Il 24 maggio 1844 Morse effettuò la prima comunicazione telegrafica e già nel 1847 furono segnalate le prime interferenze sulle nuove apparecchiature, di non chiaro significato. Comunque gli operatori telegrafici più attenti collegarono ben presto queste anomalie alle Aurore Boreali.
Ma quello che accadde nel 1859 ha del clamoroso: l'intensità della prima tempesta magnetica fu tale che i telegrafi furono fuori uso per ore. George C. Prescott, il sovrintendente di un ufficio telegrafico di Boston (ignoro se fosse l'unico ufficio telegrafico della città) vide gli effetti della corrente indotta dalla tempesta del 28 agosto sul nastro che veniva inchiostrato normalmente dalla corrente prodotta dalle batterie del telegrafo e pensò che l'apparecchiatura potesse funzionare da sola durante una tempesta magnetica (o meglio, rimanendo allo “stato dell'arte della ricerca” di allora, prima, durante e dopo la notte in cui era visibile una aurora boreale). Non immaginava di poter provare la sua idea appena 5 giorni dopo, quando si scatenò l'aurora del 2 settembre. L'operatore di servizio dell'ufficio di Boston staccò il cavo dalle batterie e lo collegò al suolo, chiedendo di fare così anche al suo collega di Portland.
Ne seguì questo dialogo: 
Boston: “stiamo lavorando con la sola corrente dovuta all'aurora Boreale. Come ricevete il mio messaggio?
La risposta da Portland fu “molto bene, anzi meglio che con le batterie inserite: sono molto minori le variazioni di corrente e il funzionamento degli elettromagneti è più regolare. E se continuassimo a lavorare così fino alla fine dell'Aurora?
Boston rispose: “D'accordo”.
Questo è lo scambio di impressioni più noto ma sembra che altri telegrafisti avessero fatto lo stesso, non so se avendo letto l'articolo che Prescott scrisse in proposito nel Boston Journal del 31 agosto.

Nella comunicazione si nota come gli operatori fanno appunto riferimento all'Aurora Boreale in quanto il concetto di Tempesta Magnetica (o Solare) non era ancora stato coniato.

Fu un'aurora eccezionale, con una luce paragonabile a quella lunare che permetteva di leggere i titoli degli articoli di giornale e fu vista fino alla latitudine della Florida. In Europa ne fu immune sicuramente Atene ma in tutta la zona centrale e settentrionale i telegrafi cessarono di funzionare o ebbero grandi difficoltà. ed è passata alla storia proporio come "L'Evento Carrington" in quanto l'astronomo inglese dopo aver vistio il brilamento il 30 settembre, propose che una nuova tempesta si stava abbattendo sulla Terra.

La domanda che ci si pone, razionalmente e senza catastrofismi, è questa: la “doppia” del 1859 è stata sicuramente la peggiore tempesta degli ultimi 450 anni, secondo gli studi sulle carote glaciali. Ma con il livello tecnologico che abbiamo raggiunto e – soprattutto – la delicatezza della maggior parte del sistema delle comunicazioni, diventato fin troppo essenziale, che cosa potrebbe succedere nel caso si abbattesse sulla Terra nei prossimi 12 / 15 mesi una tempesta di quel livello? Evitate di rispondere “rimarremo senza cellulari per un pò” oppure “in macchina non avremo il GPS”. Ci sarebbero in vista guai ben peggiori....

giovedì 8 marzo 2012

l'acidificazione degli oceani: gli altri rischi sconosciuti all'opinione pubblica a causa delle emissioni di CO2

In un workshop tenuto dal Lamont – Doherty Earth Observatory e dall'Università di Bristol è stato fatto il punto sull'acidificazione degli oceani dovuta alla violenta immissione antropica di Biossido di Carbonio. È comunemente accettato che l'aumento del CO2 in atmosfera provochi pesanti conseguenze sulle temperature globali. Ma ci sono altre conseguenze meno note (o addirittura sconosciute) al grande pubblico su problemi ulteriori che l'aumento del CO2 atmosferico potrebbe innescare apportando all'ecosistema gravissimi danni a scala globale. Ne hanno parlato in quel workshop e vorrei esaminarli con una certa attenzione.

Osserviamo la composizione dell'atmosfera di 4 corpi del Sistema Solare e alcune altre loro caratteristiche. Ho preso come riferimento oltre alla Terra, Venere Marte e Titano, tutti corpi piccoli e rocciosi, non i pianeti giganti. 


Da questa tabella si vedono le strette analogie fra le atmosfere di Venere e Marte, completamente diverse da quella della Terra: il CO2 la fa da padrone, specialmente su Marte dove la bassa gravità ha reso più difficile il mantenimento di gas più leggeri (non a caso c'è una grossa percentuale del pesante Argon). Allora, il Biossido di Carbonio, terribilmente preponderante sui due pianeti più vicini alla Terra è praticamente assente sul nostro pianeta o quasi. 

E questa è una notevole “stranezza” perchè in condizioni normali i vulcani rilasciano mediamente in atmosfera ogni anno almeno 100 milioni di tonnellate di CO2 (fonte: Servizio Geologico degli Stati Uniti, non cincirinella...). E questo succede da parecchi miliardi di anni.
Quindi al totale del loro cospetto, le emissioni antropiche, stimate sempre dalla stessa fonte a circa 30 miliardi di tonnellate all'anno, sono una cifra risibile, dato che tale fonte è attiva da 150 anni (senza considerare le alterazioni dovute a preesistenti deforestazioni sempre operate dalla nostra improvvida specie).
La domanda è dove siano andati a finire tutti questi milioni di tonnellate di CO2 emessi dai vulcani. È chiaro che ci deve per forza essere una relazione fra questo mancato accumulo in atmosfera del “padre di tutti i gas – serra” e il fatto che l'atmosfera terrestre ne sia praticamente priva rispetto alle atmosfere dei pianeti vicini (Titano è un caso a sé: la sua temperatura così bassa, che non ne fa un ambiente “caldo e afoso”, è tale che anche il CO2 oltre all'acqua sia ghiacciato).

Quindi sulla Terra è attivo qualche meccanismo che “sequestra” Biossido di Carbonio. Anzi, fondamentalmente i meccanismi sono due:
- la fotosintesi clorofilliana, che preleva Biossido di Carbonio e restituisce Ossigeno
- la deposizione delle rocce carbonatiche

Nella fotosintesi clorofilliana 6 atomi di CO2 si uniscono a 6 molecole di acqua per formarne una di Glucosio, restituendo 3 molecole di O2 all'atmosfera. È un processo che, da quando è iniziato, ha drasticamente abbassato la percentuale di CO2 nell'atmosfera, fino quasi ad azzerarla e spiega la presenza di così tanto Ossigeno.
Uno studio pubblicato in questi giorni su Nature Geosciences correla le glaciazioni di fine Ordoviciano (450 milioni di anni fa) con la comparsa delle prime piante terrestri: il loro consumo di Biossido di Carbonio avrebbe innescato una diminuzione di almeno 5 gradi centigradi delle temperature globali. Giova ricordare che i livelli di Biossido di Carbonio si erano già abbassati rispetto alle origini (e salito quello di Ossigeno) da ben prima, in quanto i primi organismi fotosintetici, marini, sono molto antichi.

Alterazione dei suoli e deposizione delle rocce carbonatiche rappresentano il secondo meccanismo che consuma CO2 e dipende dalla seconda caratteristica che distingue la Terra dai pianeti vicini: la massiccia presenza di acqua.
Il biossido di carbonio infatti reagisce con l'acqua secondo questa reazione: CO2 + H2O -> H2CO3
Però l'acido carbonico non è stabile e quindi si dissocia in ioni idrogeno e ione bicarbonato. Gli ioni idrogeno reagiscono con i silicati ed i carbonati delle rocce terrestri, alterando i silicati. Le reazioni, nella loro totalità, si possono descrivere così:
H2CO3 + H2O + silicati -> HCO3- + cationi (Ca++, Fe++, Na+, etc.) + argille

Vediamo che questa reazione trasforma altri silicati (feldspati, pirosseni ed altri) in miche, lasciando "liberi2 dei cationi. E cosa fanno questi cationi? Semplice. Questo vale per il Calcio ma si applica a tutti:
Ca++ + 2HCO3- -> CaCO3 + CO2 + H2O

Come si vede, questa reazione fissa nel carbonato di Calcio una parte del CO2 (la metà) che ha partecipato alla reazione.

Forme di vita, giacimenti di idrocarburi formati dal seppellimento in condizioni prove di ossigeno di materia organica e rocce carbonatiche detengono quindi una importante quota del CO2 terrestre, salvandoci dall'effetto serra.

Però i livelli di CO2 non sono stabili perchè ci sono occasioni in cui il loro valore sale e di parecchio.
Un esempio è quello di oggi, a causa delle emissioni antropiche, come si vede nel grafico qui a lato,
In altri momenti quantità eccezionali di CO2 sono state immesse in atmosfera da grandi eruzioni vulcaniche, le “large igneous provinces”, conosciute anche con la sigla LIP.
È universalmente accettato che l'aumento di CO2 nell'atmosfera produce un riscaldamento a causa delle capacità serra di questo gas. E si spiega con una particolare concentrazione di vulcanismo da LIP l'elevata concentrazione di CO2 in atmosfera nel mesozoico e di conseguenza le elevate temperature globali del periodo.

Ma l'aumento del contenuto in CO2 dell'atmosfera comporta altre conseguenza meno note ma potenzialmente ancora più devastanti dell'aumento delle temperature. Le reazioni sopra descritte sono in equilibrio con il gas in atmosfera; ne consegue che maggiori sono i quantitativi di CO2, maggiore è la capacità di alterazione nelle rocce subaeree e in quelle marine.

Ebbene, un aumento del CO2 modifica la profondità di compensazione dei carbonati, meglio nota come CCD (Carbonates Compensation Depth): sotto a questo livello i carbonati si sciolgono e nelle sequenze sedimentarie marine ed oceaniche gli intervalli a sedimentazione silicea o con forti tracce di dissoluzione sono segnali di risalita della CCD. Un esempio classico sono i Diaspri della Serie Toscana, un intervallo a sedimentazione silicea in mezzo alla serie carbonatica mesozoica del margine continentale adriatico. Quindi la risalita della CCD può impedire la sedimentazione carbonatica sottomarina. L'impatto è devastante non soltanto sui sedimenti ma anche sugli animali marini a guscio calcareo che non riescono a formarlo o a mantenerlo.

C'è poi l'effetto peggiore, che si è scatenato più volte ed è alla base delle peggiori estinzioni di massa avvenute in corrispondenza della attività vulcanica da “large igneous provinces”, delle colossali eruzioni basaltiche che ricoprono aree vastissime in poche centinaia di milgiaia di anni (i Trappi del Deccan occupano una superficie di mezzo milione di km quaddrati - una volta e mezzo l'Italia - con spessori che arrivano a 2000 metri). I livelli marini corrispondenti a questi episodi sono costituiti da materia organica scura non decomposta a causa della presenza di un ambiente privo di ossigeno (gli AOE, Anoxic Oceanico Events), compreso il limite Cretaceo / Paleocene per il quale l'ipotesi del meteorite come causa scatenante è da ritenersi ormai sorpassata, essendo caduto circa 300.000 anni prima,
Il meccanismo ipotizzato è il seguente: l'aumento del CO2 provoca un aumento del fitoplancton che a sua volta innesca un aumento dello zooplancton che se ne nutre; a sua volta questo si ripercuote fino ai predatori in vetta alla catena alimentare marina. Però a questa maniera si minnesca la fase anossica: l'ossigeno disciolto nelle acque viene consumato del tutto, provocando la morte per soffocamento degli animali.

La cosa drammatica, secondo i ricercatori convenuti al Lamont – Doherty Geological Observatory è che la velocità attuale di immissione di Biossido di Carbonio in atmosfera e quella di acidificazione delle acque è maggiore di quella registratasi durante eventi legati a LIPS quali quella dei Trappi Siberiani a fine Permiano, o quella della Provincia Magmatica dell'Atlantico centrale a fine Triassico e a quella dell'Atlantico Settentrionale al limite Paleocene – Eocene. Aggiungo anche i Trappi del Deccan a fine Cretaceo.
Notiamo come tutti questi episodi sono correlati ad importanti eventi di estinzione di massa.

Quindi come si vede il biossido di Carbonio non minaccia il sistema terrestre soltanto con l'aumento delle temperature, ma può innescare altri fenomeni di grande portata sulla vita del nostro pianeta. È già ampiamente accaduto in passato con gravi conseguenze.

martedì 6 marzo 2012

La sismicità in Giappone nel primo anno dal terremoto del Tohoqu


Ad un anno di distanza dal terremoto giapponese di un anno fa, meglio noto con il nome di “terremoto del Tōhoku”, dal nome della regione nordoccidentale di Honshu lungo la cui costa si sono verificate le situazioni peggiori, vorrei far vedere cosa è successo dal punto di vista sismico in questi ultimi 12 mesi, attraverso delle elaborazioni basate sull'Iris Earthquake Browser.

La prima immagine è quella della sismicità a Magnitudo maggiore di 4 dall'inizio del 2012: come si vede l'area colpita dalla grande scossa dell'11 marzo 2011 continua ad essere molto più attiva delle aree circostanti: oltre 120 eventi registrati in poco più di 2 mesi:

Sismicità M=>4 dal 1 gennaio 2012 a oggi

In questa seconda immagine si vedono le scosse che hanno preceduto la scossa principale: ricordo che il 9 marzo c'è stato un evento con M=7.5, a cui fino al 10 marzo si sono succedute in 2 giorni 24 scosse con M da 5 in su (di cui una con M=6).

La sequenza innescata dalla scossa del 9 Marzo 2011

Nell'immagine successiva vediamo invece quello che è successo nella prima settimana dopo l'11 marzo: la sismicità è distribuita lungo tutta l'area: oltre 2000 eventi con M superiore a 4, di cui 2 con M maggiore di 7 (oltre al principale, ovviamente), 50 compresi fra 6 e 7 e ben 440 con M compresa fra 5 e 6.

La sismicità nella prima settimana dall'11 marzo


Anche se assistiamo ad una drastica diminuzione degli eventi dopo il 17 marzo, vediamo comunque quello che succede da una settimana ad un mese dall'evento: la distribuzione degli epicentri è sempre massima sulla zona “calda”; 

La sismicità tra 2 e 4 settimane dopo l'11 marzo 2011
intorno invece è la situazione “ordinaria”, come si può vedere prendendo per comodità lo stesso lasso di tempo un anno prima, sia pure in un'area più vasta, con 863 eventi di M uguale o superiore a 5:

Sismicità nella stessa settimana del terremoto, ma di un anno prima, il 2010
Come si vede, quindi, il terremoto del Tōhoku continua ad un anno di distanza a influenzare pesantemente la distribuzione della sismicità in Giappone e nelle aree limitrofe e ancora ad un anno di distanza non siamo tornati a un livello di sismicità normale